Ascoltando con atteggiamento critico il linguaggio politico
e quello massmediatico, assai spesso coincidenti, si può cogliere questa
paradossale contraddizione: da un lato, le ideologie sono finite ed è quindi
opportuno fare costantemente riferimento ai “fatti”; dall’altro, formulando
qualche considerazione, ci si appresta a sottolineare che essa è esclusivamente
frutto della propria personale opinione, ovviamente sempre rispettabile perché
viviamo in un “sistema democratico”.
Sembrerebbe, quindi, che per un verso, si è del tutto
convinti che esistano “fatti” osservabili e identificabili indipendentemente
dal punto di vista di chi esprime una valutazione; e, infatti, a proposito ad
esempio di una certa misura economica da prendere, si ripete ciò non è
né di destra né di sinistra, perché sta nelle cose. Per l’altro
verso, con una vena relativistica, assai antipatica alla Chiesa cattolica, si
ribadisce che ognuno ha legittimamente le proprie opinioni, in cui si esprimono
scelte culturali differenti, tutte accettabili.
Nel primo caso si identifica l’ideologia con un insieme di
preconcetti, appartenenti ad un passato ormai superato, e applicati in maniera
dottrinaria e semplificatoria. Nel secondo caso il richiamo implicito è,
invece, alla nozione di cultura, che a sua volta rimanda alla convinzione che
l’uomo contemporaneo abbia di fronte a sé una miriade di opzioni culturali, tra
le quali potrà individuare quella che gli consentirà una più piena
realizzazione di sé. Per verificare il carattere mistificante di quest’ultima
affermazione, basta fare un’operazione assai semplice: esaminare i diversi
programmi televisivi, offerti dai numerosissimi canali che abbiamo a
disposizione, cercando di cogliere punti di vista differenti a proposito di
questioni che non siano la scelta tra mode effimere ed evanescenti. Insomma,
sostanzialmente ci viene servita sempre la stessa salsa, anche se si cerca di
presentarla come innovatrice o addirittura trasgressiva. Quindi,
contraddittoriamente, talvolta, ci si richiama alla “positività immutabile dei
fatti”, talaltra, invece si mette in luce la possibilità del pluralismo
culturale, in realtà praticato assai superficialmente e certamente non in
ambiti di cruciale rilevanza (come per esempio il carattere effettivamente
democratico dei nostri sistemi politici). Pluralismo culturale che ha anche
prodotto la bizzarra equiparazione tra cultura quotidiana e cultura alta,
concepite come forme semplicemente diverse, ma ugualmente profonde, di
attribuire significati al momento storico, cui appartengono.
Nonostante le due posizioni illustrate siano tra loro
contraddittorie, convergono su un punto significativo: il rigetto della nozione
di ideologia, le cui implicazioni teoriche e politiche vengono taciute. Nel
secondo caso essa viene sostituita dalla nozione di cultura, scaturita dalla riflessione
romantica sulla peculiarità spirituale propria di un certo gruppo umano e
utilizzata per evitare di stabilire una qualche forma di relazione tra
quest’ultimo e le sue condizioni materiali (in senso lato) di esistenza.
L’antiriduzionismo culturalista può arrivare a posizioni estreme che mettono in
crisi lo stesso procedimento esplicativo, come nel caso in cui si sostiene che
possiamo spiegare e comprendere una certa forma religiosa e le sue
caratteristiche solo in termini religiosi, evitando il richiamo a tematiche
psicologiche, politiche, sociali, ad essa esterne.
Questa strada a porta alla
costruzione di un’entità transtorica l’homo religious, che si
nasconderebbe in ognuno di noi e che venererebbe il divino nelle sue varie
epifanie.
L’egemonia della nozione di cultura si consolida con lo
sviluppo dell’antropologia culturale di origine statunitense e introdotta in
Italia sul finire degli anni ’50 da un gruppo di studiosi, tra i quali mi
limito a menzionare Tullio Tentori. Tale disciplina, il cui primordio risale
alla seconda metà dell’Ottocento, è senza dubbio collegata al processo di
decolonizzazione, che rendeva impossibile continuare a sbandierare l’indiscussa
superiorità occidentale, e nello stesso tempo permetteva di offuscare le forti
asimmetrie socio-economiche, riconducendole tout court a stili
di vita differenti. In particolare, essa si ispira alla definizione proposta da
Edward Burnett Tylor nel suo importante libro Primitive Culture (1871),
nel quale afferma che la cultura comprende il complesso di credenze, di
conoscenze, di pratiche, abitudini che l’uomo acquisisce in quanto membro di
una società. Definizione che, del resto, è stata rielaborata in forme assai
differenti dai successivi antropologi.
