venerdì 16 settembre 2016

Su HEIDEGGER*

*Da:    Ludovico Geymonat, Storia del pensiero scientifico e filosofico, Vol. 7, Sez. Nona, Le grandi correnti filosofiche, Cap.7, L'esistenzialismo,§ IV-V, p.p.153-164.  


Per un ulteriore approfondimento del pensiero heideggeriano proponiamo una lettura "critica" di notevole interesse... (c.f.m. Stefano Garroni)             


 IV.   HEIDEGGER: « ESSERE E TEMPO»

L'opera Sein und Zeit, erste Halfte costituisce senza dubbio una delle tappe più importanti dell'itinerario filosofico di Martin Heidegger. Quando nel 1926 terminò di scriverla era ancora vivamente legato a Husserl, tanto che - come già ricordammo - la dedicò proprio a lui («con ammirazione e amicizia») e, come sede per la pubblicazione, scelse per l'appunto l'husserliano «Jahrbuch fiir Philosophie und phanomenologìsche Forschung» («Annali dì filosofia e ricerca fenomenologica»). Tuttavia l'anno stesso in cui l'opera uscì, cioè il 1927, segnò l'inizio della ben nota rottura fra i due autori, e da quel momento in poi Heidegger proseguì le proprie ricerche filosofiche in modo del tutto indipendente dal maestro, onde è sorto il problema (a cui si è già fatto cenno nel paragrafo II) se tale data rappresenti o no una vera e propria svolta del pensiero heideggeriano. Questo breve richiamo intende chiarire il motivo per cui abbiamo deciso di suddividere in due parti la nostra schematìca esposizione dell'esistenzialismo di Heidegger, dedicando il presente paragrafo a Sein und Zeit e il prossimo ad enucleare -- dai molti scritti successivi -- alcuni ben determinati temi che posseggono un particolare interesse dal nostro specifico punto di vista.

Dallo schema dell'opera (contenuto nell'introduzione) si ricava che essa doveva risultare suddivisa in due parti: la prima di carattere prettamente teoretico, la seconda essenzialmente storico-critico. Ciascuna di esse si sarebbe dovuta articolare in tre sezioni, rispettivamente dedicate ai seguenti problemi: «L'analisi fondamentale dell'esserci nel suo momento preparatorio, esserci e temporalità, tempo ed essere» (1 parte), «La dottrina kantiana dello schematismo e del tempo come avviamento alla problematica della " temporalità ", il fondamento antologico del" cogito ergo sum" di Cartesio e l'assunzione dell'ontologia medioevale nella problematica della"res cogitans", la trattazione aristotelica del tempo come discrimine della base fenomenica e dei limiti dell'ontologia antica» (2 parte). [ Per questa e per le altre citazioni, ci valiamo dell'ottima traduzione dell'opera, curata da Pietro Chiodi (Torino 1969)]. La cosiddetta «prima metà» dell'opera, cioè l'unica effettivamente pubblicata, non include l'intera prima parte, ma soltanto le due prime sezioni di essa.

Volendo che il lettore si faccia un 'idea abbastanza esatta della complessa trattazione, riteniamo opportuno premettere un rapido riassunto dell'introduzione in cui ne sono tratteggiati, a grandi linee, gli argomenti generali.

Questa inizia con l'aperta dichiarazione che il problema centrale di tutta l'indagine è «il problema del senso dell'essere», oggi dimenticato e ciononpertanto basilare per ogni scienza. Trattasi dunque di un'opera di ontologia, che non teme di proclamarsi tale malgrado l'impopolarità del nome.

Premesso che il concetto di essere, pur essendo« il più generale dei concetti», è tutt'altro che ovvio come la gente ritiene («anzi è il più oscuro di tutti»), Heidegger affronta subito l'obiezione pregiudiziale che suol venire sollevata contro il tentativo di farne il centro di una seria ricerca filosofica. L'obiezione si esprime nella ben nota domanda: donde si dovrà partire affinché una spiegazione del « senso dell'essere » non implichi un circolo vizioso? La risposta è quanto mai precisa: dovremo partire dalla «adeguata esposizione preliminare di un ente nei riguardi del suo essere». Ma quale sarà l'ente di cui dovremo fornire questa adeguata esposizione preliminare? in altri termini: quale potrà essere «l'ente esemplare che deve fungere da interrogato primario nel problema dell'essere?».

