*Da: http://digitalcommons.macalester.edu/macintl/vol18/iss1/8 https://traduzionimarxiste.wordpress.com/
**Meisner, Maurice (1931-2012), storico della Cina contemporanea. “The Place of Communism in Chinese History: Reflections on the Past and Future of the People’s Republic of China,” Macalester International: Vol. 18, Article 8. (2007)
[…]
Questo non è il luogo adatto per discutere seriamente gli sviluppi
del capitalismo seguiti rapidamente alle riforme degli anni ottanta,
probabilmente il più massiccio processo di sviluppo capitalistico
della storia mondiale. Vorrei occuparmi esclusivamente di alcuni
aspetti strettamente correlati di tale esito: innanzitutto, il ruolo
dello stato nello sviluppo del capitalismo; secondo, il fenomeno del
“capitalismo burocratico” nella storia cinese; infine, alcuni
brevi commenti circa le conseguenze politiche e culturali del
capitalismo cinese contemporaneo, in particolare riguardo al posto
del comunismo nella storia cinese.
III.
Capitalismo e stato
Una
delle grandi ironie della storia moderna cinese è il fatto che la
dinamica capitalistica che ha trasformato la Cina nell’ultimo
quarto di secolo è il risultato di decisioni prese da un partito e
da un potente stato comunisti. Per quanto incongruo in termini di
classica ideologia liberale, nella fattualità storica un ruolo
cruciale dello stato nello sviluppo del capitalismo non è inusuale.
Lo stato bismarkiano, ad esempio, diede gran parte dell’impeto e
dell’orientamento per lo sviluppo del moderno capitalismo
industriale nella Germania del tardo XIX secolo, mentre
l’industrializzazione promossa dallo stato rappresentò la forza
dominante nella storia del Giappone nell’epoca Meiji (1868-1912).
Nelle cosiddette “nazioni di recente industrializzazione” del
secondo dopoguerra, la modernizzazione patrocinata dallo stato
costituì un fatto universale. Corea del sud, Taiwan e Singapore sono
alcuni degli esempi di maggior successo.
Di
fatto, non è solo nel caso della tarda modernizzazione (o di quella
che Barrington Moore ha definito “modernizzazione conservatrice”)
che si è assistito al coinvolgimento dello stato nella promozione
dello sviluppo capitalistico. Il potere statale ha giocato un ruolo
essenziale nel precedente sviluppo del capitalismo nei paesi
occidentali, ruolo oscurato dalla necessità ideologica di dipingerlo
come espressione naturale di una presunta natura umana essenziale.
Una necessità che ha trovato esternazione nell’ideologia del
“libero mercato”, secondo la quale il capitalismo opera meglio
laddove libero da qualsiasi ingerenza governativa esterna. Eppure,
anche in Inghilterra, la classica patria del capitalismo e
dell’ideologia liberale, fu l’intervento dello stato a creare il
mercato del lavoro, precondizione allo sviluppo di un moderno
capitalismo industriale. Le enclosure, che promossero il capitalismo
rurale espellendo dalla terra milioni di contadini trasformandoli in
proletari urbani, nono furono semplicemente frutto di leggi naturali
dell’economia, bensì di provvedimenti del parlamento applicati da
tribunali e polizia. E fu la riforma della Poor Law del 1834 a porre
fine ai tradizionali diritti di sussistenza in favore di un mercato
del lavoro “libero”, la funzione del quale venne rafforzata dalla
minaccia della Workhouse. Lo stato britannico era pesantemente
coinvolto nella creazione delle condizioni necessarie per lo sviluppo
del moderno capitalismo industriale nella sua patria nonché classica
incarnazione (11).
