venerdì 29 giugno 2012

la cosiddetta cultura del “nuovo” - Stefano Garroni


"Per il contegno di tali capi, i partiti operai di questi paesi non si sono opposti alla condotta criminale dei governi e hanno invitato la classe operaia a identificare la sua posizione con quella dei governi imperialisti. I capi dell'Internazionale hanno tradito il socialismo votando i crediti di guerra, ripetendo le parole d'ordine scioviniste ("patriottiche") della borghesia dei "loro" paesi, giustificando e difendendo la guerra, entrando nei ministeri borghesi dei paesi belligeranti, ecc. ecc.. I più influenti capi socialisti e i più influenti organi della stampa socialista dell'Europa odierna si mettono da un punto di vista sciovinista borghese e liberale, e niente affatto socialista. La responsabilità di questo oltraggio al socialismo ricade innanzitutto sui socialdemocratici tedeschi, i quali erano il partito più forte e più influente della II Internazionale. Ma non si possono nemmeno giustificare i socialisti francesi, i quali hanno accettato dei posti ministeriali nel governo di quella stessa borghesia che tradì la sua patria e si accordò con Bismarck per schiacciare la Comune."...          ( Lenin, La guerra e la socialdemocrazia russa)                                                                                                                                                                
Un motivo fondamentale per rifiutare la cosiddetta cultura del “nuovo”  –ovvero, quella forma di coscienza, oggi tanto diffusa, secondo cui  non esiste più la povertà ma sì i ‘nuovi’ poveri; non esiste più la centralità dell’industria capitalistica, ma sì l’universo post-industriale, ecc.-, una ragione basilare –dicevo- per denunciare tutto ciò, come un caso ulteriore della mistificazione ideologica  borghese, sta nel fatto che più guardiamo da vicino la crisi, che oggi  viviamo e i problemi attuali del movimento operaio, e più ci rendiamo  conto che l’autentica svolta storica si colloca in un tempo relativamente lontano: intendo la prima guerra mondiale.

E ciò è vero non solo dal punto di vista strettamente economico-sociale, ma sì anche da quello dell’intera civiltà, che sostanzia la nostra vita attuale. Ciò significa ad es., che più che mai si dimostra oggi la profondità della denuncia leniniana della sostanziale arretratezza teorica del movimento operaio, anche quando si dichiara marxista (anzi, in particolare quando si dichiara marxista); come anche la denuncia lukacciana che il ‘marxismo’ della Terza Internazionale non aveva Lenin come suo punto di riferimento politico-culturale, ma sì Plachanov, non aveva il dialettico Marx come ispiratore, sia pure indiretto, ma sì il positivismo meccanicistico della Seconda Internazionale.

C’è anche dell’ingenuità nella prospettiva post-moderna, che consiste nel ritenere che epoche storico-culturali diverse si caratterizzino per la diversità dei problemi, che si pongono e non per il modo diverso, in cui sono tematizzati e vissuti quei problemi: è solo l’accettazione di questo presupposto a far sì che si possa parlare, senza sorridere, di ‘nuova’ povertà o degli USA come modello di democrazia. Un danno particolare, che consegue all’affermarsi del post-moderno o dell’ideologia del ‘nuovo’, consiste –lo abbiamo già accennato- nell’inserire una cesura tra storia del movimento comunista (prima ancora socialdemocratico) e attualità dei suoi problemi e lotte.

E’ così’ che nasce la malefica la leggenda, secondo cui il movimento  operaio non ha più un proprio linguaggio,un proprio sistema concettuale per dar senso e prospettiva a quanto oggi avviene, trovandosi perciò nella necessità di vivere ed interpretare il proprio ruolo secondo parametri non suoi, ma sì del suo avversario di classe.

Cosa può fare un piccolo gruppo, come il Collettivo di formazione marxista, contro tale situazione? Ovviamente quasi nulla.Tuttavia, c’è quel quasi che suggerisce di un piccolo, minuscolo spazio esistente – e se questo esiste, è nostro dovere cercare di riempirlo.

Stefano Garroni  (Collettivo di formazione marxista)

martedì 12 giugno 2012

Momenti del dibattito sulla Nep* - Stefano Garroni -


*Da:   http://www.contropiano.org/


In ogni società, lo sviluppo economico è legato, anche, all’esistenza di una certa proporzione – prosegue Trockij – fra i diversi rami produttivi. Per quale via il capitalismo si orienta verso la proporzione ad esso funzionale? Mediante gli alti e bassi, le cadute e i rialzi di un mercato, che si muove ‘secondo natura’, ovvero secondo una sostanziale e gratuita meccanica necessità.