Con una serie di considerazioni che per evidenti limiti di spazio non possiamo riferire, Heidegger dimostra (o meglio ritiene di dimostrare) che questo «ente esemplare» non possa essere altro che l'esserci (Dasein), ove con tale termine va inteso «l'ente che noi stessi sempre siamo» (cioè l'uomo). Comunque, il motivo fondamentale addotto a favore di questo «primato» dell'esserci è che fra le sue «determinazioni d'essere» vi è proprio la «comprensione dell'essere», e cioè il fatto che esso risulta tale che «essendo, comprende e interpreta l'essere».

Per interrogare l'esserci sarà necessaria una speciale indagine sulla «possibilità che gli è propria di essere o non essere se stesso» e cioè - nella terminologia heideggeriana -· sulla sua esiste(n)za. Tale indagine dovrà condurci a comprendere il «senso dell'essere» di quell'ente esemplare che chiamiamo esserci, e questo ci permetterà infine di risolvere il problema che ci eravamo proposti, cioè il problema del « senso dell'essere » in generale.

La prima tesi che il nostro autore si propone di « dimostrare » è che il senso dell'esserci è costituito dalla « temporalità ». Sulla base di questo risultato («temporalità quale essere dell'esserci») si tratterà poi di giungere a «un'esplicazione originaria del tempo come orizzonte della comprensione dell'essere». Insomma è «nel fenomeno del tempo, rettamente inteso e rettamente esplicitato» che si radica - secondo Heidegger - «la problematica centrale di ogni ontologia» (il che vale, come è ovvio, a chiarire e giustificare il titolo dell'opera).

Per condurre l'indagine in esame, egli dichiara esplicitamente di volersi avvalere del metodo fenomenologico husserliano. E per spiegare in che consista la fenomenologia, scrive: «Scienza dei fenomeni significa: un afferramento dei propri oggetti tale che tutto ciò che intorno ad essi è in discussione sia mostrato e dimostrato direttamente.» Aggiunge poi, al fine di togliere ogni possibilità di equivoco: «Dietro i fenomeni della fenomenologia non si trova assolutamente nulla a meno che non vi si celi qualcosa destinato a divenire fenomeno.»

Né si tratta - secondo Heidegger - di un metodo che si applichi per così dire dall'esterno alla ricerca antologica; questa infatti, a suo parere, non può essere perseguita con alcun altro metodo sicché viene, in ultima istanza, a fare tutt'uno con esso. «L'ontologia e la fenomenologia non sono due diverse discipline che fanno parte della filosofia assieme ad altre. I due termini denotano entrambi la filosofia, nel suo oggetto e nel suo procedimento. La filosofia è ontologia universale e fenomenologica.»

Abbiamo espressamente abbondato in citazioni, per dare modo al lettore di farsi un'idea diretta dello stile di Heidegger. È senza dubbio uno stile che per la sua astrattezza e oscurità può suscitare un certo fastidio in chi non vi sia abituato, tanto più quando si cerchi di conciliarlo con il proposito ripetutamente dichiarato dal nostro autore di voler andare «verso le cose stesse». Per trovargli una giustificazione, basta tuttavia tenere conto del grave pericolo - cui va fatalmente incontro un'indagine fenomenologica sull'uomo - di scivolare nell'antropologia, nella psicologia e nella biologia: è la preoccupazione di evitare uno scivolamento siffatto ciò che induce Heidegger a compiere i più ardui sforzi (anche stilistici) per differenziare la propria ricerca da quella delle scienze testé elencate. «L'analisi esistenziale dell'esserci,» ripete più volte, «precede ogni psicologia, ogni antropologia, e soprattutto ogni biologia.» Proprio per non aver tenuto conto di questo precedere - egli pensa - le indagini finora condotte intorno all'esserci «hanno fallito l'autentico problema filosofico», e fin quando persistono in questo errore non potranno mai, in linea generale, «pretendere di raggiungere ciò a cui in effetti mirano».  

