*Da: "Memorie di classe" - Einaudi
Paperbacks, 1987 http://francosenia.blogspot.it/
I processi paralleli dell'«oblio delle origini» e
dell'incorporazione delle organizzazioni operaie nel sistema capitalistico
(battezzato più tardi come l'«emergere della coscienza di classe») si
realizzarono in primo luogo attraverso l'economicizzazione del conflitto.
Intendo con ciò la sostituzione della contrattazione del salario e dell'orario
di lavoro al conflitto iniziale per il controllo del processo di produzione e
del corpo e dell'anima dei produttori. Come l'aggregazione di categorie molto
diverse di popolazione e tradizioni culturali in una singola classe di «poveri
laboriosi», così l'economicizzazione del rapporto tra lavoratore e datore di
lavoro ricevette il suo impulso iniziale dalle pressioni sorte dal mutamento
dei rapporti di potere.
L'aspetto del cambiamento particolarmente importante in
questo contesto fu l'accelerata disgregazione del patronato e del paternalismo
- il vecchio schema dello scambio dell'obbedienza con la sicurezza. Come ho già
cercato di mostrare, questo schema non crollò sotto la pressione della nuova
cupidigia ispirata dal mercato, ma a causa della sua inadeguatezza rispetto al
compito di addomesticare e tenere a bada il crescente eccesso di popolazione
per la quale la vecchia struttura economica non aveva posto. L'abbandono del
paternalismo non fu un processo facile né diretto. Esso restò come norma nella
memoria collettiva, presso entrambe le parti del nuovo conflitto, quando ormai
aveva cessato da tempo di essere una soluzione valida dei loro problemi. I
nuovi schemi dei rapporti di potere si formarono all'ombra di lotte e
discussioni ancora attaccate a vecchie questioni e ad obiettivi ora
irrealistici.
Proprio contro questa confusione tra l'ordine normativo suggerito
dalla memoria storica e le realtà quotidiane, i fautori illuminati dell'ordine
emergente lanciarono la loro lotta per la nuova articolazione della struttura
di potere, libera dall'illusione che sarebbe stato possibile ripristinare le
vecchie basi del dominio e dell'obbedienza. L'obiettivo principale del loro
sforzo consisteva nel ridefinire i rapporti economici come essenzialmente
economici.
Questo punto fu esposto con rara chiarezza in uno dei molti
articoli della «Westminster Review» consacrato all'analisi delle «cause del presente
disordine». Per l'acutezza dell'argomentazione a favore della nuova
articolazione, l'articolo merita di essere citato ampiamente. Vi si legge che
«Stiamo ora incontrando le difficoltà di uno stadio di transizione, nel quale
le norme e i legami precedenti sono allentati, e i nuovi, adatti alle mutate
condizioni, non sono ancora formati, o non del tutto riconosciuti». Le epoche
precedenti associavano la subordinazione con la protezione - assolutamente,
come nel caso della schiavitù, o parzialmente, come nel caso di un sistema
definito «vassallaggio feudale». Comunque, la nuova era porta un assetto
completamente nuovo, «quello della contrattazione o accordo reciproco», in cui
«il servizio e basta è scambiato col pagamento e basta», senza che vi siano legami
tra le due parti. Le parti in conflitto non riuscivano tuttavia a scorgere la
novità della situazione e aspettavano ancora un'estensione dei loro obblighi
reciproci nel senso che corrisponderebbe perfettamente al primo sistema ma che
non è adatta alla logica del nuovo. Né i capitalisti né gli operai [ ... ]
sanno bene in quale delle due posizioni rispettive summenzionate intendono
stare. Ciascuna parte riprende alcune delle rivendicazioni del rapporto
precedente, ma dimentica gli obblighi correlativi. L'artigiano ritiene di avere
il diritto di reclamare dal padrone l'indulgenza, la bontà, l'assistenza in
caso di difficoltà e di bisogno che appartenevano al rapporto feudale; ma
dimentica i corrispondenti doveri di considerazione, fiducia e rispetto.
Viceversa, i datori di lavoro non potevano certo aspettarsi
dai lavoratori amore e gratitudine oltre alla disciplina ch'essi compravano con
i salari. Nello stesso anno la «Edinburgh Review» ammoniva i datori di lavoro:
la nostra «non è un'epoca in cui un uomo può sentirsi leale e deferente perché
è nato nella sua condizione [...] L'obbedienza in cambio del salario è un'altra
faccenda [ ... ] Ma la buona volontà e la gratitudine non fanno parte delle
condizioni di tale contratto».