Tuttavia,
il ruolo dello stato comunista nello sviluppo del capitalismo cinese
è stato qualitativamente maggiore rispetto ad ogni altro caso
precedente di sviluppo capitalistico. Un’economia di mercato,
dopotutto, presuppone una borghesia. In tutti i precedenti casi di
capitalismo patrocinato dallo stato, esisteva una classe borghese
indigena i cui interessi lo stato poteva promuovere, i cui ranghi
potevano essere incrementati, e le energie sfruttate, dalle autorità
statali ai fini dello sviluppo economico nazionale. Ma a partire dai
tardi anni Cinquanta, la borghesia cinese (da sempre una classe
sociale relativamente piccola) aveva quasi cessato di esistere. Molti
dei più ricchi esponenti della borghesia avevano lasciato la Cina
continentale nel 1949. Le imprese commerciali e industriali di coloro
che decisero di rimanere vennero espropriate a titolo definitivo o
acquistate dallo stato comunista. In quest’ultimo caso, gli ex
proprietari ottennero titoli di stato a bassa remunerazione (e non
ereditabili) a compensazione parziale per la nazionalizzazione delle
loro imprese. Ciò che rimaneva della borghesia alla fine dell’era
di Mao nel 1976 era uno sparuto gruppo di anziani pensionati in
possesso di modesti dividendi sui titoli di stato. Così una “classe
imprenditrice”, nella terminologia dell’epoca, andava creata da
zero se si voleva implementare la nuova strategia di mercato dei
riformatori.
Non
sorprende che tale nuova borghesia fosse in gran parte reclutata fra
i ranghi del Partito comunista cinese. I funzionari di partito e i
quadri avevano l’influenza politica e le capacità per trarre
vantaggio dalle opportunità pecuniarie offerte dal mercato.
Superando le inibizioni ideologiche che essi potevano avere, in molti
si lanciarono, sia entrando negli affari personalmente o, più
tipicamente, garantendo posizioni lucrative per i propri figli,
parenti e amici, in quella che ben presto divenne un intricata, ma
latamente redditizia, rete di rapporti clientelari. Non solo singoli
funzionari comunisti (e le loro famiglie) raggiungevano la nuova
borghesia commerciale, finanziaria e industriale, ma intere
burocrazie entravano nel mercato sotto forma di compagnie
capitaliste, non escluso l’Esercito popolare di liberazione, il
quale raccolse enormi profitti vendendo armi sul mercato
internazionale e persino gestendo una catena di hotel di lusso,
nonché, tramite le sue diverse sussidiarie, circa 20.000 fra imprese
industriali, commerciali e finanziarie (12).
In
tal modo, l’unione tra il mercato e una burocrazia comunista ha
prodotto non “un’economia socialista di mercato”, com’è
talvolta è stata pubblicizzata, bensì una sorta di capitalismo
burocratico; ovvero, un sistema di politica economica nel quale il
potere politico viene utilizzato per guadagni privati tramite metodi
capitalistici di attività economica. Il fenomeno, di per sé, non
costituisce verto una novità nella storia mondiale. Ma il
capitalismo burocratico è stato una caratteristica inusualmente
prominente della storia cinese, sia nell’epoca tradizionale che in
quella moderna. Le sue origini cinesi risalgono ad una passata
dinastia Han (202 a.C. – 9 d.C.) quando i monopoli di stato vennero
stabiliti per la produzione e vendita di merci lucrative come sale,
vino e ferro. Originariamente gestiti da burocrati imperiali al fine
di generare una fonte stabile di entrate per lo stato, i monopoli si
evolsero in un sistema ibrido nel quale commercianti privati
gestivano produzione e distribuzione sotto la supervisione di
burocrati di alto livello. Un relazione simbiotica da cui traevano
enorme profitto entrambi. Ma generalmente erano i funzionari ad avere
la meglio. essi erano infatti relativamente sicuri della loro
posizione, consacrati dalla tradizione e dall’ideologia, laddove i
mercanti dipendevano dalla tutela burocratica.
I
monopoli di stato non erano la sola via attraverso la quale i
burocrati potevano arricchirsi grazie al coinvolgimento in attività
di tipo capitalistico. Essi approfittavano anche di un complesso
sistema di affitti e concessioni di licenze ufficiali sotto le quali
commercianti e artigiani privati erano obbligati a operare; svariati
poteri legali ed extra-legali di tassazione su commercio e industria;
oltreché semplici (ma solitamente approvate dalla consuetudine)
forme di corruzione. Nonostante il pregiudizio confuciano contro le
attività mercantili, i burocrati confuciani non esitavano ad
approfittare dei rapporti di mercato, direttamente o indirettamente.
