martedì 28 febbraio 2017

Trotzky, il profeta ricordato* - Stefano Paterna

*Isaac Deutscher, Il Profeta esiliato,Milano, PGreco Edizioni, 2011, p. 436.  https://www.lacittafutura.it/ 



Ci fu un tempo nel quale alle labbra del proletariato internazionale perveniva il medesimo grido: “Viva Lenin! Viva Trotzky!”. Negli anni che vanno dall’Ottobre rosso fino alla fine degli anni ’20, ma anche dopo, fino al suo assassinio in Messico, il nome di Lev Davidovic Bronstein detto Trotzky è rimasto il sinonimo della Rivoluzione in Russia e nel mondo.

La riedizione nel 2011 della bellissima trilogia biografica di Isaac Deutscher sul grande rivoluzionario (“Il profeta armato”, “Il profeta disarmato” e “Il profeta esiliato”), da parte della casa editrice PGreco, dà modo di apprezzare a pieno lo spessore del personaggio, la sua dimensione umana, la vastità della tragedia che non è solo personale, ma di un’intera epoca e ha segnato in modo profondo il movimento comunista e il pensiero marxista.

Il comunismo post 1991, più che mai in occasione del centenario della Rivoluzione del 1917, non può permettersi ancora abiure e dimenticanze: se vuole ridestarsi al ventunesimo secolo ha bisogno dell’intera sua storia e di tutta la ricchezza e varietà del marxismo (o più correttamente dei marxismi), come già ribadito in altra occasione su questo stesso giornale (a proposito di Bordiga). Di questa ricchezza e varietà è parte importantissima l’esperienza politica e teorica di Lev Trotzky, fondatore dell’Armata Rossa, presidente del Soviet di Pietrogrado nel corso della prima Rivoluzione del 1905 e poi di nuovo nel 1917, commissario agli Affari Esteri della Repubblica Sovietica e firmatario del Trattato di Brest-Litovsk che, per quanto riguarda la Russia, pose fine alla Prima Guerra Mondiale. Di fatto, al di là delle opinioni e delle preferenze ideologiche, l’esponente bolscevico più importante e maggiormente coinvolto nella Rivoluzione di Ottobre, dopo Lenin.

Certo, a partire dalla metà degli anni ’20 la marea montante dello stalinismo lo sommergerà di calunnie e di accuse le più fantasiose e aberranti fino a dipingerlo prima come un agente di Hitler e del Giappone imperiale e poi dell’imperialismo Usa. Tuttavia della sua proposta politica (industrializzazione accelerata e collettivizzazione dell’agricoltura) prenderà nota lo stesso Stalin che parzialmente e brutalmente la applicherà a partire dal 1929. Il medesimo Stalin che rimarrà ossessionato dalla figura dell’esule (pure ormai privo di qualsiasi potere rilevante) fino al 1940, quando lo farà uccidere da un sicario del NKVD, Ramon Mercader.

Di tutto ciò e di moltissimo altro scrive diffusamente Isaac Deutscher nella sua imponente trilogia pubblicata tra il 1954 e il 1963. Deutscher (1907-1967) è stato sì un militante del Partito Comunista Polacco e della sua corrente antistalinista, ma da storico ha dato vita nella biografia di Trotzky a un’opera assolutamente equilibrata che non nasconde le sue simpatie e le sue avversioni, ma le fonda sulla robustezza dei fatti. Così, non viene occultata la funzione progressiva dello stalinismo a partire appunto dalla scelta di recidere il cordone ombelicale con la Russia arcaica e contadina, anche se quel taglio suggerito dalla Opposizione unificata di Trotzky, Zinovev e Kamenev, fu applicato con una tale violenza e con i conseguenti gravi squilibri che i tre oppositori di certo non auspicavano; e non vengono dimenticati gli errori tattici che Trotzky commise a partire dalla morte di Lenin in poi non ponendo immediatamente e sino in fondo la questione dell’esautorazione del georgiano dal ruolo di segretario generale del partito come gli chiese di fare lo stesso Lenin poco prima di morire oppure con la stessa fondazione della Quarta Internazionale, creatura nata morta e di fatto sterile, così come gran parte delle sette trotzkiste avvicendatesi negli anni seguenti alla morte del fondatore. Di tutt’altra pasta erano invece i trotzkisti sterminati alla fine degli anni ’30 in Urss e che andavano alla morte cantando l’Internazionale.

lunedì 27 febbraio 2017

Uscire dall’Euro?*- Gennaro Zezza**

*Questa è la prima bozza di un documento divulgativo che mi è stato richiesto.      http://gennaro.zezza.it/  
**Università degli Studi di Cassino e del Lazio meridionale

  
Wynne Godley, nel 1992, scriveva a proposito del progetto dell’Euro:
la creazione di una moneta unica porterà alla fine delle sovranità nazionali e alla capacità di agire in modo indipendente su questioni di rilievo…. La capacità di stampare moneta, e per il governo di finanziarsi presso la propria Banca centrale, è l’aspetto più importante dell’indipendenza nazionale. … Se vi si rinuncia, ci si trasforma in una autorità locale, o una colonia. … e quando arriva una crisi, se il Paese ha perso la capacità di svalutare e non può beneficiare di trasferimenti fiscali a compensazione, non c’è nulla che possa fermarne il declino, fino all’emigrazione come unica alternativa alla povertà”(1)

Abbiamo voluto l’euro, abbiamo avuto il declino, e ora l’emigrazione e l’aumento della povertà. E il sottoporre le nostre leggi di bilancio alla Commissione Europea è solo una delle dimostrazioni del fatto che il Governo è diventato una “autorità locale”.

Ma allora perché abbiamo adottato l’Euro?
Per lo stesso motivo per cui molti vogliono rimanerci! Era già chiaro, nei dibattiti parlamentari che hanno preceduto la firma dei Trattati, che rinunciare alla politica dei cambi e alla politica monetaria comportava una compressione dei salari. La decisione di entrare nell’Euro è stata politica, motivata dal desiderio di conribuire a scrivere le regole della “casa comune europea”. Questo desiderio si è rivelato una pia illusione, perché nonostante il peso economico dell’Italia, l’evoluzione delle regole dell’Unione europea e della gestione dell’Euro hanno tutelato principalmente i gruppi industriali e finanziari del Nord, con scarsi interventi di bilanciamento. 

domenica 26 febbraio 2017

Perché distruggere la scuola pubblica?*- Paolo Di Remigio

*Da:     http://www.badiale-tringali.it/
Vedi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sono-utili-le-prove-invalsi-giorgio.html


La vicenda della scuola pubblica italiana va inserita nella vicenda della repubblica: l'Italia è uno Stato non ancora emancipato dalla sconfitta nella seconda guerra mondiale, dunque a sovranità più o meno strettamente limitata dalle potenze vincitrici, cioè dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Negli anni '90 la sua classe dirigente, abituata a un'ampiezza di movimento non più compatibile con i progetti neoconservatori statunitensi di impero globale, è stata liquidata e sostituita da avventizi alle dirette dipendenze dei poteri globali, che hanno occupato tutti i posti di gestione, dallo Stato alle banche, dai partiti ai sindacati, dai giornali ai pulpiti. Compito di questi proconsoli era la rinuncia a ogni sovranità dello Stato e l'attuazione di politiche economiche neoliberali; di qui l'adesione cieca alle più folli geopolitiche anglo-americane e la partecipazione autolesionistica al progetto europeo. Nel nome delle regole europee è stata smantellata l'economia mista; le imprese pubbliche che avevano portato l'Italia a diventare una delle maggiore potenze industriali sono state privatizzate; è stata ridotta la spesa pubblica; i servizi offerti dallo Stato sono diventati sempre più inefficienti e costosi per i cittadini; le pensioni così ridimensionate da dover essere integrate con la previdenza privata, le file d'attesa agli ospedali così lunghe da costringere a ricorrere alla sanità privata oppure a rinunciare a curarsi, la scuola pubblica così dequalificata da aprire la prospettiva di un'offerta di istruzione privata.