Pur occupando settori diversi dello spettro
politico contemporaneo, le due riviste esprimevano le stesse preoccupazioni
pratiche. La prima riguardava il modo di assicurare la disciplina di una forza
lavoro finora ribelle, talora in rivolta quando i vecchi diritti all'obbedienza
e alla deferenza avevano perso gran parte della loro presa. La seconda
preoccupazione riguardava il riconoscimento preventivo dei limiti del dominio,
al fine d'impedire l'esplosione sociale minacciata - come si era visto di
recente - dalla loro trasgressione, volontaria o involontaria. Riguardo a
quest'ultima la «Westminster Review» dava un consiglio preciso, benché un po'
rassegnato: «L'unico piano che ci sembra fondato nel suo principio e
promettente quanto alle prospettive consiste nel diffondere con ogni mezzo disponibile
l'istruzione tra le masse, lasciando poi ch'esse "provvedano alla propria
salvezza"» - l'idea familiare di una crociata morale come rimedio al tempo
stesso contro la ribellione imminente e contro la «miseria causata dalla
pigrizia e dall'imprevidenza» che ne era la fonte costante. Lo scopo essenziale
dell'«istruzione delle masse» consisteva nell'insegnare ai lavoratori ad
accettare il principio del «semplice pagamento» come pieno equivalente del
«semplice servizio» da essi reso; in altri termini, nell'insegnare loro la
nuova arte dello scambiare la subordinazione con un salario invece che con la
sicurezza; e, di conseguenza, di provvedere essi stessi alla loro sicurezza
mediante le risorse fornite dai salari. Un rapporto sociale tra classi doveva essere
riarticolato come scambio economico di una «merce» (il lavoro ) con del denaro
(il salario). Nello stesso tempo, le due classi, che si trovavano di fronte
l'una all'altra nel rapporto sociale dovevano essere ridefinite come categorie
economiche.
Nel suo recente studio sulle origini dell'economia del
lavoro Paul J. McNulty sottolinea il relativamente tardo emergere di
quest'idea. Il concetto di libero contratto e la convinzione della sua
desiderabilità si estesero rapidamente a tutte le aree della vita economica, ma
non nel campo dei rapporti di lavoro almeno fino a una data molto tarda:
«Per tutto il XVI, XVII ed anche, in larga misura il XVIII secolo mentre il principio regolatore medievale del giusto prezzo era stato generalmente abbandonato a favore della libera interazione della domanda dell'offerta di mercato, la desiderabilità della regolazione del salario rimase ciò nonostante un postulato dell'analisi sociale largamente condiviso.»
«Per tutto il XVI, XVII ed anche, in larga misura il XVIII secolo mentre il principio regolatore medievale del giusto prezzo era stato generalmente abbandonato a favore della libera interazione della domanda dell'offerta di mercato, la desiderabilità della regolazione del salario rimase ciò nonostante un postulato dell'analisi sociale largamente condiviso.»
Si potrebbe aggiungere che per tutto quel periodo i salari non furono visti
come un problema puramente economico. Essi erano concepiti naturalmente come un
elemento dei più vasti rapporti sociali, che comprendevano considerazioni
chiaramente non appartenenti all'economia, come la sicurezza, l'ordine sociale
o i diritti relativi allo status. La riduzione dei salari a una questione
economica pura e semplice fu a sua volta parte integrante di un più vasto
processo di «desocializzazione» dei rapporti di lavoro. Come abbiamo già più
volte sottolineato questa non era una questione di nuove teorie economiche e
nemmeno di mutato clima economico, ma il risultato di una profonda
trasformazione sociale, di cui il dispiegamento del nuovo potere «disciplinare»
al servizio dell'ordine sociale era un fattore essenziale.
La nuova concezione economica del lavoro che si affermò gradualmente nella
teoria sociale rifletteva la struttura di potere emergente in cui gli strumenti
di lavoro e lo stesso processo di lavoro erano stati separati da coloro che
lavoravano e si servivano degli strumenti; e in cui l'iniziativa dell'azione e
il diritto di concepirla e sorvegliarne la realizzazione erano stati
concentrati dalla parte degli strumenti, mentre il lavoro vivo era rimasto
dalla parte passiva, subordinata del rapporto.
McNulty ha cercato negli scritti dei teorici sociali dell'epoca indicazioni sulla prospettiva cognitiva nella quale avvenne la riduzione dei rapporti di lavoro al potere economico.
McNulty ha cercato negli scritti dei teorici sociali dell'epoca indicazioni sulla prospettiva cognitiva nella quale avvenne la riduzione dei rapporti di lavoro al potere economico.
