*Da: Ludovico
Geymonat, Storia del pensiero scientifico
e filosofico, Vol. 7, Sez. Nona, Le
grandi correnti filosofiche, Cap.7, L'esistenzialismo,§
IV-V, p.p.153-164.
Per
un ulteriore approfondimento del pensiero heideggeriano proponiamo una lettura
"critica" di notevole interesse... (c.f.m. Stefano Garroni)
IV. HEIDEGGER: « ESSERE E TEMPO»
L'opera Sein und Zeit, erste Halfte costituisce senza dubbio
una delle tappe più importanti dell'itinerario filosofico di Martin Heidegger.
Quando nel 1926 terminò di scriverla era ancora vivamente legato a Husserl,
tanto che - come già ricordammo - la dedicò proprio a lui («con ammirazione e
amicizia») e, come sede per la pubblicazione, scelse per l'appunto
l'husserliano «Jahrbuch fiir Philosophie und phanomenologìsche Forschung»
(«Annali dì filosofia e ricerca fenomenologica»). Tuttavia l'anno stesso in cui
l'opera uscì, cioè il 1927, segnò l'inizio della ben nota rottura fra i due
autori, e da quel momento in poi Heidegger proseguì le proprie ricerche
filosofiche in modo del tutto indipendente dal maestro, onde è sorto il
problema (a cui si è già fatto cenno nel paragrafo II) se tale data rappresenti
o no una vera e propria svolta del pensiero heideggeriano. Questo breve
richiamo intende chiarire il motivo per cui abbiamo deciso di suddividere in
due parti la nostra schematìca esposizione dell'esistenzialismo di Heidegger,
dedicando il presente paragrafo a Sein und Zeit e il prossimo ad enucleare --
dai molti scritti successivi -- alcuni ben determinati temi che posseggono un
particolare interesse dal nostro specifico punto di vista.
Dallo schema dell'opera (contenuto nell'introduzione) si
ricava che essa doveva risultare suddivisa in due parti: la prima di carattere
prettamente teoretico, la seconda essenzialmente storico-critico. Ciascuna di
esse si sarebbe dovuta articolare in tre sezioni, rispettivamente dedicate ai
seguenti problemi: «L'analisi fondamentale dell'esserci nel suo momento
preparatorio, esserci e temporalità, tempo ed essere» (1 parte), «La dottrina
kantiana dello schematismo e del tempo come avviamento alla problematica della
" temporalità ", il fondamento antologico del" cogito ergo
sum" di Cartesio e l'assunzione dell'ontologia medioevale nella
problematica della"res cogitans", la trattazione aristotelica del
tempo come discrimine della base fenomenica e dei limiti dell'ontologia antica»
(2 parte). [ Per questa e per le altre citazioni, ci valiamo dell'ottima
traduzione dell'opera, curata da Pietro Chiodi (Torino 1969)]. La cosiddetta
«prima metà» dell'opera, cioè l'unica effettivamente pubblicata, non include
l'intera prima parte, ma soltanto le due prime sezioni di essa.
Volendo che il lettore si faccia un 'idea abbastanza esatta
della complessa trattazione, riteniamo opportuno premettere un rapido riassunto
dell'introduzione in cui ne sono tratteggiati, a grandi linee, gli argomenti
generali.
Questa inizia con l'aperta dichiarazione che il problema
centrale di tutta l'indagine è «il problema del senso dell'essere», oggi
dimenticato e ciononpertanto basilare per ogni scienza. Trattasi dunque di
un'opera di ontologia, che non teme di proclamarsi tale malgrado l'impopolarità
del nome.
Premesso che il
concetto di essere, pur essendo« il più generale dei concetti», è tutt'altro
che ovvio come la gente ritiene («anzi è il più oscuro di tutti»), Heidegger affronta
subito l'obiezione pregiudiziale che suol venire sollevata contro il tentativo
di farne il centro di una seria ricerca filosofica. L'obiezione si esprime
nella ben nota domanda: donde si dovrà partire affinché una spiegazione del «
senso dell'essere » non implichi un circolo vizioso? La risposta è quanto mai
precisa: dovremo partire dalla «adeguata esposizione preliminare di un ente
nei riguardi del suo essere». Ma quale sarà l'ente di cui dovremo fornire
questa adeguata esposizione preliminare? in altri termini: quale potrà essere «l'ente esemplare che deve fungere da interrogato primario nel problema
dell'essere?».
