*Da: http://www.bancarellaweb.eu - Con alcune modifiche e revisioni questo articolo riproduce
il già pubblicato Elisa-Angelini, Mente e corpo. Riflessioni in margine al
dualismo cartesiano, in Psicoanalisi e metodo, II, 2002, Pisa, Edizioni ETS,
pp. 189-203. - **Università degli Studi di Siena
La filosofia di Descartes è tradizionalmente legata ad alcune tematiche che nel tempo sono diventate veri e propri luoghi comuni. Una di queste è il dualismo, ovvero l’argomento con il quale Descartes ha distinto il corpo e la mente facendone due sostanze di natura completamente diversa e tali da escludersi a vicenda. Con questa distinzione ontologica, che Descartes formulò compiutamente nelle Meditationes de Prima Philosophia1, il dominio della fisica dei corpi veniva nettamente separato dal dominio del pensiero, la materia diventava pura estensione geometrica inerte e la mente, all’opposto, una sostanza immateriale. La tesi cruciale con la quale agli inizi del Seicento Descartes innovava, dunque, gran parte della tradizione psicologica antica e medioevale è che la materia può essere organizzata in modo estremamente complesso, al punto da dar luogo alle funzioni della vita vegetativa, sensitiva e motoria, ma resta incapace di produrre il pensiero e tutte quelle rappresentazioni coscienti che rimangono prerogativa esclusiva della mente. A corollario Descartes aveva elaborato anche la celebre dottrina degli animali-automi, sostenendo che il corpo umano è una macchina, al pari di quello di qualsiasi altro animale, ma che, diversamente dagli altri animali, l’uomo è anche dotato di un principio intellettuale.
Il dualismo
mente-corpo ha reso complessa sia l’antropologia di Descartes sia la sua
dottrina della percezione. Non è difficile prevedere alcune sue implicazioni
problematiche e le critiche mosse a Descartes già dai suoi contemporanei.
Innanzitutto, se la mente è una sostanza realmente separata dal mondo corporeo,
come è possibile che le idee rappresentino i corpi, ossia che ci facciano
conoscere il cosiddetto mondo esterno? In secondo luogo, se nell’uomo mente e
corpo sono distinti per essenza, come si può spiegare la loro interazione di
fatto? In definitiva, la prima questione dava corpo al sospetto che la moderna
scoperta della soggettività e della coscienza fosse investita dall’ombra lunga
del solipsismo e dello scetticismo – il mondo potrebbe essere un puro prodotto
o una finzione della mente –, il secondo problema metteva in luce la difficoltà
di spiegare tutti quei fenomeni e quelle esperienze che depongono contro il
dualismo e mostrano un’unione evidente fra mente e corpo.
I filosofi della mente contemporanei tendono a respingere il
dualismo cartesiano mostrando la sua incapacità di rispondere alle obiezioni
che solleva, tuttavia come modello interpretativo generale nella trattazione
del problema mente-corpo il dualismo resta una possibilità teorica mai
confutata in via definitiva e sostenuta attualmente da alcuni autorevoli
studiosi e filosofi della scienza come Eccles2 . Non intendo qui discutere
questa difesa contemporanea del dualismo che, fra le altre, incontra
l’obiezione di quanti sottolineano che si tratta di una concezione che
coinvolge categorie di ordine metafisico estranee a una visione scientifica del
mondo. Invece, cercherò di riflettere brevemente sulla questione dal punto di
vista di un’analisi storico-filosofica, quando si tratta, cioè, di chiedersi se
il dualismo cartesiano sia davvero così “cartesiano” come si pretenderebbe o
se, piuttosto, l’idea che Descartes sia stato un dualista, anzi il dualista per
eccellenza, sia il risultato, se non di un pregiudizio, almeno di una lettura
affrettata.