Cosi, egli cita la conferenza di Adam Smith del
1763 nella quale il grande filosofo morale scozzese concludeva tristemente
dicendo che «è notevole come in ogni nazione commerciale il popolino sia
estremamente stupido». Questa opinione sui poveri laboriosi fu più tardi
sviluppata nel suo magnum opus: il lavoratore, secondo Smith, “non ha modo di
esercitare il suo intendimento, o di mettere in pratica la sua inventiva [...]
Perciò egli naturalmente perde l'abitudine di tale esercizio e in genere
diventa tanto stupido e ignorante quanto può diventarlo una creatura umana. Il
torpore della sua mente lo rende non solo incapace di godere o prendere parte a
qualsiasi scambio razionale, ma anche di concepire qualsiasi sentimento
generoso, nobile o tenero e quindi di formulare qualsiasi giudizio giusto”.
Senza dubbio Smith lamentava questa condizione; egli sperava che la crescente
divisione del lavoro avrebbe finito col migliorare il carattere antipatico dei
lavoratori, ma concepiva il miglioramento soprattutto come il problema di
rendere i poveri più attivi, meno «torpidi e pigri».
Il giudizio di Smith
sintetizzava l'opinione universalmente condivisa all'epoca. Da una parte, tale
opinione negava ai poveri laboriosi qualsiasi capacità d'iniziativa e
autogoverno; in particolare rifiutava di affidare loro il controllo del
processo produttivo, cosa di cui essi disponevano pienamente un paio di secoli
prima. Dall'altra, additava la pressione economica (la divisione del lavoro
significava in pratica la restrizione delle mansioni individuali e la loro
progettazione e regolazione dall'esterno del singolo posto di lavoro) come il
solo fattore di qualsiasi possibile miglioramento della qualità della
popolazione lavoratrice, quale che fosse il contenuto della nozione di
«miglioramento».
McNulty sottolinea il ruolo chiave di Ricardo in questo
graduale processo di riarticolazione delle «classi inferiori» come parte
subordinata del processo di produzione:
«Ricardo consolidò l'identificazione del lavoro come fattore di produzione col lavoro come classe sociale [...] Il concetto di classe così com'era impiegato era carente da un punto di vista analitico in quanto sembra esserci stata confusione tra gruppi interagenti sul piano sociale e dotati di modi di pensiero e di comportamento comuni (le classi sociologiche) e agenti economici i cui contributi ai processi di produzione sono dello stesso tipo (classificazione dei fattori nella teoria economica).»
«Ricardo consolidò l'identificazione del lavoro come fattore di produzione col lavoro come classe sociale [...] Il concetto di classe così com'era impiegato era carente da un punto di vista analitico in quanto sembra esserci stata confusione tra gruppi interagenti sul piano sociale e dotati di modi di pensiero e di comportamento comuni (le classi sociologiche) e agenti economici i cui contributi ai processi di produzione sono dello stesso tipo (classificazione dei fattori nella teoria economica).»
Forse la confusione dei due concetti che gli scienziati sociali preferirebbero
mantenere distinti può essere considerata carente dal punto di vista analitico,
ma il significato del modello di Ricardo non è un errore teorico. La sostanza
della teoria di Ricardo, considerata nel contesto dei processi contemporanei,
tanto della struttura di potere quanto delle riflessioni in proposito, sembra
consistere soprattutto non già nell'identificazione degli aspetti «sociologico»
ed «economico»
delle classi lavoratrici, ma nella dissoluzione del primo nel secondo. L'idea ricardiana del lavoro insieme «desocializza» ed «economicizza» il concetto di classe.
delle classi lavoratrici, ma nella dissoluzione del primo nel secondo. L'idea ricardiana del lavoro insieme «desocializza» ed «economicizza» il concetto di classe.
Il modello ricardiano dei «fattori di produzione» non presenta il capitale e il
lavoro come partners simmetrici nel gioco della produzione e della
distribuzione. In quanto rappresenta la realtà della società che Ricardo voleva
comprendere, esso sussume il rapporto di dominiosubordinazione tra capitale e lavoro
come un presupposto di senso comune piuttosto che come un postulato. In altri
termini, interpreta la struttura di potere della società comunemente ammessa
come un rapporto sostanzialmente economico.
Che le cose stiano cosi è dimostrato dalla differenza tra i
rapporti della categoria analitica di «capitale» con la categoria sociale dei
capitalisti da una parte, e della categoria analitica di «lavoro» con la
categoria sociale dei lavoratori dall'altra. Il capitale non «esaurisce» la
«totalità» costituita dai capitalisti; è soltanto una parte di tale totalità e
per di più una parte che ne può essere separata. Ne può essere separata in modo
tale che se ne possa fare uso o abuso o la si possa lasciare inutilizzata senza
che questo uso o abuso o mancata utilizzazione si ripercuota necessariamente
sulla totalità. Soprattutto, il capitale è separabile dalla persona del
capitalista, dal suo corpo e dalla sua anima: quel che accade al capitale non
coinvolge il corpo del capitalista. Il ritmo del lavoro cui è soggetto il
capitale quando è messo in opera non determina in alcun modo il ritmo di vita
del capitalista in quanto persona.