Lo Stato minimo implica la scuola minima. La scuola minima è quella che include, diverte, nonistruisce. Se istruisse non ci sarebbe spazio per la scuola privata e questo offende il primo articolo di fede dell'ideologia neoliberale: la superiore efficienza dell'impresa privata rispetto all'impresa pubblica. Modello delle politiche scolastiche europee è diventato così il sistema educativo anglosassone che combina una scuola pubblica gratuita, ma degradata al punto da dover disporre i 'metal detector' per arginare le violenze, con una scuola privata, che promette facile accesso al mondo del lavoro, ma costosa, per frequentare la quale ci si può indebitare per tutta la vita – un sistema fallimentare a parere unanime, denunciato ultimamente dal primo ministro May e dal presidente Trump; un sistema che non può funzionare perché la scuola privata su cui poggia trasforma in cliente l'alunno, gli dà dunque una prevalenza sull'insegnante che rende improponibile la severità e la fatica dell'imparare; un sistema che però consente un imponente giro d'affari: solo se la scuola pubblica diventa un ospizio, può nascere una domanda solvente di istruzione qualificata, cioè genitori disposti a pagarla per i loro figli; solo questa domanda può sostenere un'offerta di istruzione qualificata, cioè una scuola privata che non sia più soltanto confessionale o parassitaria della scuola pubblica, ma che costituisca il centro nevralgico del sistema di istruzione.

sabato 25 febbraio 2017

Su: Europa e Globalizzazione*- Cristina Re**

*Intervento di Cristina Re, studentessa all'Università di Economia di Bologna, in un incontro avvenuto nella stessa con relatori Romano Prodi e il professor Emiliano Brancaccio.   https://www.facebook.com/rethinkingeconomicsbologna/videos/1587848531231318/ 

"Salve professore,

Sono Cristina di rethink economics_bologna/ e la ringrazio per aver accettato il nostro invito. Detto ciò, però, questo è l'unico ringraziamento che mi sento di farle. Mi permetta di rubarle due minuti.

Le parlo come componente di quella che viene definita "Generazione Erasmus". Eccola qui, la generazione Erasmus: una generazione nata e cresciuta all'interno dell'Unione Europea ed educata con la favola di un'Europa di cooperazione e obiettivi comuni, di uno spazio in cui viaggiare liberamente ed educarsi alla diversità. Un luogo di pace, prosperità e libertà.

La favola della nuova generazione Europea di studenti colti, aperti e con alta mobilità si scontra però con la realtà, ossia con la generazione dei disoccupati e dei lavoratori poveri. Infatti, solo l'1% degli studenti italiani partecipa a progetti di mobilità, mentre gli altri si trovano in situazioni di precarietà o disoccupazione. La disoccupazione giovanile nel 2017 è arrivata a superare il 40% e coloro che trovano lavoro sono costretti ad accettare orari e salari da fame con contratti a termine o retribuiti tramite voucher. In tantissimi sono costretti ad emigrare; alcuni svolgono attività di ricerca qui sotto finanziata altri sono costretti a lavori non qualificati e sottopagati, nonostante l'alto livello d'istruzione.

Il futuro dei giovani italiani è un futuro grigio e di cui lo Stato ha deciso di non farsi carico. Siamo una generazione abbandonata dalle istituzioni e, certo, non sarà tutta colpa dell'Unione europea, ma sicuramente per capire come migliorare bisogna prima individuare le colpe ed i colpevoli. L'italia ha scelto di condividere e mettere in atto lo smantellamento dello stato sociale: ha tagliato educazione, istruzione, protezioni sociali, investimenti industriali, ecc. Una situazione di cui nessuno vuole farsi responsabile ma che è strettamente collegata con l'adesione dell'Italia alle politiche neoliberiste.

Professore, lei, il 18 gennaio ha rilasciato un'intervista al quotidiano.net/ in cui dice "la mia Europa è morta. Ma spero che la crisi la svegli. Ora possiamo solo aggiungere: preghiamo"

Beh, troppo semplice così.

Mi dispiace ma mi rifiuto di vivere in un paese che soffre di deficit di memoria. Che trasforma i carnefici in vittime e i colpevoli in eroi.
Non possiamo non dimenticare che lei, come presidente dell'IRI ha svenduto il patrimonio economico italiano a società private.
Lei partecipò in prima persona alla nascita dell'euro, prima come Presidente del Consiglio e poi come Presidente della commissione europea.

Lei non si è battuto per cambiare i criteri scellerati del trattato di Maastricht, nei quali l'Italia non rientrava, ma promise riforme future. Da quel peccato originale è succeduto un vortice di privatizzazione, tagli al welfare, sottomissione ai diktat franco- tedeschi, attacco ai salari e ai diritti dei lavoratori con l'unico obiettivo di ridurre il nostro debito pubblico, rientrare nei parametri di Maastricht e renderci "competitivi". Fu proprio durante il suo governo che venne approvato il pacchetto Treu che diede inizio al fenomeno della precarietà in Italia.

Durante il suo secondo mandato da Presidente del consiglio, poi, fu lei a firmare il trattato di Lisbona che di fatto era uguale alla Costituzione europea bocciata nel 2005 da francesi e olandesi.

Mi dispiace ma non può dire che questa non è la sua Europa. Questa è proprio la sua Europa.
Lei ha svenduto il nostro futuro e in cambio di cosa? Ecco cosa abbiamo ottenuto: la libertà di andare all'estero a fare i camerieri o di vivere una vita di precarietà e misera. Una vita che ha condotto molte persone alla disperazione ed alcuni anche al suicidio.

Adesso, non le chiedo, come fa qualcuno, di formare un nuovo partito o ricandidarsi per riparare alla situazione. No, quello spetta a noi.
Però le chiedo, come minimo, che riconosca le sue responsabilità e i suoi errori; e che magari ci chieda anche scusa."


Genitori in difficoltà nel tempo della crisi - Silvia Vegetti Finzi*

*Silvia_Vegetti_Finzi è una psicologa italiana.