La vera obiezione che si può, a nostro parere, sollevare contro Heidegger, non riguarda lo stile ma qualcosa di assai più profondo: riguarda il problema se la ricerca filosofica debba effettivamente precedere le ricerche «scientifiche» (nel caso in esame quelle di psicologia, antropologia ecc.), il che la costringe per coerenza a non tenere alcun conto dei loro risultati. Una volta concessa questa ipotesi, non si può fare a meno di concedere anche il ricorso a espressioni estremamente artificiose (e perciò oscure) che avrebbero comunque il pregio di non risultare compromesse da tali ricerche. Ma su questo problema ritorneremo nel seguito del capitolo.

Ciò premesso, cercheremo ora di essere molto brevi nell'indicare il contenuto delle due sezioni.

La prima si propone di enucleare le strutture originarie dell'esserci. A questo fine Heidegger comincia ad osservare che tutte le determinazioni d'essere dell' esserci «debbono essere viste ed intese a priori sul fondamento di quella costituzione d'essere che noi indichiamo col nome di essere-nel-mondo»; l'impostazione esatta dell'analitica dell'esserci dovrà dunque basarsi «sull'interpretazione di questa costituzione».

Il nostro autore non ha dubbi che tale costituzione si riferisca a un «fenomeno unitario»; ciò non esclude tuttavia che esso risulti complesso e che gli elementi eterogenei insolubili dei quali è composto possano e debbano formare l'oggetto di uno studio specifico. Orbene i «componenti strutturali del reperto fenomenico indicato» sono- a suo parere- tre: 1) Il «nel mondo», 2) L'ente che è sempre «nel modo dell'essere-nel-mondo», 3) «L'in-essere come tale». Heidegger li esaminerà ad uno ad uno chiarendo con acume le rispettive strutture, dopo avere premesso però che «la considerazione di ognuno di questi elementi implica, nello stesso tempo, la considerazione di tutti gli altri, cioè la visione dell'intero fenomeno».

I risultati raggiunti in questo lungo e dettagliato esame, per quanto discutibili, rivelano in genere una notevole finezza di penetrazione. Uno dei più discutibili è che la « situazione emotiva » sarebbe « propria in via essenziale dell'esserci »; è da questa tesi che deriva l'importanza attribuita da Heidegger- d'accordo in ciò con Scheler - allo studio della vita emotiva per cogliere l'effettivo essere della persona umana. Fra le descrizioni più penetranti ricordiamo: quella della banalità quotidiana contrapposta all'autenticità, quella dell'angoscia acutamente distinta dalla paura ecc. La conclusione a cui Heidegger perviene è che la totalità unitaria delle strutture fondamentali dell'esserci risulta globalmente espressa dal termine cura (Sorge), ove questo termine viene da lui usato a designare un fenomeno « ontologicamente anteriore » ai singoli atti particolari o tendenze («come il volere, il desiderare, l'impulso o l'inclinazione») solitamente confusi con esso. Si noti che non avrebbe senso chiedere una definizione rigorosa del « fenomeno della cura »; proprio perché è un fenomeno, esso può venire soltanto descritto, elaborato, precisato in rapporto ad altri fenomeni. Il nostro autore è comunque convinto che l'elaborazione che egli ce ne fornisce ci permetta di «gettare lo sguardo sulla costituzione concreta dell'esistenza».

La seconda sezione si propone quale primo compito di «porre esistenzialmente in luce l'essere dell'esserci quanto alle possibilità che esso porta in sé dell'autenticità e della totalità». La «determinazione dell'autentico poter-essere-un-tutto da parte dell'esserci» porterà l'analitica esistenziale ad assicurarsi «della costituzione dell'essere originario dell'esserci». La via per giungere a tale determinazione sarà proprio indicata - secondo Heidegger- dal risultato conclusivo della sezione precedente: «Ma il poter-essere-un-tutto autentico si rivela come un modo della cura. Con ciò è quindi... assicurato il campo fenomenico genuino per un'interpretazione originaria dell'essere dell'esserci» Analizzando questo campo fenomenico genuino, il nostro autore potrà finalmente « dimostrare » la tesi più caratterizzante di tutta la sua indagine: cioè che il senso dell'essere dell'esserci è costituito dalla temporalità.

