Proponiamo un’interessante intervista al geografo e
sociologo statunitense David Harvey, a undici anni dal suo libro “Breve
storia del Neoliberismo”. In questo testo, divenuto velocemente uno dei più
citati sull’argomento, Harvey analizza lo sviluppo e la storia di uno dei
concetti più usati dalla sinistra (e non solo) per descrivere la configurazione
attuale del moderno capitalismo. L’intervista ribadisce e arricchisce alcuni
dei punti fondamentali del testo. Due le considerazioni più interessanti. La
prima: la crescente importanza delle lotte che escono dal contesto della fabbrica
e che si spostano nell’ambito urbano. Una sfida che un moderno sindacato
conflittuale e di classe deve cogliere, e in questo senso la nascita della
confederalità sociale USB va nella direzione giusta. La seconda: occorre
ricordarsi che il neoliberismo non è altro che una configurazione del modo di
produzione attuale, e che limitare l’opposizione ad esso e non al capitalismo
per se è fuorviante. Una lezione che gran parte della moderna sinistra dovrebbe
ricordarsi.
Undici anni fa, David Harvey pubblicava “Breve
storia del Neoliberismo” (in Italia edito da Il Saggiatore, ndt), ad oggi
uno dei libri più citati sull’argomento.
Gli anni passati da allora hanno visto nuove crisi economiche
e finanziarie, ma anche nuove ondate di resistenza, che di per se spesso
mettono nel mirino proprio il “neoliberismo” nella loro critica della società
contemporanea.
Cornell West parla del
movimento “Black Lives Matter” (il movimento originatosi nella comunità
afro-americana contro le continue violenze della polizia contro le persone di
colore, ndt) come di “un’accusa verso il potere neoliberale”; Hugo Chavez
chiamava il neoliberismo un “percorso verso l’inferno”;
e i leader sindacali stanno usando in maniera crescente il termine per
descrivere il tipo di struttura più ampia in cui avvengono le lotte per il
lavoro. Anche la stampa mainstream ha iniziato ad usare il termine, se non
altro per argomentare che il
neoliberismo non esiste.
Ma di che cosa parliamo esattamente quando parliamo di
neoliberismo? È un bersaglio utile per dei militanti socialisti? E come è
cambiato dalla sua genesi avvenuta nel tardo ventesimo secolo?
Bjarke Skærlund Risager, un dottorando presso il
Dipartimento di Storia delle Idee dell’Università di Aarhus, si è seduto al
tavolo con David Harvey per discutere la natura politica del neoliberismo, come
esso ha trasformato le modalità di resistenza, e perché la sinistra deve ancora
essere seria riguardo all’obbiettivo di terminare il capitalismo.
Risager: “neoliberismo” è un termine
ampiamente utilizzato oggi. Tuttavia, è spesso poco chiaro a cosa le persone si
riferiscano quando lo utilizzano. Nei suoi utilizzi più sistematici il termine
può riferirsi ad una teoria, ad un insieme di idee, ad una strategia politica o
ad un periodo storico. Può cominciare spiegandoci il suo concetto di
neoliberismo?
Harvey: ho sempre trattato il neoliberismo come un progetto
politico portato avanti dalla classe capitalistica, poiché essa si sentiva
minacciata sia politicamente che economicamente fra la fine degli anni ’60 e
l’inizio degli anni ’70 del ‘900. [I capitalisti] volevano disperatamente
lanciare un progetto politico che abbattesse il potere della classe
lavoratrice.
Per molti versi questo progetto era controrivoluzionario.
Avrebbe stroncato sul nascere quelli che, al tempo, erano movimenti
rivoluzionari in gran parte del terzo mondo – Mozambico, Angola, Cina, ecc – ma
anche un’ondata crescente di influenza
comunista in paesi come l’Italia e la Francia e, ad un grado di
importanza minore, la minaccia di un revival comunista in Spagna.
Perfino negli Stati Uniti i sindacati avevano creato un
Congresso Democratico che era piuttosto radicale nei suoi intenti. Nei primi
anni ’70 essi, insieme ad altri movimenti sociali, forzarono una sfilza di
riforme e di iniziative riformiste che erano essenzialmente anti-impresa: l’Agenzia
di Protezione per l’Ambiente (EPA), l’agenzia per la Sicurezza
Occupazionale e l’Amministrazione Sanitaria, la protezione dei consumatori, e
una serie di cose che rafforzassero la classe lavoratrice perfino di più di
quanto fosse stata rafforzata prima.