Al termine dell’adolescenza, quando si tratta di scegliere la facoltà universitaria o il lavoro, di restare o andare altrove, viene il momento in cui i ragazzi si fanno carico della loro vita: puntano lo sguardo sul futuro, calcolano le risorse e rischiano il domani. Spesso i genitori spaventati, incapaci di attendere, li subissano di consigli, previsioni, ammonizioni, sino a prendere il loro posto, sino a sostituirli. Agiscono indubbiamente per il loro bene ma in tal modo li rendono dipendenti e passivi e telecomandandoli tarpano le loro ali. Apparentemente può far comodo ma vivere nel futuro degli altri, nel loro orizzonte di aspettative, depaupera le motivazioni e impedisce ai giovani di scorgere quanto hanno in comune tra loro, come il loro destino sia condiviso dai coetanei e come il vero soggetto di una generazione sia il “Noi” non l’”Io”. Non sanno che da una crisi epocale ci si salva tutti o nessuno e procedono pertanto in ordine sparso, senza elaborare una narrazione collettiva, un romanzo corale al quale riconoscersi. In una lettera aperta scritta da un gruppo di ventenni al presidente del consiglio e pubblicata sul Corriere della sera si legge: “Siamo colposamente sospesi tra il vuoto di aspettative e il miraggio di sicurezze. Senza la possibilità di metterci in gioco con le stesse garanzie dei nostri padri e dei nostri nonni. La nostra voce è stata marginalizzata e resa afona anche per via di nostre comprovate responsabilità. Abbiamo subito le decisioni e consentito che la nostra indifferenza lasciasse ampi spazi di manovra a chi non ha avuto a cuore le nostre sorti...” 

venerdì 24 febbraio 2017

A che serve il muro?*- Adriano Voltolin**

**Società di Psicoanalisi Critica   http://www.societadipsicoanalisicritica.it/ 


Come ha messo bene in rilievo Aldo Giannuli (http://www.aldogiannuli.it/psicoanalisi-del-muro/) le strategie politiche, militari e ideologiche dei muri costruiti a difesa di ciò che sta all’interno sono sempre fallite: il loro fondamento psicologico ed ideologico è da ricercare in una rassicurazione di chi lo erige e non alla sua difesa reale.

Le dighe costruite per creare dei bacini idrici servono per evitare che piene ed alluvioni travolgano i frutti del lavoro di ciò che sta a valle e, se non vengono costruite in modo criminale, si pensi al Vajont, nome sintomatico del monte che stava sopra la diga e che significa in dialetto friulano “viene giù”, proteggono le case, le coltivazioni e la vita stessa delle persone ed addirittura servono, regolando l’afflusso delle acque, a far fiorire ulteriormente il lavoro dell’uomo. Si pensi, più modestamente, alle risaie ed ai prati marcitori lombardi: l’acqua, non più trattenuta, allagando i campi produce il risultato straordinario di fornire un cibo come il riso che costituisce buona parte dell’alimentazione mondiale e in Lombardia forniva foraggio fresco quando la neve ed il gelo coprivano la pianura padana. L’isolamento dall’acqua è una strategia che non ha affatto per mira quello di chi la ferma, ma il suo utilizzo più proficuo per rendere la comunità più ricca e benestante.

Il muro inteso come fortezza che protegge dall’invasione dei barbari è invece concettualmente l’opposto: il benessere maggiore non è dato dallo sfruttamento intelligente di ciò che viene dall’esterno in modo da creare nuove opportunità, ma è fantasticato come l’isolamento da esso. I colonizzatori inglesi e belgi non avevano bisogno di costruire muri di cemento, ma il loro isolamento dai neri del Kenya e del Congo era garantito dalla ricchezza, dalle armi e da una ideologia grossolanamente illuministica che ricreava il modo di vita europeo (delle classi agiate) in Africa.

Sul piano individuale, l’isolamento attraverso un muro difensivo, è più facilmente avvertito come patologico mentre, per il fenomeno della deresponsabilizzazione gruppale, non appare tale quando diviene ideologia di massa. Nella richiusura paranoide il pericolo dell’irruzione di un agente esterno viene avvertito come catastrofico e, tanto meno tale agente è oggettivamente pericoloso, tanto più esso appare infido e subdolo. Si pensi, è un esempio magnifico, alla fortezza Bastiani ne Il deserto dei tartari di Dino Buzzati: l’assoluta mancanza di pericolo del deserto viene avvertita come tanto più minacciosa quanto più assente è ogni individuo che provenga da esso: il giovane tenente Drogo invecchierà, insieme a tutta la guarnigione, nella perenne attesa di un nemico che non c’è e la sua vita sarà consumata per intero in una difesa spasmodica da ciò che, all’esterno, non esiste.

giovedì 23 febbraio 2017

Su “UBER”, “SHARING” E “GIG ECONOMY”*- Carlo Formenti

*Da: http://contropiano.org/     intervento di Carlo Formenti all’iniziativa organizzata da Noi Restiamo al Politecnico di Torino il 10 maggio 2016. L’intervento non è stato rivisto dal relatore ed eventuali errori sono quindi da considerarsi a carico nostro. Il titolo è redazionale.  
Vedi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2017/02/sulla-nozione-di-progresso-renato-curcio.html


SHARING E GIG ECONOMY: DINAMICHE TAYLORISTICHE E SFRUTTAMENTO

Prima parte dell’intervento:

Il lavoro che ho fatto negli ultimi 10-15 anni all'Università del Salento è stato in larga misura dedicato alla sociologia della rete che oggi, da quando sono felicemente approdato alla pensione, continuo a proseguitare; il giorno dopo che ho smesso di insegnare Teoria e tecnica dei nuovi media sono felicemente tornato a quelli che sono sempre stati i miei interessi fondamentali, che riguardano il socialismo economico e la sociologia politica. E ogni volta che mi tocca sentire qualcuno che mi telefona e mi dice "Professore, perché non viene a questo incontro su Internet e la società", subito mi si rizzano i capelli sulla testa; nel senso che in qualche modo dà per scontato che esista una sfera autonoma della dimensione della tecnologia e della rete come articolazione attuale della dimensione della tecnologia non sovradeterminata dai processi economici, politici, sociali, culturali e quant'altro. E che, viceversa, oggi sia possibile ragionare dei processi economici, politici, sociali e culturali prescindendo dal fatto che ormai le tecnologie di rete sono parte della nostra vita quotidiana, del nostro lavoro e delle relazioni sociali, del nostro viaggiare, sentire, stringere amicizie, ecc. Quindi, tendo sempre a riportare il tema a degli aspetti molto più determinati e specifici; in particolare, per quanto riguarda la questione del rapporto tra nuove tecnologie e lavoro, metterò a fuoco un aspetto molto particolare, che è quello di Uber, più altre esperienze che vengono variamente denominate di "sharing economy" o, negli Stati Uniti, di "gig economy", con una apertura più ampia rispetto al discorso e secondo me più interessante per il ventaglio di fenomeni che viene preso in considerazione.

Per affrontare questo problema, partirò da una piccola apologia del luddismo e dei movimenti luddisti nella prima metà dell'Ottocento in Inghilterra; perché, come sapete, negli ultimi giorni qui in Italia in particolare a Milano c'è stata una nuova ondata di agitazioni dei tassisti contro Uber, che erano stati preceduti da movimenti e fenomeni analoghi in tutto il mondo, ma particolarmente duri sono stati quelli avvenuti a Parigi l'anno scorso. In quell'occasione il mio "amico" Dario Di Vico (Corriere della Sera) si è come al solito precipitato a scrivere una serie di articoli in cui ha fatto una critica radicale di questa arretratezza e di questa assoluta stupidità nell'opporsi a un processo tecnologico che risulta irreversibile e non può essere contrastato in nessun modo, ma che è di per sé assolutamente benefico e porta una serie di vantaggi incredibili per i consumatori, per Uber ovviamente, che fa un sacco di quattrini, ma in prospettiva anche per gli stessi tassisti. Allora questo discorso richiama esattamente il tipo di argomenti che venivano usati contro il movimento luddista nel primo Ottocento inglese; tenete conto che il movimento dei luddisti, di cui si sa molto poco in realtà perché è stato studiato relativamente poco (non da storici specialisti), è stato un movimento di dimensioni enormi; per diversi anni l'Inghilterra ha visto mobilitazioni di massa, di distruzione e di incendi di fabbriche, di telai di nuova generazione, di scontri armati, cioè i luddisti andavano in bande di 200-300 a distruggere queste fabbriche e si scontravano con l'esercito inglese, con le milizie dei padroni dell'industria tessile, ci sono state centinaia di morti, molti dei quali impiccati, perché quando li prendevano li impiccavano anche perché era ancora illegale lo sciopero, figurarsi queste forme di mobilitazione violenta.