Per renderci conto della complessa « dimostrazione » heideggeriana, conviene prendere le mosse dalle pagine dedicate al problema della morte. Il momento primario della cura è, secondo il nostro autore, l'avanti-a-sé. Orbene questo significa che «l'esserci esiste sempre in vista di se stesso. Fin che esso è, fino alla sua fine, esso si rapporta al proprio poter-essere... Questo momento della struttura della cura sta inequivocabilmente a significare che nell'esserci c'è sempre ancora qualcosa che manca». Solo con la morte esso raggiunge la piena totalità del suo essere (ave più nulla manca), ma in quel medesimo istante cessa di essere «esperibile come ente»: « L'eliminazione della mancanza di essere importa l'annichilimento del suo essere. Fin che l'esserci è come ente, non ha raggiunto la propria totalità; ma una volta che l'abbia raggiunta, tale raggiungimento comporta la perdita assoluta dell'essere-nel-mondo.» Di qui il carattere profondamente problematico della pre-disponibilità poco sopra accennata (ossia del rapportarsi dell'essere al proprio poter-essere). In tale quadro «la morte si rivela come la possibilità più propria, incondizionata e insuperabile» dell'esserci. «Come tale è un'imminenza sovrastante specifica. La sua possibilità esistenziale si fonda sul fatto che l'esserci è in se stesso essenzialmente aperto e lo è nel modo dell'avanti-a-sé. Questo momento della struttura della cura ha la sua concrezione più originaria nell'essere-per-la-morte (Sein zum Tode).»

Il rapporto costante dell'esserci con la possibilità della morte può assumere due forme: una (inautentica) che è la fuga di fronte ad essa; l'altra (autentica) che è l'anticipazione della sua possibilità. «Nell 'anticipazione della morte, indeterminatamente certa, l'esserci si apre a una minaccia continua proveniente dal suo stesso ci.» La situazione emotiva che l'accompagna è l'angoscia, non la paura. Concludendo, l'anticipazione della morte pone l'esserci innanzi alla possibilità di essere se stesso in una libertà appassionata, affrancata dalle illusioni, piena di angoscia: è la « libertà per la morte ».

L'anticipazione della possibilità della morte ci fornirà infine lo strumento per passare dalla determinazione dell'esserci come «poter-essere-un-tutto-autentico» alla «estensione fenomenica della temporalità». A tal fine si richiede una complessa analisi della suddetta anticipazione, considerata come la più propria delle situazioni dell'esserci. Questa analisi ci porta a determinare in modo via via più profondo il «senso della cura», facendoci infine scoprire che «l'unità originaria della struttura della cura è costituita dalla temporalità».

Ancora una volta bisogna riconoscere che l'elaborata argomentazione di Heidegger è ricca di osservazioni molto fini e penetranti (in riferimento, per esempio, ai termini « avvenire », « passato », « presente » ecc.); ma l 'impianto generale dell'indagine resta ciò malgrado inaccettabile per i motivi cui poco sopra accennammo, cioè per la pretesa di fare dell'analisi fenomenologica qualcosa che anteceda - in via di diritto - qualunque analisi scientifica, onde questa dovrà fondarsi sui risultati di quella, mentre quella non potrà in alcun modo avvalersi dei risultati di questa. Estremamente significativa a tal proposito è l'affermazione che l'analisi dell'esserci tende a mostrare, non già che questo è temporale perché sta nella storia, ma che «al contrario, esiste e può esistere storicamente soltanto perché è temporale nel fondamento del suo essere».

Se nelle due sezioni effettivamente pubblicate Heidegger riuscì in qualche modo a tradurre in vocaboli il proprio pensiero (sia pure dovendo all'uopo introdurre vocaboli artificiosi ed estremamente complessi), ciò dipende dal fatto che l'esserci di cui si occupava in tali sezioni era pur sempre qualcosa di concreto, sicché l'invenzione di nuove espressioni poteva venirgli suggerita da varie discipline particolari (in realtà da lui tutt'altro che trascurate). Ma che cosa sarebbe accaduto nella terza sezione, programmaticamente diretta a indagare non più «l'essere nell'esserci» ma l'essere nella sua più astratta generalità?

