sabato 22 gennaio 2011

Come si determinano il salario "giusto" e il "giusto" lavoro* - Friedrich Engels

Tradotto in italiano e trascritto, direttamente dagli articoli originali in lingua inglese presenti sul MIA, da Dario Romeo, marzo 2001

 Sul finire degli anni Settanta dell'Ottocento, la pace tra le classi inglesi iniziava a traballare. La Grande Depressione, avvenuta durante il decennio, aveva colpito tutto il mondo occidentale ed era stata, come sempre, particolarmente dura per gli operai. Il ciclo capitalistico discendente rimetteva in moto i familiari attacchi della classe capitalista contro i compromessi riformisti ch'erano stati effettuati entro la società capitalistica.
George Shipton, Segretario del Consiglio sindacale inglese, faceva anche da editore per il Labour Standard, l'organo dei sindacati inglesi. Egli chiese a Engels di contribuire ad una discussione sul riformismo e sul movimento operaio stesso.
Engels accettò e, tra il maggio e l'agosto 1881, scrisse 11 articoli, tutti apparsi in editoriali anonimi. Egli utilizzò problematiche contemporanee per elaborare principi economici di base sul socialismo scientifico e sulla natura del capitalismo. Evidenziò in questi articoli l'inevitabilità del conflitto tra capitalisti e proletariato - tale lotta non è un'aberrazione, è una caratteristica centrale del capitalismo. I capitalisti saranno sempre interessati ad abbassare i salari e le condizioni di vita della massa delle persone prive di proprietà, semplicemente perché ciò è nel loro interesse.
Egli attaccò la visione dei sindacati come difensori quotidiani del proletariato in tale battaglia. Nel suo primo articolo suggerì al movimento operaio di abbandonare l'insignificante slogan "Una paga equa per un equo lavoro" - in quanto la natura intrinseca del capitalismo impedisce ai capitalisti di essere "equi" con gli operai, i cui salari essi devono sempre tentare di abbassare - e di sostituirlo con lo slogan: "Possesso dei mezzi di produzione - materie prime, fabbriche, macchinari - agli operai stessi!"
Nell'articolo "Un partito degli operai", Engels sottolinea come i sindacati da soli non possono liberare la gente dal ciclo ininterrotto della schiavitù salariale. Questa deve unirsi in partito politico indipendente. L'assenza di tale partito in Inghilterra tiene la classe operaia sotto il giogo del "Grande Partito Liberale". E ciò crea confusione e demoralizzazione.
Da diverse lettere (a Marx, 11 agosto; a George Shipton, 10 e 15 agosto; a Johann Philipp Becker, 10 febbraio 1882) apprendiamo che egli smise di scrivere per tale giornale a causa della crescita di "elementi opportunisti" all'interno del suo comitato di redazione.
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Una paga equa per un equo lavoro
Scritto: 1-2 maggio 1881
Pubblicato: fondo No. 1, 7 maggio 1881, come articolo di fondo

Questo è stato il motto del movimento operaio inglese negli ultimi cinquant'anni. Esso ha svolto un buon servizio nel periodo della crescita sindacale avvenuta dopo l'abrogazione delle infami Combination Laws [Leggi sull'associazionismo] avvenuta nel 1824 [1]; esso ha svolto un servizio ancora migliore all'epoca del glorioso movimento cartista, quando gli operai inglesi marciavano alla testa della classe operaia europea. Ma i tempi scorron veloci, e molte cose che risultavano desiderabili cinquanta, o addirittura trent'anni fa, oggi non sono più adeguate e sono completamente fuori posto. Anche tale parola d'ordine, onorata dal tempo, appartiene a queste cose.

Una paga equa per un equo lavoro? Ma cos'è una paga equa, e cos'è un equo lavoro? Come vengono determinati dalle leggi d'esistenza e di sviluppo della società contemporanea? Per rispondere a tale quesito non dobbiamo affidarci alla scienza della morale o alla legge dell'equità, né ad alcun sentimento d'umanità, giustizia o persino di carità. Ciò che è moralmente equo, ciò che è equo per la legge, può esser assai lontano dall'esser socialmente equo. L'equità o iniquità sociale sono decise da una sola scienza - la scienza che si occupa dei fatti materiali della produzione e dello scambio, la scienza dell'economia politica.
Ora, cosa intende l'economia politica per paga equa e per equo lavoro? Semplicemente il saggio salariale e la lunghezza ed intensità della giornata lavorativa determinati dalla concorrenza di datori di lavoro e lavoratori nel libero mercato. E cosa sono queste cose, quando sono determinate in tal modo?

