venerdì 10 febbraio 2017

Il comunismo nella storia cinese: riflessioni su passato e futuro della Repubblica popolare cinese*- Maurice Meisner**

**Meisner, Maurice (1931-2012)storico della Cina contemporanea. “The Place of Communism in Chinese History: Reflections on the Past and Future of the People’s Republic of China,” Macalester International: Vol. 18, Article 8. (2007) 


[…] Questo non è il luogo adatto per discutere seriamente gli sviluppi del capitalismo seguiti rapidamente alle riforme degli anni ottanta, probabilmente il più massiccio processo di sviluppo capitalistico della storia mondiale. Vorrei occuparmi esclusivamente di alcuni aspetti strettamente correlati di tale esito: innanzitutto, il ruolo dello stato nello sviluppo del capitalismo; secondo, il fenomeno del “capitalismo burocratico” nella storia cinese; infine, alcuni brevi commenti circa le conseguenze politiche e culturali del capitalismo cinese contemporaneo, in particolare riguardo al posto del comunismo nella storia cinese.

III. Capitalismo e stato

Una delle grandi ironie della storia moderna cinese è il fatto che la dinamica capitalistica che ha trasformato la Cina nell’ultimo quarto di secolo è il risultato di decisioni prese da un partito e da un potente stato comunisti. Per quanto incongruo in termini di classica ideologia liberale, nella fattualità storica un ruolo cruciale dello stato nello sviluppo del capitalismo non è inusuale. Lo stato bismarkiano, ad esempio, diede gran parte dell’impeto e dell’orientamento per lo sviluppo del moderno capitalismo industriale nella Germania del tardo XIX secolo, mentre l’industrializzazione promossa dallo stato rappresentò la forza dominante nella storia del Giappone nell’epoca Meiji (1868-1912). Nelle cosiddette “nazioni di recente industrializzazione” del secondo dopoguerra, la modernizzazione patrocinata dallo stato costituì un fatto universale. Corea del sud, Taiwan e Singapore sono alcuni degli esempi di maggior successo.

Di fatto, non è solo nel caso della tarda modernizzazione (o di quella che Barrington Moore ha definito “modernizzazione conservatrice”) che si è assistito al coinvolgimento dello stato nella promozione dello sviluppo capitalistico. Il potere statale ha giocato un ruolo essenziale nel precedente sviluppo del capitalismo nei paesi occidentali, ruolo oscurato dalla necessità ideologica di dipingerlo come espressione naturale di una presunta natura umana essenziale. Una necessità che ha trovato esternazione nell’ideologia del “libero mercato”, secondo la quale il capitalismo opera meglio laddove libero da qualsiasi ingerenza governativa esterna. Eppure, anche in Inghilterra, la classica patria del capitalismo e dell’ideologia liberale, fu l’intervento dello stato a creare il mercato del lavoro, precondizione allo sviluppo di un moderno capitalismo industriale. Le enclosure, che promossero il capitalismo rurale espellendo dalla terra milioni di contadini trasformandoli in proletari urbani, nono furono semplicemente frutto di leggi naturali dell’economia, bensì di provvedimenti del parlamento applicati da tribunali e polizia. E fu la riforma della Poor Law del 1834 a porre fine ai tradizionali diritti di sussistenza in favore di un mercato del lavoro “libero”, la funzione del quale venne rafforzata dalla minaccia della Workhouse. Lo stato britannico era pesantemente coinvolto nella creazione delle condizioni necessarie per lo sviluppo del moderno capitalismo industriale nella sua patria nonché classica incarnazione (11).