Con una serie di considerazioni che per evidenti limiti di
spazio non possiamo riferire, Heidegger dimostra (o meglio ritiene di dimostrare)
che questo «ente esemplare» non possa essere altro che l'esserci (Dasein), ove
con tale termine va inteso «l'ente che noi stessi sempre siamo» (cioè l'uomo).
Comunque, il motivo fondamentale addotto a favore di questo «primato»
dell'esserci è che fra le sue «determinazioni d'essere» vi è proprio la
«comprensione dell'essere», e cioè il fatto che esso risulta tale che «essendo,
comprende e interpreta l'essere».
Per interrogare l'esserci sarà necessaria una speciale
indagine sulla «possibilità che gli è propria di essere o non essere se stesso» e cioè - nella terminologia heideggeriana -· sulla sua esiste(n)za. Tale
indagine dovrà condurci a comprendere il «senso dell'essere» di quell'ente
esemplare che chiamiamo esserci, e questo ci permetterà infine di risolvere il
problema che ci eravamo proposti, cioè il problema del « senso dell'essere » in
generale.
La prima tesi che il nostro autore si propone di «
dimostrare » è che il senso dell'esserci è costituito dalla « temporalità ».
Sulla base di questo risultato («temporalità quale essere dell'esserci») si
tratterà poi di giungere a «un'esplicazione originaria del tempo come orizzonte
della comprensione dell'essere». Insomma è «nel fenomeno del tempo, rettamente
inteso e rettamente esplicitato» che si radica - secondo Heidegger - «la
problematica centrale di ogni ontologia» (il che vale, come è ovvio, a
chiarire e giustificare il titolo dell'opera).
Per condurre l'indagine in esame, egli dichiara
esplicitamente di volersi avvalere del metodo fenomenologico husserliano. E per
spiegare in che consista la fenomenologia, scrive: «Scienza dei fenomeni
significa: un afferramento dei propri oggetti tale che tutto ciò che intorno ad
essi è in discussione sia mostrato e dimostrato direttamente.» Aggiunge poi,
al fine di togliere ogni possibilità di equivoco: «Dietro i fenomeni della
fenomenologia non si trova assolutamente nulla a meno che non vi si celi
qualcosa destinato a divenire fenomeno.»
Né si tratta - secondo Heidegger - di un metodo che si applichi
per così dire dall'esterno alla ricerca antologica; questa infatti, a suo
parere, non può essere perseguita con alcun altro metodo sicché viene, in
ultima istanza, a fare tutt'uno con esso. «L'ontologia e la fenomenologia non
sono due diverse discipline che fanno parte della filosofia assieme ad altre. I
due termini denotano entrambi la filosofia, nel suo oggetto e nel suo
procedimento. La filosofia è ontologia universale e fenomenologica.»
Abbiamo espressamente abbondato in citazioni, per dare modo
al lettore di farsi un'idea diretta dello stile di Heidegger. È senza dubbio
uno stile che per la sua astrattezza e oscurità può suscitare un certo fastidio
in chi non vi sia abituato, tanto più quando si cerchi di conciliarlo con il
proposito ripetutamente dichiarato dal nostro autore di voler andare «verso le
cose stesse». Per trovargli una giustificazione, basta tuttavia tenere conto
del grave pericolo - cui va fatalmente incontro un'indagine fenomenologica
sull'uomo - di scivolare nell'antropologia, nella psicologia e nella biologia: è
la preoccupazione di evitare uno scivolamento siffatto ciò che induce Heidegger
a compiere i più ardui sforzi (anche stilistici) per differenziare la propria
ricerca da quella delle scienze testé elencate. «L'analisi esistenziale
dell'esserci,» ripete più volte, «precede ogni psicologia, ogni antropologia, e
soprattutto ogni biologia.» Proprio per non aver tenuto conto di questo
precedere - egli pensa - le indagini finora condotte intorno all'esserci «hanno
fallito l'autentico problema filosofico», e fin quando persistono in questo
errore non potranno mai, in linea generale, «pretendere di raggiungere ciò a
cui in effetti mirano».
