Marx e Smith
La
lettura che Marx effettua sull’opera di Smith è particolarmente indicativa del modo
in cui Marx, a partire del risultato dell’avanzamento teorico e della
chiarificazione concettuale a cui è giunto, interroga il pensiero dell’economia
politica borghese, mostrandone gli aspetti tautologici, fermi alla pura
apprensione della “fenomenologia” del meccanismo esteriore della società di
scambio, eppure non privo di problematiche e tensioni interne. La stessa
contraddittorietà ed oscillazione concettuale evidenziata seguendo
l’esposizione di Smith è, per Marx, elemento esplicativo dei limiti e della
specifica prospettiva storica, nel prodursi di una teorizzazione che, pure non
priva di una generale intuizione sull’origine della ricchezza sociale, non
riesce a guadagnare una completa consapevolezza e coerenza interna. Giusta la
sottolineatura che, nello scritto di Stefano Garroni, è operata sull’aspetto del
“metodo” di lettura di Marx, il quale, ben lungi dal concretizzarsi nella
semplice critica esteriore dell’opera di Smith, secondo un enunciazione di
“tesi” contrapposte, si mostra, piuttosto, come un movimento “all’interno” dello
stesso evolversi della concettualizzazione dell’autore, vorrei provare a
tracciare una linea di lettura, più “discorsiva” dei temi toccati, che possa
costituire una traccia alternativa all’interno
della ricostruzione di Stefano e contribuire a focalizzare alcuni snodi concettuali
che nel suo testo non mi paiono sufficientemente illuminati.
Marx,
in dialogo con Smith, che ha già, a suo tempo, colto come la fonte di ogni
ricchezza sia costituita dal lavoro umano (e sociale, nella sua divisione di
specializzazioni tipologiche), manterrà fermo l’apporto corretto della stessa
determinazione di Smith rispetto al rapporto tra lavoro come “sostanza” del
valore e “tempo di lavoro” (contenuto) come “misura” del valore (di scambio)
delle merci. In forza di questo determinazione fondante, è possibile “simularne”
la tenuta esplicativa, come il modo di evidenziarsi ed occultarsi della stessa
determinazione, nelle forme e momenti diversi
entro i quali si presentano il sistema della produzione e riproduzione sociale,
il rapporto degli uomini con le condizioni di lavoro ed il loro rapporto reciproco
in società, attraverso il quale, mediante lo scambio, possano appropriarsi di
beni (valori d’uso), prodotti da altri, necessari a soddisfare bisogni sempre
più differenziati e sviluppati.
Poiché
i valori d’uso, in quanto apprezzati soggettivamente in base al “valore” che
ciascuno attribuisce all’oggetto in vista del suo godimento (consumo), non sono
misurabili e quindi non sarebbero commisurabili in vista dello scambio, è dentro il legame
sociale che si stabilisce la sostanza comune e universale che consente di
renderli equivalenti al di là delle specifiche caratteristiche naturali e singolari.
Tale sostanza è il tempo di lavoro (oggettivato nella merce) che è reciprocamente
riconosciuto come necessario a formare l’oggetto di consumo.
Qualora
i produttori fossero pensati come operanti in condizioni tali da consentirgli
di appropriarsi dell’intero “valore” dei beni prodotti attraverso il loro
lavoro (ossia di quanto risultato dall’intero tempo di applicazione del proprio
lavoro, indifferentemente dalla concretezza del suo contenuto), lo scambio di x
quantità della merce M contro y quantità della merce M’ potrebbe rendersi
possibile sulla base dell’equivalenza dei pari tempi di lavoro contenuti nelle
due porzioni di merci scambiate, o, secondo l’altro aspetto della
determinazione del legame e dell’interdipendenza sociale, a cui Smith guarda ,
la quantità di lavoro che ho impiegato per produrre xM mi consentirebbe di
“comandare”, ossia di godere dei frutti, della quantità di lavoro erogata (al
mio posto) da colui che scambia con me la quantità yM’ della sua merce.