mercoledì 22 febbraio 2017

Sulla “Nuova lettura di Marx”*- Riccardo Bellofiore

*conferenza tenuta da Riccardo Bellofiore: 'Socializzazione e lavoro astratto in Marx'. L'intervento si è svolto nell'ambito del Corso di perfezionamento in Teoria Critica della Società dell'Università degli studi di Milano-Bicocca.    https://www.facebook.com/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova- 


"La nuova letteratura su Hegel, negli ultimi decenni - e io nutro sempre più il sospetto che non abbiano torto - ritiene che questa rappresentazione di Hegel, che si ritrova in Marx e che in qualche modo ritroviamo in Adorno, Horckeimer, Schmidt e sarà uguale in Reichelt e Backhaus, questa lettura di Hegel come idealista un po' pazzo, che pensa che il concetto sia in qualche modo la realtà stessa, questa cosa non abbia a che vedere con lo Hegel vero e proprio. 

Io non lo so, perché non sono un esperto, ma le cose che ho letto mi convincono che questa posizione abbia molte frecce al suo arco. 

Al tempo stesso, voglio chiarire subito, che io sto dal lato di Marx e di questi autori per una ragione molto semplice: perché la mia tesi è che  questo Hegel, fosse anche un Hegel pazzo, è quello che per Marx è il mezzo per comprendere qual è la logica del capitale come modo di produzione. 

Quindi non conta tanto se veramente Hegel fosse un idealista, la tesi è che la realtà sociale capitalistica è una realtà idealistica. In questo senso una totalità negativa..." 

Socializzazione e lavoro astratto in Marx (Parte I):



Socializzazione e lavoro astratto in Marx (Parte II): https://www.youtube.com/watch?v=Gmup_ASBeLw


Socializzazione e lavoro astratto in Marx (Parte III): https://www.youtube.com/watch?v=PCFAUDcJjMw 

lunedì 20 febbraio 2017

Le vicende storiche dell’Unione Sovietica e il loro impatto sull’America Latina*- Alessandra Ciattini

*Da:    https://www.lacittafutura.it/ 


Nel 2012 la casa editrice Ocean Sur ha pubblicato un’interessante antologia intitolata La izquierda latinoamericana a 20 años del derrumbe de la Unión Soviética, la cui recensione reperibile in Cubadebate mi permette di riflettere in maniera concisa e rapida su tre temi distinti, ma tra loro intrecciati: l’impatto della Rivoluzione d’Ottobre sull’America Latina, le ripercussioni del derrumbe (crollo) dell’Unione Sovietica, i caratteri del marxismo latinoamericano. Tema quest’ultimo a cui la Storia del marxismo, progettata da Eric J. Hobsbawm, Georges Haupt, Franz Marek, Ernesto Ragionieri, Vittorio Strada, Corrado Vivanti (1981), dedica un articolo contenuto nel terzo volume scritto da José Aricó.

Naturalmente sono del tutto consapevole della complessità dei temi su indicati, ma mi sembra utile fare dei brevi cenni ad essi per fornire qualche elemento di riflessione, da cui partire per comprendere anche la difficile partita che si sta giocando in America Latina.

In primo luogo, comincio col dire che, al tempo della Rivoluzione russa, la Russia era un paese pressoché sconosciuto, misterioso, enigmatico di cui si sapeva assai poco. In particolare, in Perù, il 30 dicembre 1917 José Carlos Mariátegui, considerato il primo marxista latinoamericano, scriveva che la Russia continuava a essere considerata una leggenda. A Lima si diffuse la notizia che il potere autocratico dello zar era collassato e che il governo era finito nelle mani dei massimalisti o bolscevichi capeggiati da Lenin. E ciò benché in Europa autorevoli giornali tranquillizzassero i loro lettori, scrivendo che si trattava di un evento effimero destinato ad esser spazzato via rapidamente senza tanti complimenti.

In quel momento storico operavano attivisti sindacali di ispirazione anarchica, che si agitavano per ottenere la giornata lavorativa di otto ore, la costituzione di organizzazioni sindacali, e attizzavano il fuoco dei primi scioperi operai, delle prime manifestazioni di piazza. È proprio in questo contesto che Mariátegui si dichiara nauseato della politica creola [1] e decisamente orientato verso il socialismo. -http://www.cubadebate.cu/noticias/2012/07/21/el-derrumbe-de-la-urss-tuvo-una-repercusion-enorme-en-america-latina/#.WJtP9zvhDIU-

E successivamente, insieme ad altri intellettuali, darà vita alla rivista Amauta [2], nella quale come scrive lui stesso “Studieremo tutti i grandi movimenti di rinnovamento, politici, artistici, letterari, scientifici.

Tutto ciò che è umano ci appartiene” -https://www.marxists.org/espanol/mariateg/1926/sep/amauta.htm-. La rivista, fondata nel 1926, cui collaborarono autori come Andrè Breton, Miguel de Unamuno, Jorge Luis Borges, esprimeva la volontà di modificare radicalmente la società – nella prospettiva aperta dall’Ottobre –, dischiudendosi a tutte le sollecitazioni innovatrici sia europee, come la psicoanalisi, il cubismo, che latinoamericane come l’indigenismo [3].

domenica 19 febbraio 2017

Comunismo*- Franco Fortini**

*Da: ( Da F. Fortini, «Extrema ratio» pag 99- 101, Garzanti, Milano 1990 )   https://www.facebook.com/maurizio.bosco.18/posts/10212679597138467
**Franco_Fortini è stato un poeta, critico letterario, saggista e intellettuale italiano.


"Termine con cui si designano dottrine che propugnano e descrivono una società basata su forme comunitarie di produzione ovvero di produzione e consumo, in alternativa a società basate su forme di proprietà privata ovvero di distribuzione e di consumo diseguali. Possesso comune della terra e dei mezzi di produzione, lavoro per tutti, regolazione pianificatrice dei bisogni e delle funzioni (...) parte integrante di tali dottrine è l'educazione comune, pubblica, di tutti gli individui" (Enciclopedia Garzanti).



Il combattimento per il comunismo è già il comunismo. è la possibilità (quindi scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero di esseri umani - e, in prospettiva, la loro totalità - pervenga a vivere in una contraddizione diversa da quella oggi dominante. Unico progresso, ma reale, è e sarà il raggiungimento di un luogo più alto, visibile e veggente, dove sia possibile promuovere i poteri e la qualità di ogni singola esistenza. Riconoscere e promuovere la lotta delle classi è condizione perché ogni singola vittoria tenda ad estinguere la forma presente di quello scontro e apra altro fronte, di altra lotta, rifiutando ogni favola di progresso lineare e senza conflitti.

