giovedì 11 aprile 2013

Profilo del pensiero economico di Adam Smith e la critica che Marx ne fa. - Stefano Garroni -




Profilo del pensiero economico di Adam Smith e la critica che Marx ne fa.

Così scrive Adam Smith, nel 1776: “Il prodotto del lavoro costituisce la naturale retribuzione o salario del lavoratore. In questa situazione originaria delle cose, che precede l’appropriazione della terra come anche l’accumulazione di capitale, l’intero prodotto del lavoro appartiene al lavoratore. Non vi sono ancora proprietari terrieri, né imprenditori (Beschäftiger), con i quali egli debba ripartire (il prodotto del lavoro). Se questa condizione fosse continuata, il salario del lavoratore sarebbe aumentato con la maggiorazione delle sue forze di lavoro, scaturite dalla divisione del lavoro. Tutte le cose sarebbero state sempre più convenienti (wohlfeiler), perché avrebbero richiesto meno lavoro per la loro produzione.”[1]

Per chiarire meglio, proseguiamo la lettura: “le cose sarebbero state prodotte da una minore quantità di lavoro e le merci, poiché prodotte da una analoga quantità di lavoro, sarebbero state scambiate l’’una con l’altra… Ma questa condizione originaria, in cui il lavoratore godeva dell’intero prodotto del suo lavoro, non poteva durare quando vi fu la prima appropriazione della terra e accumulazione di capitale” (40s).[2]

Dunque, esiste una condizione “originaria”, in cui la proprietà privata non si coniuga con lavoro salariato, perché le due figure –di proprietario privato e di lavoratore- vengono a coincidere[3] Ma a questa fase ne succede un’altra, in cui alcuni hanno la proprietà privata delle condizioni di lavoro, ed altri, invece, debbono –in cambio di un salario- ‘affittare’ la propria capacità lavorativa. E’ interessante che, giusta la raffigurazione smithiana, la prima fase della storia economica condurrebbe, se potesse svilupparsi, ad un progressivo miglioramento del tenore di vita, legato ad un progressivo abbassamento del costo delle merci.

Ma da questa fase l’umanità esce fondamentalmente per un motivo, di cui Smith non offre spiegazione, vale a dire, a causa dell’appropriazione privata delle condizioni economico-industriali (lo stock, come lo chiama Adam Smith) ed economico-agricole (con la conseguente formazione della classe dei proprietari fondiari).[4]

Come abbiamo già letto in Smith, da questo mutamento del quadro economico-sociale, deriva la formazione della figura del lavoratore salariato, a proposito del quale lo stesso Smith dichiara: “un uomo deve sempre vivere del suo lavoro ed il suo salario deve almeno esser tale da consentirgli di mantenersi; ma per lo più deve essere un poco più alto, sennò il lavoratore non avrebbe la possibilità di formarsi una famiglia, in modo che il suo genere possa esistere oltre una generazione.”[5]

Come si vede, per formulare  la tesi, secondo cui –all’interno dei rapporti sociali capitalistici di produzione- il salario del lavoratore tende a ridursi al minimo vitale, dunque, tende ad identificarsi con quanto consente al lavoratore di mantenersi come fonte di capacità lavorativa e come produttore di nuovi, futuri lavoratori, per formulare questa tesi Marx doveva semplicemente leggere i grandi economisti dell’epoca per trovarla già formulata apertis verbis – torna a manifestarsi in questo modo quello, che Marx indicava con cinismo degli economisti. Per quanto possa apparir bizzarro, l’accusa di cinismo, che Marx formula, è uno dei segni del suo rapporto con la letteratura economica ed, in questo senso, con la realtà dell’orizzonte economico capitalistico.
Torniamo ad una pagina già citata, per osservare che Smith dichiara espressamente che lo sviluppo delle forze produttive del lavoro non apporta nulla di buono al lavoratore, dacché il reale grande sviluppo della forza produttiva del lavoro inizia dal momento, in cui il lavoro si trasforma in lavoro salariato ed, a loro volta, le condizioni di lavoro gli si contrappongono nelle figure del proprietario terriero e del capitale.