Perciò in quella situazione c’era, in effetti, una minaccia
globale al potere della classe capitalista e pertanto la domanda era: “che
fare?”. La classe dominante non era omnisciente ma essa riconosceva che c’erano
un numero di fronti nel quali essa doveva lottare: il fronte ideologico, il
fronte politico e soprattutto dovevano lottare per ridurre il potere della
classe lavoratrice con qualunque mezzo possibile. Da questo emerse un progetto
politico che io chiamerei neoliberismo.
Può parlarci un po’ del fronte politico e di quello
ideologico e degli attacchi alla classe lavoratrice?
Il fronte ideologico si concretizzò nel seguire il consiglio
di una persona di nome Lewis
Powell. Questi scrisse un documento che diceva che si era esagerato, che il
capitale aveva bisogno di un progetto collettivo. Questo documento aiutò a
mobilitare la Camera di Commercio e la Tavola Rotonda dell’Impresa [due
organizzazioni di industriali e imprenditori americani, ndt].
Anche le idee furono importanti per quanto riguarda il
fronte ideologico. Il giudizio al tempo era che le università fossero
impossibili da organizzare perché il movimento studentesco era troppo forte e
le facoltà troppo di orientamento “liberal”, pertanto il capitale mise su una
serie di think-thank come il Manhattan Institute, la Heritage Foundation e la
Ohlin Foundation. Questi think-thank sostenevano le idee di Von Hayek e Milton
Friedman e la cosiddetta “economia dell’offerta” [da contrapporsi all’economia
della domanda, propugnata dai keynesiani, ndt].
L’idea era che queste organizzazioni facessero ricerca
seria, ed alcuni di essi la fecero – ad esempio il National Bureau of Economic Research era
un’istituzione con fondi privati che realizzò della ricerca di qualità. Queste
ricerche sarebbero poi state pubblicate in maniera indipendente ed avrebbero
influenzato la stampa e pian piano avrebbe circondato ed infiltrato le
università.
Questo processo prese molto tempo. Penso che oggi abbiamo
raggiunto un punto in cui qualcosa come la Heritage Foundation non serve più.
Le università sono state sostanzialmente conquistate dai progetti neoliberali
che le assediavano.
Rispetto alla classe lavoratrice, la sfida era mettere i
lavoratori e le lavoratrici in USA in competizione con i lavoratori e le
lavoratrici in tutto il mondo. Nel corso degli anni ‘60, ad esempio, i tedeschi
stavano importando manodopera turca, la Francia forza lavoro magrebina, la Gran
Bretagna lavoratori dalle ex colonie. Ma questo aveva creato molta
insoddisfazione e disordine.
Invece i capitalisti americani scelsero un’altra strada –
portare capitale dove c’era forza lavoro a bassi salari. Ma perché la
globalizzazione funzionasse c’era bisogno di ridurre le tariffe doganali e
rendere più potente il capitale
finanziario, perché esso è la forma di capitale più mobile. Pertanto il
capitale finanziario e cose come le valute lasciate libere di fluttuare
divennero fondamentali per indebolire il lavoro.
Al tempo stesso, i progetti ideologici di privatizzare e
deregolamentare crearono disoccupazione. Pertanto abbiamo la disoccupazione
negli USA e la perdita di posti di lavoro con lo spostamento delle attività
produttive all’estero, e poi una terza componente: ilcambiamento
tecnologico, la deindustrializzazione tramite l’automazione e la
robotizzazione. Questa è stata la strategia per battere la classe lavoratrice.
Si trattava di un assalto ideologico ma anche di un assalto
economico. Per me questo è stato il neoliberismo: un progetto politico, e penso
che la borghesia o la classe capitalista lo abbiano messo in atto pezzo per
pezzo.
Non penso abbiano cominciato leggendo Hayek o qualsiasi
altra cosa, penso che essi abbiano intuitivamente detto, “dobbiamo schiacciare
la classe lavoratrice, come lo facciamo?”. E trovarono una teoria che
legittimava tutto questo.
Dalla pubblicazione di “Breve storia del neoliberismo”
nel 2005 è stato versato molto inchiostro sull’argomento. Sembra che ci siano
due campi principali: studiosi che sono più interessati alla storia
intellettuale del neoliberismo, e persone che invece si preoccupano del
neoliberismo “attualmente esistente”. Lei dove si posiziona?
C’è una tendenza nelle scienze sociali, alla quale tendo a
resistere, a cercare una una teoria unica per spiegare qualcosa. Perciò
troviamo una frazione di persone che dice che, insomma, il neoliberismo è
un’ideologia e pertanto essi scrivono una storia dell’ideologia riguardo ad
esso.