Lo stesso Heidegger spiegò la mancata pubblicazione della terza sezione, facendo presente la profondità della svolta da essa rappresentata rispetto alla seconda: «Qui tutto doveva capovolgersi. Ma la sezione non venne stesa perché il pensiero fallì quando si trattò di dire adeguatamente questa svolta; il linguaggio della metafisica non poteva servire.» A questo punto non possiamo che riferire il seguente commento di Pietro Chiodi, che ci sembra assai illuminante: «Dunque la terza sezione non è stata scritta perché non poteva essere scritta: non poteva essere scritta perché la "svolta" implicava una "rivoluzione" nei confronti del linguaggio, consistente nel silenzio.»

 V.   LA METAFISICA DI HEIDEGGER

Le parole riferite alla fine del paragrafo precedente ci inducono a richiamare l'attenzione del lettore sul problema, già più volte accennato, del rapporto tra la filosofia delineata in Sein und Zeit e quella che Heidegger espone nelle opere successive (in particolare negli scritti posteriori al 1927). Poiché in queste ultime è abbozzata una vera e propria metafisica - incentrantesi sul tema della « verità dell'essere »- si tratta di discutere se vi sia continuità o discontinuità tra la fase fenomenologico-esistenziale e la fase metafisica del nostro autore.

I pareri sull'argomento sono assai discordi. Già il brano citato di Pietro Chiodi ci mostra ad esempio, pur nella sua brevità, che egli tende a vedere una vera e propria frattura nello sviluppo delle concezioni heideggeriane a partire dal 1927; altri invece sostengono la tesi opposta, confortati in ciò da una dichiarazione dello stesso Heidegger il quale scrisse (nell'introduzione premessa a Was ist Metaphysik? nella v edizione del 1949) che «senso dell'essere e verità dell'essere esprimono la medesima cosa». Qui non possiamo addentrarci, per ovvi limiti di spazio, nei dettagli di un dibattito, ove intervengono fra l'altro delicati problemi di interpretazione dei testi. La sola cosa che ci preme di porre in luce è che la filosofia di Heidegger ha trovato la propria conclusione in una pesante metafisica, di carattere sostanzialmente neo-platonico, estranea alle più vive esigenze del pensiero moderno ... Non ci sembra, comunque, che la tesi della continuità vada respinta come assolutamente infondata, perché riteniamo che già nell'opera esaminata nel paragrafo precedente emergano alcuni orientamenti del tutto incompatibili con un'interpretazione oggi accettabile dei problemi filosofici.

Uno degli anelli che stabiliscono un certo collegamento fra le due fasi del pensiero heideggeriano può venire cercato nel tema del nulla. Come si è visto, questo tema occupa una posizione di primaria importanza nell'opera Sein und Zeit: la morte -vi è detto- nullifica l'esserci, eppure questo non realizza in modo completo la propria totalità se non nel momento in cui viene nullificato dalla morte; l'esserci può essere autentico solo se è in grado di vivere la propria morte (cioè il proprio annullamento) nella forma dell'anticipazione; l'angoscia è la situazione emotiva che accompagna la nostra autenticità, perché ci fa sentire la nullità di tutte le cose, e così via. Orbene il medesimo tema sta anche al centro delle indagini heideggeriane sulla metafisica, a partire dalla lezione Che cosa è la metafisica? del 1929.

A voler essere più precisi, si può dire che la vera ragione per cui Heidegger ha sollevato tante contestazioni contro la logica fino a rifiutarla, è perché essa non si rivela in grado di comprendere il nulla. « Il nulla, » scrive nella lezione testé citata, «è negazione della totalità dell'essente»; come tale, esso coinvolge la totalità («l'intero») e proprio perciò non può venire compreso dall'intelletto, non potendo essere rinchiuso in determinazioni concettuali. Può tuttavia venire colto per un 'altra via, cioè emotivamente; il sentimento che ce lo fa intravvedere è appunto l'angoscia.