A partire dalle analisi di Gilbert Ryle, che hanno teso a
distruggere il mito cartesiano dello «spettro nascosto nella macchina»3 , i
tentativi di comprendere fino in fondo i problemi lasciati aperti dalla
metafisica di Descartes hanno condotto negli ultimi decenni a esplorare luoghi
più nascosti, ma non meno promettenti e fecondi, della filosofia cartesiana. Il
tema è stato rilanciato negli ultimi decenni soprattutto dai cognitivisti e
dalle loro ricerche per costruire modelli del funzionamento mentale e ha
alimentato un dibattito interdisciplinare vivace e stimolante per storici e
teorici della filosofia, neuro-scienziati, psicologi e linguisti, producendo
studi interessanti che hanno il merito di aver tenuto vivo il dibattito sul
pensiero cartesiano e sulle sue aporie. Questi studi suggeriscono di
correggere, o almeno di rivisitare, l’immagine del filosofo che,
nell’interpretazione diffusa, avrebbe separato e reso incomunicabili il mondo
privato della coscienza e delle rappresentazioni interne alla mente e il mondo
esterno dei corpi4 .
Come tutti gli stereotipi anche il dualismo cartesiano ha un
suo fondamento, tuttavia mi pare di poter sostenere che Descartes non sia stato
affatto un dualista tout court. E’ vero, invece, che, se la filosofia non ha
scoperto con lui l’interesse per la tematica mente-corpo, che ha radici
lontane, almeno platoniche, è stato a partire dal dualismo cartesiano che il
rapporto mente-corpo è diventato per la filosofia un vero e proprio problema.
Descartes lo avrebbe lasciato in eredità ai suoi interlocutori impegnandoli a
discutere la questione più ampia e generale della causalità tra eterogenei,
vera crux, dopo di lui, per cartesiani e anticartesiani e premessa feconda di
sviluppi nella metafisica successiva.
Già all’indomani della pubblicazione delle Meditationes de
Prima Philosophia nel 1640 la distinzione mente-corpo dovette confrontarsi con
l’affermazione cartesiana che le due sostanze sono strettissimamente congiunte.
Come poteva il dualismo convivere con l’idea di quest’unione? Se la tesi che
Descartes sia stato solo un dualista è un cliché, l’idea che la soluzione
cartesiana di questo dilemma sia stata la nota ipotesi di un’interazione
mente-corpo nella ghiandola pineale – ipotesi che Descartes effettivamente
propose ormai quasi al termine della sua vita nelle Passions de l’âme – rischia
di essere un’idea da manuale e una semplificazione che non rende conto
dell’impegno teorico profuso nella discussione del problema.
Fra le pagine metafisiche più affascinanti che Descartes
dedicò a questa tematica quelle scritte alla principessa Elisabetta di Boemia
nel 1643 spostano la questione dal piano ontologico a quello epistemologico:
l’unione mente-corpo è una nozione primitiva dotata della stessa originarietà
della nozione geometrica del corpo e di quella della mente come sostanza
pensante. In definitiva, la conoscenza di quest’unione non necessita di alcuna
spiegazione ma è testimoniata semplicemente dall’esperienza diretta che
ciascuno in sé stesso fa delle proprie sensazioni, delle passioni, dei
movimenti volontari e, in generale, di tutto ciò che l’anima può agire e patire
dal corpo. Come a dire che non c’è bisogno di essere filosofi per comprendere
che il corpo e la mente interagiscono. Anzi Descartes confidava alla
principessa Elisabetta, sua colta corrispondente, che chi non si è mai dedicato
alla filosofia è in grado più degli altri di concepire l’unione anima-corpo.
Quest’unione, oscura per l’intelletto, che domina la metafisica con le sue
distinzioni sottili, oscura anche per l’immaginazione, facoltà delle
rappresentazioni geometriche, ci viene resa familiare semplicemente dai sensi.
E’ la natura, attraverso sensazioni come il dolore, la fame, la sete, il caldo
e il freddo a insegnarci che in noi anima e corpo compongono «un sol tutto».
Infatti – aveva scritto Descartes nelle Meditationes – se non fosse così
«quando il mio corpo è ferito, non perciò sentirei dolore, io che sono soltanto
una cosa pensante, ma percepirei questa ferita per mezzo del solo intelletto,
come un pilota percepisce con la vista se qualcosa si rompe nel suo vascello»5
.