Una paga equa, in condizioni normali, è la somma necessaria a procurare al lavoratore quei mezzi di sussistenza che, secondo lo standard di vita del proprio paese, gli servono a mantenersi in buono stato per lavorare e per riprodurre la propria razza. Il saggio salariale reale, a causa delle fluttuazioni del commercio, può essere ogni tanto al di sopra o al di sotto di tale livello; ma, sotto condizioni eque, esso dovrebbe essere una media tra tutte le oscillazioni.
Per equo lavoro si intendono quella lunghezza della giornata lavorativa e quell'intensità di forza-lavoro reale che impiegano l'intera energia lavorativa giornaliera dell'operaio senza sciupare le sue capacità per i giorni seguenti.

La transazione, allora, può esser descritta nel modo seguente: l'operaio dà al capitalista l'intera forza-lavoro giornaliera; cioè, tutto ciò che egli può dare senza che sia resa impossibile la continua ripetizione della transazione. In cambio egli riceve giusto quanto è necessario a far replicare il medesimo accordo giorno dopo giorno, e nulla più. L'operaio dà tanto, ed il capitalista tanto poco, quanto consente la natura dell'accordo. Questa è una sorta di equità molto particolare.
Ma guardiamo questo fatto in modo un po' più approfondito. Dal modo in cui, secondo gli economisti, i salari e la giornata lavorativa vengono stabiliti dalla concorrenza, sembra che l'equità richieda un paritetico punto di partenza per entrambe le parti. Ma ciò non corrisponde alla situazione reale. Il capitalista, se non riesce a raggiungere un accordo con il lavoratore, può permettersi di aspettare, e vive facendo affidamento sul proprio capitale. Il lavoratore non ha questa possibilità. Egli non ha che il salario per vivere e deve quindi prendere il lavoro quando, dove e nei termini in cui gli viene offerto. Il lavoratore non dispone di un equo punto di partenza. Egli è posto, dalla fame, in una terribile condizione di svantaggio. Eppure, secondo l'economia politica della classe capitalista, questo è il massimo dell'equità.

Ma tutto ciò è ancora una mera inezia. L'applicazione dell'energia meccanica e delle macchine nei nuovi settori industriali, e l'estensione ed il miglioramento dei macchinari nei settori ad essi già soggetti, continua a rimuovere dal lavoro sempre più "mani"; e ciò avviene ad un tasso assai più alto di quello con cui le "mani" soppiantate vengono assorbite dalle, e trovano impiego nelle, manifatture del paese. Queste "mani" soppiantate formano un vero esercito industriale di riserva ad uso del Capitale. Se il commercio non tira, esse posson solo morire di fame, chieder l'elemosina, rubare, o ricorrere alle Case di lavoro [2]; se il commercio tira, invece, esse sono a portata di mano per espander la produzione; e finché l'ultimo uomo, donna o fanciullo di quest'esercito di riserva non avrà trovato lavoro - cosa che accade solo in periodi di frenetica sovrapproduzione - fino a quel momento la sua concorrenza terrà bassi i salari, e così, con la sua sola esistenza, rafforzerà il potere del Capitale nella sua lotta contro il Lavoro. Nella sua corsa contro il Capitale, il Lavoro non solo parte in posizione svantaggiata, esso deve anche trascinarsi dietro una palla di cannone legata ai suoi piedi. Eppure ciò è equo secondo l'economia politica Capitalista.

