martedì 30 aprile 2013

Dal postmoderno all’ipermoderno - Roberto Finelli – Francesco Toto -



 Hegel aveva argomentato che il bisogno della filosofia nasce dalle scissioni e dalle contraddizioni della vita individuale e collettiva, e quindi dalle passioni e dai tormenti della storia. E che la riunificazione di queste scissure –ossia la produzione di quello che definì l’Assoluto– deve compiersi secondo le movenze e le vicende interiori di ciascuno degli opposti, che nella separatezza ostile e nell’esclusione dell’altro da sé non possono far altro che precipitare in una vita patologicamente sofferta ed esposta alla dissipazione della cattiva infinità.                                                                                                                            

http://www.consecutio.org/2013/04/edtoriale-dal-postmoderno-allipermoderno/

venerdì 26 aprile 2013

“Teoria del valore, lavoro e classi sociali” - intervista di Daniel Bensaïd, datata maggio 2009, alla rivista argentina Herramienta.

Herramienta : Come pensare la riduzione dell’orario di lavoro ?
Daniel Bensaïd : C’è tutta una lotta storica sulla riduzione dell’orario di lavoro. Anche se il tempo liberato resta alienato, essa costituisce un limite allo sfruttamento della forza lavoro, è una libertà non omologata. Vi sono altri meccanismi di alienazione, quali possono essere i mezzi di comunicazione di massa, la diffusione della cultura, l’organizzazione della città e dello spazio urbano, ecc. Tuttavia, perlomeno formalmente, per riprendere la formulazione di Marx, durante questo tempo libero il lavoratore ha la possibilità di consumare programmi televisivi, di dare una mano nel sindacato, o di leggere il Capitale. Non è quindi una questione secondaria che la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro sia permanente, anche all’interno del capitalismo. Nel quadro del capitalismo, però, credo ci sia un nesso stretto tra un lavoro alienato e un piacere alienato, vale a dire che non si può essere realmente liberi al di fuori del lavoro se si rimane al tempo stesso dominati al lavoro. Non basta perciò ridurre l’orario di lavoro forzato, ma è necessario anche trasformare il contenuto e l’organizzazione del proprio lavoro, costruire l’emancipazione del lavoro e fuori dal lavoro. E qui c’è una grossa differenza. La disoccupazione produce un tempo liberato, ma un tempo senza libertà. Ed esiste anche la conquista di tempo libero tramite la riduzione dell’orario lavorativo, ma che si può continuare a utilizzare in forma completamente alienata. E questo pone un problema anche al socialismo. È l’idea che troviamo nel Gorz di Addio al proletariato e nei suoi lavori successivi, secondo cui esisteranno sempre lavori duri e alienanti, che non sarà mai creativo spazzare le strade o raccogliere l’immondizia e che sarà quindi sempre necessario che la società dedichi a un certo tempo di lavoro che non sarà mai creativo e che la vita si svolga sempre al di fuori di questo tempo di lavoro. Non avendo robot per tutto, questo costituisce di fatto un problema. Per altro verso, credo si possa svolgere un lavoro alienato e, al tempo stesso, svilupparsi, aprirsi al di fuori di questo. Il problema per una società socialista, è come distribuire questo tipo di lavoro, come modificarne l’organizzazione. È evidente che ci sono compiti che non sono gradevoli o stimolanti, ma questo richiama all’esigenza di radicale trasformazione della divisione del lavoro come condizione stessa di una società socialista così come ce la possiamo immaginare..                                                      
http://www.inventati.org/cortocircuito/2013/04/26/intervista-a-daniel-bensaid-teoria-del-valore-lavoro-e-classi-sociali/

giovedì 25 aprile 2013

Euro, un fallimento annunciato. Venti anni fa il keynesiano Wynne Godley spiegava perché non poteva funzionare. - era 1992... -

