martedì 16 aprile 2013

L’OCCHIO ESTRANEO E LA PALLA per Brecht: condizioni sociali come processi contraddittori. -Gianfranco Pala - ( La Contraddizione n. 126 gennaio-marzo 2009)

Proprio perché si è rimasti all’oscuro circa la natura della società umana,
ci troviamo ora di fronte alla possibilità di un totale annientamento del pianeta.
Si lavori a trasformare il mondo.
Se ci si mette dal punto di vista della palla,
è evidente che le leggi del moto diventano inconcepibili.
[Bertolt Brecht]


                                                                                                                                                                                                 Bertolt Brecht, nei suoi Scritti teatrali [Einaudi, Torino 1962, raccolti del 1957, l’anno successivo alla sua morte], “come cordiale contributo alle vostre discussioni” muove dal presupposto che “il mondo d’oggi può essere espresso anche per mezzo del teatro, purché sia visto come un mondo trasformabile”. Ecco: anche epurché; infatti Brecht affermava “che il problema se sia possibile una descrizione del mondo, è un problema di ordine sociale”. In base a questo suo impianto materialistico emergono due constatazioni connesse: da un lato, il riprovevole stato della concezione epica del teatro brechtiano, che tranne pochi piccoli coraggiosi tentativi contrari alla drammaticità e superficialità delle rappresentazioni dominanti è stato sempre più lasciato a se stesso se non dimenticato e di fatto tradito anche dalla quasi totalità dei suoi allestitori attratti dal più appagante successo commerciale e dalla facile “commozione” drammatica degli uditori; dall’altro, al contrario in base alla coerenza brechtiana, il suo esplicito riferimento all’aspetto sociale del problema.

Si resti solo per un momento all’aspetto della comunicazione teatrale brechtiana; oggi, ma purtroppo già da diversi anni, la situazione sociale, non solo italiana, si è così deteriorata che la messa in scena delle opere di Brecht non ha per il momento più la base materiale necessaria. L’inevitabile componente mercantile culinaria del teatro, che non può non esserci, ha finito col tornare a prevalere indiscussa rispetto al carattere di insegnamento, all’istruzione e alla comunicazione pubblica. L’ascoltatore – il “pubblico”, come piace considerarlo agli imbonitori d’accatto scesi-in-politica – è coinvolto, partecipa sentimentalmente accogliendo banali suggestioni e menzogne, farcito di illusioni ottimistiche, è passivo in attesa degli esiti della narrazione; perciò non osserva, senza decidere e agire, rimane fisso e immutabile privo di qualunque razionalità. Si confronti, a titolo di esempio per l’Italia, l’epicitàdi Galileo o Puntila di Tino Buazzelli, di Arturo Ui di Franco Parenti, dell’anima buona di Valeria Moriconi o pure della madre Courage di Lina Volonghi, con la drammaticità superficialmente emotiva pur se con espresso riconoscimento ma culinariamente-acclama­to-dal-pubblico-borghese-democratico delle messe in scena di Streheler. Giacché sono le vere novità che attaccano la base.
Dunque, se da una mera discussione sulla forma attuale della nostra società non ci si può ripromettere niente, cionondimeno essa costituirebbe immediatamente e irreparabilmente una minaccia totale alla forma di questa società stessa. Queste ultime considerazioni inducono, in un certo senso, a tornare dialetticamente alla radice materiale sociale del problema. Ri\rovesciando il temerario e perciò tanto ostinato quanto disarmato assalto brechtiano al cattivo uso “culinario” del mezzo teatrale, attraverso una parafrasi dei suoi scritti teatrali, si presenta qui una trasposizione in chiave direttamente sociale economica – quasi in un montaggio finalizzato diversamente alle stesse basi materiali originarie di quelle sue critiche al convenzionale teatro drammatico [cfr. particolarmente nel­l’edizione pbe le pp,72-81 sugli effetti di straniamento nell’arte scenica cinese e pp.113-149 del breviario di estetica teatrale, oltre all’introduzione di p.20, e infra]. In effetti Brecht, con l’effetto di “straniamento” che indicava ai suoi attori, intendeva mostrare che attraverso di esso “la raffigurazione lascia bensì riconoscere l’oggetto, ma al tempo stesso lo fa apparire estraneo”. È in questo significato di estraneità che in uno dei suoi ultimi discorsi, del 1955 appunto, posto a mo’ di prefazione della raccolta degli scritti teatrali, Brecht ha inteso caratterizzare la metafora della palla e delle leggi del moto – che qui si è voluta collocare a occhiello – proprio per riuscire a “sviluppare in sé l’"occhio estraneo" con cui il grande Galileo osservò la lampada oscillante”.