Una
delle conseguenze sociali del capitalismo burocratico nella Cina
tradizionale fu l’inibizione dello sviluppo della borghesia quale
classe sociale indipendente, separata dalla burocrazia. I burocrati
(“letterati-funzionari” o “piccola nobiltà”, semplicemente
termini differenti per la stessa formazione sociale) erano
socialmente e politicamente dominanti, ma allo stesso tempo
strettamente alleati con i grandi mercanti e i proto-industriali. Di
fatto, si può parlare dei burocrati e della borghesia tradizionale
come classi interdipendenti. Il risultato, per riprendere le parole
del sinologo francese Etienne Balazs, fu che il
“letterato-funzionario si ‘imborghesì’, mentre il mercante
iniziò ad ambire la posizione di letterato-funzionario e a investire
i propri profitti nella terra” (13). la tendenza dei mercanti
privati, degli industriali e dei banchieri a farsi assorbire
nell’economia burocraticamente controllata della Cina imperiale
impedì l’emergere di una borghesia indipendente che sfidasse
seriamente l’ordine confuciano tradizionale.
Un
nuovo episodio del capitalismo burocratico si svolse nel tardo XIX
secolo. Durante gli anni del declino della dinastia Qing, la quale
era stata colpita dall’assalto imperialista sin dalle Guerre
dell’oppio della metà dell’Ottocento, venne compiuto un
tentativo di “modernizzazione conservatrice” al fine di
scongiurare il rischio di colonizzazione straniera. Lo sforzo di
modernizzazione, conosciuto come movimento del “rafforzamento
interno”, fu intrapreso dai potenti viceré provinciali cinesi del
regime Manchu anziché dalla dinastia stessa, dominata
dall’oscurantista imperatrice madre. Modellato parzialmente su
quello della Germania bismarkiana e del Giappone Meiji, lo sforzo
cinese fallì, in parte a causa dell’assenza di un governo centrale
forte e d efficace, in parte perché la morsa dell’imperialismo
straniero sull’economia cinese era ormai troppo stretta. Tuttavia,
nel corso di tale fallimento, i viceré provinciali usarono la
propria posizione ufficiale al fine di promuovere una grande varietà
di iniziative capitalistiche o simil-capitalistiche, con le quali
accumularono vaste fortune private. L’incarnazione di questa prima
fase della Cina moderna fu Li Hongzhang, che occupò le più alte
cariche dell’Impero per tre decenni, durante i quali divenne anche
il più grande capitalista privato gestendo (e traendone profitto)
una compagnia di trasporti con navi a vapore, miniere di carbone,
fabbriche tessili e molte altre imprese (14).
Gli
eventi immediatamente successivi e derivanti dalla Rivoluzione del
1911 stimolarono una più vigoroso e convenzionale periodo di
sviluppo capitalistico (circa 1905-1927), noto come “età d’oro
della borghesia cinese” (15). Un’età doro assai breve, in ogni
caso. Il consolidamento del potere da parte del regime nazionalista
di Chiang Kai-shek nel 1927 diede vita a quello che, probabilmente,
rappresenta il più classico caso di capitalismo burocratico della
storia moderna. I due decenni durante i quali il Guomindang governò
la Cina furono segnati dal dominio delle cosiddette “quattro grandi
famiglie” (sida): i Kung, i Soong, i Chen ed i Chiang. Queste erano
strettamente interrelate tramite la politica e i matrimoni. Grazie al
controllo esercitato sull’apparato del partito-stato del
Guomindang, esse dominavano – nella loro veste di capitalisti
privati – gran parte del settore moderno dell’economia cinese.
Il
sistema del capitalismo burocratico ebbe fine con la vittoria
comunista del 1949, quando i suoi esponenti (o meglio tutti i
capitalisti legati al regime nazionalista) vennero espropriati a
titolo definitivo dal nuovo stato, mentre i cosiddetti “capitalisti
nazionali” vennero rilevati dal nuovo regime a prezzi bassi
determinati dallo stato. La borghesia come classe sociale cessò di
esistere nella Repubblica popolare cinese, per quanto il termine
“borghese” (o “borghesia”) permanesse nell’ideologia
ufficiale come condanna di comportamenti politici ed ideologici
eterodossi.
Eppure,
una delle principali condizioni necessarie al capitalismo burocratico
sopravvisse e in effetti venne amplificata dalla vittoria comunista
del 1949. Si tratta di una situazione storica nella quale le classi
sociali sono generalmente deboli e lo stato relativamente forte. E
tale era la condizione della Cina alla fine dell’era di Mao nel
1976, trovando una delle sue manifestazioni nell’assenza di una
borghesi. Così, quando i vertici dello stato nella Cina post-Mao
decisero che la creazione di un’economia di mercato sarebbe stata
la via più efficace per lo sviluppo economico, furono costretti a
creare una borghesia. Questa borghesia allevata dallo stato, come
abbiamo visto, era in larga parte reclutata all’interno del PCC,
nonché tra parenti e amici dei funzionari di partito.