Scrive
Marx (Grundrisse 3.1)
“Di fatto, finché la merce o il lavoro sono ancora
determinati soltanto come valore di scambio, e la relazione attraverso cui le diverse
merci vengono riferite l’una all’altra è determinata come scambio reciproco di questi
valori di scambio, come loro equiparazione — finché ciò accade gli individui, i
soggetti tra cui ha luogo questo processo sono determinati soltanto come
semplici individui che scambiano. Non esiste assolutamente alcuna differenza
tra loro finché si considera la determinazione formale, che è la determinazione
economica, la determinazione in cui essi sono reciprocamente legati nel
rapporto di traffico; l’indice della loro funzione sociale o della loro
relazione sociale reciproca. Ciascuno dei soggetti è un individuo che scambia;
ciascuno cioè ha con l’altro la medesima relazione sociale, che questi ha con
lui. Come soggetti dello scambio dunque la loro relazione è quella di uguaglianza
- È impossibile scorgere una qualsiasi differenza oppure antitesi tra di loro,
e nemmeno una diversità. Inoltre le merci che essi scambiano sono, in quanto
valori di scambio, degli equivalenti, o per lo meno valgono come tali (nella
valutazione reciproca potrebbe nascere soltanto un errore soggettivo, e qualora
un individuo truffasse l’altro, ciò accadrebbe non in virtù della natura della
funzione sociale nella quale entrambi si contrappongono, —giacché essa è
identica, e nel suo ambito essi sono uguali — bensì soltanto in virtù della
naturale scaltrezza o capacità di persuasione, e insomma della superiorità
puramente individuale dell’uno sull’altro. La differenza sarebbe una differenza
naturale che non riguarda affatto la natura del rapporto in quanto tale, e che
— si potrebbe dire spingendo lo sguardo verso sviluppi ulteriori — nemmeno con
la concorrenza si affievolisce e perde la sua potenza originaria). Finché si
considera la forma pura, il lato economico del rapporto — il contenuto, al di
fuori di questa forma, propriamente esula ancora completamente dall’economia, o
è posto come contenuto naturale distinto da quello economico, talché di esso si
può dire che è ancora del tutto separato dal rapporto economico perché ancora
coincide immediatamente con esso —, vengono in luce soltanto tre momenti, che
sono formalmente distinti: i soggetti dello scambio, ossia gli individui che scambiano,
posti nella medesima determinazione; gli oggetti del loro scambio, ossia i valori
di scambio, gli equivalenti, i quali non solo sono uguali, ma anche debbono
esserlo espressamente, e sono posti come uguali; infine l’atto dello scambio
stesso, ossia la mediazione attraverso cui i soggetti vengono posti appunto
come individui che scambiano, come uguali, e i loro oggetti come equivalenti,
come uguali. Gli equivalenti sono l’oggettivazione dell’un soggetto per
l’altro; ossia essi stessi hanno il medesimo valore e si confermano nell’atto
dello scambio come equivalenti e nello stesso tempo come indifferenti l’uno
all’altro. I soggetti sono l’uno per l’altro nello scambio solo mediante gli equivalenti,
sono equivalenti e si confermano come tali mediante lo scambio dell’oggettività,
in cui l’uno è per l’altro. Poiché sono l’uno per l’altro solo come
equivalenti, possessori di equivalenti che confermano questa equivalenza
nell’atto dello scambio, essi
sono, come equivalenti, nello stesso tempo
indifferenti l’uno all’altro; la loro ulteriore differenza individuale non li
riguarda affatto; essi sono indifferenti a tutte le loro ulteriori particolarità
individuali”.
Smith
si pone innanzitutto di fronte a tale determinazione formalmente “astratta” del
momento dello “scambio”, in cui la stessa struttura sociale si presenta,
innanzitutto, come caratterizzata da un insieme di soggetti posti nella
medesima determinazione comune. Siamo nell’ambito della sfera della
circolazione che è insieme conseguenza e presupposto per l’articolazione del
rapporto di produzione capitalistico.