Di nuovo possiamo osservare che la descrizione del modo capitalistico di produzione, come fondato sulla polarizzazione di proprietari degli strumenti produttivi da un lato, e, dall’altro, di una massa, costretta ad affittare la propria capacità lavorativa, non è opera marxiana, ma sì un risultato delle riflessione degli economisti classici –avendo così la conferma della non separabilità dell’elaborazione marxiana dalla tradizione dell’economia politica classica, dunque, dello sviluppo storico della coscienza economica.

In generale la letteratura economica classica ha come  tema centrale quello della ricchezza (in questo senso è significativo il titolo dell’opera di Smith, che stiamo esaminando ed il fatto che lo studio della realtà economica sia stato indicato anche col termine Nationalökonomie); più esattamente l’economia si è volta allo studio della formazione della ricchezza e, conseguentemente,  al chiarimento di cosa si intenda con merce, valore di  scambio e valore sans phrase.
Quest’ultimo tema, del valore, è non solo centrale in Adam Smith, ma anche nella critica, che a lui muove Marx (in questo anticipato da Ricardo).

Come leggiamo in M. Dobb, A. Smith[6], si occupa della misura reale del valore di scambio, ma “non della causa o norma (cioè, del principio) del valore, bensì del sistema di misurazione che consente di fissare correttamente i valori delle merci e i loro mutamenti. Sebbene nella teoria di quel tempo le due cose fossero strettamente connesse, e in particolare la seconda venisse considerata come una chiave della prima …, esse sono in realtà due questioni distinte e separabili, e Smith nel capitolo citato esamina precipuamente la seconda, non la prima.”[7]

Dobbiamo fare bene attenzione a questa precisazione dell’economista britannico, perché ci consente di sottolineare un carattere fondamentale della ricerca economica di Smith, ma anche di gran parte della contemporanea letteratura, economica appunto. Intendo la prospettiva, l’ottica, in cui quella riflessione si pone: la realtà economica indagata è quella delle quotidiane vicende di mercato, dunque, dell’oscillazione continua delle categorie economiche, che fa tutt’ uno con la loro basilare casualità – nel senso che le categorie economiche sono un che di dato, ma non di fondato, di cui si prende coscienza, così come si danno, senza però  inserirle in un sistema di regole e leggi, che siano la base della quotidianità economica.[8]

E’ il fatto di porsi in questa prospettiva, che spiega il limite, in cui è circoscritta la riflessione smithiana sul valore ed anche il suo oscillare tra una concezione del valore come lavoro comandato, oppure come lavoro contenuto.

Per dir la cosa nei termini usati da Ricardo, critico di Smith, quest’ultimo confonde il prezzo del  lavoro (nel senso dei salari pagati) con la quantità di lavoro necessario a produrre una data merce, e dunque oscilla tra un criterio di lavoro-comandato ed uno di lavoro-contenuto.”[9] Ma in cosa consiste esattamente la differenza tra queste due concezioni del valore?[10]

Immaginiamo l’operatore O, il quale porta al mercato una cerca quantità della merce M che ha prodotto e che eccede le sue necessità, allo scopo di ottenere una quantità della merce M’, di cui invece abbisogna.

Mediante la contrattazione –dunque, la concorrenza-, O ottiene la quantità x di M’, scambiandola con la  quantità y di M; ciò significa che O soddisfa una propria necessità, risparmiandosi di lavorare per ottenerla, e delegando, per così dire, al lavoro altrui  il compito di produrre ciò di cui egli abbisogna. In questo senso, si può dire che la quantità y di M comanda la quantità x di M’. Possiamo concludere, a questo punto, che il valore di yM è uguale a xM’, ovvero, è uguale alla quantità di lavoro, che comanda e che permette ad O di risparmiarsi.

Se questo significa <lavoro comandato>, invece <lavoro contenuto> sta ad indicare la quantità di forza-lavoro erogata per la produzione di un certo quanto di una merce, quale che sia. E’ opportuno a questo punto fare un’osservazione metodologica, che ha un importante riflesso teorico.