Tuttavia, il ruolo dello stato comunista nello sviluppo del capitalismo cinese è stato qualitativamente maggiore rispetto ad ogni altro caso precedente di sviluppo capitalistico. Un’economia di mercato, dopotutto, presuppone una borghesia. In tutti i precedenti casi di capitalismo patrocinato dallo stato, esisteva una classe borghese indigena i cui interessi lo stato poteva promuovere, i cui ranghi potevano essere incrementati, e le energie sfruttate, dalle autorità statali ai fini dello sviluppo economico nazionale. Ma a partire dai tardi anni Cinquanta, la borghesia cinese (da sempre una classe sociale relativamente piccola) aveva quasi cessato di esistere. Molti dei più ricchi esponenti della borghesia avevano lasciato la Cina continentale nel 1949. Le imprese commerciali e industriali di coloro che decisero di rimanere vennero espropriate a titolo definitivo o acquistate dallo stato comunista. In quest’ultimo caso, gli ex proprietari ottennero titoli di stato a bassa remunerazione (e non ereditabili) a compensazione parziale per la nazionalizzazione delle loro imprese. Ciò che rimaneva della borghesia alla fine dell’era di Mao nel 1976 era uno sparuto gruppo di anziani pensionati in possesso di modesti dividendi sui titoli di stato. Così una “classe imprenditrice”, nella terminologia dell’epoca, andava creata da zero se si voleva implementare la nuova strategia di mercato dei riformatori.

Non sorprende che tale nuova borghesia fosse in gran parte reclutata fra i ranghi del Partito comunista cinese. I funzionari di partito e i quadri avevano l’influenza politica e le capacità per trarre vantaggio dalle opportunità pecuniarie offerte dal mercato. Superando le inibizioni ideologiche che essi potevano avere, in molti si lanciarono, sia entrando negli affari personalmente o, più tipicamente, garantendo posizioni lucrative per i propri figli, parenti e amici, in quella che ben presto divenne un intricata, ma latamente redditizia, rete di rapporti clientelari. Non solo singoli funzionari comunisti (e le loro famiglie) raggiungevano la nuova borghesia commerciale, finanziaria e industriale, ma intere burocrazie entravano nel mercato sotto forma di compagnie capitaliste, non escluso l’Esercito popolare di liberazione, il quale raccolse enormi profitti vendendo armi sul mercato internazionale e persino gestendo una catena di hotel di lusso, nonché, tramite le sue diverse sussidiarie, circa 20.000 fra imprese industriali, commerciali e finanziarie (12).

In tal modo, l’unione tra il mercato e una burocrazia comunista ha prodotto non “un’economia socialista di mercato”, com’è talvolta è stata pubblicizzata, bensì una sorta di capitalismo burocratico; ovvero, un sistema di politica economica nel quale il potere politico viene utilizzato per guadagni privati tramite metodi capitalistici di attività economica. Il fenomeno, di per sé, non costituisce verto una novità nella storia mondiale. Ma il capitalismo burocratico è stato una caratteristica inusualmente prominente della storia cinese, sia nell’epoca tradizionale che in quella moderna. Le sue origini cinesi risalgono ad una passata dinastia Han (202 a.C. – 9 d.C.) quando i monopoli di stato vennero stabiliti per la produzione e vendita di merci lucrative come sale, vino e ferro. Originariamente gestiti da burocrati imperiali al fine di generare una fonte stabile di entrate per lo stato, i monopoli si evolsero in un sistema ibrido nel quale commercianti privati gestivano produzione e distribuzione sotto la supervisione di burocrati di alto livello. Un relazione simbiotica da cui traevano enorme profitto entrambi. Ma generalmente erano i funzionari ad avere la meglio. essi erano infatti relativamente sicuri della loro posizione, consacrati dalla tradizione e dall’ideologia, laddove i mercanti dipendevano dalla tutela burocratica.

I monopoli di stato non erano la sola via attraverso la quale i burocrati potevano arricchirsi grazie al coinvolgimento in attività di tipo capitalistico. Essi approfittavano anche di un complesso sistema di affitti e concessioni di licenze ufficiali sotto le quali commercianti e artigiani privati erano obbligati a operare; svariati poteri legali ed extra-legali di tassazione su commercio e industria; oltreché semplici (ma solitamente approvate dalla consuetudine) forme di corruzione. Nonostante il pregiudizio confuciano contro le attività mercantili, i burocrati confuciani non esitavano ad approfittare dei rapporti di mercato, direttamente o indirettamente.