Si
badi bene, infatti, che tale scenario, apparentemente primitivo e vicino ad una
certa naturalità (od anche ad una prospettiva di tipo “socialista” della
appropriazione da parte di ciascuno dell’intero valore prodotto dal suo lavoro)
è ben lungi dall’essere riscontrabile in stadi storici predenti a quelli in cui
la generalizzazione degli scambi e dell’interdipendenza dei singoli, o delle
comunità in contatto tra loro, rende possibile la vigenza di un tale rapporto
in cui un tempo di lavoro concreto “a”
può comandare (o equivalere) ad un eguale tempo “a” di un qualsiasi altro lavoro concreto[1].
Di
fatto è appunto in tale configurazione storica che il lavoro “astrattamente
umano” lavoro sans prhase diviene un’astrazione
storicamente realizzatasi, proprio sulla base di un intero sistema di
produzione e di distribuzione delle “ricchezze”, dei beni prodotti dal lavoro
sociale, che realizza le condizioni di base per l’affermazione del modo di
produzione specificatamente capitalistico, come modo in cui la produzione del
potenziale sovrappiù rispetto a quanto necessario a soddisfare i bisogni del
singolo produttore (o di comunità specializzate), giusta la prospettiva dello
scambio, diviene sia il possibile strumento per la possibilità di un
accaparramento del “valore” creato, che diviene fine in se della stessa
produzione. E’, quindi, sulla base di tale generalizzazione del rapporto di
scambio che possa determinarsi l’opportunità di uno scambio “diseguale”:
-
In
virtù della mera opportunità offerta dagli squilibri delle posizioni tra coloro
che commerciano (il “furto” naturalmente insito nel commercio come attività
basta sul comprare per vendere o vendere per comprare) o anche, attraverso la
mediazione dell’equivalente generale autonomizzatosi nella forma denaro,
rompendo il nesso immediato tra acquisto e vendita dello scambio semplice.
Posso acquistare senza vendere immediatamente, o vendere accumulando denaro
(capitale) senza riimmetterlo nel processo di valorizzazione attraverso
l’acquisto della forza lavoro;
-
ad
un livello più profondo e decisivo, in virtù della generalizzazione della
particolare forma di “scambio” all’interno del rapporto di capitale, tra lavoro
oggettivato e lavoro vivo per l’appropriazione di parte della ricchezza (valore)
socialmente prodotta.
E’
questo secondo lato che è decisivo. Qui il passaggio dal concreto all’astratto,
che opera Marx, cogliendo la
determinazione astratta del lavoro come “genericamente umano”, gli consente,
nel ritorno alla lettura dei singoli momenti concreti, in particolare quello
della produzione nella forma capitalistica, di coglierne la distinguente
specificità.
D’altro
canto lo stesso Smith si trova di fronte alla specifica e concreta
articolazione storica di blocchi di figure sociali che appaiono caratterizzare
specifiche sfere della produzione, specifiche differenze tra figure del lavoro e specifiche forme in cui si presenta il
compenso del lavoro (che occulta la sostanza di valore e si configura come forma
visibile della distribuzione della ricchezza prodotta) in termini di danaro
(salario, profitto, rendita): articolazione concreta di cui però non
riesce a cogliere i nessi sostanziali
che si presentano nelle forme di superficie.
E’,
in generale, questione che richiede il massimo sforzo, anche per una adeguata
comprensione dell’ esposizione (Darstellung)
delle forme via via più concrete ed articolate che Marx presenta all’interno
dello sviluppo de Il Capitale, quella
di dover seguire, nella considerazione, come la forma e la sostanza di valore
si conservi anche quando non è più immediatamente riconoscibile nelle
trasformazioni che il suo presentarsi subisce nel passaggio a dimensioni più
complesse e diversamente contraddittorie della rappresentazione fenomenica. E’
qui che anche gli economisti borghesi
successivi a Marx, falliscono nella comprensione del metodo e della logica di
esposizione, fermandosi ad una lettura unilaterale della fenomenologia dello
scambio e del mercato, a partire dalla quale si occultano i livelli più
astratti ed essenziali, in una equivoca comprensione del rapporto tra forma e
contenuto concettuale (si pensi, ad esempio, alla annosa questione della
trasformazione di valori in prezzi). Tali posizioni risultano, di fatto,
persino più concettualmente arretrate di quelle dell’economia classica (da
Smith a Ricardo) che almeno non eludeva, a fronte della contemporanea problematica storica, e
sia pure in modo contraddittorio la questione dell’inquadramento delle
categorie fondamentali della produzione.