La vera obiezione che si può, a nostro parere, sollevare
contro Heidegger, non riguarda lo stile ma qualcosa di assai più profondo:
riguarda il problema se la ricerca filosofica debba effettivamente precedere le
ricerche «scientifiche» (nel caso in esame quelle di psicologia, antropologia
ecc.), il che la costringe per coerenza a non tenere alcun conto dei loro
risultati. Una volta concessa questa ipotesi, non si può fare a meno di
concedere anche il ricorso a espressioni estremamente artificiose (e perciò
oscure) che avrebbero comunque il pregio di non risultare compromesse da tali
ricerche. Ma su questo problema ritorneremo nel seguito del capitolo.
Ciò premesso, cercheremo ora di essere molto brevi
nell'indicare il contenuto delle due sezioni.
La prima si propone di enucleare le strutture originarie
dell'esserci. A questo fine Heidegger comincia ad osservare che tutte le
determinazioni d'essere dell' esserci «debbono essere viste ed intese a priori
sul fondamento di quella costituzione d'essere che noi indichiamo col nome di
essere-nel-mondo»; l'impostazione esatta dell'analitica dell'esserci dovrà
dunque basarsi «sull'interpretazione di questa costituzione».
Il nostro autore non ha dubbi che tale costituzione si
riferisca a un «fenomeno unitario»; ciò non esclude tuttavia che esso risulti
complesso e che gli elementi eterogenei insolubili dei quali è composto possano
e debbano formare l'oggetto di uno studio specifico. Orbene i «componenti
strutturali del reperto fenomenico indicato» sono- a suo parere- tre: 1) Il
«nel mondo», 2) L'ente che è sempre «nel modo dell'essere-nel-mondo», 3)
«L'in-essere come tale». Heidegger li esaminerà ad uno ad uno chiarendo con
acume le rispettive strutture, dopo avere premesso però che «la considerazione
di ognuno di questi elementi implica, nello stesso tempo, la considerazione di
tutti gli altri, cioè la visione dell'intero fenomeno».
I risultati raggiunti in questo lungo e dettagliato esame,
per quanto discutibili, rivelano in genere una notevole finezza di
penetrazione. Uno dei più discutibili è che la « situazione emotiva » sarebbe «
propria in via essenziale dell'esserci »; è da questa tesi che deriva
l'importanza attribuita da Heidegger- d'accordo in ciò con Scheler - allo
studio della vita emotiva per cogliere l'effettivo essere della persona umana.
Fra le descrizioni più penetranti ricordiamo: quella della banalità quotidiana
contrapposta all'autenticità, quella dell'angoscia acutamente distinta dalla
paura ecc. La conclusione a cui Heidegger perviene è che la totalità unitaria
delle strutture fondamentali dell'esserci risulta globalmente espressa dal
termine cura (Sorge), ove questo termine viene da lui usato a designare un
fenomeno « ontologicamente anteriore » ai singoli atti particolari o tendenze («come il volere, il desiderare, l'impulso o l'inclinazione») solitamente
confusi con esso. Si noti che non avrebbe senso chiedere una definizione
rigorosa del « fenomeno della cura »; proprio perché è un fenomeno, esso può
venire soltanto descritto, elaborato, precisato in rapporto ad altri fenomeni.
Il nostro autore è comunque convinto che l'elaborazione che egli ce ne fornisce
ci permetta di «gettare lo sguardo sulla costituzione concreta dell'esistenza».
La seconda sezione si propone quale primo compito di «porre
esistenzialmente in luce l'essere dell'esserci quanto alle possibilità che esso
porta in sé dell'autenticità e della totalità». La «determinazione
dell'autentico poter-essere-un-tutto da parte dell'esserci» porterà
l'analitica esistenziale ad assicurarsi «della costituzione dell'essere
originario dell'esserci». La via per giungere a tale determinazione sarà
proprio indicata - secondo Heidegger- dal risultato conclusivo della sezione
precedente: «Ma il poter-essere-un-tutto autentico si rivela come un modo
della cura. Con ciò è quindi... assicurato il campo fenomenico genuino per un'interpretazione
originaria dell'essere dell'esserci» Analizzando questo campo fenomenico
genuino, il nostro autore potrà finalmente « dimostrare » la tesi più
caratterizzante di tutta la sua indagine: cioè che il senso dell'essere
dell'esserci è costituito dalla temporalità.