L’idea centrale del trattato di Maastricht è che i paesi della Comunità europea devono muoversi verso l’unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente. Ma che cosa rimane della politica economica? Dato che il trattato non propone nuove istituzioni diverse da una banca europea, i suoi promotori devono supporre che nulla di più sia necessario. Ma questo potrebbe essere corretto solo se le economie moderne fossero sistemi capaci di autoregolarsi, che non abbiano bisogno di alcuna gestione.                                                                                                                                                                                              Sono spinto alla conclusione che tale punto di vista – cioè che le economie sono organismi che si raddrizzano da soli e che non hanno in nessun caso necessità di una gestione – ha effettivamente determinano il modo in cui è stato costruito il trattato di Maastricht. Si tratta di una versione rozza ed estrema del punto di vista che da qualche tempo ha costituito la convinzione prevalente in Europa (anche se non quella degli Stati Uniti o del Giappone): che i governi non sono in grado di raggiungere uno qualsiasi dei tradizionali obiettivi di economia politica, come la crescita e la piena occupazione, e pertanto non dovrebbero neppure provarci.Tutto ciò che può legittimamente essere fatto, secondo questa visione, è quello di controllare l’offerta di moneta e il pareggio del bilancio. E’ stato necessario un gruppo in gran parte composto da banchieri (il Comitato Delors) per giungere alla conclusione che una banca centrale indipendente è stata l’unica istituzione sovranazionale necessaria per gestire un’Europa integrata e sovranazionale                                                                                                                                                                                                                             http://keynesblog.com/2012/05/11/euro-un-fallimento-annunciato-venti-anni-fa-il-keynesiano-wynee-godley-spiegava-perche-non-poteva-funzionare/
.

giovedì 18 aprile 2013

Ancora sul rapporto Marx - Smith. (Maurizio Bosco)



Marx e Smith

La lettura che Marx effettua sull’opera di Smith è particolarmente indicativa del modo in cui Marx, a partire del risultato dell’avanzamento teorico e della chiarificazione concettuale a cui è giunto, interroga il pensiero dell’economia politica borghese, mostrandone gli aspetti tautologici, fermi alla pura apprensione della “fenomenologia” del meccanismo esteriore della società di scambio, eppure non privo di problematiche e tensioni interne. La stessa contraddittorietà ed oscillazione concettuale evidenziata seguendo l’esposizione di Smith è, per Marx, elemento esplicativo dei limiti e della specifica prospettiva storica, nel prodursi di una teorizzazione che, pure non priva di una generale intuizione sull’origine della ricchezza sociale, non riesce a guadagnare una completa consapevolezza e coerenza interna. Giusta la sottolineatura che, nello scritto di Stefano Garroni, è operata sull’aspetto del “metodo” di lettura di Marx, il quale, ben lungi dal concretizzarsi nella semplice critica esteriore dell’opera di Smith, secondo un enunciazione di “tesi” contrapposte, si mostra, piuttosto, come un movimento “all’interno” dello stesso evolversi della concettualizzazione dell’autore, vorrei provare a tracciare una linea di lettura, più “discorsiva” dei temi toccati, che possa costituire una traccia  alternativa all’interno della ricostruzione di Stefano e contribuire a focalizzare alcuni snodi concettuali che nel suo testo non mi paiono sufficientemente illuminati.

Marx, in dialogo con Smith, che ha già, a suo tempo, colto come la fonte di ogni ricchezza sia costituita dal lavoro umano (e sociale, nella sua divisione di specializzazioni tipologiche), manterrà fermo l’apporto corretto della stessa determinazione di Smith rispetto al rapporto tra lavoro come “sostanza” del valore e “tempo di lavoro” (contenuto) come “misura” del valore (di scambio) delle merci. In forza di questo determinazione fondante, è possibile “simularne” la tenuta esplicativa, come il modo di evidenziarsi ed occultarsi della stessa determinazione, nelle forme e momenti  diversi entro i quali si presentano il sistema della produzione e riproduzione sociale, il rapporto degli uomini con le condizioni di lavoro ed il loro rapporto reciproco in società, attraverso il quale, mediante lo scambio, possano appropriarsi di beni (valori d’uso), prodotti da altri, necessari a soddisfare bisogni sempre più differenziati e sviluppati.