Il rifiuto della logica comporterà pure il rifiuto della metafisica? Heidegger risponde decisamente di sì, per lo meno in quanto questa intenda presentarsi come fondata sulla logica (proprio così la concepirono i metafisici classici). Ciò non significa però - sempre secondo il nostro autore - che il nulla non coinvolga problemi metafisici.

Abbiamo detto che l'angoscia ci fa sentire (ci fa intravvedere) il nulla; ma questo non significa che ce lo faccia comprendere. L'esigenza di una comprensione effettiva, radicale, di esso resta dunque insoddisfatta. Orbene, poiché il nulla - come testé ricordammo- implica la totalità, l'esigenza di comprenderlo deve spingerei necessariamente verso la metafisica (che, sola, argomenta intorno alla totalità). Heidegger può pertanto concludere: « Il problema intorno al nulla deve condurci innanzi alla metafisica stessa. »

Che cosa significa affermare che il problema del nulla ci conduce innanzi alla metafisica, e dire nel contempo che questa non è in grado di risolverlo? Significa semplicemente sostenere che la metafisica - così come essa è - va superata. Proprio questo tema del « superamento della metafisica» è uno dei motivi centrali della metafisica heideggeriana o, se vogliamo, della sua ontologia.

Il nostro autore giunge a qualificare il nulla come «il velo dell'essere», e con ciò lascia intendere che, per risolvere il problema antologico (problema-guida anche per Sein und Zeit), occorrerà necessariamente passare attraverso l'indagine intorno al nulla, per riuscire a vedere quell'essere che è sì coperto ma non interamente nascosto da esso (proprio perché si tratta soltanto di un velo).

Quale sarà lo strumento capace di farci compiere quest'opera di « disvelamento »? I lavori scritti da Heidegger nella seconda fase del suo itinerario filosofico sono appunto rivolti a indicarci il solo strumento che egli ritiene idoneo allo scopo. Questo non potrà più consistere nell'analisi esistenziale dell'esserci intrapresa nel volume del I 927; consisterà invece in una «nuova logica» di carattere mistico e poetico.

Tale nuova logica non ci conduce a oggettivare o a rappresentare l'essere, ma ce lo fa approssimare; ce ne fa cogliere la trascendenza, nel momento stesso in cui traluce nell'esistenza. Così comprendiamo che esso è «la verità», di fronte alla quale tutti gli enti (incluso l'esserci) sono un nulla. A partire dall'essere - spiega molto bene Italo Mancini - «pure il nulla va inteso nel senso di nullità dell'ente; nullità resa acuta non tanto dal sentire nell'angoscia, quanto piuttosto dal vedere l'ente nella luce dell'essere».

Non è il caso di esaminare i tentativi compiuti da Heidegger per chiarire in qualche modo questo «tralucere» dell'essere; basti ricordare che, secondo lui, è soprattutto nel linguaggio che l'essere traluce all'uomo (nel linguaggio mistico, poetico, non ovviamente in quello della logica dell'intelletto). Trattasi comunque di tentativi che si imbattono in difficoltà insuperabili, sempre incontrate del resto da tutti i mistici che cercarono di conciliare l'affermazione di un essere assolutamente trascendente con l'affermazione della sua conoscibilità.