Per renderci conto della complessa « dimostrazione »
heideggeriana, conviene prendere le mosse dalle pagine dedicate al problema
della morte. Il momento primario della cura è, secondo il nostro autore,
l'avanti-a-sé. Orbene questo significa che «l'esserci esiste sempre in vista di
se stesso. Fin che esso è, fino alla sua fine, esso si rapporta al proprio
poter-essere... Questo momento della struttura della cura sta
inequivocabilmente a significare che nell'esserci c'è sempre ancora qualcosa
che manca». Solo con la morte esso raggiunge la piena totalità del suo essere
(ave più nulla manca), ma in quel medesimo istante cessa di essere «esperibile
come ente»: « L'eliminazione della mancanza di essere importa l'annichilimento
del suo essere. Fin che l'esserci è come ente, non ha raggiunto la propria
totalità; ma una volta che l'abbia raggiunta, tale raggiungimento comporta la
perdita assoluta dell'essere-nel-mondo.» Di qui il carattere profondamente
problematico della pre-disponibilità poco sopra accennata (ossia del
rapportarsi dell'essere al proprio poter-essere). In tale quadro «la morte si
rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile»
dell'esserci. «Come tale è un'imminenza sovrastante specifica. La sua possibilità
esistenziale si fonda sul fatto che l'esserci è in se stesso essenzialmente
aperto e lo è nel modo dell'avanti-a-sé. Questo momento della struttura della
cura ha la sua concrezione più originaria nell'essere-per-la-morte (Sein zum
Tode).»
Il rapporto costante dell'esserci con la possibilità della
morte può assumere due forme: una (inautentica) che è la fuga di fronte ad
essa; l'altra (autentica) che è l'anticipazione della sua possibilità. «Nell
'anticipazione della morte, indeterminatamente certa, l'esserci si apre a una
minaccia continua proveniente dal suo stesso ci.» La situazione emotiva che
l'accompagna è l'angoscia, non la paura. Concludendo, l'anticipazione della
morte pone l'esserci innanzi alla possibilità di essere se stesso in una libertà
appassionata, affrancata dalle illusioni, piena di angoscia: è la « libertà per
la morte ».
L'anticipazione della possibilità della morte ci fornirà
infine lo strumento per passare dalla determinazione dell'esserci come «poter-essere-un-tutto-autentico» alla «estensione fenomenica della
temporalità». A tal fine si richiede una complessa analisi della suddetta
anticipazione, considerata come la più propria delle situazioni dell'esserci.
Questa analisi ci porta a determinare in modo via via più profondo il «senso
della cura», facendoci infine scoprire che «l'unità originaria della struttura
della cura è costituita dalla temporalità».
Ancora una volta bisogna riconoscere che l'elaborata
argomentazione di Heidegger è ricca di osservazioni molto fini e penetranti (in
riferimento, per esempio, ai termini « avvenire », « passato », « presente »
ecc.); ma l 'impianto generale dell'indagine resta ciò malgrado inaccettabile
per i motivi cui poco sopra accennammo, cioè per la pretesa di fare
dell'analisi fenomenologica qualcosa che anteceda - in via di diritto -
qualunque analisi scientifica, onde questa dovrà fondarsi sui risultati di
quella, mentre quella non potrà in alcun modo avvalersi dei risultati di
questa. Estremamente significativa a tal proposito è l'affermazione che
l'analisi dell'esserci tende a mostrare, non già che questo è temporale perché
sta nella storia, ma che «al contrario, esiste e può esistere storicamente
soltanto perché è temporale nel fondamento del suo essere».
Se nelle due sezioni effettivamente pubblicate Heidegger
riuscì in qualche modo a tradurre in vocaboli il proprio pensiero (sia pure
dovendo all'uopo introdurre vocaboli artificiosi ed estremamente complessi),
ciò dipende dal fatto che l'esserci di cui si occupava in tali sezioni era pur
sempre qualcosa di concreto, sicché l'invenzione di nuove espressioni poteva
venirgli suggerita da varie discipline particolari (in realtà da lui tutt'altro
che trascurate). Ma che cosa sarebbe accaduto nella terza sezione,
programmaticamente diretta a indagare non più «l'essere nell'esserci» ma
l'essere nella sua più astratta generalità?