Poiché i valori d’uso, in quanto apprezzati soggettivamente in base al “valore” che ciascuno attribuisce all’oggetto in vista del suo godimento (consumo), non sono misurabili e quindi non sarebbero commisurabili  in vista dello scambio, è dentro il legame sociale che si stabilisce la sostanza comune e universale che consente di renderli equivalenti al di là delle specifiche caratteristiche naturali e singolari. Tale sostanza è il tempo di lavoro (oggettivato nella merce) che è reciprocamente riconosciuto come necessario a formare l’oggetto di consumo.

Qualora i produttori fossero pensati come operanti in condizioni tali da consentirgli di appropriarsi dell’intero “valore” dei beni prodotti attraverso il loro lavoro (ossia di quanto risultato dall’intero tempo di applicazione del proprio lavoro, indifferentemente dalla concretezza del suo contenuto), lo scambio di x quantità della merce M contro y quantità della merce M’ potrebbe rendersi possibile sulla base dell’equivalenza dei pari tempi di lavoro contenuti nelle due porzioni di merci scambiate, o, secondo l’altro aspetto della determinazione del legame e dell’interdipendenza sociale, a cui Smith guarda , la quantità di lavoro che ho impiegato per produrre xM mi consentirebbe di “comandare”, ossia di godere dei frutti, della quantità di lavoro erogata (al mio posto) da colui che scambia con me la quantità yM’ della sua merce.

martedì 16 aprile 2013

L’OCCHIO ESTRANEO E LA PALLA per Brecht: condizioni sociali come processi contraddittori. -Gianfranco Pala - ( La Contraddizione n. 126 gennaio-marzo 2009)

Proprio perché si è rimasti all’oscuro circa la natura della società umana,
ci troviamo ora di fronte alla possibilità di un totale annientamento del pianeta.
Si lavori a trasformare il mondo.
Se ci si mette dal punto di vista della palla,
è evidente che le leggi del moto diventano inconcepibili.
[Bertolt Brecht]


                                                                                                                                                                                                 Bertolt Brecht, nei suoi Scritti teatrali [Einaudi, Torino 1962, raccolti del 1957, l’anno successivo alla sua morte], “come cordiale contributo alle vostre discussioni” muove dal presupposto che “il mondo d’oggi può essere espresso anche per mezzo del teatro, purché sia visto come un mondo trasformabile”. Ecco: anche epurché; infatti Brecht affermava “che il problema se sia possibile una descrizione del mondo, è un problema di ordine sociale”. In base a questo suo impianto materialistico emergono due constatazioni connesse: da un lato, il riprovevole stato della concezione epica del teatro brechtiano, che tranne pochi piccoli coraggiosi tentativi contrari alla drammaticità e superficialità delle rappresentazioni dominanti è stato sempre più lasciato a se stesso se non dimenticato e di fatto tradito anche dalla quasi totalità dei suoi allestitori attratti dal più appagante successo commerciale e dalla facile “commozione” drammatica degli uditori; dall’altro, al contrario in base alla coerenza brechtiana, il suo esplicito riferimento all’aspetto sociale del problema.

Lezioni di politica economica - Federico Caffè

Leggi anche:   http://it.wikipedia.org/wiki/Federico_Caff%C3%A8    
                           http://www.centrostudimalfatti.org/cms/federico-caffe/   
Vedi anche.   http://www.radioradicale.it/scheda/339901 


Significato della politica economica: sui rapporti con le altre discipline economiche e sociali.

   1.  Alcune distinzioni correnti tra economia e politica economica.

La definizione di una disciplina, anche se risponde ad esigenze didattiche, non può fornire che un’indicazione approssimativa e sommaria del significato della  disciplina stessa. Una comprensione più completa può ottenersi soltanto attraverso lo studio delle sue varie parti.