Ma andiamo ad indagare con quali fondi il Capitale paga questi assai equi salari. Dal capitale, certamente. Ma il capitale non produce valore. Il lavoro, affianco alla terra, è l'unica fonte di ricchezza; il capitale in sé non è altro che lavoro accumulato. Così che i salari del Lavoro sono pagati dal lavoro, e l'operaio è pagato da ciò che egli stesso ha prodotto. Secondo ciò che potremmo chiamare senso comune di equità, i salari del lavoratore dovrebbero consistere nel prodotto del suo lavoro. Ma ciò non sarebbe equo secondo l'economia politica. Al contrario, il prodotto del lavoro dell'operaio va al Capitalista, e l'operaio ottiene da esso non più dello stretto necessario al suo sostentamento. E così il punto d'arrivo di questa insolitamente "equa" corsa concorrenziale è che il prodotto del lavoro di coloro che lavorano si accumula inevitabilmente nelle mani di coloro che non lavorano, e diviene nelle loro mani il più potente mezzo per assoggettare gli uomini che lo hanno prodotto.
Un equo salario per un equo lavoro! Molto si potrebbe dire anche a proposito di un'equa giornata lavorativa, l'equità della quale è esattamente uguale a quella dei salari. Ma ciò dobbiam lasciarlo per un'altra occasione. Da ciò che si è detto è perfettamente chiaro che la vecchia parola d'ordine ha fatto i suoi giorni, e difficilmente sarà ancora utile. L'equità dell'economia politica, che stabilisce le leggi che governano la società reale, tale equità pende tutta da un lato - il lato del Capitale. Lasciate, allora, che il vecchio motto venga seppellito per sempre e rimpiazzato con un altro: POSSESSO DEI MEZZI DI PRODUZIONE: MATERIE PRIME, FABBRICHE, MACCHINARI AGLI OPERAI STESSI!

Il sistema salariale
Scritto: 15-16 maggio 1881
Pubblicato: No. 3, 21 maggio 1881, come articolo di fondo

In un precedente articolo abbiamo esaminato un vecchio e glorioso motto, "un equo salario per un equo lavoro", e siamo giunti alla conclusione che il più equo salario, date le attuali condizioni sociali, è necessariamente pari all'assai iniqua divisione del prodotto del lavoro umano, la cui più vasta porzione entra nelle tasche del capitalista, mentre il lavoratore deve accontentarsi di quanto basta per mantenersi in condizione di lavorare e per riprodurre la propria specie.
Questa è una legge dell'economia politica, o, in altre parole, una legge della presente organizzazione sociale della società, che è più potente di tutti gli statuti e di tutte le leggi della Camera dei Comuni inglese messe assieme, incluse quelle della Court of Chancery [3] [Corte di giustizia]. Ma la società è divisa in due classi opposte - da un lato i capitalisti, monopolizzatori di tutti i mezzi di produzione, della terra, materie prime e macchinari; dall'altro i lavoratori, operai deprivati di ogni proprietà dei mezzi di produzione, padroni di nient'altro che della loro forza-lavoro. Finché sussiste tale organizzazione sociale, la legge del salario resterà in pieno vigore, e continuerà a fissare, giorno dopo giorno, le catene con le quali l'operaio è reso schiavo del proprio prodotto - monopolizzato dal capitalista.

I sindacati di questo paese hanno per oltre sessant'anni lottato contro questa legge - con che risultati? Sono riusciti a liberare la classe operaia dalla schiavitù in cui il capitale - il prodotto delle sue stesse mani - la tiene? Hanno permesso ad una sola sezione della classe lavoratrice di superare la schiavitù salariale, di divenir proprietaria dei propri mezzi di produzione, delle materie prime, attrezzi e macchinari necessari alla loro attività, e così di divenir padrona del prodotto del proprio lavoro? È ben risaputo che essi non solo non ci sono mai riusciti, ma anche che non ci hanno mai provato.