Si
sarebbe tentati dall’attribuire il contemporaneo regime burocratico
capitalista alla persistenza delle vecchie tradizioni cinesi.
Dopotutto, il capitalismo burocratico, in varie forme, è stato una
caratteristica prominente della storia cinese dalla dinastia Han
passando per l’epoca del Guomindang. Ciò nonostante, sembra
difficile collegare quello dell’era post-Mao con le sue precedenti
incarnazioni. La rivoluzione del 1949 costituì una rottura
fondamentale con le strutture politiche e sociali del passato, ed è
difficile identificare una qualsiasi significativa continuità tra il
periodo pre-1949 e la Cina post-1979. Non solo, il capitalismo
burocratico della Cina contemporanea è stato associato ad tassi
estremamente alti di crescita economica nazionale, che hanno fatto
del paese asiatico la seconda economia a livello mondiale. Ciò è in
forte contrasto col capitalismo burocratico nella Cina tradizionale e
nella prima modernità, il quale, non di rado, specialmente nel XIX
secolo e agli inizi del XX, era associato con una generale
stagnazione economica (per quanto esso prosperasse). Questo
suggerisce che altri fattori, rispetto alle origini e alla natura
della borghesia, sono cruciali nel determinare il tasso di crescita
economica. Nel caso della Cina, il contrasto tra lo stagnante
capitalismo burocratico del Guomindang e quello dinamico della
Repubblica popolare cinese post-Mao può essere spiegato meglio da
fattori quali la campagna di riforma agraria del 1950-52 (e la
conseguente capacità di incanalare il surplus agricolo nello
sviluppo industriale), uno stato-nazione più unito con
infrastrutture relativamente ben sviluppate, nonché una posizione
assi più favorevole nell’economia capitalista globale.
Il
rapporto tra capitalismo burocratico e crescita economica ha visto
enormi variazioni da paese a paese, oltreché all’interno dello
stesso paese, come è stato il caso della Cina in differenti epoche
storiche. Non è questione che si presti a facili conclusioni o ampie
generalizzazione. D’altro canto, le implicazioni politiche e
culturali del capitalismo cinese contemporaneo sembrano abbastanza
chiare. In proposito, si possono spendere alcune parole a titolo di
conclusione.
IV.
Capitalismo e democrazia politica
L’associazione
del capitalismo con la democrazia politica, e la convinzione secondo
la quale un’economia capitalistica produce naturalmente un sistema
politico democratico, deriva in larga parte dall’esperienza di
paesi in cui il capitalismo moderno si è sviluppato presto, in
particolare Inghilterra, Francia e Stati Uniti. Eppure, anche nei
paesi economicamente avanzati, la costruzione di un regime politico
democratico è stata un processo lento e tortuoso. Ad esempio, in
Francia, la patria della classica rivoluzione borghese democratica (o
capitalista), non fu che con la Terza repubblica nel 1871, quasi un
secolo dopo la grande rivoluzione del 1879, che un efficace
democrazia politica venne stabilita. La restaurazione monarchica, la
dittatura e le fallite rivoluzioni riempirono gli anni intercorrenti.
Nei
paesi in cui il capitalismo industriale si è sviluppato
relativamente tardi, il processo di modernizzazione ha avuto luogo
tipicamente sotto la guida di uno stato relativamente autonomo e
autoritario, con un’alleanza tra aristocrazia terriera, ormai
rivolta a d interessi commerciali, ed una moderna borghesia, ancora
debole per governare da sola, a fargli da base sociale. Di
conseguenza, le istituzioni e le tradizioni democratiche sono deboli
e lo stato forte. di fatto, nella Germania bismarkiana e nel Giappone
Meiji, i due casi più notevoli di tarda modernizzazione
capitalistica, l’esito politico è stato il fascismo. In questi
ultimi, come in molti altri casi, nei quali regimi fascisti o
fortemente autoritari sono stati il risultato, la borghesia nascente,
come ha scritto Brrington Moore, ha scambiato “il diritto di
governare con quello di fare profitti” (16). Lo stato autoritario,
da parte sua, ha cercato di creare condizioni favorevoli allo
sviluppo del capitalismo urbano e rurale, sostenendo, per esempio,
politiche del lavoro repressive finalizzate ad estrarre un sempre
maggiore surplus dalla popolazione lavoratrice, in particolare nelle
aree rurali. Ma l’obiettivo cosciente dei vertici dello stato non è
tanto la promozione del capitalismo, quanto quello eminentemente
nazionalista di costruire il potere industriale e militare al fine di
raggiungere i paesi capitalisti più avanzati.