Lo stesso Heidegger spiegò la mancata pubblicazione della
terza sezione, facendo presente la profondità della svolta da essa
rappresentata rispetto alla seconda: «Qui tutto doveva capovolgersi. Ma la
sezione non venne stesa perché il pensiero fallì quando si trattò di dire
adeguatamente questa svolta; il linguaggio della metafisica non poteva servire.» A questo punto non possiamo che riferire il seguente commento di Pietro
Chiodi, che ci sembra assai illuminante: «Dunque la terza sezione non è stata
scritta perché non poteva essere scritta: non poteva essere scritta perché la
"svolta" implicava una "rivoluzione" nei confronti del
linguaggio, consistente nel silenzio.»
V. LA
METAFISICA DI HEIDEGGER
Le parole riferite alla fine del paragrafo precedente ci
inducono a richiamare l'attenzione del lettore sul problema, già più volte
accennato, del rapporto tra la filosofia delineata in Sein und Zeit e quella che
Heidegger espone nelle opere successive (in particolare negli scritti
posteriori al 1927). Poiché in queste ultime è abbozzata una vera e propria
metafisica - incentrantesi sul tema della « verità dell'essere »- si tratta di
discutere se vi sia continuità o discontinuità tra la fase
fenomenologico-esistenziale e la fase metafisica del nostro autore.
I pareri sull'argomento sono assai discordi. Già il brano
citato di Pietro Chiodi ci mostra ad esempio, pur nella sua brevità, che egli
tende a vedere una vera e propria frattura nello sviluppo delle concezioni
heideggeriane a partire dal 1927; altri invece sostengono la tesi opposta,
confortati in ciò da una dichiarazione dello stesso Heidegger il quale scrisse
(nell'introduzione premessa a Was ist Metaphysik? nella v edizione del 1949)
che «senso dell'essere e verità dell'essere esprimono la medesima cosa». Qui non possiamo addentrarci, per ovvi limiti di spazio, nei dettagli
di un dibattito, ove intervengono fra l'altro delicati problemi di interpretazione
dei testi. La sola cosa che ci preme di porre in luce è che la filosofia di
Heidegger ha trovato la propria conclusione in una pesante metafisica, di
carattere sostanzialmente neo-platonico, estranea alle più vive esigenze del
pensiero moderno ... Non ci sembra, comunque, che la tesi della continuità vada
respinta come assolutamente infondata, perché riteniamo che già nell'opera
esaminata nel paragrafo precedente emergano alcuni orientamenti del tutto
incompatibili con un'interpretazione oggi accettabile dei problemi filosofici.
Uno degli anelli che stabiliscono un certo collegamento fra
le due fasi del pensiero heideggeriano può venire cercato nel tema del nulla.
Come si è visto, questo tema occupa una posizione di primaria importanza
nell'opera Sein und Zeit: la morte -vi è detto- nullifica l'esserci, eppure
questo non realizza in modo completo la propria totalità se non nel momento in
cui viene nullificato dalla morte; l'esserci può essere autentico solo se è in
grado di vivere la propria morte (cioè il proprio annullamento) nella forma
dell'anticipazione; l'angoscia è la situazione emotiva che accompagna la nostra
autenticità, perché ci fa sentire la nullità di tutte le cose, e così via.
Orbene il medesimo tema sta anche al centro delle indagini heideggeriane sulla
metafisica, a partire dalla lezione Che cosa è la metafisica? del 1929.
A voler essere più precisi, si può dire che la vera ragione
per cui Heidegger ha sollevato tante contestazioni contro la logica fino a
rifiutarla, è perché essa non si rivela in grado di comprendere il nulla. « Il
nulla, » scrive nella lezione testé citata, «è negazione della totalità
dell'essente»; come tale, esso coinvolge la totalità («l'intero») e proprio
perciò non può venire compreso dall'intelletto, non potendo essere rinchiuso in
determinazioni concettuali. Può tuttavia venire colto per un 'altra via, cioè
emotivamente; il sentimento che ce lo fa intravvedere è appunto l'angoscia.