Con questa riserva le definizione più semplice del significato della politica economica consiste nel chiarire anzitutto che essa è parte della scienza economica intesa in senso lato; nel precisare poi che si tratta di quella parte che utilizza le conoscenze dell’analisi teorica come guida dell’azione pratica.

Ogni scienza ha come problemi ultimi quelli di comprendere e spiegare determinati fenomeni e di far uso della conoscenza come guida dell’azione. La politica economica, per effetto di un processo di specializzazione e di convenienza didattica, si occupa appunto di quella parte dell’indagine economica che assolve in modo più ravvicinato e diretto il secondo dei suoi compiti essenziali, quello cioè di essere di guida per l’azione. […]

Questi chiari rilievi consentono di avanzare due considerazioni. In primo luogo, sarebbe estremamente pedante pretendere che, negli insegnamenti economici che precedono quello specifico della politica economica, l’esposizione si mantenga rigorosamente “sul terreno proprio dei teoremi”, senza occuparsi in forma più o meno estesa anche  di problemi di politica economica. In secondo luogo, il fatto stesso che ciò di frequente si verifichi non fa che confermare l’assoluta correttezza dell’impostazione metodologica, dovuta anch’essa a un importante economista italiano, secondo la quale economia generale, economia finanziaria, politica economica non sono che “stadi successivi nel passaggio da una maggiore a una minore astrazione di un inscindibile sistema teorico.”(Del Vecchio, 1957, p. 131).

2.      La politica economica nella concezione di Jan Tinbergen.

La sostanziale unità dell’indagine economica non esime, come è ovvio, dal ricercare i caratteri differenziali tra le varie branche che rientrano nell’indagine stessa. Un’elegante presentazione dei rapporti tra analisi e politica economica è quella dovuta a Jan Tinbergen, economista olandese che, nei tempi più recenti, ha contribuito in modo notevole all’elaborazione sistematica della politica economica.

Occorre preliminarmente ricordare che gli sviluppi dello studio sia dell’intero sistema economico, sia di singoli mercati hanno portato a fornirne una rappresentazione schematica mediante modelli  costituiti da equazioni matematiche che esprimono le connessioni esistenti tra le grandezze economiche del sistema o della parte di esse considerata.

L’impiego di schemi semplificati, tendenti a ridurre la complessa realtà a “fatti stilizzati”, non costituisce un fatto nuovo nell’indagine dei fenomeni economici. […]

Ne risulta quindi, secondo le parole di Tinbergen  (1969, p. 19), che il processo logico per la ricerca della migliore politica economica, cioè per la determinazione delle misure in cui dati mezzi debbano essere impiegati per raggiungere dati fini, rappresenta, in certo senso, il processo logico inverso di quello cui è abituato l’economista. Il compito dell’analisi economica consiste nel considerare i “dati” (compresi in essi gli strumenti della politica economica) come noti e i fenomeni e le variabili economiche (compresi gli obiettivi della politica economica)  come incognite. Nella politica economica, si considerano gli obiettivi come noti e gli strumenti come incognite, o quanto meno come parzialmente incognite.

3.      I rapporti con le altre discipline

Sono stati indicati sinora i rapporti molto stretti esistenti tra le varie branche della scienza economica.  È anche necessario tener presente, tuttavia, che lo studio dei fenomeni economici si avvale estesamente dell’ausilio delle matematiche e delle statistiche, nonché dell’apporto  di altre discipline quali la storia generale ed economica, la sociologia, il diritto.

Più che sottolineare in termini generici l’utilità odierna delle ricerche “interdisciplinari”, piò essere utile richiamare l’attenzione sulle considerazioni che seguono, dovute allo studioso svedese Gunnar  Myrdal , che ha dato contributi eminenti sia all’economia sia alla sociologia.