Lungi da noi l'affermare che i sindacati, per questo motivo, sono inutili. Al contrario essi, in Inghilterra tanto quanto in ogni paese industrializzato, sono una necessità per le classi lavoratrici nella loro battaglia contro il capitale. Il saggio medio di salario è pari alla quantità di denaro sufficiente a riprodurre la specie degli operai in un certo paese, secondo lo standard di vita abituale di quel paese. Lo standard di vita può essere assai differente per diverse classi di lavoratori. Il grande merito dei sindacati, nella loro battaglia per alzare il saggio salariale e per ridurre l'orario di lavoro, è che essi tendono a far salire lo standard di vita. Ci sono molte attività nei quartieri orientali di Londra il cui lavoro non è meno qualificato ed è tanto duro quanto quello dei muratori e dei loro operai, eppure in queste attività si guadagna difficilmente la metà del salario di questi ultimi. Perché? Semplicemente perché una potente organizzazione permette agli uni di mantenere un relativamente alto standard di vita; mentre gli altri, disorganizzati e privi di potere, devono sottomettersi non solo all'inevitabile, ma anche all'arbitraria usurpazione di coloro che li impiegano: il loro standard di vita viene gradualmente ridotto, essi imparano a vivere con salari sempre più bassi, ed i loro salari cadono naturalmente a quel livello che essi stessi hanno imparato ad accettare come sufficiente.

La legge del salario, allora, non è di quelle che seguono una linea categorica. Non è, entro certi limiti, inesorabile. C'è in ogni momento (escluse le grandi depressioni) ed in ogni attività una certa libertà entro la quale il saggio salariale può esser modificato dai risultati della battaglia tra i due gruppi contendenti. I salari sono in ogni caso fissati dalla contrattazione, e nelle contrattazioni colui che resiste più a lungo e meglio, ha maggior possibilità di ottenere di più di ciò che gli è dovuto. Se l'operaio isolato cerca di condurre la trattativa con il capitalista, egli verrà facilmente battuto e dovrà arrendersi all'arbitrio del capitalista; ma se un'intera categoria di operai forma una potente organizzazione, raccogliendo fondi che le permettano, se necessario, di sfidare i loro datori di lavoro e di mettersi così in condizione di poter trattare con i datori come forza unitaria, allora, e solo allora, essa avrà la possibilità di ottenere persino quella miseria che, secondo la costituzione economica della società presente, può esser chiamata come un equo salario per un equo lavoro.

La legge dei salari non viene rovesciata dalle battaglie sindacali. Al contrario, essa è rafforzata da queste lotte. Senza i mezzi di resistenza sindacali, l'operaio non riceve neppure ciò che gli è dovuto secondo le regole del sistema salariale. È solo con la paura dei sindacati innanzi ai suoi occhi che il capitalista può esser costretto a tener conto dell'intero valore commerciale della forza-lavoro del suo operaio. Volete una prova? Guardate i salari pagati ai membri dei grandi sindacati, e poi guardate i salari pagati in quelle innumerevoli piccole attività di quella pozza di stagnante miseria che sono i quartieri orientali di Londra.

Così, i sindacati non attaccano il sistema salariale. Non sono l'altezza o la bassezza dei salari ciò che costituisce la degradazione economica della classe lavoratrice: tale degradazione è compresa nel fatto che, anziché ricevere per il suo lavoro l'intero prodotto del suo stesso lavoro, la classe operaia deve accontentarsi di quella porzione della propria produzione chiamata salario. Il capitalista intasca l'intera produzione (e con questa paga il lavoratore) perché egli è il proprietario dei mezzi del lavoro. E, perciò, non c'è riscatto reale per la classe lavoratrice finché essa non diviene proprietaria di tutti i mezzi di produzione - terra, materie prime, macchinari, ecc. - ed in questo modo anche la proprietaria DELL'INTERO PRODOTTO DEL PROPRIO LAVORO. 

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domenica 16 gennaio 2011

Sulla formazione storica del capitale e del lavoro salariato.*- Karl Marx

*Da (Forme di produzione precapitalistiche, 1858)
Leggi anche:   http://www.controappuntoblog.org/2012/09/08/il-capitalelibro-i-sezione-vii-il-processo-di-accumulazione-del-capitale-la-cosiddetta-accumulazione-originaria-capitolo-24/


Se si considera il rapporto tra capitale e lavoro salariato non come rapporto che già domina la totalità della produzione, ma nella sua genesi storica, se si considera cioè la trasformazione originaria del denaro in capitale, il processo di scambio tra il capitale che esiste soltanto potenzialmente da una parte e liberi lavoratori che esistono potenzialmente dall'altra, allora si impone naturalmente quella semplice osservazione su cui fanno tanto chiasso gli economisti: che la parte che si presenta come capitale deve possedere le materie prime, gli strumenti di lavoro e í mezzi di sussistenza affinché I'operaio possa vivere durante la produzione, prima cioè che la produzione sia compiuta.