Nel seguire la critica marxiana alla teoria di Smith incontreremo spesso osservazioni, che hanno il senso di porre in rilievo limiti, contraddizioni, circoli viziosi e tautologie nelle pagine smithiane; insomma, osservazioni, che puntano a far risaltare
mancanze, inadeguatezze nella costruzione logica della teoria smithiana. Addirittura, va rimarcato che la critica di Marx ai contenuti della riflessione economia di Smith, è preceduta dalla puntualizzazione delle aporie formali, che caratterizzano appunto quella riflessione. Insomma Marx non contrappone, di prima istanza, contenuti della sua riflessione economica per svalutare le tesi smithiane; è vero, piuttosto, che Marx critica questo o quel risultato dell’opera di Smith, solo dopo averne dimostrato la debolezza metodologica e formale. In questo senso possiamo dire che quella di Marx è una critica, che non si limita alla dogmatica contrapposizione di risultato a risultato, di affermazione ad affermazione; ma sì una critica, in primo luogo, della modalità di costruzione della teoria smithiana –ed è questo che consentirà a Marx di svolgere argomentazioni, ispirate a modalità formali di tipo non empiristico, ma dialettico piuttosto. Nodo centrale di questa contrapposizione logica e metodologica è la sottolineatura del fatto che Smith assuma le categorie economiche così come si danno, senza connetterle entro una struttura metodologica, che di quelle categorie fornisca la regola compositiva e dinamica.[11] Ma torniamo al’analisi testuale.

Abbiamo già accennato all’ambiguità smithiana circa il problema del valore; ciò significa, ovviamente, che in alcune occasioni Smith si muove secondo il criterio del valore, in quanto lavoro contenuto: proprio in questa prospettiva è interessante la pagina, in cui Smith chiarisce che se una specie di lavoro dovesse essere più pesante (severe) di un’altra, naturalmente si darà di ciò un qualche riconoscimento (some allowance) e il prodotto di un’ora di lavoro del primo tipo verrà frequentemente (frequently) scambiata con due ore di lavoro del secondo tipo. Insomma, la maggiore destrezza, che certi lavori comportano, si merita la stima sociale e quindi i suoi prodotti vengono scambiati, valutandoli più del lavoro necessario; inoltre la maggiore valutazione ripaga, anche, del tempo e degli sforzi, che son stati necessari per acquistare quella abilità e destrezza lavorative.[12]

Come si vede, anche muovendosi entro la prospettiva del valore/lavoro contenuto, Smith è sempre esitante, nel senso che sente sempre il bisogno di introdurre, nella determinazione del valore, qualche criterio non riducibile al lavoro/contenuto: nel caso della pagina citata (ma non è l’unica citazione possibile), il valore risulta determinato anche da fattori, che potremmo dire morali: la stima sociale e la ricompensa  per l’astinenza dai piaceri immediati, in  nome di un obiettivo socialmente più alto, più ‘nobile’.

Analoghe considerazioni sono autorizzate da un’altra importante pagina (che fornisce addirittura una giustificazione del profitto).

“Non appena siano stati accumulate scorte (stock) nelle mani di singole persone, alcune di queste vorranno impiegarle per mettere a lavorare persone industriose, a cui forniranno materiali e sussistenza; [l’impiego delle scorte è] allo scopo di ottenere un profitto con la vendita del loro lavoro o mediante ciò, che il loro lavoro aggiunge al valore dei materiali. Scambiando l’intera manifattura o con denaro o con lavoro o con altri beni, al di sopra di quanto sarebbe sufficiente a pagare il prezzo dei materiali e i salari dei lavoratori, qualcosa deve esser data all’imprenditore come profitto per aver messo a rischio in questa avventura le sue scorte”. Il valore, dunque, che il lavoratore aggiunge al materiale, si risolve in due parti, di cui l’una paga i salari e l’altra è costituita dal profitto dell’imprenditore, al di sopra del materiale impiegato e della spesa in salari. L’imprenditore opera, perché si attende un profitto; se come dice Adam Smith, il valore, che il lavoratore dà allla merce si divide in due parti, di cui l’una costituisce il salario e l’altra il profitto, allora il profitto è una parte di lavoro operaio, che il capitalista non ha pagato; la vendita della merce fa emergere questa parte non pagata del lavoro operaio. Insomma, di fatto Smith deriva il profitto dal nuovo lavoro, che l’operaio aggiunge ai mezzi di produzione (51) .[13]