Meno consapevole di sé quanto più lacerante e reale, il conflitto è fra classi di individui dotati di diseguali gradi e facoltà di gestione della propria vita. Oppressori e sfruttatori (in Occidente, quasi tutti; differenziati solo dal grado di potere che ne deriviamo) con la non-libertà di altri uomini si pagano l'illusione di poter scegliere e regolare la propria individuale esistenza. Quel che sta oltre la frontiera di tale loro "libertà" non lo vivono essi come positivo confine della condizione umana, come limite da riconoscere e usare, ma come un nero Nulla divoratore. Per dimenticarlo o per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, di quella propria. Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura, lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta ora nella precarietà e nella paura della morte ora nella insensatezza e non-libertà della produzione e dei consumi. Né gli oppressi e sfruttati sono migliori, fintanto che ingannano se stessi con la speranza di trasformarsi, a loro volta, in oppressori e sfruttatori di altri uomini. Migliori cominciano ad esserlo invece da quando assumono la via della lotta per il comunismo; che comporta durezza e odio per tutto quel che, dentro e fuori degli individui, si oppone alla gestione sovraindividuale delle esistenze; ma anche flessibilità e amore per tutto quel che la promuove e la fa fiorire.

La Repubblica di Platone - Francesco Fronterotta

Vedi anche:   https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/platone-la-repubblica-luciano-canfora.html
                          https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/08/filosofi-al-potere-mario-vegetti.html
                            https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/02/platone-antonio-gargano-1-2-di-2.html
                               http://177ermanno.blogspot.it/2014/02/blog-post.html?spref=fb



Il testo:  http://www.ousia.it/content/Sezioni/Testi/PlatoneRepubblica.pdf

sabato 18 febbraio 2017

Sulla Costituzione - Luciano Canfora

Leggi anche:    https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/10/legge-elettorale-costituzione.html
                        https://www.marxists.org/italiano/archive/storico/cost-urss.htm



("Chi non lavora non mangia")
Al fine di distruggere gli elementi parassitàri della società e di organizzare l'economia nazionale, viene istituito per tutti il servizio obbligatorio del lavoro.   
[ I° Costituzione sovietica (1918) ]

venerdì 17 febbraio 2017

La scienza e la tecnologia secondo Fidel Castro*- Massimo Zucchetti

*Da:    http://www.marx21.it/



La scomparsa del Comandante Fidel Castro Ruz, avvenuta in questi giorni, mi ha portato a scrivere un breve ricordo di quelli che sono stati – avendoli verificati di persona - il suo pensiero sulla Scienza e la Tecnologia, la sua influenza sullo sviluppo di queste discipline a Cuba e nel mondo, e di come questo suo pensiero abbia contributo a conservare a Cuba la sua indipendenza.

Partiamo dalla mia esperienza personale, e non certo per mettere me stesso in mostra, ma per cercare di far capire a quale titolo vengano scritte queste righe: in questi giorni abbondano infatti sedicenti neo-esperti di Cuba, che nell’isola caraibica non hanno mai messo piede, se non al massimo per una settimana all-inclusive in un albergo a Varadero. Ho partecipato – dagli anni 90 fino all’anno scorso - a molte Conferenze internazionali a Cuba, in particolare relative a materie vicine alla mia disciplina, cioè la fisica nucleare e lo studio dell’ambiente. Nella serie di convegni internazionali WONP (Workshop On Nuclear Physics) e NURT (Nuclear and Related Techniques) ho potuto presentare molti miei lavori scientifici, trovando sempre ottima accoglienza, pubblico ampio, colleghi interessati con i quali ho anche intessuto rapporti di collaborazione.

Un solo esempio per tutti: nel 2001 presentai un lavoro scientifico sull’impatto ambientale e sulla salute dell’utilizzo militare dell’Uranio Impoverito [1], uno dei primi lavori presentati a livello internazionale da un italiano dopo la guerra contro la Jugoslavia nel 1999. Attenzione alla data: nel 2001 era molto difficile parlare scientificamente di quel problema, dato che nel democratico occidente vigeva una vulgata de facto che relegava l’allarme sull’uso di quel materiale radioattivo ad una protesta complottista. Ora, nel 2016, sappiamo che la NATO fece un uso criminale di quegli ordigni nei Balcani (come prima in Iraq e poi in altre guerre), mentre il governo “di sinistra” italiano, prima partecipò con le proprie basi ai bombardamenti, e poi inviò i soldati italiani in Kosovo, senza alcuna protezione contro l’inquinamento da polveri radioattive e composti chimici cancerogeni: l’odissea delle malattie e delle morti dei nostri militari si protrae tuttora. A Cuba, così come quando parlai di fusione termonucleare controllata a deuterio-elio-3, di monitoraggio e previsione dei sismi mediante il gas radon, ed altri argomenti scientifici di avanguardia, trovai spazio, accoglienza, attenzione, critica costruttiva, e dignità scientifica.


lunedì 13 febbraio 2017

La via maestra*- Antonio Gramsci

*(editoriale del num. 1 del quotidiano «L’Unità» 12 febbraio 1924).  Da:   http://www.senzatregua.it/ 


Cade oggi l’anniversario dei 90 anni (ora 93) di pubblicazione de «l’Unità» il quotidiano fondato dal Partito Comunista d’Italia nel 1923 e che ebbe il suo primo numero proprio il 12 febbraio. Questo articolo scritto da Gramsci, che suggerì il nome «l’Unità» spiega le ragioni della nascita del giornale e le proposte del Partito Comunista. Un articolo di straordinaria attualità che fino ad ora non era mai stato riportato integralmente sul web. Una mancanza che non riteniamo casuale e a cui abbiamo voluto rimediare, coscienti che nella storia del movimento operaio italiano ed internazionale, siano racchiusi spunti indispensabili per l’analisi della situazione attuale e l’azione politica conseguente per cambiare lo stato di cose presente. «La via maestra» è uno spunto essenziale per le nuove generazioni di comunisti.


La tragica esperienza compiuta dagli operai e dai contadini d’Italia in questi ultimi anni non deve essere perduta, essa può costituire anzi la taglia che essi hanno pagato e pagano per raggiungere la capacità politica necessaria a portare a termine lo sviluppo della loro rivoluzione. Il martirio subito può passare all’attivo della classe proletaria, se rimarrà a debellare definitivamente le illusioni che le hanno fatto segnare il passo negli anni 1919-1920. Occorre per ciò impedire che il fascismo, come già la guerra mondiale, passi senza aver trasformato radicalmente lo spirito delle masse, occorre che sotto l’assillo delle sofferenze e per l’anelito alla riscossa, non siano realizzate formule, stati d’animo e pregiudizi atti a sabotare ogni possibilità di ripresa proletaria, a precludere ogni seria prospettiva di rivincita. 