Una delle conseguenze sociali del capitalismo burocratico nella Cina tradizionale fu l’inibizione dello sviluppo della borghesia quale classe sociale indipendente, separata dalla burocrazia. I burocrati (“letterati-funzionari” o “piccola nobiltà”, semplicemente termini differenti per la stessa formazione sociale) erano socialmente e politicamente dominanti, ma allo stesso tempo strettamente alleati con i grandi mercanti e i proto-industriali. Di fatto, si può parlare dei burocrati e della borghesia tradizionale come classi interdipendenti. Il risultato, per riprendere le parole del sinologo francese Etienne Balazs, fu che il “letterato-funzionario si ‘imborghesì’, mentre il mercante iniziò ad ambire la posizione di letterato-funzionario e a investire i propri profitti nella terra” (13). la tendenza dei mercanti privati, degli industriali e dei banchieri a farsi assorbire nell’economia burocraticamente controllata della Cina imperiale impedì l’emergere di una borghesia indipendente che sfidasse seriamente l’ordine confuciano tradizionale.

Un nuovo episodio del capitalismo burocratico si svolse nel tardo XIX secolo. Durante gli anni del declino della dinastia Qing, la quale era stata colpita dall’assalto imperialista sin dalle Guerre dell’oppio della metà dell’Ottocento, venne compiuto un tentativo di “modernizzazione conservatrice” al fine di scongiurare il rischio di colonizzazione straniera. Lo sforzo di modernizzazione, conosciuto come movimento del “rafforzamento interno”, fu intrapreso dai potenti viceré provinciali cinesi del regime Manchu anziché dalla dinastia stessa, dominata dall’oscurantista imperatrice madre. Modellato parzialmente su quello della Germania bismarkiana e del Giappone Meiji, lo sforzo cinese fallì, in parte a causa dell’assenza di un governo centrale forte e d efficace, in parte perché la morsa dell’imperialismo straniero sull’economia cinese era ormai troppo stretta. Tuttavia, nel corso di tale fallimento, i viceré provinciali usarono la propria posizione ufficiale al fine di promuovere una grande varietà di iniziative capitalistiche o simil-capitalistiche, con le quali accumularono vaste fortune private. L’incarnazione di questa prima fase della Cina moderna fu Li Hongzhang, che occupò le più alte cariche dell’Impero per tre decenni, durante i quali divenne anche il più grande capitalista privato gestendo (e traendone profitto) una compagnia di trasporti con navi a vapore, miniere di carbone, fabbriche tessili e molte altre imprese (14).

Gli eventi immediatamente successivi e derivanti dalla Rivoluzione del 1911 stimolarono una più vigoroso e convenzionale periodo di sviluppo capitalistico (circa 1905-1927), noto come “età d’oro della borghesia cinese” (15). Un’età doro assai breve, in ogni caso. Il consolidamento del potere da parte del regime nazionalista di Chiang Kai-shek nel 1927 diede vita a quello che, probabilmente, rappresenta il più classico caso di capitalismo burocratico della storia moderna. I due decenni durante i quali il Guomindang governò la Cina furono segnati dal dominio delle cosiddette “quattro grandi famiglie” (sida): i Kung, i Soong, i Chen ed i Chiang. Queste erano strettamente interrelate tramite la politica e i matrimoni. Grazie al controllo esercitato sull’apparato del partito-stato del Guomindang, esse dominavano – nella loro veste di capitalisti privati – gran parte del settore moderno dell’economia cinese.

Il sistema del capitalismo burocratico ebbe fine con la vittoria comunista del 1949, quando i suoi esponenti (o meglio tutti i capitalisti legati al regime nazionalista) vennero espropriati a titolo definitivo dal nuovo stato, mentre i cosiddetti “capitalisti nazionali” vennero rilevati dal nuovo regime a prezzi bassi determinati dallo stato. La borghesia come classe sociale cessò di esistere nella Repubblica popolare cinese, per quanto il termine “borghese” (o “borghesia”) permanesse nell’ideologia ufficiale come condanna di comportamenti politici ed ideologici eterodossi.