Come, appunto, dicevamo torna a giocare, addirittura un ruolo centrale, un fattore morale: il diritto del proprietario a vedersi ricompensato, per non aver consumato improduttivamente il suo stock, ma averlo, al contrario, messo a rischio – sia pure per un meno nobile obiettivo, ovvero la realizzazione di un profitto e di un profitto crescente.
Con grande coerenza, Adam Smith distingue nettamente la categoria salario dalla categoria profitto: si potrebbe forse pensare –leggiamo a p. 43 dell’ op. cit.-che i profitti, derivanti dalle scorte, siano solo un differente nome per indicare il compenso (wage) di un tipo particolare di lavoro, ovvero l’ispezione e la direzione. Si tratta, comunque, di lavori del tutto differenti e regolati da principi differenti e non sono affatto in relazione alla quantità, la durezza e il quanto di ingegnosità, richiesti da questo supposto lavoro di ispezione e direzione. Inoltre, per lo più, in occasione di lavori molto grandi, l’attività di ispezione e direzione è svolta da un impiegato (clerck) di livello (principal). Il salario di questo impiegato di livello è determinato, anche, dalla fiducia che l’imprenditore ha in lui.

Ad ulteriore testimonianza del rilievo, che già per il giovane Marx ha la riflessione di Adam Smith, in quanto economista, soffermiamoci sulle pagine dei Pariser Manuskripte, dedicate appunto ad Adam Smith.

Per Smith, sottolinea Marx, il lavoro è una condizione naturale dell’esistenza umana, per l’appropriazione in una o in un’altra forma della natura, una condizione della scambio organico (Stoffwechsel) tra uomo e natura,  indipendentemente da ogni forma sociale. Un lavoro, che pone un valore di scambio, è una forma sociale specifica di lavoro … [Il valore di scambio non è prodotto da un determinato lavoro, ma sì dal lavoro astrattamente generale (abstrakt allgemeine Arbeit)]. Il lavoro come fonte di ricchezza materiale era conosciuto sia da Mosè il legislatore, sia da A. Smith il doganiere.[14]

A. Smith proclamò il lavoro ὒberhaupt come unica fonte della ricchezza materiale o valore d’uso… A.Smith definì il valore delle merci mediante il tempo di lavoro in esse contenuto, ma trasferì la verità di questa determinazione del valore nei tempi preadamitici. In altre parole, ciò che gli sembrava vero dal punto di vista della semplice merce, gli divenne non più chiaro, quando apparvero le forme più alte e complesse del capitale, del lavoro salariato, della rendita etc. ADAM SMITH, avendo preso, del tutto giustamente, le mosse dalla merce e dallo scambio mercantile, ed avendo affermato che originariamente i produttori si giustappongono l’uno all’altro come possessori di merci, compratori e venditori di merci, scopre (o almeno così gli pare) che, invece, nello scambio di capitale e lavoro salariato, di lavoro oggettivato o vivo, la legge generale viene superata e le merci (dato che anche il lavoro è una merce, e così può esser comprata e venduta) non si scambiano in rapporto alle quantità di lavoro, che esse rappresentano. Di qui egli conclude  che il tempo di lavoro non è più la misura immanente, che regola il valore di scambio delle merci, non appena le condizioni di lavoro si contrappongono al lavoratore salariato nella forma di proprietà fondiaria o di capitale. .. La differenza tra valore di scambio e prezzo appare come puramente nominale, come vuole A. Smith quando dice che il lavoro è il prezzo reale e il denaro è il prezzo nominale della merce.[15] Ma torniamo al testo marxiano sulle Teorie del plusvalore.

Un errore fondamentale, una inconsistenza logica della teoria economica di Adam Smith –sottolinea ancora una volta Marx-  riguarda la sua concezione del valore: infatti, l’economista scozzese, a ben vedere, fa del valore la misura e fondamento esplicativo del valore stesso, dunque, cade in un circolo vizioso.[16] Si mostra nella seguente esposizione (Darstellung) – prosegue però Marx- che questa insicurezza e questo guazzabuglio di definizioni del tutto eterogenee non disturba le ricerche di AS sulla natura ed origine del pv, poiché egli in realtà, anche senza saperlo, in ogni occasione in cui sviluppa questo tema, si tiene fermo alla corretta definizione del valore di scambio delle merci- ovvero alla sua definizione mediante il quanto di lavoro speso in esse, oppure mediante il tempo-lavoro. Si può mostrare con molti esempi, come spesso Adam Smith, nel corso della sua opera, in cui chiarisce effettivamente le cose, coglie nel quanto di lavoro contenuto nel prodotto il valore e ciò che lo determina.