Chi comprenda l’“effetto di straniamento” non potrebbe che “lasciare da parte tutto quello che ha imparato per l’immedesimazione”. Ora, ben al di qua del teatro, è facilissimo accorgersi come un’immedesimazione che deriva dall’im­paraticcio di nozioni abborracciate – magari abbellite qua e là sensazionalmente da grafici formulette, o numeri che dànno un’impressione pseudo-scientifica – costituisca in misura maggiore e crescente l’aspetto esteriore delle menzogne comunicative che il potere sociale propina quotidianamente a masse credulone. Sul “bestiario” degli esorcismi voluti dalla peculiare imbecillità degli economisti si è già detto [cfr. lo scorso no.125], ma ciò accomuna ovviamente tutte le vicende sociali, a cominciare dalle chiacchiere dei “politici” ormai sprofondati nel baratro di ignoranza e di falsità da essi stessi scavato, Viceversa, Brecht ha ammonito che chi segue lo straniamento, “non intendendo ipnotizzare il pubblico, non deve ipnotizzare neppure se stesso”. Svanito l’effetto ipnotico, non rimarrebbe più che un trattatello di mimica mal rimestata, “una merce raffazzonata alla bell’e meglio venduta al buio a compratori affrettati”.

L’analisi e la comunicazione dei fatti sociali può perciò avvalersi della critica brechtiana alla forma teatraledominante; l’esplicitazione sociale, politica ed economica, è più diretta di quanto si possa supporre, medianteriferimento testuale alle parole brechtiane, con una semplice sostituzione, nel montaggio, dei termini socio-politici-economici a quelli teatrali. In definitiva, non si parla ricorrentemente di teatrino-della-politica? Acquisiscono entrambe la forma della rappresentazione. Quindi, come detto, si tenta qui di mostrare tutto ciò attraverso il doppio rovesciamento tra rappresentazione teatrale e falsa rappresentazione a uso delle masse di quegli aspetti sociali. Perciò, tranne che in alcuni casi specifici che richiedono maggiore evidenza, non saranno qui di séguito messe le rituali virgolette delle citazioni. È bene sottolineare ancora una volta che quasi tutte le parole, di facile o difficile comprensione che siano, sono di Brecht: ma, appunto, non si tratta di plagio bensì piuttosto di omaggio all’autore menzionato. A parte le necessarie indicazioni di altri autori come Engels o Marx, tutto il materiale riportato è dunque tratto dai citati scritti teatrali di Brecht; l’“origina­lità” – scriveva Brecht stesso nelle storielle del signor Keuner – sta solo nel montaggio, giacché occorre un “ingegno” che oggi non c’è più per utilizzare per il novanta per cento parole scritte da altri.