Ovviamente tutto ciò non è vero per quel che
riguarda l'altro «fattore di produzione», il lavoro. Questo non può essere
«staccato» dal corpo e dall'anima del lavoratore. Non se ne può fare uso o
abuso o lasciarlo inutilizzato senza che il lavoratore subisca la stessa
esperienza. Se il lavoro significa qualcosa, esso significa il dispendio fisico
del lavoratore, l'impegno della sua persona in una forma specifica di attività.
Una «società a responsabilità limitata» di lavoro è un'assurdità. Il «ritmo di
lavoro» non può essere altro che il ritmo vitale del lavoratore. Se si tiene
conto dell'asimmetria dei due «fattori di produzione» nel modello di Ricardo,
diventa immediatamente evidente che l'asimmetria della struttura di potere era
stata incorporata nel modello nonostante i suoi presupposti apparentemente
egualitari. Secondo ogni probabilità, l'«economicizzazione» del rapporto di
classe non può essere realizzata senza l'espediente che consiste nel presentare
ciò che è asimmetrico come equivalente. Questo è esattamente ciò che realizzò
il modello di Ricardo, culmine del lungo processo di teorizzazione del «potere
disciplinare» emergente. Ciò che illustravano la razionalizzazione del potere
di nuovo tipo in generale e il modello di Ricardo in particolare era il fatto
che la produzione, organizzata come incontro tra capitale e lavoro, non impegna
nello stesso modo i capitalisti e gli operai.
Il primo gruppo rimane libero e
non determinato come aggregato di persone; il secondo diventa determinato
dall'incontro non soltanto per quel che concerne il guadagno materiale, ma per
la totalità delle attività vitali. Il modello economico assume come dato ciò
cui si opponevano le prime lotte contro 1'avanzata dell'ordine di fabbrica
combattute dagli artigiani in nome della tradizione: cioè la trasformazione del
controllo sulla produzione in controllo sui produttori.
Solo quando tale associazione è realizzata, può verificarsi
lo scambio tra capitale e lavoro così com'è descritto nel modello.
Pertanto, il
modello economico della classe legittimò implicitamente (illustrando la
struttura di potere, evitando che fosse messa in discussione, spostando la
questione sulle regole del gioco in un quadro ormai accettato) la società
industriale definita come una società che dispiega vecchie e nuove istanze di
potere al nuovo scopo di controllare le attività produttive dei suoi membri. In
altri termini, legittimò la nuova struttura di potere nella sfera della
produzione nello stesso modo in cui il vecchio modello sacro o secolare della
società di rango legittimava la struttura di potere nella sfera della
distribuzione. Quel che il nuovo modello economico di classe non riusci a
realizzare fu esattamente quel che il modello di rango aveva realizzato con
impressionante efficacia: non riuscì a legittimare i principi di distribuzione
dettati dal potere. A causa di questa debolezza organica, il modello di Ricardo
conteneva in potenza una bomba a scoppio ritardato.
Per le vittime e gli
antagonisti dell'ordine industriale era soltanto questione di tempo accorgersi
che il modello che (se non altro per omissione) sosteneva la necessità di una
posizione asimmetrica dei «fattori» nel processo di produzione non offriva un
criterio altrettanto «obiettivo» circa i modi in cui giudicare il valore
relativo del contributo di ciascun fattore e distribuire il prodotto comune.
Una volta che ci si fosse resi conto di ciò il modello di Ricardo, chiaramente
e irrevocabilmente «pro industriale» nel senso appena spiegato, poteva essere
usato come una potente arma anticapitalistica.
Il piccolo ma attivo e influente gruppo di «socialisti ricardiani», dal quale
più tardi Karl Marx doveva trarre i principi fondamentali del suo modello
economico della classe, fece presto a scoprire e a sviluppare questo potenziale
inerente al concetto ricardiano di classe. Ma la separazione tra produzione e
distribuzione, che rifletteva fedelmente la conquista della produzione da parte
del nuovo potere ottenuta al prezzo del trasferimento della lotta sul terreno
della distribuzione, non era soltanto una questione d'interpretazione
socialista. E diventata un canone del pensiero economico in generale.
John
Stuart Mill mise i punti sulle i, quando incluse tra i principi dell'economia
politica che «non c'è nulla di arbitrario nelle leggi naturali di produzione,
le quali dipendono dall'accumulazione precedente, dalle proprietà fondamentali
dell'animo umano e dalla natura della materia, mentre la distribuzione della
ricchezza è effettuata a discrezione della società».