Si trova in tutti i modi di produzione, in cui le condizioni oggettive del lavoro appartengono a una o più classi, che l’intera Arbeitsvermögen (capacità di lavoro) appartiene, invece, ad un’altra classe, alla classe dei lavoratori. Il prodotto o il valore del prodotto del lavoro non appartiene al lavoratore. Un determinato quanto di lavoro vivo non comanda la stessa quantità di lavoro oggettivato, o un certo quanto di lavoro oggettivato nella merce comanda un quanto di lavoro vivo più grande di quello contenuto nella merce stessa.[17]

In ogni caso, Adam Smith avverte la difficoltà di ricavare dalla legge, che determina lo scambio delle merci, anche lo scambio tra capitale e lavoro, il quale con piena evidenza si basa su principi, con quelli certamente contraddittori. Tale opposizione non si poteva chiarire fino a che il capitale si contrapponeva direttamente al lavoro anziché alla capacità di lavoro.[18]

Come sappiamo, Max riconosce a Smith di aver del tutto giustamente preso le mosse dalla merce e dallo scambio mercantile, ma lo stesso Smith scopre (o almeno così gli pare) che, invece, nello scambio di capitale e lavoro salariato, di lavoro oggettivato e/o lavoro vivo, la legge generale viene superata e le merci (dato che anche il lavoro è una merce, e può esser comprata e venduta) non si scambiano più in rapporto alle quantità di lavoro, che esse rappresentano. Di qui Smith conclude –sappiamo- che il tempo di lavoro non è più la misura immanente[19], che regola il valore di scambio delle merci, non appena le condizioni di lavoro si contrappongono al lavoratore salariato nella forma di proprietà fondiaria o di capitale.

Ma –osserva Marx-  Adam Smith avrebbe piuttosto dovuto ricavare –come giustamente osserva Ricardo- che espressioni come <quantità di  lavoro> e <valore del lavoro> non sono più identiche, non appena le condizioni di lavoro si contrappongono al lavoratore salariato. Dunque il valore relativo delle merci, per quanto sia regolato dal tempo/lavoro in esse contenuto, non lo è dal valore del lavoro, dacché quest’ultima espressione era corretta solo fino a che essa restò identica alla prima[20]. E, invece, sarebbe in sé e per sé falso e sciocco, -anche se il lavoratore si appropriasse del suo proprio prodotto, cioè del valore del suo proprio prodotto-. fare di questo valore o del valore del lavoro la misura dei valori, nello stesso senso in cui il tempo/lavoro o il lavoro stesso è la misura dei valori e l’elemento che produce valore. Il lavoro, che si può comprare con una certa merce, non dovrebbe valere come misura del valore, in quanto lavoro contenuto nella merce. In ogni caso, Smith avverte la difficoltà di ricavare dalla legge, che determina lo scambio delle merci, anche lo scambio tra capitale e lavoro, il quale con piena evidenza si basa su principi, con quelli certamente contraddittori. Tale opposizione non si poteva chiarire fino a che il capitale si contrapponeva direttamente al lavoro anziché alla capacità di lavoro.[21]

Adam Smith –sottolinea ancora Marx-  ha sviluppato lo scambio mercantile in quanto tale: la natura del valore di scambio, la natura della divisione del lavoro e del denaro. Gli scambisti stanno l’uno di fronte all’altro, in quanto possessori di merce. Essi comprano lavoro altrui nella forma di merce, come il loro proprio lavoro si presenta nella forma di merci. Il quanto di lavoro sociale, che essi comandano è, dunque, uguale al quanto di lavoro, che è contenuto nella merce, con cui essi comprano. Ma quando Smith … giunge allo scambio tra lavoro oggettivato e lavoro vivo, tra capitalista e lavoratore, mette in rilievo che il valore della merce non è più determinato dal quanto di lavoro, che in essa è contenuto, ma sì mediante la quantità, ben diversa dalla precedente, di lavoro altrui, di lavoro vivente, che esse comandano, dunque, che possono comprare. Con ciò in realtà non è detto che le merci non si scambiano più in rapporto al tempo di lavoro in esse contenuto, ma sì che l’arricchimento, la valorizzazione del valore contenuto nella merce e il grado di questa valorizzazione, dipendono dalla maggiore o minore quantità di lavoro vivo, che mette in movimento il lavoro oggettivato.” (48)