La critica degli aspetti sociali può e deve seguire qui codesti canoni. È dunque necessario rendere impossibile al lettore o all’ascoltatore di immedesimarsi sentimentalmente con i personaggi; eppure una tale critica è lungi dal rinunciare alla rappresentazione dei sentimenti, ma non assume mai toni accesi, ogni escandescenza gli è estranea. L’accettazione o il rifiuto della comunicazione artefatta deve avvenire nella sfera cosciente di costoro e non, com’è finora avvenuto, nel loro inconscio. Ciò che avviene nel subcosciente è un atto oscuro “e il subcosciente è troppo gracile per poter essere disciplinato; ha, per così dire, cattiva memoria”. Per non smarrire il ben dell’intelletto, la critica non deve essere soverchiata dai casi personali. Le masse non possono più illudersi di assistere da spettatori invisibili a una vicenda che sta “realmente accadendo”, come se invece si trattasse sempre di un realityshow, di un video gioco o di una secondlife. Le cose della vita quotidiana si elevano al di sopra del piano dell’ovvietà.
Il critico dell’economia politica, e l’oppositore del potere, è tale se guarda se stesso, si osserva, per studiare ciò che lo circonda, giacché raggiunge lo scopo solo se riesce a considerare da “estraneo” se stesso e la sua analisi. Del resto – osservò Brecht in generale – è solo in casi eccezionali, di veri e propri genii, che è ancora possibile a un membro della società di classe creare la verità. Ma nelle attuali condizioni di massa determinate dal dominio del capitale, non soltanto un critico o un oppositore dichiarato, magari ufficialmente riconosciuto, può raggiungere tale meta di straniamento sociale chiunque sia un essere pensante, che abbia significative dosi di esperienza umana e di intelligenza della vita e di acuta intuizione di ciò che è socialmente importante. Ricorda Brecht che qualche centinaio di anni fa, alcune persone, in paesi diversi, tentarono degli esperimenti coi quali speravano di strappare alla natura i suoi segreti; trasmisero ad altre persone le loro invenzioni ed energie di tale portata che prima di allora non avevano osato nemmeno sognare.
Se le nuove scienze hanno reso possibile un grandissimo mutamento e soprattutto una grande trasformazione del nostro ambiente, non si può dire per questo che lo spirito scientifico ci animi tutti in modo altrettanto decisivo. La nuova maniera di pensare e di sentire non ha ancora penetrato veramente le grandi masse, perché la borghesia sa bene che verrebbe messa fine al suo potere se le sue imprese venissero considerate con occhio scientifico. E la ragione è da ricercarsi nel fatto che alle scienze, tanto efficienti nello sfruttare e nel sottomettere la natura, viene impedito dalla borghesia – la classe cui appunto procurano il potere – di trovare applicazione in un altro campo, mantenuto tuttora nell’om­bra: cioè quello della reciprocità dei rapporti degli uomini nello sfruttamento e nella sottomissione della natura. Le masse sembrano tanto lontane dalle scienze naturali soltanto perché ne sono tenute lontane, e per potersene appropriare devono prima sviluppare e mettere in pratica una nuova scienza della società.
A metà dell’ottocento sorse una nuova scienza che ha per oggetto lo studio della società, e sorse proprio dalla lotta degli oppressi contro gli oppressori; da allora qualcosa dello spirito scientifico esiste nel profondo presso la nuova classe dei lavoratori: dal loro punto di vista anche le grandi catastrofi si presentano come le imprese dei potenti. Il metodo della nuova scienza sociale – la dialettica materialistica, per concepire la società nel suo moto – considera le condizioni sociali come processi e osserva tali processi nella loro contraddittorietà, e per il quale tutto esiste solo in quanto si trasforma, dunque in antinomia con se stesso. Ma l’ap­prendimento critico del monopolio del potere è un processo creativo di natura più elevata, perché si innalza alla sfera della consapevolezza; non si riferisce esclusivamente alla “sensibilità naturale”, in uno stato affine a quello di trance, ma può essere messo a confronto con la verità – dall’esterno, dal di fuori della “palla” – in maniera che le masse possano giudicarlo. Dunque, anche per il critico della società l’“effetto di straniamento” non si basa affatto su una rappresentazione artificiosa, in quanto dipende dalla fluidità e naturalezza delle contraddizioni. Occorre trasformare la critica, ossia il grande metodo della produttività: la morale non impone altri obblighi.