Molto più dei testi metafisici, anche se sempre in una
costante e proficua relazione con la metafisica, gli studi scientifici di
Descartes – dal Monde al Traité de l’homme, dalla Dioptrique alla Description
du corps humain – hanno rivelato agli studiosi che la tesi interazionista non è
solo un punto nevralgico in un sistema compatto. In questi scritti Descartes si
è chiaramente interessato allo studio delle facoltà dell’anima, rivelando come
alcune sfuggano alla logica bipolare del dualismo. A differenza di quanto il
dualismo pretenderebbe molti testi cartesiani non solo non drammatizzano la
scissione tra mente e corpo, ma tendono a esprimere un’idea unitaria del
soggetto mostrando che le sue diverse strutture percettive si integrano nei
processi psicologici e cognitivi.
Al tema della percezione sensibile e alle facoltà del
soggetto Descartes dedicò diverse pagine già nelle Regulae ad directionem
ingenii, l’opera giovanile prevalentemente, anche se non esclusivamente,
metodologica che aveva lasciato incompiuta fra il 1628 e il 1629 per dedicarsi
ai primi scritti metafisici. Nella Regula XII la tesi dell’incorporeità della
mente, distinta dal corpo non meno di quanto lo sia «il sangue dall’osso o la
mano dall’occhio»6 , si accompagna a una precisa differenziazione delle diverse
funzioni della vis cognoscens che non agisce esclusivamente da sola in qualità
di puro intelletto ma si applica anche al corpo e, cooperando con i sensi, con
l’immaginazione e la memoria, si scompone in una pluralità di facoltà diverse.
Alle operazioni dell’intelletto puro, dunque, venivano affiancate conoscenze
applicate che si distinguono dagli atti strettamente intellettuali perché
presuppongono un riferimento a processi di natura corporea. Certo le Regulae
non precisavano questo riferimento e bisognerà attendere gli scritti
scientifici più maturi perché si delinei una vera e propria psico-fisiologia,
tuttavia Descartes sottolinea già chiaramente come alcune facoltà siano
definite da una doppia connotazione, quella fisiologica corporea e quella
psicologica mentale. Così, per esempio, l’immaginazione è sia la phantasia,
intesa come parte reale ed estesa del corpo che contiene fisicamente le idee,
sia la corrispondente funzione del pensiero. Non diversamente la memoria,
localizzata in una precisa area del cervello e interpretata come una sorta di
magazzino delle idee, chiama in causa processi psicologici che la trasformano
in recordatio.
Nel Traité de l’homme, appendice al Monde, l’opera di fisica
del 1633 che Descartes aveva rinunciato a pubblicare dopo la condanna dei
Dialoghi sopra di due massimi sistemi del mondo di Galilei, veniva elaborata
una nuova fisiologia centrata sulla teoria delle tracce cerebrali. Tracce sono
per Descartes figure corporee “disegnate” sulla struttura reticolare del
cervello a seguito di una stimolazione esterna, come nella sensazione, o di una
stimolazione interna, come nel caso degli affetti e di alcune passioni
dell’anima. Le tracce si formano per la trazione dei nervi che afferiscono al
cervello e causano l’apertura di taluni pori cerebrali. Descartes attribuiva la
dilatazione dei pori del cervello ai cosiddetti spiriti animali, parti
sottilissime e rarefatte del sangue che salgono dal cuore. La teoria degli
spiriti animali può far sorridere i medici e gli scienziati contemporanei per i
quali la fisiologia cartesiana ha ormai soltanto il valore di un pezzo di
storia della scienza, ingenuo e non privo di errori più o meno grossolani.
Resta interessante, tuttavia, il fatto che Descartes abbia applicato un modello
meccanico alla fisiologia e soprattutto abbia concepito l’ipotesi che il
cervello sia concretamente modificato dalle stimolazioni interne o esterne che
siano. Certo oggi sappiamo che le modificazioni cerebrali non hanno una natura
meccanica, come voleva Descartes, bensì neuro-chimica e soprattutto conosciamo
la complessa dinamica della loro integrazione e attivazione nelle reti neurali.
Tuttavia, la traccia cartesiana va riconosciuta come una nozione esplicativa
particolarmente interessante e feconda.