Dunque, giusta la ricostruzione di Marx, l’alternativa rispetto al valore (che sia determinato dal lavoro/comandato o dal valore/contenuto), alla fine, si dissolve, dacché il lavoro/comandato è, a sua volta, determinato dal lavoro/contenuto: - l’oscillazione, il guazzabuglio (Durcheinanderwerfen), che caratterizzano la pagina smithiana, risultano dal fatto che la riduzione del valore al lavoro/contenuto, per così dire, assorbe in sé la tesi alternativa, del valore come lavoro/comandato. Insistiamo ancora sui temi profitto e lavoro non  pagato.

Il plusvalore (pv), in Smith si presenta sotto la forma di profitto, rendita fondiaria o nella forma secondaria dell’interesse di capitale e non è altro che una parte di questo lavoro, di cui si appropriano i proprietari delle oggettive condizioni di lavoro, nello scambio con il lavoro vivo. In Smith, il pv ha diverse forme: rendita, profitto e interesse.[22]

“… si può anche dire –approfondisce Marx- che il lavoratore compra indirettamente tutte le merci, in cui si dissolve il denaro da lui acquistato (che è solo l’espressione autonoma di un determinato quanto di tempo/lavoro sociale) con più tempo/lavoro di quanto sia contenuto in esse, sebbene egli le compri allo steso prezzo di ogni altro compratore o possessore di merci nel loro primo mutamento. Viceversa il denaro, con cui il capitalista compra lavoro, contiene una quantità di lavoro minore, minor tempo/lavoro rispetto alla quantità di lavoro o tempo/lavoro dell’operaio, che è contenuto nelle merci da lui prodotte; oltre alla quantità di lavoro, che è contenuto nella somma di denaro, che costituisce il salario, il capitalista compra un’addizionale somma di denaro, che non paga [ovviamente è il pv].[23]. Ma poiché il denaro, con cui il capitalista compra lavoro [di fatto, questo avviene indirettamente, dato che il capitalista non compra lavoro ma Arbeitsvermögen, ovvero capacità di lavorare], non è altro che la forma trasformata di tutte le altre merci, la loro esistenza autonoma come valore di scambio, allora è anche necessario che venga detto che tutte le merci scambiandosi con lavoro vivo, comprano più lavoro di quanto non sia in esse contenuto. Questo di più è appunto il pv. Il grande merito di Smith e che egli –nei capitoli del primo libro (VI, VII, VIII), in cui dal semplice scambio mercantile e la sua legge del valore- passa allo scambio tra lavoro vivo e lavoro oggettivato, tra capitale e salario ed all’analisi del profitto e della rendita fondiaria in generale, insomma all’origine del pv, avverte che a questo punto si presenta un’incrinatura, dacché –quale che sia la mediazione, che egli non comprende (begreifen)- di fatto vien superata la legge e lo scambio avviene, dal punto di vista dell’operaio, di più lavoro con meno lavoro e, dal punto di vista del capitalista, di meno lavoro con più lavoro. [Secondo Smith,] con l’accumulazione di capitale e la proprietà della terra –dunque, col farsi autonome delle condizioni del lavoro nei confronti del lavoro stesso- si realizza un capovolgimento della legge del valore nel suo contrario. [Smith, però, non comprende] come questa contraddizione intervenga per il fatto che lo stesso Arbeitsvermögen diviene merce, il cui specifico valore d’uso, che non ha nulla a che fare con il suo valore di scambio, è di essere energia che produce valore di scambio”.[24]

Smith ha ricavato che il pv ha, nel profitto e nella rendita fondiaria, solo forme particolari. Giusta la stessa dimostrazione che egli ne fa, la parte del capitale che consiste nelle materie prime e negli strumenti di produzione, non ha immediatamente nulla a che fare con la produzione di pv. Quest’ultimo consiste esclusivamente nell’addizionale quantità di lavoro, che l’operaio offre oltre la parte del suo lavoro, che è l’equivalente  del suo salario. Nel profitto invece il pv è calcolato sulla somma globale del capitale anticipato e, al di là di questa modifica, ne appaiono anche altre mediante il livellamento (Ausgleichung) dei profitti nelle diverse sfere di produzione del capitale. Poiché AS ha dispiegato, secondo la realtà della cosa ma non a chiare lettere, il pv nella forma di una categoria determinata, che si distingue dalle sue forme particolari, la fa coincidere, poi, direttamente ed immediatamente con la forma del profitto, successivamente svolta.