La storicizzazione dei fatti da rappresentare, nelle contraddizioni direttamente sociali, è questione essenziale. Occorre ricordare che l’ideologia borghese tende a enucleare dalla propria materia il contenuto extratemporale, per poter disporre di una rappresentazione dell’uomo che si limita a ciò che nell’uomo è eterno, di “portata generale”; l’economia è maestra in tale mistificazione, per far sì che attraverso tale “eternità” si presuma di esprimere l’“essenza dell’umanità”, dell’uomo di tutti i tempi. Viceversa, caratterizzarla nella relatività storica di ogni epoca, significa rompere con l’abitudine di spogliare delle loro diversità le strutture sociali di epoche passate per renderle tutte più o meno simili alla nostra: la quale, grazie a questa operazione, prende l’aspetto di cosa sempre esistita e, pertanto, eterna. Ciò che da lungo tempo non ha subito mutamenti sembra infatti immutabile; il bambino che cresce in un mondo di vecchi impara a vivere come i vecchi, impara le cose così come le vede andare. Una simile opinione può ammettere l’esistenza di una storia, ma è una ideazione antistorica: si ammette che alcune circostanze cambiano, che gli ambienti si trasformano, ma “l’uomo non cambia” – anzi non cambia l’Uomo con la U maiuscola. Cosicché alla “storia” – a questa pseudo-storia – l’ideologia dominante ritiene di poter attribuire senso per l’ambiente ma non per l’umanità.
L’ambiente stesso, come unità in sé conclusa, risulta così in ultima analisi irrilevante, poiché viene considerato come puro pretesto, come un’entità assolutamente estranea all’uomo, contrapposto a lui visto in quanto “eterno immutabile”. Al contrario, nella teoria brechtiana – che riprende dialetticamente l’intera analisi storica del materialismo di Engels e Marx, costruita sui fondamenti della logica hegeliana, e non limitandosi soltanto al teatro – la concezione degli uomini è essa stessa un dato variabile dell’ambiente, e specularmente dell’ambien­te come variabile dell’uomo. Al pari della trasformazione della natura, la trasformazione della società è un atto di liberazione. Ossia, la riconduzione del­l’ambiente a un sistema di relazioni tra gli uomini sorge da un diverso indirizzo di pensiero: il pensiero storico. “Quando si studiano simili sconvolgimenti – scriveva Marx nella Prefazionedel 1859 a Per la critica dell’economia politica – è indispensabile distinguere sempre tra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o filosofiche, in una parola le forme ideologiche che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un uomo dall’idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa; occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita materiale. Una formazione sociale non perisce finché non siano sviluppate tutte le forze produttive per la quale essa offra spazio sufficiente; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate, in seno alla vecchia società, le condizioni materiali della loro esistenza”.
È facile vedere come una tale rappresentazione correttamente storica sia del tutto estranea all’ideologia sociale borghese, che si limita a essere cronachisticamente fattuale. Le sue raffigurazioni della vita sociale sono false, comprese quelle del cosiddetto naturalismo; e ciò induce la critica a rivendicare rappresentazioni “scientificamente” esatte, e invocare, di fronte al basso “culinarismo” delle insensate delizie offerte agli occhi e all’anima, la “bella logica”. Senonché quanto più quel culinarismo si abbassa – si pensi alle fictions televisive o pure ai telegiornali in tutto il mondo – tanto maggiori sono gli ostacoli che vengono frapposti alla critica in generale e specificamente al marxismo, critiche che ripudiano sdegnosamente l’avversione ad apprendere e il disprezzo dell’utile.