A
conferma del fatto che la realtà dell’organizzazione sociale può essere colta solo
nella totalità delle sue determinazioni ed articolazioni e che quindi ogni
forma di “distribuzione” delle ricchezze prodotte, mediata dallo scambio, è
articolata ad una specifica forma dei rapporti di produzione, risulta che è
proprio il momento della “produzione”, nella sua struttura speciale di rapporti
capitalistici, a non essere adeguatamente problematizzato in Smith e che, quando
a partire dall’astrazione unilaterale della forma che si presenta dallo scambio
si debba ornare tornare a spiegare le particolarità dei momenti che sono
esclusi dall’ambito proprio della circolazione, il presupposto rende
impossibile coglierne la specificità, e le relative categorie, che entro un
certo ambito risultavano consistenti, diventano vuote o contraddittorie.
Va
infatti evidenziato, come risulta da una corretta comprensione dialettica
dell’uso delle categorie, che sebbene lo scambio di merci generalizzato appare
senz’altro forma fenomenica del modo di produzione capitalistico (è noto
l’incipit de il Capitale: “La ricchezza delle società in cui predomina
il mpc si presenta come un immane raccolta di merci”), l’esame del solo rapporto
di scambio non consente di penetrare la struttura del mpc, a meno che non ci si
interroghi sull’“arcano” dell’oggetto merce (che a livello dello scambio è già
“naturalizzato”) e non lo si faccia a partire dal guardare nel “luogo” della sua
produzione, in cui solo appare la particolare funzione conseguente all’acquisto
della particolare “merce” “forza lavoro”, a tutte le altre a sua volta assimilata
con la generalizzazione delle forma di lavoro salariata. Tale peculiare scambio
(acquisto e vendita della forza lavoro) lungi dal violare la forma generale secondo cui le merci si scambiano a
parità di valore e che il loro valore è
dato dal tempo di lavoro necessario a produrle, in esse oggettivato, avviene
esattamente nel rispetto di tale forma: il valore (tempo di lavoro oggettivato
nelle) delle merci che il lavoratore si potrà appropriare attraverso l’impiego
del salario che gli è corrisposto equivale, appunto, al tempo di lavoro
oggettivato che è necessario per “produrlo” quale merce che incarna la “forza
lavoro” che egli vende al capitalista.
Scrive Marx
(Grundrisse 3.2.15):
“Ciò
che l’operaio scambia con il capitale è il suo stesso lavoro (nello scambio, la
disponibilità su di esso); egli lo aliena. Ciò che riceve come prezzo, è il valore
di questa alienazione. Egli scambia l’attività creatrice di valore con un
valore predeterminato indipendentemente dal risultato della sua attività. Ma
com’è determinato il suo valore? Dal lavoro oggettivato contenuto nella sua
merce. Questa merce esiste nel suo organismo. Per ottenerla dall’oggi al domani
— qui non abbiamo ancora a che fare con la classe operaia, e quindi con il
risarcimento del suo uso e consumo affinché possa conservarsi come classe,
giacché qui l’operaio si contrappone al
capitale come operaio, e perciò come soggetto perenne presupposto, non
ancora come individuo transeunte della specie operaia —, egli deve consumare
una determinata quantità di mezzi di sussistenza, ricostituire il sangue
consumato ecc. Egli riceve soltanto un equivalente. Quindi, domani, una volta
compiuto lo scambiò — e solo quando ha concluso formalmente lo scambio egli lo
realizza nel processo di produzione — la sua capacità di lavoro esiste tal
quale era prima: egli ha ricevuto un esatto equivalente, giacché il prezzo che
ha ricevuto lo lascia in possesso del medesimo valore di scambio che egli aveva
prima. La quantità di lavoro oggettivato che è contenuta nel suo organismo gli
è stata pagata dal capitale. Una volta consumata, e poiché essa non esisteva in
forma materiale ma come capacità di un essere vivente, l’operaio, in virtù
della natura specifica della sua merce — della specifica natura del processo
vitale — può rinnovare lo scambio”.