Questo errore resta in Ricardo e nei suoi successori. Da ciò deriva … una serie di inconseguenze, di contraddizioni non risolte, di sbadataggini, che i ricardiani … scolasticamente cercano di risolvere con strumenti retorici.

Si badi alla conclusione, a cui Marx arriva: “Il grossolano empirismo[25] si capovolge in una falsa metafisica, che si sforza di inferire un gran numero di fatti empirici direttamente, mediante una semplice astrazione formale, dalla legge universale e di ragionare correttamente (zurechtzuräsonieren) su di essi, mediante quella legge.” (60s).

Di nuovo, Marx critica l’empirismo, così come aveva criticato il limite dell’economia politica, la sua incapacità di passare dal cogliere (fassen) il suo campo d’investigazione, alla rigorosa sistematizzazione concettuale (begreifen) dello stesso.
Un altro aspetto della critica marxiana dell’empirismo va sottolineato.

Poiché Adam Smith ha ridotto il pv, (ovvero, il sovrappiù, che l’imprenditore si procura al di sopra della massa di valore, necessaria a rimpiazzare i suoi fondi), alla parte del lavoro, che l’operaio sostituisce alla materia, al di sopra di quanto serve a pagare il suo salario; poiché dunque Adam Smith fa sì che questo sovrappiù nasca dalla parte del capitale,  che l’imprenditore spende in salari, per tutto ciò lo stesso Smith coglie subito il sovrappiù nella forma del profitto, vale a dire non in relazione alla parte del capitale, da cui deriva, ma sì in quanto sovrappiù rispetto al valore totale del capitale anticipato. Insomma, Smith coglie immediatamente il pv nella forma del profitto.[26]

Ma Adam Smith distingue, anche, ra le modalità del pv –ovvero, il profitto e la rendita; la sua riduzione del pv al profitto entra dunque in   contraddizione con quest’altro elemento della sua teoria. Come succede questo?

Scomposto il pv nelle sue componenti (profitto e rendita), Smith avrebbe dovuto analizzare il movimento di ognuna di esse, il quale movimento avviene in ognuno dei due casi secondo regole diverse; il che significa che Smith non doveva assolutamente confondere l’astratta forma generale con qualcuna delle sue forme particolari.

In Adam Smith, però, come in tutti i successivi economisti borghesi, permane, nell’analisi delle regole economiche, la mancanza di consapevolezza teoretica della regola dei rapporti economici. E ciò a causa del loro grossolano cogliere[27] il materiale empirico presente ed in seguito al loro interesse per esso[28].