La formazione sociale capitalistica – scrivevano ancora Engels e Marx in L’ideologia tedesca del 1845 – “isola gli individui, non solo i borghesi, ma ancor più i proletari, ponendoli gli uni di fronte agli altri, benché li raccolga insieme. Perciò passa molto tempo prima che questi individui possano unirsi, senza tener conto che i mezzi necessari per questa unione, le grandi città industriali e le comunicazioni rapide e a basso prezzo, devono essere prima prodotti dalla grande industria; e perciò non è possibile vincere, se non dopo una lunga lotta”. Ciò è possibile solo organizzandosi contro le condizioni e il potere che riproducono l’isolamento. Esigere il contrario, vorrebbe dire esigere che quella formazione sociale “non debba esistere in quest’epoca storica determinata, o che gli individui debbano cavarsi dalla testa situazioni sulle quali essi, come individui isolati, non hanno alcun controllo”. Pur se l’individuo singolo, precisa Brecht, arrivasse a riconoscere che il destino riserbatogli dalla “provvidenza” in realtà è quello che gli impone la società, quest’enorme conglomerato di esseri consimili – quasi un tutto più grande della somma delle sue parti – gli sembrerà una cosa che a lui non è dato influenzare. Affinché tutti questi fatti “naturali” giungano ad apparire come altrettanti fatti problematici, egli dovrebbe sviluppare in sé lo sguardo arduo e fecondo dell’“occhio estraneo” di Galileo.
Tutti codesti ostacoli sono il retaggio di una classe depravata e ormai parassitaria, caduta in condizioni pietose, che non ha più neppure la capacità di rappresentare la convivenza sociale e di raccontare in modo chiaro queste vicende, ricorrendo invece ai melodrammi, ai romanzi popolari o pure ai “polpettoni” televisivi. Il mondo viene raffigurato con ingredienti così scarsi, così miseri, da fare ammirare coloro i quali, servendosi di così meschini ricalchi, riescono a commuovere i loro commossi uditori ben più violentemente di quanto non riesca a commuovere il mondo stesso. I diversivi che gli agenti del potere vendono in cambio di denaro – e di gloria – non potrebbe essere prodotto “con immagini del mondo più esatte, né presentare in maniera meno magica le sue inesatte immagini”.

I rapporti degli uomini tra di loro sono oggi più impenetrabili che mai; la comune gigantesca impresa sembra dividerli sempre di più; l’aumento della produzione provoca l’aumento della miseria, e solo pochi uomini traggono un utile dallo sfruttamento della natura, sfruttando altri uomini. Dovremo imparare da molti punti di vista a scoprire di che cosa, in accordo con i tempi in cui viviamo, hanno bisogno le grandi masse di coloro che producono molto e vivono difficilmente. Una parte sempre maggiore della produzione è adibita a creare mezzi di distruzione per terribili guerre. Anche dai fenomeni “asociali” la società può trarre giovamento, purché tali fenomeni siano presentati come grandi e vitali: poiché essi rivelano spesso intelligenza e doti di particolare valore, seppur impiegate immediatamente a fini distruttivi; purché la società stessa sia capace di dominarli, anche tali fenomeni le possono appartenere. Ma l’economia ignora e sorvola tutte queste contraddizioni – fino alla crisi.
L’economia, in particolare, capovolge la rappresentazione dei tipi umani: e­marginati, diversi, contestatori, immigrati, stranieri, ecc. – ... comunisti! – sono usualmente considerati soggetti secondari e reprobi, pur se testimoniano un’au­tentica conoscenza della natura umana; mentre assurgono a un ruolo sociale principale i potenti o i loro lacchè, affinché il comune-cittadino possa più facilmente identificarsi in essi, giacché l’uomo qualunque desidera entrare in possesso di determinate sensazioni, come quelle cui può aspirare un bambino quan­do siede sul cavallo di una giostra, davanti agli occhi degli altri bambini: poco importa al bambino che il cavallo di legno somigli o no a un vero cavallo. I potenti, e chi per loro, devono essere capaci di trasformare quei gonzi in una massa intimidita, credula, “ammaliata”. La sola cosa importante per loro è poter scambiare unmondo contraddittorio nella parvenza di un mondo armonioso, quel mondo che si conosce assai poco contro un mondo che si può sognare, la cruda realtà con l’ottimismo.
