venerdì 24 febbraio 2017

A che serve il muro?*- Adriano Voltolin**

**Società di Psicoanalisi Critica   http://www.societadipsicoanalisicritica.it/ 


Come ha messo bene in rilievo Aldo Giannuli (http://www.aldogiannuli.it/psicoanalisi-del-muro/) le strategie politiche, militari e ideologiche dei muri costruiti a difesa di ciò che sta all’interno sono sempre fallite: il loro fondamento psicologico ed ideologico è da ricercare in una rassicurazione di chi lo erige e non alla sua difesa reale.

Le dighe costruite per creare dei bacini idrici servono per evitare che piene ed alluvioni travolgano i frutti del lavoro di ciò che sta a valle e, se non vengono costruite in modo criminale, si pensi al Vajont, nome sintomatico del monte che stava sopra la diga e che significa in dialetto friulano “viene giù”, proteggono le case, le coltivazioni e la vita stessa delle persone ed addirittura servono, regolando l’afflusso delle acque, a far fiorire ulteriormente il lavoro dell’uomo. Si pensi, più modestamente, alle risaie ed ai prati marcitori lombardi: l’acqua, non più trattenuta, allagando i campi produce il risultato straordinario di fornire un cibo come il riso che costituisce buona parte dell’alimentazione mondiale e in Lombardia forniva foraggio fresco quando la neve ed il gelo coprivano la pianura padana. L’isolamento dall’acqua è una strategia che non ha affatto per mira quello di chi la ferma, ma il suo utilizzo più proficuo per rendere la comunità più ricca e benestante.

Il muro inteso come fortezza che protegge dall’invasione dei barbari è invece concettualmente l’opposto: il benessere maggiore non è dato dallo sfruttamento intelligente di ciò che viene dall’esterno in modo da creare nuove opportunità, ma è fantasticato come l’isolamento da esso. I colonizzatori inglesi e belgi non avevano bisogno di costruire muri di cemento, ma il loro isolamento dai neri del Kenya e del Congo era garantito dalla ricchezza, dalle armi e da una ideologia grossolanamente illuministica che ricreava il modo di vita europeo (delle classi agiate) in Africa.

Sul piano individuale, l’isolamento attraverso un muro difensivo, è più facilmente avvertito come patologico mentre, per il fenomeno della deresponsabilizzazione gruppale, non appare tale quando diviene ideologia di massa. Nella richiusura paranoide il pericolo dell’irruzione di un agente esterno viene avvertito come catastrofico e, tanto meno tale agente è oggettivamente pericoloso, tanto più esso appare infido e subdolo. Si pensi, è un esempio magnifico, alla fortezza Bastiani ne Il deserto dei tartari di Dino Buzzati: l’assoluta mancanza di pericolo del deserto viene avvertita come tanto più minacciosa quanto più assente è ogni individuo che provenga da esso: il giovane tenente Drogo invecchierà, insieme a tutta la guarnigione, nella perenne attesa di un nemico che non c’è e la sua vita sarà consumata per intero in una difesa spasmodica da ciò che, all’esterno, non esiste.

Come la psicoanalisi ci aiuta a capire, quando un nemico esterno, in quanto tale, non esiste, ciò non significa che il pericolo non sia reale, ma che esso proviene dall’interno e non dall’esterno. Mentre la difesa da un nemico esterno, per quanto potente e feroce questi sia, consente di rapportarsi alla realtà – si pensi alla memorialistica della vita di trincea nella prima guerra mondiale – il pericolo interno non può essere affrontato perché la realtà del mondo interno è molto più minacciosa della morte o della prigionia: affrontare il mondo interno, se il quadro patologico è particolarmente grave, significa la propria dissoluzione nel nulla, la catastrofe mentale, per dirla con Bion.

La paura paranoide dell’esterno viene sperimentata dal bambino in quella che Melanie Klein ha chiamato posizione schizoparanoide, cioè quando il mondo esterno si presenta in tutta la sua minacciosa incomprensibilità: la luce diretta, la temperatura non più costante, i rumori non più attutiti, il dolore terribile dei primi atti respiratori e poi la non costanza della fonte alimentare, la separazione da essa eccetera. Paradossalmente ciò che aiuterà il bambino a contenere le sue angosce sarà proprio un agente esterno, divenuto interno: la madre e la sua relazione con lei. La madre si prenderà cura del bambino proteggendolo da pericoli reali come la temperatura inadeguata, la fame, i dolori intestinali e fornirà quindi il modello di una difesa efficace da un lato, ma, ancor più, dell’affrontabilità di un pericolo che non si presenterà allora più come distruttivo, ma come una minaccia reale alla quale in qualche modo si può fare fronte. Si potrebbe pensare alla crescita come ad una progressiva capacità di fronteggiare i problemi attraverso l’identificazione con un buon oggetto protettivo e al successivo sviluppo di un desiderio, che in psicoanalisi si chiama riparativo, di proteggere ed aiutare i più deboli. Si potrebbe dire che una società, un consorzio umano, esiste come tale solo quando vi è un patto generazionale che garantisce la crescita armonica, con l’aiuto ed il sostegno dei suoi membri adulti, il lavoro teso a favorire condizioni di vita via via migliori ed infine la responsabilità verso coloro che sono resi deboli dalla malattia o dalla vecchiaia.