Eppure, una delle principali condizioni necessarie al capitalismo burocratico sopravvisse e in effetti venne amplificata dalla vittoria comunista del 1949. Si tratta di una situazione storica nella quale le classi sociali sono generalmente deboli e lo stato relativamente forte. E tale era la condizione della Cina alla fine dell’era di Mao nel 1976, trovando una delle sue manifestazioni nell’assenza di una borghesi. Così, quando i vertici dello stato nella Cina post-Mao decisero che la creazione di un’economia di mercato sarebbe stata la via più efficace per lo sviluppo economico, furono costretti a creare una borghesia. Questa borghesia allevata dallo stato, come abbiamo visto, era in larga parte reclutata all’interno del PCC, nonché tra parenti e amici dei funzionari di partito.

Si sarebbe tentati dall’attribuire il contemporaneo regime burocratico capitalista alla persistenza delle vecchie tradizioni cinesi. Dopotutto, il capitalismo burocratico, in varie forme, è stato una caratteristica prominente della storia cinese dalla dinastia Han passando per l’epoca del Guomindang. Ciò nonostante, sembra difficile collegare quello dell’era post-Mao con le sue precedenti incarnazioni. La rivoluzione del 1949 costituì una rottura fondamentale con le strutture politiche e sociali del passato, ed è difficile identificare una qualsiasi significativa continuità tra il periodo pre-1949 e la Cina post-1979. Non solo, il capitalismo burocratico della Cina contemporanea è stato associato ad tassi estremamente alti di crescita economica nazionale, che hanno fatto del paese asiatico la seconda economia a livello mondiale. Ciò è in forte contrasto col capitalismo burocratico nella Cina tradizionale e nella prima modernità, il quale, non di rado, specialmente nel XIX secolo e agli inizi del XX, era associato con una generale stagnazione economica (per quanto esso prosperasse). Questo suggerisce che altri fattori, rispetto alle origini e alla natura della borghesia, sono cruciali nel determinare il tasso di crescita economica. Nel caso della Cina, il contrasto tra lo stagnante capitalismo burocratico del Guomindang e quello dinamico della Repubblica popolare cinese post-Mao può essere spiegato meglio da fattori quali la campagna di riforma agraria del 1950-52 (e la conseguente capacità di incanalare il surplus agricolo nello sviluppo industriale), uno stato-nazione più unito con infrastrutture relativamente ben sviluppate, nonché una posizione assi più favorevole nell’economia capitalista globale.

Il rapporto tra capitalismo burocratico e crescita economica ha visto enormi variazioni da paese a paese, oltreché all’interno dello stesso paese, come è stato il caso della Cina in differenti epoche storiche. Non è questione che si presti a facili conclusioni o ampie generalizzazione. D’altro canto, le implicazioni politiche e culturali del capitalismo cinese contemporaneo sembrano abbastanza chiare. In proposito, si possono spendere alcune parole a titolo di conclusione.

IV. Capitalismo e democrazia politica

L’associazione del capitalismo con la democrazia politica, e la convinzione secondo la quale un’economia capitalistica produce naturalmente un sistema politico democratico, deriva in larga parte dall’esperienza di paesi in cui il capitalismo moderno si è sviluppato presto, in particolare Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Eppure, anche nei paesi economicamente avanzati, la costruzione di un regime politico democratico è stata un processo lento e tortuoso. Ad esempio, in Francia, la patria della classica rivoluzione borghese democratica (o capitalista), non fu che con la Terza repubblica nel 1871, quasi un secolo dopo la grande rivoluzione del 1879, che un efficace democrazia politica venne stabilita. La restaurazione monarchica, la dittatura e le fallite rivoluzioni riempirono gli anni intercorrenti.