... Le scienze sociali stanno ora penetrando ogni angolo della società e ogni fase della vita umana. Vanno gradualmente infrangendosi i tabù e la loro distruzione, nell’intento di razionalizzare il senso comune, è divenuta una dei maggiori obiettivi della scienza sociale occidentale. Ci rendiamo conto che tutti i problemi umani sono complessi; essi non possono essere incasellati nei comparti delle discipline accademiche tradizionali, in modo da essere considerati come problemi economici, psicologici, sociali o politici. A volte, per fini didattici o per maggiore efficacia della ricerca mediante la specializzazione, le antiche discipline sono state mantenute ad anche divise in sottodiscipline; tuttavia non viene da noi attribuito a queste divisioni il medesimo significato che avevano nel passato. Oggi, ad esempio, nessuno avanzerebbe conclusioni circa la realtà sociale unicamente in base a concetti economici, per quanto ciò fosse fatto frequentemente due generazioni fa. Per evitare impostazioni superficiali e unilaterali, le discipline sociali specializzate cooperano nella ricerca. In aggiunta, una particolare disciplina, la sociologia, pone l’accento sull’insieme delle relazioni sociali e si occupa in modo speciale di quei campi della realtà sociale, che sono analizzati in modo meno approfondito delle altre discipline. (Myrdal, 1968, vol. 1 p. 5).

4.      La funzione dei “giudizi di valore”

Si deve allo stesso Myrdal un contributo molto importante al chiarimento della posizione che le “premesse o giudizi di valore” (vale a dire le preferenze politiche e gli ideali etici) hanno nelle scienze economiche, o sociali in genere.

Il dibattito sull’obiettività della scienza (che implicherebbe la sua “neutralità” nei confronti dei diversi ideali politici e morali), ovvero sull’inevitabilità che essa rifletta anche la “visione del mondo” dello studioso (e quindi preferenze di carattere necessariamente soggettivo) è antico quanto lo sforzo umano rivolto all’ampliamento delle conoscenze. Myrdal ha contribuito a tale dibattito, assumendo una posizione decisamente critica nei confronti della  tradizionale e diffusa concezione secondo la quale la scienza potrebbe considerarsi tale solo in quanto “immune da giudizi di valore”.

Come egli scrive, “………Il credere nell’esistenza di un corpus di conoscenze scientifiche acquisite  indipendentemente da ogni giudizio di valore  è, come ora io ritengo, ingenuo empirismo (…)” In qualsiasi lavoro scientifico “ si devono porre delle domande per ottenere risposte. E le domande sono espressione del nostro interesse nelle cose del mondo, sono in essenza delle valutazioni. (Myrdal, 1953, Prefazione, p. VII).[1]

In altri termini, gli ideali umani costituiscono una componente ineliminabile della personalità dello studioso e il suo necessario sforzo di obiettività consiste nel dichiararli in modo esplicito, anziché introdurli in modo subdolo o reprimerli. È quello appunto che suggerisce Myrdal, allorchè afferma il suo convincimento “nella necessità di lavorare sempre, dal principio alla fine, con esplicite premesse di valore”; avvertendo inoltre che esse debbono essere “ importanti e significative per la società in cui viviamo”. (ibid. , p. VIII).[2]  […]

5.      I criteri ispiratori della trattazione

Per rimanere aderenti a questa impostazione,  ci è d’obbligo avvertire il lettore che la trattazione che seguirà è influenzata dalla premessa ideale del prevalere inevitabile delle idee, alla lunga, sugli interessi costituiti.   […]

Il metodo seguito nella trattazione è poi quello di tendere alla ricostruzione storica degli sviluppi sia del pensiero teorico, sia dell’azione dei poteri pubblici nella vita economica, nell’intento di porre in rilievo la maniera in cui i vari problemi si sono venuti ponendo nel corso del tempo.

Questa concezione che tende a considerare “il presente come storia”- per utilizzare il significativo titolo di un volume di Sweezy (1970) – non consente di evitare un tema oggi largamente dibattuto e che riguarda l’affermata “crisi” della scienza economica.