Alcuni studiosi moderni hanno voluto allineare l'«ontologia mistica» di Heidegger sulla problematica di Schopenhauer, ma Heidegger ha respinto sdegnosamente questa interpretazione. Può anche darsi che abbia ragione qualora si voglia intendere alla lettera tale allineamento; resta comunque certo che - sulla scia o no di Schopenhauer- egli è rientrato con i suoi ultimi scritti nell'alveo secolare della mistica tedesca, e proprio perciò non dice più alcunché al vero e proprio studioso di filosofia. Può essere opportuno riferire,· in proposito, un limpido commento di Norberto Bobbio che, pur se scritto nel lontano 1948, conserva ancor oggi immutata- a nostro parere -la sua piena validità: «Questa strada lo avvia verso una meta così fuor dal comune modo di pensare e di comunicare i propri pensieri che non mi par lecito continuare a parlare nei suoi riguardi di filosofia ... ; verso una problematica di cui mi sembra difficile per ora tentare un'interpretazione (se non in termini puramente psicologici), tanto è ardita e gratuita- arditamente gratuita - la impostazione dei termini del problema, tanto è prezioso, stravagante, capriccioso il linguaggio che si vale sempre più di metafore e di immagini corpose, tanto diventa incerto ... il confine tra l'istanza della spiegazione razionale e il suggerimento poetico, e si palesa equivoco il nesso tra l'allusività poetica (indubbiamente cercata e voluta) del linguaggio metafisica e l'evidenza metafisica del linguaggio poetico.»

Prima di chiudere il paragrafo vorremmo dare un cenno all'analisi critica dello scritto Was ist Metap~ysik? compiuta nel 1932 da Rudolf Carnap (del quale si parlerà a lungo nel capitolo IX) in un famoso articolo dal titolo Ueberwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache (Superamento della metafisica mediante l'analisi logica de/linguaggio). Esso potrebbe costituire una prova del fatto che, pur senza avere ancora rotto con la filosofia, già nel 1929 Heidegger si era avviato per una strada assai pericolosa, sorda a qualsiasi esigenza di rigore.

Carnap estrae dal testo di Heidegger quattro proposizioni (o coppie di proposizioni, formate da una domanda e da una risposta), collocando poi accanto a ciascuna di esse una proposizione (o coppia di proposizioni) di forma analoga ricavata dal linguaggio comune e, dove possibile, una terza di forma logicamente corretta costruita in modo da dire la stessa cosa della proposizione (o coppia di proposizioni) considerata.

Ci limiteremo per brevità a riportarne due, atte a esemplificare i due tipi esaminati dal nostro autore.

I) Che c'è fuori? fuori c'è nulla.

I bis) Che c'è fuori? fuori c'è pioggia.

Iter) Che c'è fuori? non esiste qualcosa che sia fuori.

2) Come sta la cosa con questo nulla?

2bis) Come sta la cosa con questa pioggia?

Non è possibile costruire una 2ter).

La I), ovviamente ricavata per analogia dalla I bis), non corrisponde, secondo Carnap, «alle esigenze proprie di una lingua logicamente corretta»; «essa è tuttavia dotata di senso, essendo possibile tradurla in un linguaggio logicamente corretto» come è provato dalla Iter).

La 2) è ricavata per analogia dalla 2bis), la quale ha nella lingua usuale un significato ben determinato (significa infatti: che cosa fa questa pioggia?); tuttavia la 2) non è dotata di senso, essendo impossibile costruire una proposizione di forma logicamente corretta, che risulti equivalente ad essa.

È proprio l'analogia della 2) con la 2bis) che trae in inganno Heidegger, il quale ritiene che, avendo un senso quest'ultima, debba avere un senso anche quell'altra. L'inganno deriva, secondo Carnap, dalla manchevolezza della lingua usuale: manchevolezza consistente nel fatto che tale lingua «consente identità di forma grammaticale fra successioni di parole dotate di senso e successioni di parole prive di senso». Ed aggiunge per maggiore precisione: la formazione della 2) «si fonda semplicemente sull'errore per cui la parola "nulla" viene usata come un nome, mentre nella lingua usuale essa è impiegata in questa forma solo per formulare una proposizione esistenziale negativa», come è appunto la Iter).

Ma Carnap non si nasconde che proprio lo stesso testo in esame esibisce una risposta alle obiezioni testé sollevate. Heidegger riconosce infatti che «domanda e risposta riguardanti il nulla sono, allo stesso modo, in sé assurde ... la logica in generale sopprime questa domanda», rispondendo subito tuttavia che ciò dimostra soltanto l'incapacità della logica a trattare questioni del genere e ricavandone poi che, proprio a causa di questa incapacità, la logica perde l'egemonia finora posseduta ali 'interno della filosofia: «La stessa idea della " logica " si dissolve nel vortice di un interrogativo più originario.» Orbene potremmo dire che la risposta ora riferita di Heidegger soddisfa in certo senso anche Carnap; solo che egli ne ricava una conclusione antitetica a quella del filosofo esistenzialista.