Il nostro giornale si propone a tale scopo di sondare metodicamente le cause che hanno piegato i lavoratori sotto il peso di una gravissima sconfitta e di farne pesare gli insegnamenti nella loro coscienza militante. L’unità a cui noi facciamo appello non è quindi un richiamo di ordine sentimentale e decorativo; non è il fiotto fangoso e torbido dei consensi stagnanti e senza sbocco; essa tende a forgiare lo strumento idoneo per la lotta del proletariato, ed ha alla sua base una concezione politica ben definita e coerente, che vi circola come sangue vivo, che la genera e la rinsalda. 

sabato 11 febbraio 2017

«Sono utili le prove Invalsi?» - Giorgio Israel*

*Giorgio Israel (Roma6 marzo 1945 – Roma25 settembre 2015) è stato uno storico della scienza ed epistemologo italiano. Membro della Académie Internationale d'Histoire des Sciences e professore dell'Università di Roma La Sapienza, è stato autore di più di 200 articoli scientifici e 30 volumi, nei quali ha esplorato il ruolo della scienza nella storia della cultura europea e ha condotto una critica dell'idea di razionalità matematica e del meccanicismo.

venerdì 10 febbraio 2017

Il comunismo nella storia cinese: riflessioni su passato e futuro della Repubblica popolare cinese*- Maurice Meisner**

**Meisner, Maurice (1931-2012)storico della Cina contemporanea. “The Place of Communism in Chinese History: Reflections on the Past and Future of the People’s Republic of China,” Macalester International: Vol. 18, Article 8. (2007) 


[…] Questo non è il luogo adatto per discutere seriamente gli sviluppi del capitalismo seguiti rapidamente alle riforme degli anni ottanta, probabilmente il più massiccio processo di sviluppo capitalistico della storia mondiale. Vorrei occuparmi esclusivamente di alcuni aspetti strettamente correlati di tale esito: innanzitutto, il ruolo dello stato nello sviluppo del capitalismo; secondo, il fenomeno del “capitalismo burocratico” nella storia cinese; infine, alcuni brevi commenti circa le conseguenze politiche e culturali del capitalismo cinese contemporaneo, in particolare riguardo al posto del comunismo nella storia cinese.

III. Capitalismo e stato

Una delle grandi ironie della storia moderna cinese è il fatto che la dinamica capitalistica che ha trasformato la Cina nell’ultimo quarto di secolo è il risultato di decisioni prese da un partito e da un potente stato comunisti. Per quanto incongruo in termini di classica ideologia liberale, nella fattualità storica un ruolo cruciale dello stato nello sviluppo del capitalismo non è inusuale. Lo stato bismarkiano, ad esempio, diede gran parte dell’impeto e dell’orientamento per lo sviluppo del moderno capitalismo industriale nella Germania del tardo XIX secolo, mentre l’industrializzazione promossa dallo stato rappresentò la forza dominante nella storia del Giappone nell’epoca Meiji (1868-1912). Nelle cosiddette “nazioni di recente industrializzazione” del secondo dopoguerra, la modernizzazione patrocinata dallo stato costituì un fatto universale. Corea del sud, Taiwan e Singapore sono alcuni degli esempi di maggior successo.

Di fatto, non è solo nel caso della tarda modernizzazione (o di quella che Barrington Moore ha definito “modernizzazione conservatrice”) che si è assistito al coinvolgimento dello stato nella promozione dello sviluppo capitalistico. Il potere statale ha giocato un ruolo essenziale nel precedente sviluppo del capitalismo nei paesi occidentali, ruolo oscurato dalla necessità ideologica di dipingerlo come espressione naturale di una presunta natura umana essenziale. Una necessità che ha trovato esternazione nell’ideologia del “libero mercato”, secondo la quale il capitalismo opera meglio laddove libero da qualsiasi ingerenza governativa esterna. Eppure, anche in Inghilterra, la classica patria del capitalismo e dell’ideologia liberale, fu l’intervento dello stato a creare il mercato del lavoro, precondizione allo sviluppo di un moderno capitalismo industriale. Le enclosure, che promossero il capitalismo rurale espellendo dalla terra milioni di contadini trasformandoli in proletari urbani, nono furono semplicemente frutto di leggi naturali dell’economia, bensì di provvedimenti del parlamento applicati da tribunali e polizia. E fu la riforma della Poor Law del 1834 a porre fine ai tradizionali diritti di sussistenza in favore di un mercato del lavoro “libero”, la funzione del quale venne rafforzata dalla minaccia della Workhouse. Lo stato britannico era pesantemente coinvolto nella creazione delle condizioni necessarie per lo sviluppo del moderno capitalismo industriale nella sua patria nonché classica incarnazione (11).

giovedì 9 febbraio 2017

La Rivoluzione contro il Capitale*- Antonio Gramsci

*Pubblicato sull'Avanti il 24 novembre 1917 e su Il Grido del Popolo il 5 gennaio 1918    https://www.marxists.org/ 


La rivoluzione dei bolscevichi si è definitivamente innestata nella rivoluzione generale del popolo russo. I massimalisti che erano stati fino a due mesi fa il fermento necessario perché gli avvenimenti non stagnassero, perché la corsa verso il futuro non si fermasse, dando luogo ad una forma definitiva di assestamento - che sarebbe stato un assestamento borghese, - si sono impadroniti del potere, hanno stabilito la loro dittatura, e stanno elaborando le forme socialiste su cui la rivoluzione dovrà finalmente adagiarsi per continuare a svilupparsi armonicamente, senza troppi grandi urti, partendo dalle grandi conquiste già realizzate.

La rivoluzione dei bolscevichi è materiata di ideologie più che di fatti. (perciò, in fondo, poco ci importa sapere più di quanto sappiamo). Essa è la rivoluzione contro il Capitale di Carlo Marx. Il Capitale di Marx era, in Russia, il libro dei borghesi, più che dei proletari. Era la dimostarzione critica della fatale necessità che in Russia si formasse una borghesia, si iniziasse un'era capitalistica, si instaurasse una civiltà di tipo occidentale, prima che il proletariato potesse neppure pensare alla sua riscossa, alle sue rivendicazioni di classe, alla sua rivoluzione. I fatti hanno superato le ideologie. I fatti hanno fatto scoppiare gli schemi critici entro i quali la storia della Russia avebbe dovuto svolgersi secondo i canoni del materialismo storico. I bolscevichi rinnegano Carlo Marx, affermano con la testimonianza dell'azione esplicata, delle conquiste realizzate, che i canoni del materialismo storico non sono così feroci come si potrebbe pensare e come si è pensato.

Eppure c'è una fatalità anche in questi avvenimenti, e se i bolscevichi rinnegano alcune affermazioni del Capitale, non ne rinnegano il pensiero immanente vivificatore. Essi non sono "marxisti", ecco tutto; non hanno compilato sulle opere del Maestro una dottrina esteriore di affermazioni dogmatiche e indiscutibili. Vivono il pensiero marxista, quello che non muore mai, che è la continuazione del pensiero idealistico italiano e tedesco, e che in Marx si era contaminato di incrostazioni positivistiche e naturalistiche. E questo pensiero pone sempre come massimo fattore di storia non i fatti economici, bruti, ma l'uomo, ma la società degli uomini, degli uomini che si accostano fra di loro, si intendono fra loro, sviluppano attraverso questi contatti (civiltà) una volontà sociale, collettiva, e comprendono i fatti economici e li giudicano e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell'economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebollizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace.

mercoledì 8 febbraio 2017

Sulla NEP e sul capitalismo di Stato* - Lenin

*da:   Lenin, Opere Complete, vol. 33, Editori Riuniti, Roma, 1967, pp. 385-397. 
Relazione al IV congresso dell'Internazionale comunista, 13 novembre 1922. Pravda n. 258, 15 novembre 1922.


Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale


Compagni! Sono iscritto nell'elenco degli oratori come relatore principale, ma voi comprenderete che dopo la mia lunga malattia non posso fare un grande rapporto. Non posso che limitarmi a un'introduzióne alle questioni più importanti. Il mio tema sarà molto limitato. Il tema: Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale è troppo vasto e grandioso perché, in generale, un solo oratore, in un solo discorso, possa esaurirlo. Perciò mi limiterò a trattare soltanto una piccola parte di questo tema, cioè la questione della «nuova politica economica». Scelgo di proposito soltanto questa piccola parte del tema per informarvi su di un problema che oggi ha la massima importanza, almeno per me che ci lavoro attorno in questo momento.