Stefano Garroni 


[1] - A. Smith, The Wealth of Nations, vol.1, , Everyman’s Library, 1970: 40.
[2] - Nello stesso testo leggiamo che  “it is natural that what is usually the produce of two days or two houers labour, schould be worth double of what is usually the produce of one day houer’s.”
[3] - Cf questo quadro tracciato da A. Smith con lo scritto marxiano Forme precapitalistiche  di produzione
[4] - Ancora una volta è interessante il confronto col già citato testo di Marx, che mai prevede mutamenti fondamentali della situazione economica senza indicarne, seppure schematicamente, le ragioni propriamente economiche.
[5] - Basterebbe questa asserzione smithiano per giustificare l’accusa di cinismo, che il giovane Marx rivolgeva all’economia politica.
[6] - Cf. The Wealth of Nations/. vol.1: 26ss
[7] -  M. Dobb, Storia del pensiero economico, Roma 1974: 49s.
[8] - Si ricordi a questo proposito che, nella prospettiva dialettica di Hegel e di Marx, l’essenza, il Wesen si identifica con la legge/Gesetz, che spiega il formarsi, lo svilupparsi e il deperire di un fenomeno storico, ad es. di un modo di produzione.
[9] -M. Dobb, op.cit: 51.
[10] - Nella prima parte di questo scritto –sottolinea Marx- in occasione dell’analisi della merce, ho già dimostrato come nella definizione (Bestimmung) del valore di scambio A.S. oscilli, esattamente nel senso che la definizione del valore di scambio delle merci, mediante il quanto di lavoro richiesto per la loro produzione, subito si rovescia nel quanto di lavoro vivo, con cui la merce può essere comprata, ovvero, ma è lo stesso, mediante la quantità di merce con cui un determinato quanto di lavoro vivo può essere comprato. (Marx Engels Werke [d’ora in avanti MEW], 26.1, Berlin 1965: 41). Qui egli fa del valore di scambio del lavoro la misura del valore delle merci. In realtà del salario, poiché il salario equivale alla quantità di merce, che vien comprata con un determinato quanto di lavoro vivo, ovvero equivale al quanto di lavoro, che può esser comprato con una determinata quantità di merce.
[11] - Contro la tesi che contrappone ad un Marx umanista e filosofo (ovvero il Marx giovane dei Pariser Manuskripte) un Marx, invece, fondatore di una nuova scienza, si badi che la critica all’empirismo di A. Smith ha, proprio in alcune pagine dei Pariser Manuskripte – quelle dedicate  al ‘Lavoro estraniato’ (Entfremdete Arbeit) -  un evidente anticipo, nella contrapposizione tra fassen e begreifen, che Marx opera per denunciare appunto l’empirismo della Politi sche Őkonomie.
[12]  - A. Smith, op. cit.: 42.
[13]  - A. Smith, ivi, e pp. 50s.
[14] - Ciò che da sempre si sa, dunque, è che il lavoro produce valori d’uso e che la fatica della loro produzione ne determina il valore di scambio. Con l’affermarsi del modo capitalistico di produzione, si distingue rigorosamente fra lavoro improduttivo e lavoro produttivo, lavoro –dunque-  che produce plusvalore e, quindi, profitto per  il proprietario delle condizioni materiali di lavoro (che non si identifica più con il produttore effettivo, ovvero il lavoratore salariato).
[15] - K. Marx, Texte zu Methode und Praxis.II. Paiser Manuskripte 1844, Rowohlts Klassiker 1966: passim.
[16]  - cf. Mew, op. cit.: 42
[17] - Questo, da un  lato, per lo scarto tra Arbeits – kraft  e quantità di lavoro effettivamente erogato o, in altri termini, tra valore della forza-lavoro e valore effettivamente creato, una vlta che quelle forza venga impiegata; il rovescio della medaglia è che il lavoro oggettivato comanda una quantità di lavoro vivo,maggiore rispetto a quello contenuto nella merce.
[18] - Intendo fino a che la dipendenza era personale, il che ‘nasconde’ il fattore tempo/lavoro,, ovvero la matematizzazione, la misurabilità della forza-lavoro.
[19] - Ovvero il principio del valore, di cui dice il già citato M. Dobb.
[20] - Azzardo questa conclusione: il lavoro è Mühe –o fatica. Con il modo capitalistico di produzione, subentra una differenza ed Arbeit viene usato nel senso di uno sforzo, riducibile a quantità misurabile.
[21] - Mew: op. cit.: 43s.
[22] - A. Smith, op. cit.: 56s.
[23] - A. Smith, ivi.
[24] - A. Smith, op. cit.: 59.
[25] - Per Marx ed Engels, “la differenza tra realtà e concetto non può esser chiarita al modo della filosofia trascendentale, dell’empirismo o del materialismo in senso classico, ma sì in quanto contraddizione fra essere e pensiero sociali, fra coscienza e vita sociali, fra teoria ed esperienza del lavoratore” - questo di nuovo è hegeliano, proprio nel senso dell’Arbeit-Mühe. [AAVV, 6961.3: 243s]
[26] - Cpm’è noto, Marx distingue invece tra profitto e pv E la differenza tra i due consiste nel fatto che il pv deriva dalla relazione tra valore prodotto e costo dei salari, mentre il profitto deriva dalla relazione tra valore prodotto e totalità del capitale anticipato.
[27] - Come si vede, torna la giovanile critica al fassen, come caratteristica del’economia poltica.
[28] - Il limite empiristico della ‘sacralizzazione’ e intangibilità del fatto

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