(...) Di conseguenza la formazione del capitale non deriva dalla proprietà fondiaria (in questo caso al massimo dal fittavolo nella misura in cui commercia in prodotti agricoli), e nemmeno dalle corporazioni (sebbene esista una possibilità), ma dal patrimonio derivato dal commercio e dall'usura,

Ma questo però trova le condizioni per acquistare lavoro libero solo quando quest'ultimo è separato, attraverso il processo storico, dalle sue condizioni oggettive di esistenza. Solo allora esso trova anche la possibilità di acquistare queste stesse condizioni.

Nelle condizioni del regime corporativo p. es., il semplice denaro che non è esso stesso della corporazione, ma del maestro, non può comprare i telai per farvi lavorare altre persone; è prescritto quanti telai una persona può lavorare ecc. In breve, lo strumento è ancora talmente fuso con lo stesso lavoro vivo (si presenta come dominio del lavoro) che esso in realtà non circola.

Ciò che rende capace il patrimonio monetario di diventare capitale è il fatto che esso trova da una parte lavoratori liberi; in secondo luogo la presenza dei mezzi di sussistenza e dei materiali, ecc. ormai liberati e alienabili, mentre erano un tempo in un modo o nell'altro proprietà delle masse ormai private delle condizioni oggettive. 

Ma l'altra condizione del lavoro - una certa abilità, lo strumento come mezzo di lavoro ecc. in questo primo periodo iniziale o primo periodo del capitale, esso lo trova già esistente, da un lato come risultato del sistema corporativo urbano, dall'altro come risultato dell'industria domestica o dell' industria connessa come accessorio dell'agricoltura.

La formazione primitiva del capitale non avviene nel senso che il capitale accumuli, come si pensa, mezzi di sussistenza, strumenti di lavoro e materie prime, in breve le condizioni oggettive del lavoro umano. Non avviene nel senso che il capitale crea le condizioni oggettive del lavoro. La sua formazione primitiva avviene invece semplicemente per il fatto che i valori esistenti sotto forma di patrimonio monetario, attraverso il processo storico di dissoluzione del vecchio modo di produzione, viene messo in grado di acquistare le condizioni oggettive del lavoro, dall'altro di ottenere in cambio di denaro lo stesso lavoro vivo degli operai diventati liberi.

Tutti questi fattori sono presenti; la loro separazione stessa é un processo storico, è un processo di dissoluzione, ed è questo processo che permette al denaro di trasformarsi in capitale. Il denaro in quanto agisce con e accanto alla storia, è tale solo in quanto collabora alla creazione di lavoratori liberi, privi delle condizioni oggettive, spogliati; indubbiamente però, non perché crei per loro le condizioni oggettive della loro esistenza, ma in quanto contribuisce a creare la loro separazione da queste condizioni, la loro mancanza di proprietà. 

Quando p. es., i grandi proprietari fondiari inglesi licenziavano i loro retainers*, che insieme a loro consumavano il plusprodotto della terra; quando a loro volta i fittavoli cacciavano i piccoli contadini pigionali, ecc., in questo modo si gettava sul mercato del lavoro in primo luogo una massa di forze-lavoro vive, una massa che era libera da un duplice punto di vista: libera dagli antichi rapporti di clientela e di servitù e di prestazione, e libera di ogni avere e da ogni forma di esistenza oggettiva. libera da ogni proprietà; ridotta a trovare l'unica fonte di guadagno nella vendita della sua forza lavoro, oppure nella mendicità, nel vagabondaggio e nella rapina. Storicamente in un primo momento essi hanno tentato quest'ultima via e da questa sono stati però spinti, mediante la forca, la berlina, la frusta, sulla stretta via che conduce al mercato del lavoro, e qui i governi, p. es., Enrico VII, VIII, ecc., figurano come condizioni del processo storico di dissoluzione e come creatori delle condizioni di esistenza del capitale.

* retainers: servi della gleba