E’ proprio attraverso la teoria delle tracce cerebrali che
Descartes approfondisce la questione della componente psicologica di alcune
funzioni per differenziare i fenomeni completamente riducibili a condizioni
corporee, comuni agli uomini e agli animali, dai fenomeni psico-fisici
coscienti. Nel Monde il rapporto tra stati del corpo e stati della mente
trovava una rappresentazione e una concettualizzazione destinata a rimanere una
costante nel pensiero di Descartes fino ai testi metafisici: mente e corpo sono
elementi non omogenei tra i quali sussiste una corrispondenza in virtù di
un’istituzione della Natura che traduce l’azione fisica dei corpi in sensazioni
o passioni dell’anima. Questa relazione poteva ora essere pensata in analogia
con il linguaggio, dove il segno, elemento materiale, ha la facoltà di
rimandare a un significato, a un contenuto del pensiero con il quale non ha
alcun tipo di somiglianza ma al quale è e resta vincolato per effetto di una
convenzione. E’ proprio l’istituzione di Natura l’idea-chiave che viene messa
in gioco per spiegare la complessa fenomenologia della percezione. Sotto un
certo profilo, l’idea, la rappresentazione mentale o la sensazione sono causate
dalle tracce cerebrali e, prima ancora, dalla stimolazione dei sensi. Ma
Descartes non è un riduzionista: tracce cerebrali e idee o sensazioni
appartengono a due registri diversi e le tracce sono soltanto il mezzo o
l’occasione perché nell’anima sorga uno stato percettivo o affettivo. Così, il
dualismo ontologico si accompagnava alla tesi che mente e corpo si
corrispondono in forza di una relazione contemporaneamente e paradossalmente
naturale e convenzionale: è convenzionale perché i termini implicati sono
disomogenei e la loro difformità ontologica può essere superata soltanto
estrinsecamente per effetto di un’istituzione che impone un rapporto, è
naturale perché è comune a tutti gli uomini.
Ritengo di poter concludere che nella filosofia cartesiana
il dualismo ha avuto una doppia trattazione, quella delle opere scientifiche e
quella delle Meditationes e dei testi metafisici. Entrambe le prospettive
teoriche rivelano che il dualismo è una costruzione interpretativa troppo
schematica e parziale che nel tempo ha minimizzato la tensione problematica e
il livello di elaborazione concettuale di uno dei grandi dilemmi di Descartes.
I complessi meccanismi che presiedono alla percezione, all’immaginazione, alla
memoria, alla vita emotiva provano che Descartes, il filosofo della grande
stagione razionalista moderna, non ha ridotto il soggetto all’Io pensante, a
una mente disincarnata a contatto unicamente con le proprie idee, ma ha
concepito una visione più unitaria dell’uomo e un’antropologia che, sia pure in
modo problematico, intuisce e dà spazio alla convinzione che molti aspetti
dell’esperienza umana si giochino sul piano di un rapporto stretto ed
essenziale tra mente e corpo.
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1 Leggo le opere di Descartes nelle grande edizione Œuvres
de Descartes, a cura di Ch. Adam e P. Tannery, Paris, Vrin, 1964-1974, 12 voll.,
tuttavia, laddove necessario, le citerò nelle traduzioni italiane.
2 K.R.
POPPER, J.C. ECCLES, The Self and Its Brain, 1977.
3 G. RYLE,
The Concept of Mind, London, Hutchinson, 1949. Cfr. anche N. MALCOLM, Problems
of Mind: Descartes to Wittgenstein, New York, 1971.
4 Per una ricostruzione della genesi storica e degli
sviluppi contemporanei di questo dibattito cfr. S. NANNINI, L’anima e il corpo.
Un’introduzione storica alla filosofia della mente, Roma-Bari, Laterza, 2002.
Cfr. anche W. BECHTEL, Philosophy of Mind. An Overview for Cognitive Science, Hillsdale, Lawrence Erlbaum
Associates Inc., 1988.
5 Cartesio, Meditazioni metafisiche, in Opere filosofiche,
Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 75 (corsivo mio).
6 Cartesio, Regole per la guida dell’intelligenza, in Opere
filosofiche, Roma-Bari, Laterza 1991, voll. 4, I, p. 55.
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