Nei paesi in cui il capitalismo industriale si è sviluppato relativamente tardi, il processo di modernizzazione ha avuto luogo tipicamente sotto la guida di uno stato relativamente autonomo e autoritario, con un’alleanza tra aristocrazia terriera, ormai rivolta a d interessi commerciali, ed una moderna borghesia, ancora debole per governare da sola, a fargli da base sociale. Di conseguenza, le istituzioni e le tradizioni democratiche sono deboli e lo stato forte. di fatto, nella Germania bismarkiana e nel Giappone Meiji, i due casi più notevoli di tarda modernizzazione capitalistica, l’esito politico è stato il fascismo. In questi ultimi, come in molti altri casi, nei quali regimi fascisti o fortemente autoritari sono stati il risultato, la borghesia nascente, come ha scritto Brrington Moore, ha scambiato “il diritto di governare con quello di fare profitti” (16). Lo stato autoritario, da parte sua, ha cercato di creare condizioni favorevoli allo sviluppo del capitalismo urbano e rurale, sostenendo, per esempio, politiche del lavoro repressive finalizzate ad estrarre un sempre maggiore surplus dalla popolazione lavoratrice, in particolare nelle aree rurali. Ma l’obiettivo cosciente dei vertici dello stato non è tanto la promozione del capitalismo, quanto quello eminentemente nazionalista di costruire il potere industriale e militare al fine di raggiungere i paesi capitalisti più avanzati.

A mio modo di vedere, la Cina nell’era post-Mao ha perseguito una variante di tale “via conservatrice alla modernizzazione”.Un potente ed autonomo apparato di stato è una delle eredità del periodo di Mao preservata dai riformatori di mercato. Questo stato è stato utilizzato dai successori di Mao per spazzare via tutte le barriere sociali ed ideologiche ad un rapido sviluppo capitalistico, specialmente le istituzioni “socialiste” costruite durante il periodo di Mao. Nelle campagne le unità di lavoro collettivistiche e cooperative (al pari di buona parte della sanità e del sistema di welfare) sono state smantellate con lo scopo di creare un’economia rurale commercializzata. Nelle città, la cosiddetta “ciotola di riso di ferro”, costituita da lavoro sicuro e benefici dello stato sociale goduti da circa la meta della classe lavoratrice durante gli anni di Mao, è stata rotta in nome delle “riforme”. Sia nelle campagne che nelle città tali riforme di mercato hanno agevolato uno sfruttamento più intensivo della popolazione lavoratrice, il vero segreto del miracolo cinese. Tanto lo stato che la borghesia da esso creata hanno tratto beneficio da tale processo. E come praticamente in ogni caso di “modernizzazione”, sono stati i contadini le vittime principali del progresso economico. In Cina, la più visibile manifestazione del prezzo della modernizzazione è la “popolazione fluttuante” (youmin) di lavoratori migranti. Diverse centinaia di milioni di contadini in esubero sono stati costretti ad abbandonare la terra e a vagare per il paese alla ricerca di un lavoro temporaneo, spesso in aree di costruzione; senza altra scelta che lavorare per salari infimi e sopportare condizioni di vita miserevoli.

A diversi livelli, si tratta di caratteristiche comuni dello sviluppo capitalistico e della tarda “modernizzazione conservatrice” in particolare. Ciò che appare unico nel caso della Cina e il fatto che la base sociale dello stato modernizzatore – una borghesia ed una classe rurale commercializzata – sono state create dallo stato medesimo. Lo stato comunista ha intrapreso il compito di nutrire una borghesia sia urbana che rurale, in larga parete tra i suoi stessi ranghi. In questo senso, il modello cinese di modernizzazione conservatrice è ancor più statalista e burocratico dei suoi predecessori tedesco e giapponese. E le prospettive di un’evoluzione politica democratica ancor meno promettenti. Sembra improbabile che una borghesia a tal punto dipendente dallo stato comunista, nei fatti ancora psicologicamente e materialmente legata agli apparati dello stato.partito, possa promuovere un movimento che limiti il potere statale dal quale trae così tanti benefici.