Una versione di questo è l’argomentazione di Foucault sulla
governamentalità, che vede tendenze neoliberali già presenti nel diciottesimo
secolo. Ma se si tratta il neoliberismo soltanto come un’idea o come un insieme
di pratiche limitate di governamentalità, si troveranno decine di precursori.
Quello che qui manca è il modo in cui la classe capitalista
ha orchestrato i suoi sforzi fra gli anni ’70 e i primi anni ’80. Penso sia
giusto dire che a quel tempo – almeno nel mondo anglosassone – la classe
capitalista divenne abbastanza unita.
Erano d’accordo su molte cose, come sulla necessità di una
forza politica che li rappresentasse veramente. Così si spiegano la conquista
[da parte dei capitalisti] la partito Repubblicano, e il tentativo di
indebolire, in un certo senso, il partito Democratico.
A partire dagli anni ‘70 la Corte Suprema prese una serie di
decisioni che permisero alla classe capitalista di comprare le elezioni molto
più facilmente di quanto potessero in passato.
Ad esempio si vedano le riforme del finanziamento delle
campagne elettorali, che trattavano i contributi alle campagne come una forma
di libera espressione. C’è una lunga tradizione negli Stati Uniti di
capitalisti che comprano le elezioni, ma ora era stato legalizzato invece che
essere fatto sotto banco come corruzione.
In generale io penso che questo periodo sia stato definito
da un ampio movimento verso vari fronti, ideologici e politici. E l’unico modo
in cui puoi spiegare questo ampio movimento è riconoscendo il relativamente
alto grado di solidarietà nella classe capitalista. Il capitale riorganizzò il
suo potere in un disperato tentativo di recuperare la propria ricchezza ed
influenza, che erano stati seriamente erosi dalla fine degli anni ’60 fino agli
anni ’70.
Ci sono state numerose crisi a partire dal 2007. Come
la storia e il concetto di neoliberismo ci aiutano a comprenderle?
Ci sono state molte poche crisi tra il 1945 e il 1973; ci
sono stati alcuni momenti problematici ma nessuna grande crisi. La svolta verso
le politiche neoliberali avvenne nel mezzo di una
crisi negli anni ’70 e l’intero sistema ha subito una serie di crisi
da allora. E ovviamente le crisi producono le condizioni per le crisi future.
Fra il 1982 e il 1985 ci sono state crisi di debito in
Messico, Brasile, Ecuador e sostanzialmente tutti i paesi in via di sviluppo
includendo la Polonia. Fra il 1987 e il 1988 ci fu una crossa crisi nelle
istituzioni creditizie statunitensi. Ci fu una grande crisi in Svezia nel 1990,
e tutte le banche dovettero
essere nazionalizzate.
Poi ovviamente c’è stata la crisi in Indonesia e nel Sud-Est
Asiatico nel 1997/98, poi la crisi si è spostata in Russia, poi in Brasile per
poi colpire l’Argentina nel 2001-2002.
E c’erano problemi negli USA nel 2001, che li risolsero
spostando denaro dal mercato azionario a quello immobiliare. Nel 2007-2008 il
mercato immobiliare statunitense esplose, e così arrivò la crisi anche qui.
Si può guardare la mappa del mondo e vedere tendenze alla
crisi muoversi intorno ad esso. Ragionare sul neoliberismo è utile per
comprendere queste tendenze.
Una delle grandi manovre di neoliberalizzazione fu espellere
tutti i keynesiani dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale
nel 1982 – una pulizia totale di tutti i consiglieri economici che avessero una visione
keynesiana.
Furono rimpiazzati da economisti neoclassici teorici
dell’offerta [ossia che enfatizzassero il ruolo dell’offerta rispetto alla
domanda aggregata keynesiana, ndt], e la prima cosa che questi
fecero su decidere che da quel momento l’FMI avrebbe dovuto seguire una
politica di aggiustamento
strutturale ovunque ci fosse una crisi.
Nel 1982 c’era una crisi debitoria in Messico. L’FMI disse:
“vi salveremo”. In realtà quello che stavano facendo era salvare le banche
d’investimento di New York e implementare politiche di austerità.
La popolazione del Messico soffrì qualcosa come la perdita
del 25 per cento del suo standard di vita nei quattro anni che seguirono il
1982, come risultato delle politiche di aggiustamento strutturale dell’FMI.
Da allora il Messico ha subito quattro aggiustamenti
strutturali. Molti altri paesi ne hanno avuto più di uno. Questa divenne una
pratica standard.