Vi dirò perciò come abbiamo dato inizio alla nuova politica economica e quali risultati abbiamo ottenuto per mezzo di questa politica. Se mi limito a questo problema, riuscirò forse a farne un esame generale e a darne un'idea generale.

Per incominciare dal modo come siamo giunti alla nuova politica economica, devo richiamarmi a un articolo che io scrissi nel 1918 (101). Al princìpio del 1918, in una breve polemica, sfiorai, per l'appunto, la questione dell'atteggiamento che dovevamo assumere verso il capitalismo di Stato. Scrivevo allora:

«II capitalismo di Stato rappresenterebbe un passo avanti rispetto allo stato attuale delle cose (cioè, relativamente alla situazione di allora) nella nostra Repubblica sovietica. Se, per esempio, tra sei mesi si instaurasse da noi il capitalismo di Stato, ciò sarebbe un enorme successo e rappresenterebbe la più sicura garanzia che tra un anno il socialismo sarebbe da noi definitivamente consolidato e reso invincibile».

Dicevo questo, s'intende, in un periodo nel quale eravamo più inesperti di adesso, ma non tanto inesperti da non poter esaminare simili questioni.

Cosicché, nel 1918, sostenevo l'opinione che, relativamente alla situazione economica allora esistente nella Repubblica sovietica, il capitalismo di Stato rappresentava un passo avanti. Ciò sembra molto strano, e forse perfino assurdo, poiché anche allora la nostra repubblica era già una repubblica socialista, poiché allora noi prendevamo ogni giorno con grande fretta - probabilmente con fretta esagerata - diverse nuove misure economiche che non possono essere chiamate altrimenti che socialiste. E ciò nondimeno io presumevo allora che il capitalismo di Stato, rispetto alla situazione economica allora esistente nella Repubblica sovietica, fosse un passo avanti, e spiegavo poi questa idea elencando semplicemente gli elementi fondamentali della struttura economica della Russia. Secondo me, questi elementi erano i seguenti: «1. la forma patriarcale, ossia la più primitiva dell'economia agricola; 2. la piccola produzione mercantile (questa forma comprende anche la maggioranza dei contadini che vendono il grano); 3. il capitalismo privato; 4. il capitalismo di Stato; e 5. il socialismo». Tutti questi elementi economici erano rappresentati nella Russia di quel tempo. Mi proposi allora di mettere in chiaro quali rapporti reciproci esistessero tra questi elementi e se non si dovesse attribuire a uno degli elementi non socialisti, cioè al capitalismo di Stato, un valore più alto del socialismo. Ripeto: sembra a tutti molto strano che un elemento non socialista sia stimato a un livello più alto, sia ritenuto più elevato del socialismo in una repubblica che si proclama socialista. Ma la cosa sarà chiara se ricorderete che non consideravamo la struttura economica della Russia come un qualche cosa di omogeneo e di altamente sviluppato, e che eravamo pienamente consci di avere in Russia un'agricoltura patriarcale, vale a dire la forma più primitiva di agricoltura, accanto alla forma socialista. Quale funzione, dunque, avrebbe potuto esercitare il capitalismo di Stato in una tale situazione?

Io mi domandavo inoltre: quale di questi elementi predomina? È chiaro che in un ambiente piccolo-borghese domina l'elemento piccolo-borghese. Io mi rendevo conto, allora, che l'elemento piccolo-borghese predominava; non era possibile pensare altrimenti. Il problema che mi prospettavo allora - si trattava di una polemica speciale che non riguardava la questione attuale - era il seguente: qual'è il nostro atteggiamente verso il capitalismo di Stato? E rispondevo: il capitalismo di Stato, pur non essendo una forma socialista, sarebbe per noi e per la Russia una forma preferibile a quella attuale. Che cosa vuoi dire questo? Vuol dire che non sopravvalutavamo né i germi né gli inizi dell'economia socialista, quantunque avessimo già compiuto la rivoluzione sociale; al contrario, già allora, comprendevamo, fino a un certo punto, che sarebbe stato meglio se dapprima fossimo pervenuti al capitalismo di Stato e soltanto dopo al socialismo.

martedì 7 febbraio 2017

Salario, concorrenza e mercato mondiale*- Maurizio Donato**

*Da:   https://mrzodonato.wordpress.com/ 
** Facoltà di Giurisprudenza, Università di Teramo, aprile 2015.



“Nel commercio mondiale le merci dispiegano universalmente il loro valore. Dunque, la loro forma autonoma di valore si presenta qui, di fronte ad esse, ovviamente come denaro mondiale. Solo sul mercato mondiale il denaro funziona in pieno come quella merce la cui forma naturale è allo stesso tempo forma immediatamente sociale di realizzazione del lavoro umano in abstracto. Il suo modo di esistenza diventa adeguato al suo concetto”. Karl Marx, Il Capitale, Libro primo, terzo capitolo, pagg. 171-2 dell’edizione Einaudi, 1978.


Secondo la teoria marxiana del valore-lavoro, il valore di una merce dipende dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla; essendo la forza-lavoro una merce, anche il suo valore è determinato allo stesso modo. Se vogliamo esprimere lo stesso concetto facendo riferimento alla forma monetaria del valore, possiamo dire che il valore della forza-lavoro umana è determinato dal valore delle merci di sussistenza necessarie a produrla e riprodurla. L’aumento della forza produttiva del lavoro reso possibile dalle innovazioni tecnologiche riduce il tempo di lavoro necessario a produrre anche le merci di sussistenza, e dunque – per questa via – il valore della forza-lavoro tende necessariamente a ridursi.

Come è noto, non solo questo prezioso elemento di analisi, ma l’intera struttura logica del I libro del Capitale si situano a un livello di astrazione molto alto, nel senso che il metodo di Marx – nel complesso lavoro di scrittura del I volume – era rivolto a concentrarsi sugli elementi e sulle tendenze di fondo del processo di produzione del capitale, prescindendo completamente – e volutamente – dalle “perturbazioni” di un modello costruito sulle sue linee generali, riservando ad altre occasioni il compito di “ridurre” il livello di astrazione dell’analisi, per tener conto di elementi ugualmente importanti ma con un grado inferiore di generalizzazione.

Da questa prospettiva l’elemento del mercato mondiale è presente – come concetto – da subito nel modello marxiano che già nel terzo capitolo del I libro, dedicato al denaro come forma di valore delle merci, intitola un paragrafo “denaro mondiale”. Ma in che senso era da intendersi allora e oggi l’espressione “mercato mondiale”?

