martedì 7 febbraio 2017

Salario, concorrenza e mercato mondiale*- Maurizio Donato**

*Da:   https://mrzodonato.wordpress.com/ 
** Facoltà di Giurisprudenza, Università di Teramo, aprile 2015.



“Nel commercio mondiale le merci dispiegano universalmente il loro valore. Dunque, la loro forma autonoma di valore si presenta qui, di fronte ad esse, ovviamente come denaro mondiale. Solo sul mercato mondiale il denaro funziona in pieno come quella merce la cui forma naturale è allo stesso tempo forma immediatamente sociale di realizzazione del lavoro umano in abstracto. Il suo modo di esistenza diventa adeguato al suo concetto”. Karl Marx, Il Capitale, Libro primo, terzo capitolo, pagg. 171-2 dell’edizione Einaudi, 1978.


Secondo la teoria marxiana del valore-lavoro, il valore di una merce dipende dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrla; essendo la forza-lavoro una merce, anche il suo valore è determinato allo stesso modo. Se vogliamo esprimere lo stesso concetto facendo riferimento alla forma monetaria del valore, possiamo dire che il valore della forza-lavoro umana è determinato dal valore delle merci di sussistenza necessarie a produrla e riprodurla. L’aumento della forza produttiva del lavoro reso possibile dalle innovazioni tecnologiche riduce il tempo di lavoro necessario a produrre anche le merci di sussistenza, e dunque – per questa via – il valore della forza-lavoro tende necessariamente a ridursi.

Come è noto, non solo questo prezioso elemento di analisi, ma l’intera struttura logica del I libro del Capitale si situano a un livello di astrazione molto alto, nel senso che il metodo di Marx – nel complesso lavoro di scrittura del I volume – era rivolto a concentrarsi sugli elementi e sulle tendenze di fondo del processo di produzione del capitale, prescindendo completamente – e volutamente – dalle “perturbazioni” di un modello costruito sulle sue linee generali, riservando ad altre occasioni il compito di “ridurre” il livello di astrazione dell’analisi, per tener conto di elementi ugualmente importanti ma con un grado inferiore di generalizzazione.

Da questa prospettiva l’elemento del mercato mondiale è presente – come concetto – da subito nel modello marxiano che già nel terzo capitolo del I libro, dedicato al denaro come forma di valore delle merci, intitola un paragrafo “denaro mondiale”. Ma in che senso era da intendersi allora e oggi l’espressione “mercato mondiale”?

Se è senz’altro corretto assumere la categoria di “mercato mondiale” a un livello di astrazione alto, non si possono ignorare o sottovalutare le profonde differenze, le vere e proprie stratificazioni di cui il mercato mondiale è stato ed è ancora composto a partire dalle condizioni generali della produzione e dunque anche – necessariamente – in riferimento al salario. Senza cercare di ripercorrere la storia dei differenziali salariali mondiali, va almeno tenuto presente che attorno alla metà degli anni ’90 i lavoratori specializzati dei paesi più ricchi del mondo guadagnavano in media sessanta volte di più dei lavoratori appartenenti al gruppo più povero, i braccianti dell’Africa subsahariana.


[...] Per la teoria economica ortodossa un tasso di disoccupazione elevato è un indicatore negativo solo se è persistente, dal momento che in condizioni normali si considera fisiologico che una quota di lavoratori cerchi una occupazione migliore o la sua prima occupazione, anche in fasi ciclicamente non negative. Gli economisti ortodossi considerano tale livello di disoccupazione di “equilibrio”, “naturale”, mentre altri preferiscono distinguere tra disoccupazione ciclica e strutturale.

Nelle fasi negative del ciclo anche il livello della produzione e del reddito scende al di sotto del suo livello normale, definito prodotto potenziale; il divario tra le due misure è conosciuto e stimato come output gap. Se però dopo un ciclo negativo la disoccupazione non si riassorbe, allora la disoccupazione prolungata finisce per ridurre anche il reddito potenziale di un paese.

La spiegazione generalmente accettata per questo fenomeno chiama in causa il deterioramento delle capacità lavorative causato dall’inattività. Le competenze, prodotto tipico della formazione della forza-lavoro, se non utilizzate in tempi relativamente brevi, rischiano di arrugginirsi a causa dell’incessante progresso tecnico che rende rapidamente obsolete le conoscenze acquisite durante il processo di formazione della forza-lavoro. Il calo del prodotto potenziale è dunque fondamentalmente riconducibile a un incremento della quota di disoccupazione definita strutturale, che il modello utilizzato dall’Unione europea stima sia praticamente raddoppiato in Italia tra il 2007 e il 2014.

In termini più generali, più della metà dell’incremento della disoccupazione dovuto all’ultimo ciclo della crisi sarebbe di natura strutturale, come ha sottolineato in un suo discorso recente il governatore della BCE Draghi con riferimento alla disoccupazione europea, la cui quota di natura strutturale si stima sia anch’essa aumentata nel corso di questi anni.