A
mio modo di vedere, la Cina nell’era post-Mao ha perseguito una
variante di tale “via conservatrice alla modernizzazione”.Un
potente ed autonomo apparato di stato è una delle eredità del
periodo di Mao preservata dai riformatori di mercato. Questo stato è
stato utilizzato dai successori di Mao per spazzare via tutte le
barriere sociali ed ideologiche ad un rapido sviluppo capitalistico,
specialmente le istituzioni “socialiste” costruite durante il
periodo di Mao. Nelle campagne le unità di lavoro collettivistiche e
cooperative (al pari di buona parte della sanità e del sistema di
welfare) sono state smantellate con lo scopo di creare un’economia
rurale commercializzata. Nelle città, la cosiddetta “ciotola di
riso di ferro”, costituita da lavoro sicuro e benefici dello stato
sociale goduti da circa la meta della classe lavoratrice durante gli
anni di Mao, è stata rotta in nome delle “riforme”. Sia nelle
campagne che nelle città tali riforme di mercato hanno agevolato uno
sfruttamento più intensivo della popolazione lavoratrice, il vero
segreto del miracolo cinese. Tanto lo stato che la borghesia da esso
creata hanno tratto beneficio da tale processo. E come praticamente
in ogni caso di “modernizzazione”, sono stati i contadini le
vittime principali del progresso economico. In Cina, la più visibile
manifestazione del prezzo della modernizzazione è la “popolazione
fluttuante” (youmin) di lavoratori migranti. Diverse centinaia di
milioni di contadini in esubero sono stati costretti ad abbandonare
la terra e a vagare per il paese alla ricerca di un lavoro
temporaneo, spesso in aree di costruzione; senza altra scelta che
lavorare per salari infimi e sopportare condizioni di vita
miserevoli.
A
diversi livelli, si tratta di caratteristiche comuni dello sviluppo
capitalistico e della tarda “modernizzazione conservatrice” in
particolare. Ciò che appare unico nel caso della Cina e il fatto che
la base sociale dello stato modernizzatore – una borghesia ed una
classe rurale commercializzata – sono state create dallo stato
medesimo. Lo stato comunista ha intrapreso il compito di nutrire una
borghesia sia urbana che rurale, in larga parete tra i suoi stessi
ranghi. In questo senso, il modello cinese di modernizzazione
conservatrice è ancor più statalista e burocratico dei suoi
predecessori tedesco e giapponese. E le prospettive di un’evoluzione
politica democratica ancor meno promettenti. Sembra improbabile che
una borghesia a tal punto dipendente dallo stato comunista, nei fatti
ancora psicologicamente e materialmente legata agli apparati dello
stato.partito, possa promuovere un movimento che limiti il potere
statale dal quale trae così tanti benefici.
V.
Capitalismo e tradizione cinese
Il
capitalismo burocratico nella Cina contemporanea è pur sempre
capitalismo nel suo operare essenziale, per quanto peculiari possano
essere le sue origini. Come ogni processo di sviluppo capitalistico,
la versione cinese è profondamente sovversiva riguardo alla
tradizione. Nessuna forza nella storia ha dissolto tante credenze
sacre e venerate pratiche culturali quanto le forze produttive
capitalistiche. Karl Marx, oltre un secolo e mezzo fa, celebrando le
sorprendenti capacità produttive del capitalismo, probabilmente ne
descrisse meglio di chiunque altro le implicazioni culturali:
La
borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli
strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i
rapporti sociali… Il continuo rivoluzionamento della produzione,
l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali,
l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei
borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i
rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di
concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi
invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che
vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e
gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio
disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti (17).