Guardandoci attorno vedremo figure pressoché immobili in uno strano atteggiamento; hanno gli occhi aperti, ma non guardano, fissano; e neppure ascoltano, ma sono tutt’orecchi. Tra di loro quasi non comunicano; sono riuniti come tanti dormienti, ma dei “dormienti che fanno sogni inquieti, poiché – come dice il popolo dei sognatori di incubi – stanno sdraiati sulla schiena”. Questa plebe, aliena da qualsiasi attività, appare come una materia passiva, nella quale è stata ridotta e uniformata. Noi, disapprovando questo stato di cose, ci troviamo spinti a desiderare che gli agenti del capitale, i loro cloni e i loro sudditi, si comportino nel peggior modo possibile. Occorre fare agire le masse in quanto mosse da forze sociali, e da forze sociali diverse secondo le diverse epoche, ostacolando la tendenza ad abbandonarsi all’“ambiente” sociale dominante. La critica per comprendere le forme storiche della convivenza umana può cominciare soltanto allorché si capisce che è indispensabile ispirarsi al proprio tempo, cosicché anche le condizioni che determinano le proprie azioni potranno apparire nel loro carattere particolare.
Onde divenga visibile la connessione degli avvenimenti, anche per gli uomini nei quali si esprime sempre il particolare modo della loro convivenza sociale, il rischio incombente è che il “rappresentante” del potere sia trasformato interamente in un “personaggio” – un condottiero, un dux – giacché codesta è la maniera sicura con cui anche il cittadino comune si identificherà con quello. Ma per nessuno è possibile dar la dimostrazione delle leggi che muovono la società, illustrandole con “casi ideali”, poiché l’“impurità” – ovvero la contraddittorietà – è propria al movimento e inerente alle cose in moto, e prima o poi emerge. È necessario che la società sia trattata come se ciò che essa compie fosse costantemente un esperimento: ma senza opinioni e senza intenzioni non si può raffigurare nulla, ed è per ciò che le masse hanno l’obbligo di costruirsi un’opinione e una coscienza. Infatti senza conoscere non si può mostrare nulla.
Le decisioni fondamentali per il genere umano vengono dibattute sulla terra e non per aria, nel mondo “esterno”, non dentro i cervelli. Al di sopra delle classi in lotta non ci può stare nessuno, poiché nessuno può stare al di sopra degli uomini; la società non ha un portavoce comune finché è divisa in classi che si combattono. Se qualcuno dichiara di essere “apartitico”, ciò non significa altro che è del “partito dominante”. Perciò è importante che non si “afferri” troppo in fretta, per evitare di giungere troppo presto, prima di aver registrato tutte le altre necessarie enunciazioni. Un’opposizione sociale di classe, non di schieramento, deve anzitutto tenere presente che la più piccola unità sociale non è l’uomo, ma due uomini: anche nella vita ci si costruisce a vicenda. Ognuno è obbligato a mirare in special modo alle caratteristiche che non gli si addicono, e a scambiarsi le parti con l’interlocutore per giovare alla verosimiglianza della vicenda.
In tali atteggiamenti sociali, assunti cioè da uomini verso altri uomini, rientrano perfino quelli in apparenza affatto privati, come quelli religiosi. In una lezione, se si parla solo perché i pensieri straripano o se si pensa che tocchi al bambino carpire la scienza, può anche darsi che entrambi non si sappiano trattenere, l’uno dal domandare, l’altro dal rispondere. Una “fratellanza” simile potrebbe pure essere interessante, perché in séguito di certo verrà malamente sconvolta. Quindi lo stesso uomo si vedrà costretto alla fine a esigere da que­st’era che, pur espropriandolo, lo respinga con disprezzo – come scelse Galileo.