Che cosa stanno facendo alla Grecia adesso?
È quasi una copia di quello che fecero al Messico nel 1982, solo in maniera più
esperta. Questo è anche quanto accadde negli USA nel 2007-2008. Salvarono le
banche e fecero pagare le persone tramite una politica di austerità.
C’è qualcosa delle recenti crisi e della loro gestione
da parte delle classi dominanti che le abbiano fatto ripensare la sua teoria
del neoliberismo?
Bhe, non penso che la solidarietà fra la classe
capitalistica oggi sia quella di una volta. Geopoliticamente, gli USA non si
trovano in una posizione di dare una linea globale, come lo erano negli anni
’70.
Penso che stiamo vedendo una regionalizzazione di strutture
di potere globali all’interno del sistema statale – egemonie
regionali come la Germania in Europa, il Brasile in America Latina e
la Cina in Asia Orientale.
Ovviamente gli USA hanno ancora una posizione globale, ma i
tempi sono cambiati. Obama può andare al G20 e dire “dovremmo fare questo”, e
Angela Merkel può dire “non lo faremo”. Questo non sarebbe accaduto negli anni
’70.
Perciò la situazione geopolitica è divenuta più
regionalizzata, c’è più autonomia. Penso che in parte sia il risultato della
fine della guerra fredda. Paesi come la Germania non si affidano più agli USA per
la propria protezione.
Inoltre, quella che è stata chiamata “la nuova classe
capitalista” di Bill
Gates, Amazon e
laSilicon
Valley ha una politica differente rispetto a quella tradizionale del
petrolio e dell’energia.
Come risultato essi tendono a seguire la propria strada,
perciò c’è un sacco di rivalità settoriale fra, diciamo, [il capitalismo
del]l’energia e quello della finanza, e fra quello dell’energia e la Silicon
Valley, e così via. Queste sono divisioni serie che sono evidenti su qualcosa
come il cambiamento climatico, ad esempio.
L’altra cosa che io penso sia cruciale è che la
controrivoluzione neoliberale negli anni ’70 non passò senza una forte
opposizione. Ci fu una massiccia resistenza da parte della classe lavoratrice,
dai partiti comunisti in Europa, e così via.
Ma io direi che dalla fine degli anni ’80 la battaglia era
persa. Così, dato che la resistenza è scomparsa, la classe lavoratrice non ha
il potere che aveva una volta, la solidarietà fra la classe dominante non è più
necessaria affinché funzioni.
[La classe capitalista] non deve necessariamente unirsi e
fare qualcosa contro le lotte dal basso, poichè non c’è più nessuna minaccia.
La classe dominante sta andando estremamente bene, perciò non ha davvero
bisogno di cambiare alcunché.
Tuttavia, mentre la classe capitalista sta facendo molto
bene, il capitalismo sta andando piuttosto male. I tassi di profitto hanno
recuperato ma i tassi
di reinvestimento sono incredibilmente bassi, perciò molto denaro non
sta tornando dentro la produzione e sta invece affluendo verso l’appropriazione
di terreni e l’acquisizione di asset.
Parliamo della resistenza [al neoliberismo]. Nel suo
lavoro lei sottolinea il paradosso apparente che l’assalto neoliberista è stato
accompagnato da un declino nella lotta di classe – almeno nel Nord del mondo –
a favore di “nuovi movimenti sociali” a favore della libertà individuale. Può
spiegarci come lei pensa che il neoliberismo abbia fatto nascere certe forme di
resistenza?
Questa è una frase su cui riflettere. Cosa succede se ogni
modo di produzione dominante, con la sua particolare configurazione politica,
crea un modo di opposizione come una sua immagine a specchio.
Durante l’era dell’organizzazione fordista del processo
produttivo, l’immagine a specchio erano grandi organizzazioni sindacali
centralizzate e partiti politici democraticamente centralisti.
La riorganizzazione del processo di produzione e la svolta
verso l’accumulazione flessibile durante il periodo neoliberale ha prodotto una
sinistra che è, in molti modi, il suo
specchio: che fa rete, decentralizzata, non gerarchizzata. Penso che sia
molto interessante.
E per certi versi l’immagine a specchio rafforza ciò che
invece sta provando a distruggere. Alla fine penso che il movimento sindacale
effettivamente sostenne il fordismo.
Io penso che molta
della sinistra oggi, essendo molto autonoma ed anarchica, stia
rafforzando il gioco finale del neoliberismo. A un sacco di persone nella sinistra
non piace sentirselo dire.