Il rifiuto della logica comporterà pure il rifiuto della
metafisica? Heidegger risponde decisamente di sì, per lo meno in quanto questa
intenda presentarsi come fondata sulla logica (proprio così la concepirono i
metafisici classici). Ciò non significa però - sempre secondo il nostro autore
- che il nulla non coinvolga problemi metafisici.
Abbiamo detto che l'angoscia ci fa sentire (ci fa
intravvedere) il nulla; ma questo non significa che ce lo faccia comprendere.
L'esigenza di una comprensione effettiva, radicale, di esso resta dunque
insoddisfatta. Orbene, poiché il nulla - come testé ricordammo- implica la
totalità, l'esigenza di comprenderlo deve spingerei necessariamente verso la
metafisica (che, sola, argomenta intorno alla totalità). Heidegger può pertanto
concludere: « Il problema intorno al nulla deve condurci innanzi alla
metafisica stessa. »
Che cosa significa affermare che il problema del nulla ci
conduce innanzi alla metafisica, e dire nel contempo che questa non è in grado
di risolverlo? Significa semplicemente sostenere che la metafisica - così come
essa è - va superata. Proprio questo tema del « superamento della metafisica» è
uno dei motivi centrali della metafisica heideggeriana o, se vogliamo, della
sua ontologia.
Il nostro autore giunge a qualificare il nulla come «il velo
dell'essere», e con ciò lascia intendere che, per risolvere il problema
antologico (problema-guida anche per Sein und Zeit), occorrerà necessariamente
passare attraverso l'indagine intorno al nulla, per riuscire a vedere
quell'essere che è sì coperto ma non interamente nascosto da esso (proprio
perché si tratta soltanto di un velo).
Quale sarà lo strumento capace di farci compiere quest'opera
di « disvelamento »? I lavori scritti da Heidegger nella seconda fase del suo
itinerario filosofico sono appunto rivolti a indicarci il solo strumento che
egli ritiene idoneo allo scopo. Questo non potrà più consistere nell'analisi
esistenziale dell'esserci intrapresa nel volume del I 927; consisterà invece
in una «nuova logica» di carattere mistico e poetico.
Tale nuova logica non ci conduce a oggettivare o a rappresentare
l'essere, ma ce lo fa approssimare; ce ne fa cogliere la trascendenza, nel
momento stesso in cui traluce nell'esistenza. Così comprendiamo che esso è «la
verità», di fronte alla quale tutti gli enti (incluso l'esserci) sono un nulla.
A partire dall'essere - spiega molto bene Italo Mancini - «pure il nulla va
inteso nel senso di nullità dell'ente; nullità resa acuta non tanto dal sentire
nell'angoscia, quanto piuttosto dal vedere l'ente nella luce dell'essere».
Non è il caso di esaminare i tentativi compiuti da Heidegger
per chiarire in qualche modo questo «tralucere» dell'essere; basti ricordare
che, secondo lui, è soprattutto nel linguaggio che l'essere traluce all'uomo
(nel linguaggio mistico, poetico, non ovviamente in quello della logica dell'intelletto).
Trattasi comunque di tentativi che si imbattono in difficoltà insuperabili,
sempre incontrate del resto da tutti i mistici che cercarono di conciliare
l'affermazione di un essere assolutamente trascendente con l'affermazione della
sua conoscibilità.
Alcuni studiosi moderni hanno voluto allineare l'«ontologia
mistica» di Heidegger sulla problematica di Schopenhauer, ma Heidegger ha
respinto sdegnosamente questa interpretazione. Può anche darsi che abbia
ragione qualora si voglia intendere alla lettera tale allineamento; resta
comunque certo che - sulla scia o no di Schopenhauer- egli è rientrato con i
suoi ultimi scritti nell'alveo secolare della mistica tedesca, e proprio perciò
non dice più alcunché al vero e proprio studioso di filosofia. Può essere
opportuno riferire,· in proposito, un limpido commento di Norberto Bobbio che,
pur se scritto nel lontano 1948, conserva ancor oggi immutata- a nostro parere
-la sua piena validità: «Questa strada lo avvia verso una meta così fuor dal
comune modo di pensare e di comunicare i propri pensieri che non mi par lecito
continuare a parlare nei suoi riguardi di filosofia ... ; verso una
problematica di cui mi sembra difficile per ora tentare un'interpretazione (se
non in termini puramente psicologici), tanto è ardita e gratuita- arditamente
gratuita - la impostazione dei termini del problema, tanto è prezioso,
stravagante, capriccioso il linguaggio che si vale sempre più di metafore e di
immagini corpose, tanto diventa incerto ... il confine tra l'istanza della
spiegazione razionale e il suggerimento poetico, e si palesa equivoco il nesso
tra l'allusività poetica (indubbiamente cercata e voluta) del linguaggio
metafisica e l'evidenza metafisica del linguaggio poetico.»