Di converso, meno possibilità di identificazione vi sono con oggetti capaci e forti, tanto maggiore è la probabilità dello svilupparsi di patologie individuali e gruppali (cioè sociali) che hanno al centro la necessità di erigere delle barriere contro l’angoscia di annientamento che viene da pericoli incontrollabili. Nell’epoca storica delle società autoritarie e dei fascismi, le patologie legate all’angoscia di dissoluzione dell’Io erano minori, mentre prevalevano le nevrosi da inadeguatezza, dal timore cioè di non rispondere sufficientemente a degli standard rigidi per i quali le donne dovevano essere morigerate e solo protese a divenire madri e gli uomini a combattere energicamente nell’agone sociale trionfando sui concorrenti (commerciali, amorosi e così via) e sui nemici.

La società globalizzata, pur essendo apparentemente molto distante da quelle (in realtà produce fenomeni autoritari, razzisti e fascisti e non solo a livello dell’ideologia di massa,come mostra bene Giannuli) ripropone modelli di comportamento obbligati che però da quelli della società autoritaria differiscono profondamente in quanto all’idea di un individuo formato per la competizione con gli altri, sostituiscono quella di un individuo che cresce solo soddisfacendo ogni desiderio, cavandosela in qualche modo utilizzando gli altri e prendendo per sé quanto più gli è possibile: denaro, potere, prestigio, donne, notorietà: la società, intesa come reticolo necessario per lo sviluppo della propria personalità, appare come un retaggio di un passato preda delle utopie assistenzialistiche e socialistiche ed è sostituita dall’idea di una società che è solo una somma di individui nella quale chi è forte si salva ed ha successo, mentre chi non lo è semplicemente soccombe.

E’ allora piuttosto comprensibile come le patologie paranoidi si sviluppino assai più frequentemente in soggetti nei quali l’angoscia della propria situazione è più difficilmente sopportata o non lo è per nulla. Si erigono allora dei muri che sono costituiti dalla propria abitazione, dalla quale non si esce che assai raramente e comunque sempre meno, e spesso dalla propria stanza che diviene un fortilizio all’interno del quale vengono svolte le attività per la sopravvivenza, come il mangiare ed il dormire. In casi estremi è il letto a divenire il fortilizio dal quale non si esce se non per i bisogni corporali.

Casi di questo genere vengono sempre più spesso portati negli studi degli psicologi; nei casi più favorevoli è la persona stessa a venire in terapia, per lo più indirizzata a questa dai genitori, visto che in grande maggioranza questi pazienti sono adolescenti o comunque persone giovani; nei casi più gravi la persona si rifiuta di uscire per andare dallo psicologo ed allora si cerca di lavorare, come è possibile, con i genitori per aiutarli ad affrontare una situazione drammatica alla quale spesso non vi è rimedio risolutivo, la “guarigione” per usare un termine equivoco.

Pur evitando di entrare, in questa sede, in una disamina clinica, è opportuno sottolineare come uno dei fenomeni più importanti della globalizzazione, internet, abbia un ruolo fondamentale, e per nulla positivo, nello svilupparsi di queste patologie. Praticamente tutti i ragazzi che si isolano progressivamente stanno davanti al computer, su internet, per un numero spropositato di ore al giorno, anche più di dodici, e la loro giornata si consuma tra pasti irregolari e frugali, il sonno, anch’esso irregolare, e internet appunto. Dalle loro stesse parole emerge con chiarezza che questo uso di internet tende a confondere il mondo virtuale e quello reale in modo assai profondo: la realtà non virtuale ed internet divengono indistinguibili, in una prima fase, ma poi la realtà virtuale tende a diventare sempre più l’unica realtà rispetto alla quale tutto il resto appare solo un disturbo inopportuno.

Se ormai per molti bambini in età della scuola elementare, la compagnia di altri bambini diviene generalmente più rara, e spesso sostituita da attività sportive od artistiche nella scelta delle quali il narcisismo genitoriale diviene nella sostanza il motore vero (nessun bambino che si rispetti oggi non va almeno a danza, rugby, pallavolo, tennis, calcio, pianoforte e così via presso maestri e società ad hoc), ovviamente per le patologie alle quali ci riferiamo tali contatti sono definitivamente aboliti. Il risultato, patologico, di tale uso di internet mostra la sua evidenza nella constatazione che spesso questi soggetti claustrofilici appaiono perfettamente informati sulle cose del mondo e spesso possono discutere con competenza apparente di politica, società, psicologia, sport e così via.

La percezione di essere isolati, idioti nel senso greco del termine, comincia ad apparire quando clinicamente la situazione mentale comincia a migliorare: ed allora cominciano ad apparire crisi di sconforto e talvolta quadri depressivi che l’eccitazione maniacale aveva dissimulato.

Il quadro delle relazioni con i famigliari conviventi oscilla tra la più totale indifferenza – servono solamente come fornitori di generi di prima necessità – e un odio profondo quando vengono percepiti come agenti del mondo interno terrificante che non è più distinto da quello esterno che possiede le medesime caratteristiche. Coloro che l’ideologia e l’informazione corrente presentano come estranei minacciosi che attentano alla “pacifica” vita di una comunità idealizzata che assomiglia, ovviamente, a quella descritta nel film di Truffaut del 1966 Fahrenheit 451, vanno respinti, scacciati, annientati alla stessa maniera degli ebrei e degli oppositori nella Germania nazista. Va eretto un muro insomma e coloro che minacciano di scavalcarlo vanno sterminati. 


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