Se è senz’altro corretto assumere la categoria di “mercato mondiale” a un livello di astrazione alto, non si possono ignorare o sottovalutare le profonde differenze, le vere e proprie stratificazioni di cui il mercato mondiale è stato ed è ancora composto a partire dalle condizioni generali della produzione e dunque anche – necessariamente – in riferimento al salario. Senza cercare di ripercorrere la storia dei differenziali salariali mondiali, va almeno tenuto presente che attorno alla metà degli anni ’90 i lavoratori specializzati dei paesi più ricchi del mondo guadagnavano in media sessanta volte di più dei lavoratori appartenenti al gruppo più povero, i braccianti dell’Africa subsahariana.

domenica 5 febbraio 2017

Gramsci e la Russia sovietica - Domenico Losurdo

Leggi anche:    http://ojs.uniurb.it/index.php/materialismostorico/article/view/600/552

Cos’è l’intelligenza numerica nell’uomo? Daniela Lucangeli*

*Daniela Lucangeli, una laurea in Filosofia Logica e una laurea in Psicologia e un PhD in Developmental Science conseguito presso l’università di Leiden (Olanda), si occupa da sempre dei processi maturazionali nello sviluppo e nell’ apprendimento. 

venerdì 3 febbraio 2017

La guerra dei ricchi è cominciata*- Bruno Amoroso** (8/02/2016)

** Bruno Amoroso (Roma, 11 dicembre 1936 – Copenaghen, 20 gennaio 2017) è stato un economista e saggista italiano naturalizzato danese.docente all’università di Roskilde in Danimarca
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 E come scriveva Sartre: “Siamo tutti complici e vittime”. La tragedia già descritta nel passato è di tale ampiezza che “in un mondo in cui tutti fuggono a gambe levate in tutte le direzioni, anche chi cammina composto nella direzione opposta sembra che fugga”.



 “Hai viaggiato attraverso i deserti e con il rischio di affogare, hai attraversato il Mediterraneo con imbarcazioni insicure, e non sei arrivato da nessuna parte: hai camminato in circolo e sei sempre arrivato nello stesso accampamento da cui sei scappato. La tenda è il tuo destino. Il tuo futuro è fuggire. Sei condannato a vita a emigrare da tenda a tenda, un condannato a vita senza fissa dimora. Renditene conto!”. (Carsten Jensen)




Redditi e rapine

La crisi politica dell’Europa – che ha raggiunto il suo apice, per ora, con il problema dei profughi in fuga dalla guerra e dalla fame, e della lotta al “terrorismo” – è un dramma da tempo annunciato, così come lo è la reazione dei popoli e dell’establishment politico, economico e militare. Il filosofo di Treviri lo aveva previsto: non saranno le teorie o le ideologie a indirizzare le aspirazioni dei popoli, ma il peggioramento delle loro condizioni di vita e di sicurezza. L’establishment lo sa ed è per questo che ha rinunciato a contrastare i movimenti per la pace, le richieste di co-sviluppo tra nord e sud, i programmi di giustizia sociale ed equità giuridica. Per cambiare la testa degli individui è sufficiente togliergli il tappeto sotto i piedi. Facendosi promotore della “pace” e della “democrazia” negli altri paesi, porgendo la mano alla protesta contro i governi e le ineguaglianze da essa stessa promosse, la Triade ha fomentato le rivolte e le guerre civili nei paesi arabi e africani con l’aiuto dei propri regimi fantoccio e del “terrorismo”.

Ha costruito il suo alibi con anni di campagne sulla necessità dei tagli e dei risparmi nei paesi europei, che hanno trasformato l’immagine di quella gioiosa macchina di pace che fu lo Stato del Benessere in una banda di spendaccioni a spese del mercato e del capitalismo. È stato così che nei paesi europei si è scatenato il clamore sulla generosità sconsiderata dello Stato a spese delle imprese e dei capitali, ed è iniziata la caccia predatoria a spese dei pensionati, dei malati e dei più deboli. Anche nella felice Danimarca ci si è messi a contare il numero delle merende dei bambini e dei minuti di assistenza ai vecchi e malati, l’”agenzia delle entrate” si è impegnata nella caccia all’evasione e al lavoro nero dei piccoli commercianti e dei disoccupati dimenticando i grandi evasori.

Questo all’indomani di una “crisi” finanziaria che ha rapinato i risparmi dei lavoratori. Alla crescente disaffezione per questo Stato delle cose si è fatto fronte con la difesa dei “valori” nazionali e della “democazia” rafforzando la presenza del paese sui fronti di Guerra della Nato, costruendo al centro di Copenaghen un nuovo mausoleo ai caduti delle guerre Nato, e con decisioni legislative per la difesa dei “valori” nazionali che impongono la carne di “maiale” nelle colazioni dei bambini negli asili e nelle scuole. Il ritorno del “terrorismo”, con le armi e i soldi dell’Occidente, ha legittimato sia moralmente sia contabilmente i tagli alle politiche di aiuto verso i paesi africani e asiatici. La reazione di sgomento e sorpresa per la recente approvazione parlamentare della legge L87 che autorizza la perquisizione e il sequestro da parte della polizia danese degli “ori e diamanti” che i migranti trascinerebbero con se nelle loro valigie è stata stigmatizzata come ipocrita da parte del governo danese. La tesi ufficiale, ribadita anche a Bruxelles, è che questo è in linea con quanto il governo fa in Danimarca anche verso i propri cittadini. La rapina eretta a sistema, verso i propri e gli altri cittadini, durante la quale i risparmi di una vita non sono distinguibili dal bottino della finanza e delle guerre, quelli mai conteggiati e tassati.

I migranti sono i veri speculatori del nostro tempo

giovedì 2 febbraio 2017

L’imperialismo americano e la socialdemocrazia europea*- L. Trotsky (1924)

*Da:      https://www.marxists.org/
Leggi anche:    http://ilmattino.it/primopiano/esteri/canfora_trump_islam_unione_europea-2231555.html


Ma prima di affrontare questa importante questione, esaminiamo qual è il ruolo che il capitale americano riserva ai radicali e ai menscevichi europei, alla socialdemocrazia in questa Europa che sta per essere posta a regime controllato.

 La socialdemocrazia è incaricata di preparare questa nuova situazione, cioè di aiutare politicamente il capitale americano a mettere a razione l’Europa. Che fanno in questo momento le socialdemocrazie tedesca e francese, che fanno i socialisti di tutta Europa? Si educano e si sforzano di educare le masse operaie nella religione dell’americanismo; in altre parole, fanno dell’americanismo, del ruolo del capitale americano in Europa, una nuova religione politica. Si sforzano di persuadere le masse lavoratrici che, senza il capitale americano, essenzialmente pacificatore, senza i prestiti dell’America, l’Europa non potrà resistere. Fanno opposizione alla loro borghesia, come i socialpatrioti tedeschi, non dal punto di vista della rivoluzione proletaria, e neanche per ottenere delle riforme, ma per dimostrare che questa borghesia è intollerabile, egoista, sciovinista e incapace di andare d’accordo con il capitale americano pacifista, umanitario, democratico. È il problema fondamentale della vita politica dell’Europa e, in particolare, della Germania. In altri termini, la socialdemocrazia europea diventa oggi l’agenzia politica del capitale americano. È un fatto inaspettato? No, poiché la socialdemocrazia, che era l’agenzia della borghesia, nella sua degenerazione politica, doveva fatalmente diventare l’agenzia della borghesia più forte, della più potente, della borghesia di tutte le borghesie, cioè della borghesia americana. Poiché il capitale americano assume il compito di unificare, di pacificare l’Europa, di insegnarle a risolvere i problemi dei risarcimenti e altri ancora, e poiché tiene i cordoni della borsa, la dipendenza della socialdemocrazia nei confronti della borghesia tedesca in Germania, della borghesia francese in Francia, diventa sempre di più una dipendenza nei confronti del padrone di queste borghesie. Il capitale americano è attualmente il padrone dell’Europa. Ed è naturale che la socialdemocrazia cada politicamente sotto la dipendenza del padrone dei suoi padroni. Questo è il fatto essenziale per comprendere la situazione attuale e la politica della Seconda Internazionale. Non rendersene conto, significa non poter comprendere gli avvenimenti di oggi e di domani, significa vedere soltanto la superficie delle cose e soddisfarsi di frasi generiche.