Prima di chiudere il paragrafo vorremmo dare un cenno
all'analisi critica dello scritto Was ist Metap~ysik? compiuta nel 1932 da
Rudolf Carnap (del quale si parlerà a lungo nel capitolo IX) in un famoso
articolo dal titolo Ueberwindung der Metaphysik durch logische Analyse der
Sprache (Superamento della metafisica mediante l'analisi logica de/linguaggio).
Esso potrebbe costituire una prova del fatto che, pur senza avere ancora rotto
con la filosofia, già nel 1929 Heidegger si era avviato per una strada assai
pericolosa, sorda a qualsiasi esigenza di rigore.
Carnap estrae dal testo di Heidegger quattro proposizioni (o
coppie di proposizioni, formate da una domanda e da una risposta), collocando
poi accanto a ciascuna di esse una proposizione (o coppia di proposizioni) di
forma analoga ricavata dal linguaggio comune e, dove possibile, una terza di
forma logicamente corretta costruita in modo da dire la stessa cosa della
proposizione (o coppia di proposizioni) considerata.
Ci limiteremo per brevità a riportarne due, atte a
esemplificare i due tipi esaminati dal nostro autore.
I) Che c'è fuori? fuori c'è nulla.
I bis) Che c'è fuori? fuori c'è pioggia.
Iter) Che c'è fuori? non esiste qualcosa che sia fuori.
2) Come sta la cosa con questo nulla?
2bis) Come sta la cosa con questa pioggia?
Non è possibile costruire una 2ter).
La I), ovviamente ricavata per analogia dalla I bis), non
corrisponde, secondo Carnap, «alle esigenze proprie di una lingua logicamente
corretta»; «essa è tuttavia dotata di senso, essendo possibile tradurla in un
linguaggio logicamente corretto» come è provato dalla Iter).
La 2) è ricavata per analogia dalla 2bis), la quale ha nella
lingua usuale un significato ben determinato (significa infatti: che cosa fa
questa pioggia?); tuttavia la 2) non è dotata di senso, essendo impossibile
costruire una proposizione di forma logicamente corretta, che risulti
equivalente ad essa.
È proprio l'analogia della 2) con la 2bis) che trae in
inganno Heidegger, il quale ritiene che, avendo un senso quest'ultima, debba
avere un senso anche quell'altra. L'inganno deriva, secondo Carnap, dalla
manchevolezza della lingua usuale: manchevolezza consistente nel fatto che tale
lingua «consente identità di forma grammaticale fra successioni di parole
dotate di senso e successioni di parole prive di senso». Ed aggiunge per
maggiore precisione: la formazione della 2) «si fonda semplicemente sull'errore
per cui la parola "nulla" viene usata come un nome, mentre nella
lingua usuale essa è impiegata in questa forma solo per formulare una proposizione
esistenziale negativa», come è appunto la Iter).
Ma Carnap non si nasconde che proprio lo stesso testo in
esame esibisce una risposta alle obiezioni testé sollevate. Heidegger riconosce
infatti che «domanda e risposta riguardanti il nulla sono, allo stesso modo,
in sé assurde ... la logica in generale sopprime questa domanda», rispondendo
subito tuttavia che ciò dimostra soltanto l'incapacità della logica a trattare
questioni del genere e ricavandone poi che, proprio a causa di questa
incapacità, la logica perde l'egemonia finora posseduta ali 'interno della
filosofia: «La stessa idea della " logica " si dissolve nel vortice
di un interrogativo più originario.» Orbene potremmo dire che la risposta ora
riferita di Heidegger soddisfa in certo senso anche Carnap; solo che egli ne
ricava una conclusione antitetica a quella del filosofo esistenzialista.