L’economia socialista realizza quella proporzione, invece, attraverso un piano centralizzato. Ma tale nuova organizzazione razionale non può risolversi in un fenomeno, studiato a tavolino e imposto alla realtà; sì piuttosto ha da trattarsi di un processo che si svolge oggettivamente sulla base delle condizioni ed esigenze determinate del periodo e del luogo.

La Nep nasce, su proposta di Lenin[7], col X Congresso del Partito bolscevico, 1921, per terminare nel 1929. La Nep procurò un apprezzabile effetto socio-economico. Il settore socialista si trovò ampliato e rafforzato, e l’alleanza politica degli operai con i contadini venne dotata di una base economica sufficientemente solida.Senonché l’introduzione della Nep destò anche vive preoccupazioni tra compagni: questa svolta economica significa forse, - questa è la domanda, che angustia – l’abbandono della prospettiva socialista e un graduale ritorno al capitalismo? Tra il capitalismo – nel quale i mezzi di produzione appartengono a privati e in cui il mercato regola le relazioni economiche - e il socialismo integrale, vale a dire un dirigismo economico e sociale, vi sono tappe di transizione: la Nep è una di queste.                                                                                            

Leggi tutto:   http://www.contropiano.org/it/archivio-news/documenti/item/9551-momenti-del-dibattito-sulla-nep


venerdì 8 giugno 2012

La nazionalizzazione delle banche, secondo Lenin.


Nel 1917, ma prima dell’ottobre, in un articolo Lenin illustra la sua
proposta di nazionalizzazione delle banche. Esaminare la ‘logica’ di

tale proposta serve, pare a me, per comprendere la natura degli
obiettivi politici, delle parole d’ordine, che Lenin

propone al proletariato ed ai suoi alleati (contadini e piccola borghesia).
In primo luogo, Lenin  sottolinea che la nazionalizzazione delle

banche –ovvero la loro espropriazione e unificazione in un’unica banca
di Stato- consentirebbe a quest’ultimo effettivamente di regolare e

controllare la vita economica, sapere esattamente quali sono le
risorse del paese e come e quanti profitti vengono ottenuti.

Ottenuti da chi? E qui la parola d’ordine della nazionalizzazione
delle banche comincia ad apparire tutt’affatto diversa da una proposta

neutra, interclassistica.
Certamente, infatti, la nazionalizzazione delle banche renderebbe più

fluida la vita economica, pur non togliendo “neanche un copeco” ai
capitalisti (ed in questo senso potrebbe anche non essere avversata da

questi ultimi); ma appunto consentirebbe allo Stato un controllo
dell’attività bancaria (anche attraverso i soviet degli impiegati e

dei funzionari di Banca) e, dunque, sarebbe uno strumento essenziale
per un’economia pianificata e non orientata verso il profitto

individuale. La ‘logica’, dunque, di questa parola d’ordine, a tutta
prima motivata da semplici motivi di efficienza, si mostra legata

all’ottenimento di un altro obiettivo, ovvero, il centrale ruolo dello
Stato in sede economico-sociale; se dunque la nazionalizzazione di cui

parliamo sarebbe una riforma, profonda ma che non costerebbe “neanche
un copeco”, avrebbe tuttavia in sé la necessità di ampliarsi, ad es.

richiedendo la nazionalizzazione degli istituti assicurativi e perfino
delle coalizioni ed intrecci fra grandi gruppi economici.

Dunque, nazionalizzazione delle banche come obiettivo, immediatamente
accettabile anche da parte borghese (per motivi di efficienza), ma

che, per sua stessa natura, ha la necessità di invadere altri campi
–appunto, la nazionalizzazione degli istituti assicurativi ed il ruolo

decisivo dello Stato nell’organizzazione, regolamentazione e controllo
della vita economica.

Dunque la parola d’ordine leninista, per un verso corrisponde a una
necessità obiettiva, ad un bisogno reale di tutti coloro che hanno a

che fare con le banche (in questo senso non è una parola d’ordine
immediatamente anticapitalistica), per un altro verso, si tratta di

una parola d’ordine, che è sollecitata dalla sua stessa natura ad
allargarsi ad altri ambiti, fino ad assumere un carattere certamente

anticapitalistico.
E’ proprio questo tipo di parola d’ordine, che riceve il nome di
obiettivo transitorio e non di obiettivo intermedio.

STEFANO GARRONI