E, quindi chiaro che lo “scambio” tra
capitale e lavoro è solo formalmente uguale allo “scambio” semplice, ma in
realtà costituisce un processo del tutto diverso, corrisponde ad una categoria
differente, di significato, diremmo, “sociale”.
Scrive, ancora, Marx (Grundrisse 3.2.6):
Il valore d’uso che si presenta di fronte al
capitale inteso come valore di scambio realizzato, è il Lavoro. Il capitale si
scambia, ovvero in questa determinatezza soltanto esso è in relazione col
non-capitale, con la negazione del capitale, in rapporto alla quale solamente
esso è capitale; il vero non-capitale è il Lavoro.
Se consideriamo lo scambio tra capitale e lavoro,
troviamo che esso si scinde in due processi non solo formalmente ma
qualitativamente differenti e persino contrapposti.
1) L’operaio scambia la sua merce — il lavoro, il
valore d’uso che come merce ha anche un prezzo al pari di tutte le altre merci
—, con una determinata somma di valori di scambio, una determinata somma di
denaro che il capitale gli rilascia.
2) Il capitalista ottiene nello scambio il lavoro
stesso, il lavoro come attività creatrice di valore, come lavoro produttivo;
ossia egli ottiene nello scambio la forza produttiva che il capitale riceve e
moltiplica, e che con ciò diventa forza produttiva e forza riproduttiva del capitale,
una forza che appartiene al capitale stesso.
[…]
Nello scambio semplice, nella circolazione, questo
duplice processo non ha luogo. Se la merce a
viene scambiata con il denaro b, e questo a sua volta con la merce c destinata al consumo — che è ’oggetto originario
dello scambio per a —, l’uso della
merce c, il suo consumo,
avviene interamente fuori dalla circolazione; non riguarda per nulla la forma
del rapporto; sta al di là della circolazione stessa, ed è un interesse
puramente materiale che esprime ancora un puro rapporto dell’individuo A, nella sua determinatezza naturale, con un oggetto
del suo bisogno isolato. Ciò che egli comincia a fare con la merce c, è un problema che sta al di fuori del rapporto
economico. Qui viceversa il valore
d’uso di ciò che nello scambio è ricevuto in cambio del denaro si presenta come
un rapporto economico particolare, e la determinata utilizzazione di ciò che
nello scambio è ricevuto in cambio del denaro costituisce lo scopo ultimo di
entrambi i processi. Ciò distingue dunque già formalmente lo scambio tra capitale
e lavoro dallo scambio semplice —, si tratta di due processi differenti.
Se ora passiamo a fissare la differenza di
contenuto tra Io scambio capitale-lavoro e lo scambio semplice (circolazione),
troviamo che questa differenza non viene fuori da un estrinseco rapporto o
raffronto, ma che la seconda forma si distingue dalla prima nella totalità
dell’ultimo processo considerato, e che questo stesso raffronto vi è incluso.
La differenza tra il secondo atto e il primo — il secondo atto è il processo
particolare di appropriazione del lavoro da parte del capitale — è esattamente
la differenza tra lo scambio capitale-lavoro e lo scambio tra merci mediato dal
denaro. Nello scambio
tra capitale e lavoro il primo atto è uno scambio che avviene interamente
nell’ambito della circolazione ordinaria; il secondo è un processo
qualitativamente differente dallo scambio, e solo impropriamente esso potrebbe essere detto in generale scambio di una
certa specie. Esso si contrappone direttamente allo scambio; è una categoria essenzialmente
diversa.