Ma ovviamente sorge una questione: c’è un modo di
organizzarsi che non sia un’immagine a specchio [del modo di produzione
dominante]? Possiamo rompere lo specchio e trovare qualcos’altro, che non sia
giocare nelle mani del neoliberismo?
La resistenza al neoliberismo può occorrere in un numero di
modi differenti. Nel mio lavoro io sottolineo che il punto in cui il valore si
realizza è anche un punto di tensione. Il valore si produce nel processo di
lavoro, e questo è un aspetto molto importante della lotta di classe. Ma il
valore è realizzato nel mercato tramite la vendita, e c’è
molto di politico in questo.
Molta resistenza all’accumulazione capitalista accade non
solo nel processo di produzione ma anche tramite il consumo e la realizzazione
di valore. Prendete ad esempio una fabbrica di auto: le grandi fabbriche
solevano impiegare circa 25.000 persone; oggi ne impiegano 5.000 perché la
tecnologia ha ridotto la necessità di lavoratori. Perciò più e più lavoratori e
lavoratrici stanno venendo rimossi dalla sfera delle produzione e sempre
di più vengono spinti nella vita urbana.
Il punto principale di scontento nella dinamica capitalista
si sta spostando sempre di più dalle lotte sulla realizzazione del valore –
verso la politica della vita
quotidiana in città.
I lavoratori e le lavoratrici ovviamente contano e ci sono
molte questioni che li riguardano che sono cruciali. Se ci troviamo a Shenzhen
in Cina le lotte sul processo lavorativo sono dominanti. E negli USA dovremmo
aver supportato lo sciopero
a Verizon, ad esempio.
Ma in molte parti del mondo le lotte sulla qualità della
vita quotidiana sono dominanti. Guardate alle grandi lotte negli ultimi
dieci-quindici anni: Gezi
Park a Istanbul non è stata una lotta dei lavoratori, è stato lo
scontento verso la politica della vita quotidiana e la mancanza di democrazia e
di processi decisionali; nelle rivolte nelle città brasiliane nel 2013 c’era
ancora una volta il discontento verso la politica della vita quotidiana:
trasporti, possibilità e la spesa di così tanto denaro in grandi stadi mentre
non si sta spendendo nulla sul costruire scuole, ospedali e case a prezzi
accessibili. Le rivolte che abbiamo visto a Londra, Parigi e Stoccolma non
riguardano il processo lavorativo, ma la politica della vita quotidiana.
Questa politica è piuttosto differente dalla politica che
esiste nel processo di produzione. Nel processo di produzione è capitale contro
lavoro. Le lotte sulla qualità della vita urbana sono meno chiare in termine
della loro configurazione di classe.
Una chiara politica di classe, che solitamente si deriva da
una comprensione del processo di produzione, diviene teoricamente confuse
quando diviene più realistico. È una questione di classe ma non nel senso
classico.
Lei pensa che parliamo troppo del neoliberismo e
troppo poco del capitalismo? Quando è appropriato usare l’uno o l’altro
termine, e quali sono i rischi che si corrono nel mischiarli?
Molti liberal dicono che il neoliberismo è andato troppo in
là in termini di diseguaglianza di reddito, che si è esagerato
con le privatizzazioni, che ci sono un sacco di beni comuni di cui dovremmo
preoccuparci, come l’ambiente.
Ci sono anche molti modi di parlare del capitalismo, come la sharing
economy, che si è rivelata altamente capitalizzata e altamente
sfruttatrice.
C’è la nozione di capitalismo
etico, che si è rivelato essere semplicemente un modo di essere
ragionevolmente onesti invece che rubare. Perciò c’è la possibilità nella testa
di alcune persone di un qualche tipo di riforma dell’ordine neoliberale in
qualche altra forma di capitalismo.
Io penso che sia possibile fare un capitalismo migliore di
quello che esiste adesso. Ma non di molto. I problemi fondamentali [del
capitalismo] sono ad oggi così profondi che non c’è modo di andare da nessuna
parte senza un forte movimento anticapitalista. Perciò vorrei porre la
questione in termini anticapitalisti piuttosto che in termini
anti–neoliberisti.
E penso che il pericolo sia, quando ascolto le persone
parlare riguardo all’anti-neoliberismo, che non ci sia la percezione che è il
capitalismo in se stesso, in qualsiasi forma, il problema.
La maggior parte degli oppositori al neoliberismo fallisce
nell’affrontare i macro-problemi della crescita composta senza fine – i
problemi ecologici, politici ed economici. Perciò preferirei parlare di
anticapitalismo che di anti-neoliberismo.
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