In che cosa consistesse la «discrezione della società»
restava una questione senza risposta. La sola cosa indiscutibile era che - come
tutte le questioni senza risposta - anche questa poteva essere risolta soltanto
attraverso il contrasto e la lotta.
Il modello economico della classe
legittimava perciò il conflitto di classe, ma lo spostava nella sfera della
distribuzione. Ciò fatto, il modello assunse una posizione alquanto neutrale
rispetto alle specifiche soluzioni del conflitto. Di per sé, il modello
economico delle classi non determina il modo in cui il surplus dev'essere
diviso tra i «fattori della produzione». La linea di frattura può spostarsi
dall'uno dei poli teoricamente concepibili all'altro senza entrare in contrasto
con i presupposti fondamentali del modello, dal momento che tali presupposti
fondamentali riguardano la struttura di potere della produzione, e non la
distribuzione. In un certo senso, il modello postula separati gruppi di fattori
che determinano rispettivamente la sfera della produzione, quella della
distribuzione e la loro relativa indipendenza reciproca.
La legittimazione di
un qualsiasi concreto principio di distribuzione o la sua applicazione richiesero
quindi delle teorie ausiliarie. E queste non tardarono ad apparire. Verso la
metà del XIX secolo un gran numero di tali teorie ausiliarie si facevano
concorrenza coprendo tra tutte l'intera gamma di un potenziale continuum che
andava dall'assolutizzazione della presente storica (e dunque contingente)
divisione del surplus, fortemente orientata a favore dei proprietari
capitalistici dell'industria, fino alla radicale negazione del diritto del
capitalista a una qualsiasi parte del prodotto finale (poiché il capitale sul
quale pretende di basarsi il loro diritto non è altro che il lavoro del passato
accumulato e «consolidato»). Le teorie della «legge ferrea dei salari» o del
«fondo salario» occupavano un estremo; varie teorie giustificanti il diritto all'intero
prodotto del lavoro, l'altro.
Nel suo classico studio sul «diritto all'intero prodotto del
lavoro», Anton Menger si stupì della «sorprendente circostanza per cui gli
economisti inglesi [Menger intendeva soltanto quelli che gravitavano attorno al
polo conservatore] e Thompson [uno dei principali "socialisti
ricardiani"] traevano da proposizioni identiche conclusioni talmente
opposte». Egli soddisfece la propria curiosità stabilendo che “Thompson e
seguaci sono originali soltanto in quanto considerano la rendita e l'interesse
come detrazioni ingiuste, che violano il diritto del lavoratore all'intero
prodotto del lavoro. Sicché qui [...] la differenza tra le due opinioni è più
giuridica che economica”. In questa distinzione tra il giuridico e l'economico
Menger seguiva il canone stabilito dall'economia politica del tempo, secondo il
quale l' «economico» era limitato all'inevitabile e al necessario, cioè alla
sfera di produzione. Involontariamente, Menger trascura la conseguenza
dell'esclusione della distribuzione da tale sfera: da proposizioni identiche
(circa la produzione) è possibile trarre conclusioni opposte (circa la
distribuzione). Tale conseguenza non avrebbe dovuto stupire Menger.
Ad ogni
modo sembra inevitabile. Il modello economico della classe può realizzare la
legittimazione dell'asimmetria del potere nel processo di produzione soltanto
proclamando irrisolta e destinata a continuare la lotta nella sfera della
distribuzione.
Nessuno teorizzò questa conseguenza in modo più convincente dei «socialisti
ricardiani». Thomas Hodgskin, in un famoso opuscolo pubblicato nel 1825,
sostenne che, oltre ad essere soltanto una condensazione di lavoro passato, il
capitale non può contribuire al proprio prodotto finale; il suo contributo
«deve dipendere nell'insieme dall'abilità peculiare dell'artigiano e del
meccanico addestrata a praticare i diversi mestieri». Pertanto, considerato in
termini di valore relativo del contributo «tutto il prodotto del lavoro deve
appartenere al lavoratore». La conclusione di Hodgskin è chiara: «... i padroni
non possono dunque ragionevolmente aspettarsi che la presente contesa arrivi a
una conclusione, ma al contrario deve continuare e anche se venisse arrestata
si ripresenterebbe di nuovo, perché non è possibile che una grande massa di
uomini che conoscono i loro diritti accettino in silenzio i danni e gl'insulti.