[...] Negli ultimi anni, scriveva l’International Labour Organization nel suo Global Wage Report 2013 “[..] la crescita media dei salari reali è rimasta a livello globale al di sotto dei livelli [tassi?] pre-crisi, segnando dati negativi per le economie sviluppate, mentre è rimasta significativa nelle economie emergenti .. tra il 1999 e il 2011 la produttività media del lavoro è cresciuta nelle economie sviluppate più del doppio dei salari reali ..il trend globale ha prodotto così un cambiamento nella distribuzione del reddito nazionale, con la quota dei redditi da lavoro in diminuzione e quella del capitale in crescita .. la caduta della quota dei redditi da lavoro è da attribuire al progresso tecnologico, alla globalizzazione del commercio, all’espansione dei mercati finanziari e alla diminuzione del tasso di sindacalizzazione che hanno eroso il potere contrattuale dei lavoratori” 

La persistente differenza nei livelli di salario reale tra le economie sviluppate e quelle dei paesi cosiddetti emergenti e in via di sviluppo si percepisce se i dati vengono espressi in valuta locale e poi convertiti in potere di acquisto a parità di dollari (PPP$), misura in grado di catturare – sebbene parzialmente – la differenza nel costo della vita in paesi diversi.

Nel caso dei due paesi più significativi, il salario medio negli Stati uniti, misurato in PPP$, è ad oggi più del triplo di quello prevalente in Cina, anche se tale differenza appare – lentamente – decrescente nel tempo. Tra il 2000 e il 2012 in termini reali i salari medi sono cresciuti a livello mondiale, ma più nei paesi emergenti e in via di sviluppo che non nelle economie già sviluppate. Il salario medio nelle economie sviluppate oscilla nel 2013 attorno ai 3.000 dollari statunitensi (PPP) a confronto con un livello nei paesi emergenti e in via di sviluppo pari a circa 1.000. Il salario medio mondiale è all’incirca pari a 1.600 US$ (PPP).


[...] L’indice Big Mac fu inventato dalla rivista The Economist nel 1986 per contribuire a verificare empiricamente se i tassi di cambio tra le diverse valute mondiali fossero al loro livello “corretto”. L’indice è basato sulla teoria della parità del potere di acquisto (PPP) secondo la quale nel lungo periodo i tassi di cambio si muoverebbero verso il valore che eguaglia i prezzi di un paniere composto da beni e servizi identici (in questo caso una polpetta) per ciascuna coppia di paesi e valute considerata. Per esempio, il prezzo medio di un Big Mac in America a gennaio 2015 era $4.79 e in Cina $2.77 al tasso di cambio di mercato. In questo senso l’indice Big Mac “grezzo” ci suggerisce la possibilità che la valuta cinese sia sottovalutata nei confronti del dollaro di più del 40%.

O. Ashenfelter e S. Jurajda [il lavoro è citato in bibliografia] hanno ampliato l’analisi cominciando a raccogliere dati sui salari dei lavoratori di McDonald's (McWage) e sui prezzi del Big Mac dal 1998 nei 13 paesi più ricchi del mondo per poi espandere la propria ricerca fino a includerne più di 60. Dal loro studio risulta che i salari pagati da questa società sono abbastanza simili nei paesi del mondo ricco, mentre tra i paesi cosiddetti emergenti il salario varia da un livello pari a un terzo di quello dei lavoratori statunitensi per chi lavora in Russia, fino al 6% del salario nordamericano per i ragazzi che lavorano nei McDonald in India. Dividendo il salario per il prezzo locale di un panino con la polpetta si ottiene quello che gli autori chiamano Big Mac per ora (o BMPH), un modo di calcolare il salario reale immaginando questi lavoratori nutriti di o ridotti a polpette.

Adottando questa definizione più “ristretta” del tasso di inflazione, si scopre che nei primi sette anni del nuovo secolo il salario dei lavoratori di questa compagnia negli Usa è cresciuto di poco più del 10% in totale mentre il prezzo del panino è cresciuto di poco più del 20%, con il risultato di una riduzione netta nel salario reale. Nello stesso arco di tempo, i salari dei lavoratori di questa impresa localizzati nei paesi emergenti sono cresciuti più dei prezzi del prodotto che confezionavano – servivano - vendevano.


[...] Il salario mondiale dipende in generale dall’andamento dell’accumulazione e, in particolare, dalla localizzazione spaziale delle imprese e dei lavoratori, dal tasso di disoccupazione di natura non strutturale, dal grado di combattività e unità dei lavoratori, dal contesto giuridico - istituzionale, dal livello generale dei prezzi. La sua denominazione valutaria è implicita nella localizzazione spaziale. Nelle prime fasi dell’accumulazione occupazione e salari crescono, ma non oltre una soglia che metterebbe in pericolo la profittabilità del capitale; a quel punto la riorganizzazione del sistema espande l’industrializzazione facendo crescere occupazione e salari nelle aree del pianeta prima periferiche. Questa dinamica spaziale, mentre non sembra in grado di invertire la tendenza generale alla stagnazione e alla depressione dell’economia mondiale, cambia la “geografia del lavoro” assegnando il ruolo di potenziale leader del proletariato mondiale alla nuova giovane classe operaia dei paesi dell’Est.

Dal punto di vista dei comportamenti, non si può giudicare irrazionale non cercare lavoro se vale sempre meno la pena lavorare, ma ciò comporta conseguenze sul nesso storicamente costituitosi tra coscienza di classe e condizione lavorativa. Il cinismo e il disincanto caratteristici dell’atteggiamento di una parte considerevole del vecchio proletariato dei paesi occidentali possono trovare una controtendenza nel processo di lenta convergenza del salario mondiale che può aumentare la forza politica della classe lavoratrice mondiale riducendo i rischi di competizione al suo interno.

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