6.      Un’interpretazione dell’affermata “crisi” della scienza economica

[…] Nel tentativo di contribuirvi in qualche modo, si può prendere avvio da uno dei “lamenti” che ha avuto maggiore risonanza: quello elevato da Joan Robinson con il suo articolo “la seconda crisi della scienza economica”(1972). Già questo riferimento a una duplice crisi induce ad andare oltre l’argomentazione di mera scontatezza psicologica cui allude Hahn. La prima crisi coincise, cronologicamente, con il periodo della grande depressione degli anni trenta; la seconda è, ovviamente, quella che stiamo sperimentando. Elemento comune alle due crisi è l’evidente incapacità del pensiero economico di fornire spiegazioni convincenti dei fenomeni sottoposti al suo esame e di proporre soluzioni adeguate ai più assillanti problemi del momento. Con riferimento alla prima crisi, la Robinson sintetizza lucidamente i punti di vista dell’”opinione  ortodossa” alla quale si contrappose polemicamente l’insorgenza Keynesiana. […]

Ciò che interessa sottolineare è che c’era, all’epoca della grande crisi, un pensiero economico egemone, che risultava tale indipendentemente dalla distinzione interna tra concezione marshalliana e concezione warlas-paretiana (vedi p. 21). Rispetto a questo pensiero egemone (che      – si ripete – comprende, ai fini che interessano, sia la scuola di Cambridge sia quella di Losanna) , vi erano le correnti eterodosse, ereticali (incluse quelle marxiste, o quelle istituzionaliste, seguite in particolare negli stati uniti). Esse, tuttavia, erano considerate talmente poco meritevoli di considerazione, da parte del pensiero “egemone”, che destò scandalo quel certo recupero che Keynes cercò di fare di alcune intuizioni degli eretici dell’economia (Keynes, 1936, cap.23; trad. it. 1947, pp. 297 sgg.).  […]

Vi è un’impostazione che, senza negare l’opera di creazione e di incremento della scienza, considera che essa debba sostanzialmente svolgersi nell’ambito di una concezione privilegiata nella quale sono contenute le premesse di ogni ulteriore svolgimento. Vi è un’impostazione che non si limita ad attribuire carattere privilegiato a una determinata concezione, ma ritiene indispensabile un’azione “guastatrice” che demolisca, una volta per tutte, orientamenti (come quello detto marginalistico) che pur hanno costituito parte del cammino della scienza economica. Vi è, infine, una concezione che considera la scienza economica come “un’opera costante, continua e successiva, per cui l’edificio della scienza stessa risulta come una serie di piani che si aggiungono a quelli precedenti, in modo da costituire un tutto solido e armonico”(Del Vecchio, 1961).  […]

Vi è poi un aspetto della affermata “crisi” della scienza economica che investe direttamente la politica economica, in quanto sono riaffiorati di recente orientamenti di pensiero che, contrapponendo “lo stato” al “mercato” (secondo una tipica antitesi ottocentesca), attribuiscono agli interventi dei poteri pubblici nella vita economica un carattere perturbatore e destabilizzante (Rosa e Aftalion, 1979). Atteggiamenti del genere sono talvolta indice di una specie di arrogante isolazionismo intellettuale, che sembra inconsapevole del carattere del tutto acquisito di temi metodologici (come quello della “neutralità” della scienza e della funzione dei giudizi di valore) che sono stati già da tempo chiariti e che vengono riproposti come nuovi.  Altre volte (come nel caso di f. Hayek e di M. Friedman, le figure più rappresentative del neo-liberismo economico), si sottolinea la validità del mercato, come forma organizzativa dell’assetto sociale, senza tener conto delle numerose dimostrazioni fornite, attraverso il tempo, dei “fallimenti del mercato”: aspetti che trovano una larga esemplificazione nel capitolo terzo di questo volume.

Poiché il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente necessaria e non un elemento di per sé distorsivo e vessatorio. Non si può non prendere atto di un recente riflusso neoliberista, ma è difficile individuarvi un apporto intellettuale innovatore. Sul piano storico, l’intervento pubblico nell’economia, è tutt’altro che esente da inconvenienti ed errori.