I profitti dei padroni, come capitalisti, devono essere diminuiti, sia che i
lavoratori riescano a ottenere salari più alti, sia che rendano stabile la loro
coalizione o la ricostituiscano di tanto in tanto. Nel primo caso, i padroni,
nella loro qualità di lavoratori specializzati, avranno la loro parte
dell'aumento dei compensi delle attività lavorative; in entrambi gli altri due
casi, non solo il loro prodotto sarà distrutto, ma i loro salari verranno
diminuiti o completamente annullati.»
Molti elementi del pamphlet di Hodgskin sono particolarmente importanti per il
nostro problema. Primo, esso è concepito in risposta al malcontento tra gli
operai (a questo si riferisce il sottotitolo). Hodgskin tenta d'interpretare le
cause nascoste (nascoste forse agli stessi operai) del persistente disordine e
trova la risposta nell'ingiusta divisione del prodotto del lavoro. La ragione
che gli operai stessi davano della loro resistenza - l'usurpazione da parte dei
padroni di un controllo illimitato sul loro lavoro e le sue condizioni - non
scompare del tutto dalla discussione di Hodgskin, ma il suo significato è
ridotto alla causa materiale dei profitti eccessivi che i capitalisti si attribuivano.
Così, nell'interpretazione di Hodgskin, la vera causa della disaffezione degli
operai non è la posizione subordinata in cui erano stati costretti, ma le
conseguenze ch'essa aveva sui salari. Pertanto si poteva rispondere alle loro
lagnanze aumentandone la quota del prodotto finale, cosa che di per sé non
minava necessariamente la posizione di superiorità dei padroni nel processo di
produzione. Quest'ultima può diventare accettabile se si ottiene l'aumento.
Secondo, la proclamazione del «diritto all'intero prodotto» significa in
pratica che non esistono limiti stabiliti alle richieste che a un dato momento
possono essere avanzate dagli operai. I limiti pratici sono determinati dalla
forza ch'essi sono in grado di mobilitare a sostegno delle loro rivendicazioni
e quindi dalle concessioni che i padroni possono essere costretti a fare.
Terzo, perché è probabile che continuerà ad esserci uno scarto tra i limiti
pratici e teorici della lotta, è probabile che il conflitto resti endemico. Sottratta alla discussione la struttura di potere in quanto tale i suoi effetti
si manifesteranno in una lotta permanente circa le quote rispettive del surplus
prodotto entro tale struttura.
Quarto, i lavoratori di cui Hodgskin difende il «diritto
all'intero prodotto» sono dichiaratamente operai definiti secondo la tradizione
dei mestieri. I loro diritti sono difesi in termini di qualifiche superiori,
della conoscenza delle arti «ch'essi hanno appreso a praticare», di capacità
artigiana che trasforma oggetti immobili in attivi strumenti di produzione.
Il
messaggio è chiaro. Quel che Hodgskin «economicizza» e propone di compensare
con equivalenti monetari non è il dominio in quanto tale che colpisce (di fatto
o potenzialmente) tutto il lavoro, ma una specifica disputa circa il controllo
del lavoro tra i padroni della produzione e gli artigiani qualificati che un
tempo erano padroni di se stessi o si preparavano a diventarlo col tempo.
Il
libro pubblicato da William Thompson all'incirca nello stesso periodo (1824)
era organizzato grosso modo secondo linee simili. Postulava l'inviolabilità del
principio del possesso; anzi ne faceva il criterio in base al quale misurare il
grado in cui i diritti personali dei lavoratori erano stati soddisfatti dalla
società che custodisce gelosamente i diritti di proprietà dei suoi membri.
Perché dev'essere rispettata la libera disponibilità dei prodotti del lavoro e
non anche quella del lavoro stesso? Deprechiamo il sequestro di un bene non a
causa di un qualche danno o cattivo effetto prodotto sull'articolo stesso,
sull'oggetto inanimato, ma per il danno prodotto sull'agente intelligente,
sulla mente del produttore. L'articolo stesso non è necessariamente
danneggiato, può sempre essere utilizzato se trasferito volontariamente o
involontariamente; ma anche il lavoro forzato, o requisito o che non riceve un
equivalente adeguato per i suoi prodotti provoca allarme, senso d'insicurezza,
scoraggiamento della produzione futura, avversione per il lavoro defraudato
della sua ricompensa. L'insicurezza, la disaffezione, il risentimento che
davano origine alla resistenza degli artigiani contro il sistema di fabbrica
sono qui spiegati con la costrizione cui era stato assoggettato il lavoro. Ma
nello stesso tempo - in tutto il libro - le esperienze della costrizione, della
privazione della libertà, dell'aspetto «involontario» che comportano le
condizioni di lavoro sono interpretate come l'effetto mentale dell'incapacità
da parte dei lavoratori di assicurarsi una piena e giusta remunerazione per il
loro prodotto. I lavoratori soffrono e si rivoltano perché prevedono che il
frutto del loro sforzo sarà confiscato dai padroni. E la considerano una
confisca, un'espropriazione perché non ricevono per il loro lavoro il prezzo
che fisserebbero se potessero avere la posizione di liberi agenti dello
scambio.