Con
lo sviluppo delle forze produttive, il perfezionamento e la specializzazione
delle scienze e delle tecniche di produzione risultato della divisione tecnica
del lavoro, come Smith ben comprende, si pongono le basi per una possibile
capacità della società di produrre beni
che possano soddisfare a bisogni umani sempre più ricchi ed articolati.
Contemporaneamente il tempo di lavoro sociale necessario a produrre i beni atti
a soddisfare i bisogni può essere
ridotto. Non così di fatto accade, stando la logica necessaria del mpc, per il
tempo di lavoro soggettivo che il lavoratore è costretto ad erogare per potersi
appropriare della quota di ricchezze (beni) che gli consente di sopravvivere e
di svilupparsi.
Se
la necessità intrinseca del capitale è quella di una sua progressiva
valorizzazione e se è lo stesso modo di produzione che subordina la creazione
di valore a quella di plusvalore che potenzialmente si potrà realizzare nella
forma di profitto, è all’interno del momento della produzione che bisogna
indagare il meccanismo di creazione ed incremento del valore.
Ferma
ancora la determinazione da cui si è partiti, se l’unica particolare
“componente” del processo produttivo in grado di conservare il valore già
oggettivato nelle parti del capitale che fungono da materiali e strumenti di
lavoro (capitale costante), ed anzi di incrementarlo, è la “forza lavoro”, il
cui valore d’uso è esattamente quello di rendere possibile tale alchimia[2], dall’incorporazione
di tale “ingrediente” nel processo produttivo (come capitale variabile) il
capitalista cercherà di trarne il più possibile,
acquistandolo al minor costo possibile.
E’,
del resto, l’affermarsi della separazione tra proprietà ed organizzazione
privata dei mezzi di produzione e l’unica proprietà di cui il lavoratore può
“liberamente” disporre, alienandola sul mercato pena l’impossibilità di
sopravvivere, che pone le basi perché, tale modalità di scambio “vantaggioso”
può rendersi possibile e, allo stesso tempo, rendersi illeggibile all’interno
di quello che appare essere un comune rapporto di scambio di merci a parità di
valore.
Ecco che, per tornare ai “guazzabugli” di
Smith, se nello scenario astratto dei soggetti che scambiano come produttori di
merci - appropriandosi del valore corrispondente all’intero loro tempo di
lavoro - la nozione “valore del lavoro” può apparire come in qualche modo
significativa (se, ad esempio, la si intende come tempo/valore del mio lavoro
che mi consente di “comandare” pari tempo/valore di lavoro altrui), è
all’apparire della contrapposizione lavoro oggettivato-lavoro vivo (ossia con
il porsi della contrapposizione tra due “scambiatori” dei quali uno cede merci
e l’altro cede la “merce” forza lavoro) che tale determinazione risulta
inconsistente e si mostra come (ferma restando la stessa intuizione di Smith,
che vede nel lavoro “l’origine” di ogni valore), il lavoro è, di più, nella sua
estrinsecazione attuale, creazione della sostanza del valore e non ha quindi
senso parlare di “valore del lavoro” e come lavoro vivo e lavoro oggettivato possano
e di fatto si acquistino, reciprocamente, in quantità differenti
(rispettivamente, più con meno e meno con più).
Si potrebbe diversamente dire che, qualora
colui che produce e scambia i prodotti del suo lavoro al fine di consentire il reciproco godimento
dei valori d’uso, padroneggiasse le condizioni di esplicazione del suddetto
lavoro e si appropriasse conseguentemente dell’intero valore corrispondente al
suo tempo di lavoro, forma in atto (lavoro) e forma in potenza (forza lavoro)[3],
sulla base del legame sociale, sarebbero equipotenti, ma quando tale unità è
spezzata e l’estrinsecazione del lavoro vivo è sussunta, nel luogo della
produzione - in un processo di valorizzazione e produzione di merci che il
lavoratore potrà tornare ad appropriarsi solo nel momento successivo, all’interno
del sistema risultante della loro circolazione - tali forme occulteranno la natura specifica del lavoro ed il “valore”
del lavoro, in modo incongruente rispetto agli assunti corretti circa il suo essere all’origine di ogni ricchezza
potrà essere assimilato al valore della “forza lavoro”, nella sua forma di
prezzo (salario) o, come nelle più tarde forme dell’economia, come uno dei
termini componenti l’insieme dei “costi di produzione”.
