http://www.centrostudimalfatti.org/cms/federico-caffe/
Vedi anche. http://www.radioradicale.it/scheda/339901
1. Alcune distinzioni correnti tra
economia e politica economica.
La definizione di una
disciplina, anche se risponde ad esigenze didattiche, non può fornire che
un’indicazione approssimativa e sommaria del significato della disciplina stessa. Una comprensione più
completa può ottenersi soltanto attraverso lo studio delle sue varie parti.
Con questa riserva le
definizione più semplice del significato della politica economica consiste nel
chiarire anzitutto che essa è parte della scienza economica intesa in senso
lato; nel precisare poi che si tratta di quella parte che utilizza le
conoscenze dell’analisi teorica come guida
dell’azione pratica.
Ogni scienza ha come problemi
ultimi quelli di comprendere e spiegare determinati fenomeni e di far
uso della conoscenza come guida dell’azione. La politica economica, per
effetto di un processo di specializzazione e di convenienza didattica, si
occupa appunto di quella parte dell’indagine economica che assolve in modo più
ravvicinato e diretto il secondo dei suoi compiti essenziali, quello cioè di
essere di guida per l’azione. […]
Questi chiari rilievi
consentono di avanzare due considerazioni. In primo luogo, sarebbe estremamente
pedante pretendere che, negli insegnamenti economici che precedono quello
specifico della politica economica, l’esposizione si mantenga rigorosamente
“sul terreno proprio dei teoremi”, senza occuparsi in forma più o meno estesa anche
di problemi di politica economica. In secondo luogo, il fatto stesso che
ciò di frequente si verifichi non fa che confermare l’assoluta correttezza
dell’impostazione metodologica, dovuta anch’essa a un importante economista
italiano, secondo la quale economia generale, economia finanziaria, politica
economica non sono che “stadi successivi
nel passaggio da una maggiore a una minore astrazione di un inscindibile
sistema teorico.”(Del Vecchio, 1957, p. 131).
2. La politica economica nella
concezione di Jan Tinbergen.
La sostanziale unità
dell’indagine economica non esime, come è ovvio, dal ricercare i caratteri
differenziali tra le varie branche che rientrano nell’indagine stessa.
Un’elegante presentazione dei rapporti tra analisi e politica economica è
quella dovuta a Jan Tinbergen, economista olandese che, nei tempi più recenti, ha
contribuito in modo notevole all’elaborazione sistematica della politica
economica.
Occorre preliminarmente
ricordare che gli sviluppi dello studio sia dell’intero sistema economico, sia
di singoli mercati hanno portato a fornirne una rappresentazione schematica
mediante modelli costituiti da equazioni matematiche che
esprimono le connessioni esistenti tra le grandezze economiche del sistema o
della parte di esse considerata.
L’impiego di schemi
semplificati, tendenti a ridurre la complessa realtà a “fatti stilizzati”, non
costituisce un fatto nuovo nell’indagine dei fenomeni economici. […]
Ne risulta quindi, secondo le
parole di Tinbergen (1969, p. 19), che il
processo logico per la ricerca della migliore politica economica, cioè per la
determinazione delle misure in cui dati mezzi debbano essere impiegati per
raggiungere dati fini, rappresenta, in certo senso, il processo logico inverso di quello cui è abituato
l’economista. Il compito dell’analisi economica consiste nel considerare i
“dati” (compresi in essi gli strumenti della politica economica) come noti e i
fenomeni e le variabili economiche (compresi gli obiettivi della politica
economica) come incognite. Nella politica economica, si
considerano gli obiettivi come noti e gli strumenti come incognite, o quanto
meno come parzialmente incognite.
3. I rapporti con le altre
discipline
Sono
stati indicati sinora i rapporti molto stretti esistenti tra le varie branche
della scienza economica. È anche
necessario tener presente, tuttavia, che lo studio dei fenomeni economici si
avvale estesamente dell’ausilio delle matematiche e delle statistiche, nonché
dell’apporto di altre discipline quali
la storia generale ed economica, la sociologia, il diritto.
Più
che sottolineare in termini generici l’utilità odierna delle ricerche
“interdisciplinari”, piò essere utile richiamare l’attenzione sulle considerazioni
che seguono, dovute allo studioso svedese Gunnar Myrdal , che ha dato contributi eminenti sia
all’economia sia alla sociologia.