Quanto alla nozione di ideologia, come è noto essa è oggetto
di inteso dibattito in ambito marxista e non, che è impensabile anche solo
sfiorare in questa sede e d’altra parte non è necessario alla finalità di
questo breve intervento, volto a sottolineare la sua “pericolosità”, nella
misura in cui mette in risalto la relazione tra un certo modo di rappresentare
il mondo e certi specifici interessi, non intesi in senso grettamente
materialistico.
Il suo accantonamento è stato evidenziato da Terry Eagleton
in un libro dedicato all’ideologia e intitolato appunto Ideologia.
Storia e critica di un’idea pericolosa(Fazi Editore 2007), nel quale
descrive il paradosso che vuole il concetto di ideologia fuori moda tra
gli intellettuali proprio nel momento in cui prospera nella realtà. Ed
individua questo “ritorno dell’ideologia” non tanto nel fondamentalismo
islamico, non ancora minaccioso quando è uscita l’edizione inglese del suo
libro, ma nella visione neoimperiale statunitense impostasi con l’arrivo di
George W. Bush alla Casa Bianca scortato da un gruppo deviato di
politici e intellettuali americani di estrema destra; questi ultimi avevano
elaborato un piano per la realizzazione di una rinnovata egemonia statunitense
a livello mondiale, presentandola come una fase dizucchero e miele da donare
alle regioni più oscure del pianeta. E ciò non in risposta al terrorismo
islamico, ma al declino degli Stati Uniti come potenza globale (2007: X-XI).
Con questa operazione si imponeva al mondo una visione squisitamente
ideologica, vigorosamente supportata da tutti quegli autori che proclamavano
contemporaneamente la fine delle ideologie e della storia, facendoci capire
amaramente che non c’era possibilità di fuoriuscita dal capitalismo.
Ma qual è la differenza tra i percorsi interpretativi ed esplicativi
inerenti alle due diverse nozioni qui rapidamente analizzate? Direi che la
differenza essenziale sta nel fatto che con la nozione di cultura, utilizzabile
con la coscienza piena del suo senso, si intende mettere in opera una visione
olistica della società, evitando non solo di stabilire una certa specifica
gerarchia tra le varie istanze sociali, ma anche di individuare il loro
specifico nucleo costitutivo. Tutto (politica, economia, religione, ambiente
umanizzato) è permeato da un’unica dimensione, dai contorni non agilmente
definibili, che, nelle forme relativistiche più estreme, non costituisce più
una rappresentazione del mondo, ma essa stessa diventa il mezzo tramite il
quale quest’ultimo si costituisce e si consolida dinanzi ai nostri occhi. Tale
atteggiamento, per il quale tutto è modificabile attraverso il mutamento dei
modi di pensare, non tiene conto che in essi si esprimono certi interessi, a
loro volta intrecciati a determinati rapporti di potere. In questo senso, anche
l’Europa è un’entità culturale, portatrice di certi valori (diritti umani,
competizione volta alla valorizzazione del migliore, enfasi sull’individuo),
che con un salto acrobatico diventano universali e per questo destinati ad
essere imposti anche ai paesi recalcitranti. Del resto, tali valori non sono
recepiti nemmeno dagli stessi cittadini europei, che nonostante i ripetuti
appelli alla coesione contro il nemico comune, mostrano in vari modi segni
profondi di disaffezione verso il progetto europeo, che avrebbe salvato il continente
da possibili scontri bellici.
Questi aspetti fanno dell’approccio culturalistico una
visione del tutto irrealistica del mondo contemporaneo, nel cui contesto le
diverse “culture” confliggerebbero solo perché non hanno ancora imparato a
rispettarsi e a dialogare tra loro. Allora il problema dei suoi fautori, reso
più eclatante dalle migrazioni di massa, suscitate dalla politica del “caos
creativo” sull’altra sponda del Mediterraneo, è rendere tutti capaci di
accettare il “diverso” sulla base di una tolleranza generalizzata; la quale
però viene abbandonata quando la diversità altrui mette a rischio la nostra
“identità” (vedasi il caso dell’abbigliamento femminile islamico).
Tale irrealismo partorisce un generico umanesimo adottato
anche dalla Chiesa cattolica e bersaglio della critica althusseriana, che è
spesso accompagnato dall’autocelebrazione della figura dell’antropologo,
l’unico in grado di guardare in maniera radicalmente critica all’Occidente
(sempre inteso come “cultura”) e di tessere i fili di relazioni culturali
paritetiche. Date queste premesse, non è bizzarro che si ci richiami spesso
alla categoria del sogno (si pensi al discorso di Martin Luther King
depotenziato dei suoi aspetti più critici), che sarebbe l’unico mezzo, con il
quale possiamo delineare il volto di una forma di vita sociale profondamente
dissimile da quella attuale e più rispettosa dei nostri bisogni.
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