E’ proprio ciò che appare a Smith nel
tradursi confuso del “valore del lavoro” nella forma esplicita di “prezzo del
lavoro”, ossia prezzo della “forza lavoro” pagato con salario che - salvo il ricorrere
all’escamotage nominalistico, per cui il primo sarebbe il
prezzo “naturale”, sempre alterato dalle imperfezioni del mercato - rende arduo
sbrogliare la matassa e, di conseguenza, spiegare l’origine del profitto e
della rendita.
Se infatti, come Smith stesso continua in
fondo a ritenere, nessun valore (di
scambio) si origina se non dal lavoro, a quale lavoro corrisponderebbero, quali
forme di retribuzione, il profitto e la rendita?
La risposta, più o meno consueta è che il
profitto compenserebbe il capitalista dell’astinenza dal “godere”, consumandolo, del proprio capitale,
per il rischio implicito nel suo impiego produttivo in alternativa ad altri
impieghi (che è sempre una forma dell’astenersi, in cui si rischia un godimento
in vista di un possibile godimento maggiore) o che, in alternativa, compenserebbe
il lavoro di organizzazione e sorveglianza della produzione.
Così pure la rendita, al fine, non sarebbe
che il pagamento al proprietario della terra o di altri mezzi di produzione,
per l’utilizzo dei beni di sua
proprietà.
Come si vede, qui vengono date per
presupposte funzioni sociali, quella del capitalista come quella del
proprietario dei mezzi (prodotti o naturali che siano) che, da un lato
presuppongono una data configurazione delle forme di proprietà privata,
dall’altro piuttosto che essere giustificati
e compresi per lo specifico ruolo che assumono nell’ambito di rapporti sociali,
vengono confuse ed assimilate a quelle di singoli assunti sotto la comune forma
di soggetti che scambiano merci e lo fanno, facendo astrazione da aspetti che
attengono ad altre determinazioni, scambiandole al loro rispettivo valore.
Viceversa, in Smith, ma così anche nella
vuota chiacchiera economica contemporanea, si partite dalla determinazione,
puramente formale, di soggetti equivalenti
e si termina alla stessa determinazione, confondendo la funzione
“capitale” ad una esplicazione delle particolare inclinazione soggettiva del
capitalista che sarebbe un equivalente soggetto del circuito dello scambio,
solo “naturalmente” qualificato dal possesso di un dato stock di beni (o di
strumenti).
[continua]
Maurizio Bosco 16 aprile 2013
[1] Grundrisse 3.1 Se non si dà risalto al significato storico di questo
atteggiamento mentale, e lo si assume invece come confutazione dei più
sviluppati rapporti economici nei quali gli individui si presentano non più
come individui che scambiano ovvero come compratore e venditore, bensì in
determinati rapporti reciproci, ossia non sono più posti tutti nella medesima
determinazione — tanto vale allora sostenere che non esiste alcuna differenza,
e tanto meno antitesi e contraddizione tra i corpi naturali perché essi, per
esempio nella determinazione della gravità, sono tutti gravi e quindi uguali; o
che sono uguali perché sono tutti tridimensionali. Il valore di scambio stesso
viene qui altresì fissato nella sua determinazione semplice rispetto alle sue
forme antitetiche più sviluppate. Viste nel decorso della scienza, queste determinazioni
astratte si presentano appunto come le rime e le più povere; così come esse
compaiono in parte anche storicamente; ciò che è più sviluppato è anche più
tardo. Nella totalità dell’attuale società borghese, questo ridurre prezzi, la loro circolazione ecc, si
presentano come il processo superficiale al fondo del quale invece si
verificano ben altri processi nei quali questa apparente uguaglianza e libertà
dell’individuo scompare. Da
un lato si dimentica che il presupposto del valore di scambio quale base
oggettiva dell’intero sistema di produzione implica già in sé fin dall’inizio
la coercizione per l’individuo, che il suo prodotto immediato non è un prodotto
per lui bensì lo diventa soltanto nel processo sociale ed è costretto ad
assumere questa forma generale ma estrinseca; che l’individuo ha ormai
un’esistenza soltanto come entità produttiva di valore di scambio, nel che è
già implicita la negazione totale della sua esistenza naturale; che esso dunque
è totalmente determinato dalla società; che ciò inoltre presuppone una
divisione del lavoro ecc., nella quale l’individuo è già posto in rapporti del
tutto differenti da quelli dei semplici individui che scambiano, ecc.; che
quindi il presupposto non solo è un presupposto che non scaturisce né dalla
volontà dell’individuo né dalla sua natura immediata, ma è un presupposto
storico che pone l’individuo già come individuo determinato dalla società.