La conclusione di Carnap si può così riassumere: è vero che la metafisica risulta incompatibile con la logica, ma ciò non dimostra l'insufficienza della logica, bensì l'inconsistenza della metafisica! E l'ultima fase del pensiero heideggeriano potrebbe proprio venire addotta a conferma di tale inconsistenza.

È interessante notare che, nello scritto citato, Carnap prende in considerazione anche un altro possibile modo di ribattere la propria obiezione. In sintesi questo nuovo modo afferma quanto segue: chi ci assicura che le risposte fornite dal metafisica a un quesito del tipo 2), pur non avendo senso per noi, possano comunque valere come «supposizioni circa le risposte che un essere superiore per capacità conoscitive darebbe alle nostre domande?» La via seguita da Carnap per replicare anche a quest'ultima riserva è estremamente significativa, e rivela una fiducia nella logica pari soltanto alla fiducia che Galileo aveva nella matematica1. Ecco le sue parole: «Se non è possibile specificare il significato di una parola, o se la successione di parole non è formata secondo le regole della sintassi, allora non ci troviamo neppure di fronte a una domanda ... Dove non sussiste domanda alcuna, nemmeno un essere onnisciente può dare una risposta ... Pertanto un altro essere -- non fa differenza se egli ne sappia di più o di meno di noi, o sia onnisciente - non può che accrescere la nostra conoscenza, essendo escluso che vi possa aggiungere una conoscenza che per principio sia di nuova specie. Ciò che per noi è incerto, può diventare più certo con l'aiuto di un altro; ma ciò che per noi è incomprensibile, senza senso, non può diventare affatto sensato con l'aiuto di un altro, per quanto egli ne possa sapere. Quindi non c'è dio, né diavolo, che possa procurarci una conoscenza metafisica.»

Si potrebbero muovere a Carnap varie obiezioni: per esempio gli si potrebbe obiettare di avere estrapolato senza diritto dalla metafisica di Heidegger a tutta la metafisica, dimenticando che certe concezioni metafisiche- calate nella situazione storica in cui sorsero- risultano tutt'altro che vuote di senso (tanto che esercitarono una funzione della massima importanza per lo sviluppo della cultura). Ma non è questo il momento di esprimere un'approfondita valutazione delle critiche sollevate da Carnap, discutendo i limiti della sua pretesa di superare la metafisica con una semplice analisi logica del linguaggio. Ciò che ci interessa sottolineare è, invece, la perspicacia con cui il celebre neo-positivista comprese fin dal 1932 la pericolosità di una posizione come quella di Heidegger nei confronti della logica e del pensiero scientifico.

Integrando la critica di Carnap, ci sembra doveroso aggiungere che è ben giusto porre in guardia lo studioso contro i pericoli di dogmatismo insiti nelle discipline scientifiche e in generale in tutte le costruzioni del nostro intelletto; ma lo si dovrà fare soltanto per approfondire le nostre esigenze di rigore, non per dissolvere la logica. La strada invece, per cui si avviarono Heidegger e pressoché tutti gli esistenzialisti, comportava proprio la dissoluzione della logica. Non v'è dunque da stupirsi se li condusse, prima o poi, a compiere discorsi gratuiti, stravaganti, capricciosi, culturalmente (e spesso non solo culturalmente) reazionari.

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1 Ci riferiamo qui alla distinzione compiuta dallo scienziato pisano fra l'intendere extensive ed intensive. Quanto al primo, egli riconosce senza difficoltà che l'intendere umano è incomparabilmente inferiore a quello divino che sa infinite cose più di noi; ma in quanto al secondo, la situazione è del tutto diversa, poiché di alcune cose l'intelletto umano « ne ha così assoluta certezza, quanto se n'abbia la stessa natura». E aggiunge a titolo d'esempio: «Tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l'aritmetica, delle quali l'intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall'intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore » (Dialogo, giornata 1) 

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