Di nuovo, come nel pamphlet di Hodgskin, quel che in
definitiva è un conflitto circa il potere e il controllo è proiettato sul piano
della contrattazione del prezzo del lavoro. Di nuovo come in Hodgskin, il
lavoro avrebbe causa vinta se ottenesse il giusto prezzo, o meglio se
s'impedisse ai padroni d'imporre dall'altra parte una divisione del surplus che
tiene conto soltanto dei loro interessi. Hodgskin e Thompson sono stati citati
qui come esempi della più radicale concettualizzazione del conflitto tra gli
operai e i loro padroni.
Ma i loro scritti forniscono anche una prova della
misura in cui la visione dei rapporti umani ispirata dal mercato contribuì a
deconcettualizzare il problema del potere e del controllo sulle persone
sostituendovi il problema dei beni e del denaro. Questo spostamento del
discorso dai rapporti tra gruppi di persone al rapporto tra categorie
economiche svolse un ruolo nell'assimilazione del conflitto, che potenzialmente
minacciava lo schema di controllo stesso, nell'ambito della struttura di potere
generata da detto schema.
Una volta che 1'interpretazione economica del
conflitto fu abbracciata e adottata dalle associazioni artigiane allo scopo di
autodefinirsi e stabilire la propria strategia, la questione dell'asimmetria
del potere cessò di essere oggetto della lotta che seguì. La pressione costante
esercitata sull'autonomia e l'auto-espressione dei produttori (ora dipendenti)
continuò a generare risentimento, disaffezione e resistenza. Ma il militantismo
che ne risultò era ora riorientato nel canale della contrattazione salariale.
L'effetto collaterale del riorientamento consistette nell'imporre al conflitto
sindacale il peso deformante della difesa indiretta dell'autonomia operaia e
del bisogno di autoaffermazione. A causa di questo peso aggiuntivo, la
contrattazione salariale tese continuamente a debordare dallo schema puramente
economico del lavoro come merce che cerca di massimizzare il suo prezzo sul
mercato. Invece di confinarsi a questa funzione economica la contrattazione
salariale, in quanto solo veicolo dell'autoaffermazione degli operai, non
poteva fare a meno di diventare e di restare la manifestazione di operai in
quanto persone che cercano di massimizzare il campo della loro autonomia e la
loro quota di potere sociale. Benché strettamente economiche nei loro obiettivi
dichiarati e nelle evidenti preoccupazioni, le organizzazioni operaie portarono
nell'economia i problemi irrisolti e sempre caldi generati nella sfera della
struttura di potere.
In un recente importante studio, Offe e Wiesenthal hanno
criticato il vizio degli scienziati politici di trattare come eguale ciò che
non lo è e di comparare l'incomparabile. Hanno attaccato in particolare una
manifestazione di questa tendenza: quella che consiste nel sussumere le società
capitalistiche e le associazioni operaie sotto la comune categoria del
monopolio, inteso a orientare a proprio favore i termini dello scambio, e
dunque a massimizzare la propria possibilità di mercato; oppure nel presentare
le associazioni industriali e le Trade Unions come due varianti in sostanza
dello stesso fenomeno dei gruppi d'interesse, che fanno pressione sugli organi
dello Stato per ottenere una maggiore quota delle risorse assegnate o regole di
assegnazione più favorevoli.
Offe e Wiesenthal sottolineano che, contrariamente alla concettualizzazione
diffusa, le organizzazioni operaie non sono come i loro pretesi equivalenti
industriali: il loro significato sociologico è completamente diverso. «Poiché
l'operaio è al tempo stesso soggetto e oggetto dello scambio della forza
lavoro, in tal caso è implicata una gamma d'interessi molto più ampia che non
nel caso dei capitalisti, i quali possono soddisfare gran parte dei loro
interessi anche indipendentemente dal loro ruolo di capitalisti».
Offe e
Wiesenthal continuano sostenendo che le associazioni di capitalisti sono nel
complesso strumentali e utilitarie, poiché perseguono la promozione
degl'interessi dei membri in quanto individui attraverso misure prese collettivamente;
mentre le associazioni operaie «si trovano sempre costrette a fare assegnamento
su forme di azione collettiva non utilitarie, basate sulla ride finzione
dell'identità collettiva, anche se l'organizzazione non intende servire altro
che gl'intenti individuali dei suoi membri, per esempio salari più alti».