...
Le scienze sociali stanno ora penetrando ogni angolo della società e ogni fase
della vita umana. Vanno gradualmente infrangendosi i tabù e la loro
distruzione, nell’intento di razionalizzare il senso comune, è divenuta una dei
maggiori obiettivi della scienza sociale occidentale. Ci rendiamo conto che tutti i problemi umani sono complessi; essi non
possono essere incasellati nei comparti delle discipline accademiche
tradizionali, in modo da essere considerati come problemi economici,
psicologici, sociali o politici. A volte, per fini didattici o per maggiore
efficacia della ricerca mediante la specializzazione, le antiche discipline
sono state mantenute ad anche divise in sottodiscipline; tuttavia non viene da
noi attribuito a queste divisioni il medesimo significato che avevano nel
passato. Oggi, ad esempio, nessuno avanzerebbe conclusioni circa la realtà
sociale unicamente in base a concetti economici, per quanto ciò fosse fatto
frequentemente due generazioni fa. Per evitare impostazioni superficiali e
unilaterali, le discipline sociali specializzate cooperano nella ricerca. In
aggiunta, una particolare disciplina, la sociologia, pone l’accento
sull’insieme delle relazioni sociali e si occupa in modo speciale di quei campi
della realtà sociale, che sono analizzati in modo meno approfondito delle altre
discipline. (Myrdal, 1968, vol. 1 p. 5).
4. La funzione dei “giudizi di
valore”
Si
deve allo stesso Myrdal un contributo molto importante al chiarimento della
posizione che le “premesse o giudizi di valore” (vale a dire le preferenze politiche e gli ideali etici)
hanno nelle scienze economiche, o sociali in genere.
Il
dibattito sull’obiettività della scienza (che implicherebbe la sua “neutralità”
nei confronti dei diversi ideali politici e morali), ovvero sull’inevitabilità
che essa rifletta anche la “visione del mondo” dello studioso (e quindi
preferenze di carattere necessariamente soggettivo) è antico quanto lo sforzo
umano rivolto all’ampliamento delle conoscenze. Myrdal ha contribuito a tale
dibattito, assumendo una posizione decisamente critica nei confronti della tradizionale e diffusa concezione secondo la
quale la scienza potrebbe considerarsi tale solo in quanto “immune da giudizi
di valore”.
Come
egli scrive, “………Il credere nell’esistenza di un corpus di conoscenze scientifiche acquisite indipendentemente da ogni giudizio di valore è, come ora io ritengo, ingenuo empirismo
(…)” In qualsiasi lavoro scientifico “ si devono porre delle domande per
ottenere risposte. E le domande sono espressione del nostro interesse nelle
cose del mondo, sono in essenza delle valutazioni. (Myrdal, 1953, Prefazione,
p. VII).[1]
In
altri termini, gli ideali umani costituiscono una componente ineliminabile
della personalità dello studioso e il suo necessario sforzo di obiettività
consiste nel dichiararli in modo esplicito, anziché introdurli in modo subdolo
o reprimerli. È quello appunto che suggerisce Myrdal, allorchè afferma
il suo convincimento “nella necessità di lavorare sempre, dal principio alla
fine, con esplicite premesse di valore”; avvertendo inoltre che esse debbono
essere “ importanti e significative per la società in cui viviamo”. (ibid. , p. VIII).[2] […]
5. I criteri ispiratori della
trattazione
Per
rimanere aderenti a questa impostazione,
ci è d’obbligo avvertire il lettore che la trattazione che seguirà è
influenzata dalla premessa ideale del prevalere inevitabile delle idee, alla
lunga, sugli interessi costituiti. […]
Il
metodo seguito nella trattazione è poi quello di tendere alla ricostruzione
storica degli sviluppi sia del pensiero teorico, sia dell’azione dei poteri
pubblici nella vita economica, nell’intento di porre in rilievo la maniera in
cui i vari problemi si sono venuti ponendo nel corso del tempo.
Questa
concezione che tende a considerare “il presente come storia”- per utilizzare il
significativo titolo di un volume di Sweezy (1970) – non consente di evitare un
tema oggi largamente dibattuto e che riguarda l’affermata “crisi” della scienza
economica.