La conclusione di Carnap si può così riassumere: è vero che
la metafisica risulta incompatibile con la logica, ma ciò non dimostra l'insufficienza della logica, bensì l'inconsistenza della metafisica! E l'ultima
fase del pensiero heideggeriano potrebbe proprio venire addotta a conferma di
tale inconsistenza.
È interessante notare che, nello scritto citato, Carnap
prende in considerazione anche un altro possibile modo di ribattere la propria
obiezione. In sintesi questo nuovo modo afferma quanto segue: chi ci assicura
che le risposte fornite dal metafisica a un quesito del tipo 2), pur non avendo
senso per noi, possano comunque valere come «supposizioni circa le risposte
che un essere superiore per capacità conoscitive darebbe alle nostre domande?»
La via seguita da Carnap per replicare anche a quest'ultima riserva è
estremamente significativa, e rivela una fiducia nella logica pari soltanto
alla fiducia che Galileo aveva nella matematica1. Ecco le sue parole: «Se non
è possibile specificare il significato di una parola, o se la successione di
parole non è formata secondo le regole della sintassi, allora non ci troviamo
neppure di fronte a una domanda ... Dove non sussiste domanda alcuna, nemmeno
un essere onnisciente può dare una risposta ... Pertanto un altro essere -- non
fa differenza se egli ne sappia di più o di meno di noi, o sia onnisciente -
non può che accrescere la nostra conoscenza, essendo escluso che vi possa
aggiungere una conoscenza che per principio sia di nuova specie. Ciò che per
noi è incerto, può diventare più certo con l'aiuto di un altro; ma ciò che per
noi è incomprensibile, senza senso, non può diventare affatto sensato con
l'aiuto di un altro, per quanto egli ne possa sapere. Quindi non c'è dio, né diavolo, che possa procurarci una conoscenza metafisica.»
Si potrebbero muovere a Carnap varie obiezioni: per esempio
gli si potrebbe obiettare di avere estrapolato senza diritto dalla metafisica
di Heidegger a tutta la metafisica, dimenticando che certe concezioni
metafisiche- calate nella situazione storica in cui sorsero- risultano
tutt'altro che vuote di senso (tanto che esercitarono una funzione della
massima importanza per lo sviluppo della cultura). Ma non è questo il momento
di esprimere un'approfondita valutazione delle critiche sollevate da Carnap,
discutendo i limiti della sua pretesa di superare la metafisica con una
semplice analisi logica del linguaggio. Ciò che ci interessa sottolineare è,
invece, la perspicacia con cui il celebre neo-positivista comprese fin dal 1932
la pericolosità di una posizione come quella di Heidegger nei confronti della
logica e del pensiero scientifico.
Integrando la critica di Carnap, ci sembra doveroso
aggiungere che è ben giusto porre in guardia lo studioso contro i pericoli di
dogmatismo insiti nelle discipline scientifiche e in generale in tutte le
costruzioni del nostro intelletto; ma lo si dovrà fare soltanto per
approfondire le nostre esigenze di rigore, non per dissolvere la logica. La
strada invece, per cui si avviarono Heidegger e pressoché tutti gli
esistenzialisti, comportava proprio la dissoluzione della logica. Non v'è
dunque da stupirsi se li condusse, prima o poi, a compiere discorsi gratuiti,
stravaganti, capricciosi, culturalmente (e spesso non solo culturalmente)
reazionari.
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1 Ci riferiamo qui alla distinzione compiuta dallo
scienziato pisano fra l'intendere extensive ed intensive. Quanto al primo, egli
riconosce senza difficoltà che l'intendere umano è incomparabilmente inferiore
a quello divino che sa infinite cose più di noi; ma in quanto al secondo, la
situazione è del tutto diversa, poiché di alcune cose l'intelletto umano « ne
ha così assoluta certezza, quanto se n'abbia la stessa natura». E aggiunge a
titolo d'esempio: «Tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e
l'aritmetica, delle quali l'intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni
di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall'intelletto umano
credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché
arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser
sicurezza maggiore » (Dialogo, giornata 1)
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