Comunque, piuttosto che spiegare l'eccessivo vigore della difesa degl'interessi
economici mediante i compiti «non utilitari» (come la formazione e la
conservazione dell'identità collettiva), compiti che, nelle condizioni della
struttura di potere industriale, possono essere realizzati soltanto attraverso
la competizione economica,
Offe e Wiesenthal capovolgono il rapporto tra
l'explanans e l'explanandum. Essi spiegano la peculiarità delle organizzazioni
operaie con le caratteristiche uniche del lavoro (per esempio la non liquidità)
e con l'assenza di basi di potere al di fuori dell'organizzazione stessa («la
possibilità di applicare sanzioni cosi come quella di prendere decisioni
concrete per metterle in atto in una particolare situazione, nel caso delle
associazioni industriali, è esterna all'organizzazione, appartiene cioè al
singolo capitalista; essa deve invece essere costruita. nel corso di un
processo comunicativo all'interno delle associazioni di operai il cui
potenziale di sanzione individuale, è minimo a causa della loro
atomizzazione»). In altri termini, l'argomentazione di Offe e Wiesenthal ricade
nel tema familiare dell'inferiorità del potere contrattuale di un singolo
operaio di fronte a un capitalista anch'esso «singolo».
È necessario perciò che
attraverso la comunicazione si perpetuino una vera unità dell'organizzazione
operaia e la sua capacità di agire in modo veramente unitario se si vuole che
la contrattazione avvenga su basi equilibrate, o che sia almeno in parte
corretto a favore degli operai lo squilibrio endemico.
Ad ogni modo, questa argomentazione presuppone tacitamente
che la causa ultima di conflitto sia di fatto la distribuzione del surplus, e
che tutto quel che c'è di peculiare nel carattere sociologico
dell'organizzazione operaia derivi dalla logica della redistribuzione.
Io ho
tentato di suggerire un tipo di spiegazione opposto. «Il processo comunicativo
all'interno dell'associazione» non è un fattore strategico reso necessario
dall'obiettivo della contrattazione sindacale. E piuttosto la contrattazione
sindacale che, in condizioni di saldo «potere disciplinare», fornisce il solo
sbocco disponibile tramite il quale possono essere difese e conservate le
identità e la relativa autonomia della popolazione lavoratrice: e possono
essere tracciati e custoditi i limiti della sua subordinazione. Perciò la
formazione dell'identità di gruppo è un fine in sé, mentre la sua
manifestazione nella lotta per la redistribuzione del surplus si capisce meglio
come mezzo. Quindi, la veemenza e la determinazione con cui le organizzazioni
operaie combattono a volte per un apparentemente trascurabile 1 o 2 % che
divide le loro rivendicazioni dalle offerte del datori di lavoro, e la loro
prontezza a sacrificare molto di più, come salari perduti, di quanto non possa
portare l'eventuale vittoria dello sciopero, per quanto irrazionali in termini
di massimizzazione del profitto, appaiono perfettamente sensate come
manifestazioni distorte dell'endemico conflitto di potere. Lo stesso vale per
la preferenza degli operai per i closed shops, per la loro insistenza
sull'osservanza della procedura di consultazione, per la loro resistenza a
molte decisioni manageriali unicamente a causa della loro unilateralità, per numerosi
conflitti di «demarcazione» e molte altre peculiarità del comportamento
collettivo degli operai troppo spesso condannate per la loro «irrazionalità»
valutata unicamente in termini di guadagni e perdite monetarie.
Ciò non significa, naturalmente, che il significato dei mezzi possa ridursi
completamente ai fini. Meno ancora significa che la scelta dei mezzi o gli
sbocchi per l'energia generata dal conflitto siano irrilevanti, o che non
abbiano conseguenze. Al contrario, il fatto che il conflitto di potere sia
stato incanalato nella lotta per la distribuzione del surplus, che l'autonomia
e l'identità degli oggetti della gerarchia di potere abbiano potuto esprimersi
e «materializzarsi» solo in termini di guadagni economici, ha avuto una
profonda influenza sull'intero corso dello sviluppo della società industriale.
Esso ha realizzato ciò che l'assalto diretto contro il corpo e l'anima dei
produttori nei primi anni della rivoluzione industriale tentò invano, correndo
il rischio enorme di una ribellione popolare: ha instillato nella mente e nel
comportamento degli operai non tanto lo «spirito del capitalismo», quanto la
tendenza a stabilire il proprio valore e dignità in termini di compensi
monetari; e a compensare la perdita del controllo sul proprio contributo
produttivo con una maggiore partecipazione al consumo.
Questo effetto ha determinato la successiva storia della società industriale.
Sembra anche alle origini delle sue presenti difficoltà.
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