6. Un’interpretazione
dell’affermata “crisi” della scienza economica
[…]
Nel tentativo di contribuirvi in qualche modo, si può prendere avvio da uno dei
“lamenti” che ha avuto maggiore risonanza: quello elevato da Joan Robinson con
il suo articolo “la seconda crisi della scienza economica”(1972). Già
questo riferimento a una duplice crisi induce ad andare oltre l’argomentazione
di mera scontatezza psicologica cui allude Hahn. La prima crisi coincise,
cronologicamente, con il periodo della grande depressione degli anni trenta; la
seconda è, ovviamente, quella che stiamo sperimentando. Elemento comune alle
due crisi è l’evidente incapacità del pensiero economico di fornire spiegazioni
convincenti dei fenomeni sottoposti al suo esame e di proporre soluzioni
adeguate ai più assillanti problemi del momento. Con riferimento alla prima crisi,
la Robinson sintetizza lucidamente i punti di vista dell’”opinione ortodossa” alla quale si contrappose
polemicamente l’insorgenza Keynesiana. […]
Ciò
che interessa sottolineare è che c’era, all’epoca della grande crisi, un
pensiero economico egemone, che risultava tale indipendentemente dalla
distinzione interna tra concezione marshalliana e concezione warlas-paretiana
(vedi p. 21). Rispetto a questo pensiero egemone (che – si ripete – comprende, ai fini che
interessano, sia la scuola di Cambridge sia quella di Losanna) , vi erano le
correnti eterodosse, ereticali (incluse quelle marxiste, o quelle
istituzionaliste, seguite in particolare negli stati uniti). Esse, tuttavia,
erano considerate talmente poco meritevoli di considerazione, da parte del
pensiero “egemone”, che destò scandalo quel certo recupero che Keynes cercò di
fare di alcune intuizioni degli eretici dell’economia (Keynes, 1936, cap.23;
trad. it. 1947, pp. 297 sgg.). […]
Vi
è un’impostazione che, senza negare l’opera di creazione e di incremento della
scienza, considera che essa debba sostanzialmente svolgersi nell’ambito di una
concezione privilegiata nella quale sono contenute le premesse di ogni
ulteriore svolgimento. Vi è un’impostazione che non si limita ad attribuire
carattere privilegiato a una determinata concezione, ma ritiene indispensabile
un’azione “guastatrice” che demolisca, una volta per tutte, orientamenti (come
quello detto marginalistico) che pur hanno costituito parte del cammino della
scienza economica. Vi è, infine, una concezione che considera la scienza
economica come “un’opera costante, continua e successiva, per cui l’edificio
della scienza stessa risulta come una serie di piani che si aggiungono a quelli
precedenti, in modo da costituire un tutto solido e armonico”(Del Vecchio,
1961). […]
Vi
è poi un aspetto della affermata “crisi” della scienza economica che investe
direttamente la politica economica, in quanto sono riaffiorati di recente
orientamenti di pensiero che, contrapponendo “lo stato” al “mercato” (secondo
una tipica antitesi ottocentesca), attribuiscono agli interventi dei poteri
pubblici nella vita economica un carattere perturbatore e destabilizzante (Rosa
e Aftalion, 1979). Atteggiamenti del genere sono talvolta indice di una specie
di arrogante isolazionismo intellettuale, che sembra inconsapevole del
carattere del tutto acquisito di temi metodologici (come quello della
“neutralità” della scienza e della funzione dei giudizi di valore) che sono
stati già da tempo chiariti e che vengono riproposti come nuovi. Altre volte (come nel caso di f. Hayek e di
M. Friedman, le figure più rappresentative del neo-liberismo economico), si
sottolinea la validità del mercato, come forma organizzativa dell’assetto
sociale, senza tener conto delle numerose dimostrazioni fornite, attraverso il
tempo, dei “fallimenti del mercato”: aspetti che trovano una larga
esemplificazione nel capitolo terzo di questo volume.
Poiché
il mercato è una creazione umana, l’intervento pubblico ne è una componente
necessaria e non un elemento di per sé
distorsivo e vessatorio. Non si può non prendere atto di un recente riflusso
neoliberista, ma è difficile individuarvi un apporto intellettuale innovatore.
Sul piano storico, l’intervento pubblico nell’economia, è tutt’altro che esente
da inconvenienti ed errori.
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