V. Capitalismo e tradizione cinese

Il capitalismo burocratico nella Cina contemporanea è pur sempre capitalismo nel suo operare essenziale, per quanto peculiari possano essere le sue origini. Come ogni processo di sviluppo capitalistico, la versione cinese è profondamente sovversiva riguardo alla tradizione. Nessuna forza nella storia ha dissolto tante credenze sacre e venerate pratiche culturali quanto le forze produttive capitalistiche. Karl Marx, oltre un secolo e mezzo fa, celebrando le sorprendenti capacità produttive del capitalismo, probabilmente ne descrisse meglio di chiunque altro le implicazioni culturali:

La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali… Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti (17).
In questo passo, e ancor più nel lungo brano di cui fa parte, Marx coglie la dinamica ed il carattere frenetico del capitalismo in un modo che non è meno rilevante per i nostri giorni di quanto fosse ai suoi tempi. Egli lamenta e celebra, al contempo, la dissoluzione delle antiche credenze e delle tradizioni riverite sotto la costante pressione dello sviluppo capitalistico. Inoltre anticipa il mondo in perpetua fluttuazione, sconvolgimento e frammentazione che oggi si suole descrivere con termini quali “modernismo”, “teoria della modernizzazione” e “globalizzazione”.

Nessun paese ha sperimentato un più massiccio e rapido sviluppo capitalistico della Cina nel quarto di secolo passato. Proprio come il capitalismo ne sta investendo il vasto territorio, ciò che rimane delle sue credenze e strutture tradizionali si sta disintegrando con eguale rapidità. La tradizione confuciana è stata erosa per lungo tempo, sin dalla lunga e dolorosa transizione dal “culturalismo al nazionalismo” nel tardo XIX secolo, passando per la violenta iconoclastia durante il Movimento del 4 maggio. A ciò ha fatto seguito la rivoluzione maoista del 1949, la quale ha distrutto la classe della piccola nobiltà e dei funzionari che così a lungo era stata il vettore della cultura e dei valori tradizionali. Eppure, in nessun’epoca vi è stata una rottura tanto rapida e radicale con la cultura tradizionale come quella cui assistiamo oggi, nel momento in cui la Cina si sottopone, e anzi abbraccia, i freddi ed imperativi valori universali del mercato capitalistico globale. I residui della tradizione stanno affogando in quella che Marx ha definito “acqua gelida del calcolo egoistico” (18). Le tradizioni si attardano esclusivamente nella forma di merci, come oggetti da esporre nel silenzio di un museo, o come grottesche esibizioni in parchi a tema stile Disneyland, dove possono essere viste da turisti stranieri e cinesi al prezzo di un biglietto di ingresso. Così, la Cina condivide con altre nazioni moderne tale sentimento assai poco confuciano – ovvero la perdita di ogni reale senso della tradizione.

È una delle grandi ironie della storia cinese che il comunismo sia stato l’agente storico dell’ingresso nel moderno capitalismo. E quest’ultimo, a sua volta, ha concluso il secolare ed iconoclastico assalto alla tradizione confuciana, sradicando e dissolvendo le vestigia della cultura tradizionale. Anche se il regime comunista sostituisce con la celebrazione nazionalista della tradizione millenaria cinese (per esempio nella forma degli “istituti confuciani”) la sua ideologia rivoluzionaria di una volta, questa tradizione si sta dissolvendo a causa del torrido sviluppo delle forze di produzione capitalistiche promosso dai dirigenti comunisti sin dal 1978. 


Note 

11. Questi sviluppi furono oggetto, ormai sei decenni fa, di una brillante analisi di Karl Polany in La grande trasformazione, Einaudi, 2010.
12. Eric Hyer, “China’s Arms Merchants: Profits in Command,” The China Quarterly 132 (dicembre 1992): 1111.
13. Etienne Balazs, Chinese Civilization and Bureaucracy (New Haven: Yale University Press, 1964), p. 32.
14. Il sistema della “supervisione ufficiale e della gestione mercantile”, derivante dal movimento del rafforzamento interno, e che costituì il preludio alla piena esplosione del capitalismo burocratico nel periodo del Guomindang, è analizzato da Albert Feuerwerker in China’s Early Industrialization: Sheng Hsuan-huai (1844–1916) and Mandarin Enterprise (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1958).
15. . Marie-Claire Bergere, The Golden Age of the Chinese Bourgeoisie, 1911–1937 (Cambridge, U.K.: Cambridge University Press, 1989).
16. Barrington Moore, Social Origins of Dictatorship and Democracy (Boston: Beacon Press, 1966), p. 437.
17. Karl Marx, Il Manifesto del Partito Comunista.
18. Ibid.

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