Dall’altro si dimentica che le forme superiori in cui [si realizza] lo scambio
o i rapporti di produzione che si realizzano in esso non restano affatto fermi
a questa semplice determinazione dove la più alta differenza cui si perviene è
una differenza formale e perciò indifferente. Infine non si vede che già nella semplice determinazione del
valor di scambio e del denaro è contenuta in forma latente l’antitesi tra lavoro
salariato e capitale ecc. Tutta questa sapienza riesce dunque soltanto a
rimaner erma ai rapporti economici più semplici, i quali, presi autonomamente,
sono pure astrazioni, mentre nella realtà sono mediati dalle più profonde
antitesi e ne presentano
soltanto un lato in cui la loro
espressione è cancellata.
[2]
Grundrisse 3.2.11: Il lavoro è il fermento che, gettato
nel capitale, lo porta a fermentazione. Da una parte l’oggettività in cui il
capitale esiste deve essere elaborata, ossia consumata dal lavoro,
dall’altra la mera soggettività
del lavoro in quanto pura forma deve essere negata e oggettivata nella materia
del capitale.
[3] Grundrisse 3.2.5 La sostanza
comune di tutte le merci, la loro sostanza cioè non di nuovo come loro
contenuto materiale e quindi come determinazione fisica, ma la sostanza comune
di esse in quanto merci e perciò valori di scambio, è costituita dal fatto di
essere lavoro oggettivato. L’unica cosa differente dal lavoro oggettivato è il
lavoro non oggettivato ma ancora da oggettivare, il lavoro come soggettività.
Oppure: il lavoro oggettivato, ossia spazialmente presente, può essere anche
contrapposto, come lavoro passato, al lavoro temporalmente presente. Nella
misura in cui deve essere presente temporalmente, come lavoro vivo, esso può
esserlo soltanto come soggetto vivo, in cui esiste come capacità, come
possibilità; perciò, come operaio. L’unico valore d‘uso perciò che può
costituire opposizione al capitale è il lavoro (o meglio lavoro creatore di valore, ossia produttivo.
Questa ulteriore osservazione è anticipata e deve essere sviluppata; e lo
facciamo subito. Il lavoro come mera prestazione per la soddisfazione di
bisogni immediati non ha nulla a che fare col capitale, perché questo non lo
cerca. Se un capitalista si fa tagliare della legna per arrostire il suo montone,
il rapporto non solo del taglialegna con lui, ma anche di lui col taglialegna è
un rapporto di scambio semplice. Il taglialegna gli presta il suo servizio,
ossia un valore d’uso che non accresce il capitale ma nel quale anzi questo si
consuma, e il capitalista gli dà in cambio un’altra merce sotto forma di
denaro. Così accade con tutte le prestazioni che i lavoratori scambiano
direttamente col denaro di altre persone e che vengono da queste consumate. Si
tratta allora di consumo del reddito, che come tale rientra sempre nella
circolazione semplice, non in quella del capitale. Poiché uno dei contraenti
non si contrappone all’altro come capitalista, questa prestazione in veste di
servitore non può rientrare sotto la categoria di lavoro produttivo.
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