In
questo passo, e ancor più nel lungo brano di cui fa parte, Marx
coglie la dinamica ed il carattere frenetico del capitalismo in un
modo che non è meno rilevante per i nostri giorni di quanto fosse ai
suoi tempi. Egli lamenta e celebra, al contempo, la dissoluzione
delle antiche credenze e delle tradizioni riverite sotto la costante
pressione dello sviluppo capitalistico. Inoltre anticipa il mondo in
perpetua fluttuazione, sconvolgimento e frammentazione che oggi si
suole descrivere con termini quali “modernismo”, “teoria della
modernizzazione” e “globalizzazione”.
Nessun
paese ha sperimentato un più massiccio e rapido sviluppo
capitalistico della Cina nel quarto di secolo passato. Proprio come
il capitalismo ne sta investendo il vasto territorio, ciò che rimane
delle sue credenze e strutture tradizionali si sta disintegrando con
eguale rapidità. La tradizione confuciana è stata erosa per lungo
tempo, sin dalla lunga e dolorosa transizione dal “culturalismo al
nazionalismo” nel tardo XIX secolo, passando per la violenta
iconoclastia durante il Movimento del 4 maggio. A ciò ha fatto
seguito la rivoluzione maoista del 1949, la quale ha distrutto la
classe della piccola nobiltà e dei funzionari che così a lungo era
stata il vettore della cultura e dei valori tradizionali. Eppure, in
nessun’epoca vi è stata una rottura tanto rapida e radicale con la
cultura tradizionale come quella cui assistiamo oggi, nel momento in
cui la Cina si sottopone, e anzi abbraccia, i freddi ed imperativi
valori universali del mercato capitalistico globale. I residui della
tradizione stanno affogando in quella che Marx ha definito “acqua
gelida del calcolo egoistico” (18). Le tradizioni si attardano
esclusivamente nella forma di merci, come oggetti da esporre nel
silenzio di un museo, o come grottesche esibizioni in parchi a tema
stile Disneyland, dove possono essere viste da turisti stranieri e
cinesi al prezzo di un biglietto di ingresso. Così, la Cina
condivide con altre nazioni moderne tale sentimento assai poco
confuciano – ovvero la perdita di ogni reale senso della
tradizione.
È
una delle grandi ironie della storia cinese che il comunismo sia
stato l’agente storico dell’ingresso nel moderno capitalismo. E
quest’ultimo, a sua volta, ha concluso il secolare ed iconoclastico
assalto alla tradizione confuciana, sradicando e dissolvendo le
vestigia della cultura tradizionale. Anche se il regime comunista
sostituisce con la celebrazione nazionalista della tradizione
millenaria cinese (per esempio nella forma degli “istituti
confuciani”) la sua ideologia rivoluzionaria di una volta, questa
tradizione si sta dissolvendo a causa del torrido sviluppo delle
forze di produzione capitalistiche promosso dai dirigenti comunisti
sin dal 1978.
Note
11. Questi sviluppi furono oggetto, ormai sei decenni fa, di una brillante analisi di Karl Polany in La grande trasformazione, Einaudi, 2010.
12. Eric Hyer, “China’s Arms Merchants: Profits in Command,” The China Quarterly 132 (dicembre 1992): 1111.
13. Etienne Balazs, Chinese Civilization and Bureaucracy (New Haven: Yale University Press, 1964), p. 32.
14. Il sistema della “supervisione ufficiale e della gestione mercantile”, derivante dal movimento del rafforzamento interno, e che costituì il preludio alla piena esplosione del capitalismo burocratico nel periodo del Guomindang, è analizzato da Albert Feuerwerker in China’s Early Industrialization: Sheng Hsuan-huai (1844–1916) and Mandarin Enterprise (Cambridge, Mass.: Harvard University Press, 1958).
15. . Marie-Claire Bergere, The Golden Age of the Chinese Bourgeoisie, 1911–1937 (Cambridge, U.K.: Cambridge University Press, 1989).
16. Barrington Moore, Social Origins of Dictatorship and Democracy (Boston: Beacon Press, 1966), p. 437.
17. Karl Marx, Il Manifesto del Partito Comunista.
18. Ibid.
Leggi tutto: https://traduzionimarxiste.wordpress.com/2017/02/01/il-comunismo-nella-storia-cinese-riflessioni-su-passato-e-futuro-della-repubblica-popolare-cinese/#more-24845
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