---------------------------------- 

[1] Può consultarsi anche Myrdal (1975).

[2] Chi sia interessato a un più approfondito esame di questi aspetti potrà consultare i seguenti scritti: Zeuthen (1961), in particolare cap. 1; J. A. Schumpeter, Scienza e ideologia, trad. it. in Caffè (1971a)pp.243sgg.


giovedì 11 aprile 2013

Profilo del pensiero economico di Adam Smith e la critica che Marx ne fa. - Stefano Garroni -




Profilo del pensiero economico di Adam Smith e la critica che Marx ne fa.

Così scrive Adam Smith, nel 1776: “Il prodotto del lavoro costituisce la naturale retribuzione o salario del lavoratore. In questa situazione originaria delle cose, che precede l’appropriazione della terra come anche l’accumulazione di capitale, l’intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore. Non vi sono ancora proprietari terrieri, né imprenditori (Beschäftiger), con i quali egli debba ripartire (il prodotto del lavoro). Se questa condizione fosse continuata, il salario del lavoratore sarebbe aumentato con la maggiorazione delle sue forze di lavoro, scaturite dalla divisione del lavoro. Tutte le cose sarebbero state sempre più convenienti (wohlfeiler), perché avrebbero richiesto meno lavoro per la loro produzione.”[1]

Per chiarire meglio, proseguiamo la lettura: “le cose sarebbero state prodotte da una minore quantità di lavoro e le merci, poiché prodotte da una analoga quantità di lavoro, sarebbero state scambiate l’’una con l’altra… Ma questa condizione originaria, in cui il lavoratore godeva dell’intero prodotto del suo lavoro, non poteva durare quando vi fu la prima appropriazione della terra e accumulazione di capitale” (40s).[2]

Dunque, esiste una condizione “originaria”, in cui la proprietà privata non si coniuga con lavoro salariato, perché le due figure –di proprietario privato e di lavoratore- vengono a coincidere[3] Ma a questa fase ne succede un’altra, in cui alcuni hanno la proprietà privata delle condizioni di lavoro, ed altri, invece, debbono –in cambio di un salario- ‘affittare’ la propria capacità lavorativa. E’ interessante che, giusta la raffigurazione smithiana, la prima fase della storia economica condurrebbe, se potesse svilupparsi, ad un progressivo miglioramento del tenore di vita, legato ad un progressivo abbassamento del costo delle merci.

Ma da questa fase l’umanità esce fondamentalmente per un motivo, di cui Smith non offre spiegazione, vale a dire, a causa dell’appropriazione privata delle condizioni economico-industriali (lo stock, come lo chiama Adam Smith) ed economico-agricole (con la conseguente formazione della classe dei proprietari fondiari).[4]

Come abbiamo già letto in Smith, da questo mutamento del quadro economico-sociale, deriva la formazione della figura del lavoratore salariato, a proposito del quale lo stesso Smith dichiara: “un uomo deve sempre vivere del suo lavoro ed il suo salario deve almeno esser tale da consentirgli di mantenersi; ma per lo più deve essere un poco più alto, sennò il lavoratore non avrebbe la possibilità di formarsi una famiglia, in modo che il suo genere possa esistere oltre una generazione.”[5]

Come si vede, per formulare  la tesi, secondo cui –all’interno dei rapporti sociali capitalistici di produzione- il salario del lavoratore tende a ridursi al minimo vitale, dunque, tende ad identificarsi con quanto consente al lavoratore di mantenersi come fonte di capacità lavorativa e come produttore di nuovi, futuri lavoratori, per formulare questa tesi Marx doveva semplicemente leggere i grandi economisti dell’epoca per trovarla già formulata apertis verbis – torna a manifestarsi in questo modo quello, che Marx indicava con cinismo degli economisti. Per quanto possa apparir bizzarro, l’accusa di cinismo, che Marx formula, è uno dei segni del suo rapporto con la letteratura economica ed, in questo senso, con la realtà dell’orizzonte economico capitalistico.