In un’epoca sanguinaria e oscura, “governano le classi criminali”; è codesta un’epoca in cui si diffonde il dubbio – e anche più del dubbio – sull’ef­ficacia della ragione. Di fronte a una prassi illogica, la logica del potere è del tutto priva di senso, pratico e scientifico: Pietranera la definiva la “razionalità irrazionale” del capitalismo. È significativo che per bisogno di denaro, nella povertà, anche l’interesse astronomico di Galileo fu rovesciato nella necessità di produrre oggetti di utilità quotidiana fino a quelli di utilità militare, pur facendo ricorso a menzogne truffe; ma la merce che lo si era in tale maniera costretto a produrre – diciamo pure per estorsione – si rivela utilissima proprio a quelle ricerche che aveva dovuto interrompere per fabbricarla. Si delineava un’emozio­ne ben più profonda della prospettiva del lucro. Questo simbolo è necessario per trovare sorprendenti le contraddizioni dei diversi atteggiamenti; tanto che anche il “cittadino” comune dovrà esserne sorpreso. La vicenda nel suo insieme gli permetterà di connettere le contraddizioni; senonché per la contraddizione tra un tale raziocinio appreso e una sua azione abitudinaria così diversa e pregressa, egli ne cade tragicamente vittima.
La reciprocità tra le diverse parti in rapporto dovrà essere proprio quella di straniarsi a vicenda. Appunto quando il mondo non è più visibile, gli “intellettuali” sono inclini a scivolare nell’incorporeo e nell’occulto per poi parlare di “visione del mondo”. Il materialismo è rabbassato a poco più di un’idea. Lo studio è inteso come uno “strusciare col naso sulle cose”. Il “fare” non è un allegro affaccendarsi; e per attestare le capacità dei comunisti non si parla del piacere che ci ha procurato una cosa, ma del sudore che ci è costata. Ma se quel vicendevole straniamento non avviene si ricade nel dominio della trita convenzione a esso estranea, le rappresentazioni non sono elaborate in piena coscienza, e in piena coscienza neppure possono essere accolte. Giacché – per rispondere a realtà e verità – le rappresentazioni dovranno cedere il passo alla cosa rappresentata, alla convivenza degli uomini resi uguali; e il piacere di vederle perfette si rafforzerà nel piacere più eletto di vedere che le norme di questa convivenza sono state trattate come provvisorie e imperfette.
Dunque – nella misura in cui per Brecht il teatro epico (al contrario del ... “taetro” drammatico, come egli stesso ironizza) è da intendere come mezzo di comunicazione e di lotta, proteso e a un tempo fondato materialmente sui rapporti sociali esistenti nella realtà di ciascuna epoca – le sue riflessioni sul “mezzo” teatrale sono concettualmente riestese a tutta la critica dell’ideologia dominante. Pertanto, nella presente parafrasi si sono trasposti dialetticamente di nuovo i fondamenti materiali di quel mezzo scenico in direzione della critica dell’invadenza sociale, che è anzitutto economica e politica a un tempo, del potere sulle masse ammaliate e “dormienti sdraiate sulla schiena”, aliene nei loro incubi. Il dramma reale consiste appunto in ciò: che di fronte all’ignavia cui sono ridotte le masse, la critica dell’economia politica, delle relazioni tra individui nella società e dell’ideologia borghese, non sono finora state capaci di afferrare il significato dell’osservazione scientifica di quei rapporti sociali. I critici sociali, in generale, non colgono il senso dell’“effetto di straniamento” nella “raffigurazione che lascia riconoscere l’oggetto, ma al tempo stesso lo fa apparire estraneo”. Non hanno guardato quei rapporti, ed essi stessi, con quell’occhio esterno – distaccato ma facente parte della medesima e unica società, epperò senza rimanerne coinvolti drammaticamente – per comprenderne il moto: cioè le contraddizioni e le trasformazioni del mondo. Il pianeta è tondo e – come una palla con chi ci sta dentro passivo e immedesimato nella sua rovina senza coscienza di massa, senza “straniarsi” – rotola nell’abisso di un antimateriale buco nero.

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