1"Un punto centrale di questo
capitalismo post 1945 e post 1970 è il travisamento e l’occultamento
spettacolari dei costi esterni. L’auto accelera i tempi? Ma nella misura (grande)
in cui crea ingorghi e sprechi di trasferimento di quanto li decelera? Se un’intera
insediabilità urbanistica, come quella americana, si è condeterminata e
intercondizionata con l’uso dell’auto, quali i risultati globali di entrata-uscita? E se anche l’atmosfera s’inquina? e se
accentua le ragioni di ospitalizzazione? La chimica industriale, i fertilizzanti
ecc.: quale è il loro attivo di entrata al netto di uscita di costi esterni? L’automazione?
Esiste, in proposito una enorme confusione fra efficienza e rendimenti: un
calcolatore versatile in un’agenzia bancaria risparmia (efficienza aziendale)
sui costi di personale, generalizzando la disoccupazione rende più efficiente
un certo controllo interno di personale; ma quando (frequentissimamente) la
macchina si inceppa è la paralisi (un’ora, un giorno?) per un’intera comunità
di utenti: con quale attivo/passivo complessivo? Ed ancora, in tema di controllo
di personale: quanto più all’azienda ridondano benefici di ricatto sul
personale generale, tanto più ridondano sprechi di ricatto dal personale
specializzato (ricatti sensibilissimi, ad es. nelle compagnie di volo) e si fa
ricattare l’azienda dall’avanzamento tecnologico stesso: dal rapidissimo e
artificiale tasso di obsolescenza, dalla specialità dei costi di assistenza
ecc. Con quali bilanci globali di entrata e uscita? Se in un ufficio si rende in linea assoluta impossibile il
controllo di efficienza o assiduità sul personale\uomo, quali ne sono i costi
ai fini dell’utenza finale? Come calcolare (in termini contabilistici) i costi
di minor rendimento (specialmente esterni) della efficienza (tecnologica) una
volta che questi costi sono diventati sproporzionatamente
elevati rispetto ad altre rivoluzioni tecnologiche? E che dire delle
applicazioni belliche? E così via. L’occultamento spettacolare di tutto questo
è che lo studio di questa nuova contabilità viene tradotto e assorbito nel
sistema diffuso sotto forma di americanismo di parata: movimenti ecologici o,
meglio, ecologistici, gli indiani metropolitani, la visività contestativa, il
profetismo, la fioritura sociologica o, meglio, sociologistica ... la
poematica, insomma, come traslato della prosaicità e della contabilistica. Gli
occultamenti sono tali che costringono me stesso a occultarmi ; non essendosi
creata una”contabilità del globale” e neppure essendosene posto il problema. In
mancanza di dati sono costretto a relegare in nota quanto, invece, fa parte
principale di testo e contesto; si riduce a spunto e suggerimento
– e spuntino postprandiale – quanto invece, se è lecito dire, dovrebbe fondare
il prandium."
Il fenomeno più saliente su cui vorrei richiamare la
vostra attenzione è la coesistenza di sviluppo o sottosviluppo tanto nel suo
significato originariamente marxiano (il capitalismo ha per sua intrinseca
dialettica la formazione di eserciti di disoccupazione di riserva),
quanto sotto forma di scambio ineguale, quanto nelle sue “odierne” specificità
di riscoperta della miseria.
Anzitutto dobbiamo intenderci su questo odierne: in
generale è costume ricorrente di riferirsi al post 1945 come secondo dopoguerra,
quasi un omologo del periodo 1918-1939 che fu il primo dopoguerra. In
effetti “dopoguerra” è locuzione che ha senso solo nel periodo breve
e solo per un periodo breve, e solo se in questo periodo breve gli assetti
presentano tassi di labilità tali da farli durare come “dopoguerra” com’è
avvenuto nel post 1918. Tanto il fascismo degli anni ‘30 che il nazismo, anch’esso
degli anni ‘30, fecero del significato di “dopoguerra” il fulcro della loro esistenza.
E cioè essi imposero il concetto che col 1918 non si fossero creati assetti ma
non-assetti: la Società delle nazioni era un non-assetto, la Polonia era
un non-assetto, la Unione Sovietica era idem, le paci con cui si era conclusa
la prima guerra mondiale non erano paci ma truffe e imposizioni.
Queste concettualizzazioni danno un senso al periodo
1918-1939 riassumibile con una certa plausibile globalità come un “dopoguerra”.
Questo implica delle forzature, certo; quella, ad es., di includere la Grande
crisi del ‘29 e seguenti o la Terza internazionale o la Guerra civile
spagnola come un momento del “dopoguerra” e di esso componenti. Comunque
quando nel 1939 la Germania invase la Polonia, come, fra 1938 e 1939 aveva
distrutto la Cecoslovacchia, essa compì in ambedue i casi operazioni che si
riallacciavano immediatamente agli esiti della “prima” guerra mondiale. A me
sembrerebbe assurdo che se nel 1990 dovesse scoppiare una guerra mondiale la si
chiamasse la “terza” guerra mondiale; dovremmo trovare nomenclature di tipo
differente com’è accaduto per le guerre, anch’esse mondiali, del 1700. In effetti
le politiche fasciste degli anni ‘30 non furono di coesistenza pacifica ma di
inquietudine, mentre ora da alcuni lustri o decenni le principali potenze
mondiali odierne lavorano per la cosiddetta. coesistenza pacifica e il periodo
1945-1988 è decisamente troppo lungo perché si possa dire, in un dopoguerra futuro,
che si tratterà di un terzo dopoguerra successivo a una terza
guerra mondiale, da rubricare secondo gli ordinali i, ii, iii.
Ci sono in effetti molte ragioni per affermare che questo
cosiddetto dopo guerra, anche se si collega episodicamente parlando alla
seconda guerra mondiale, sostanzialmente se ne distacca molto e anzi moltissimo.
Direi che la seconda guerra mondiale ha chiuso un certo ciclo del capitalismo e
che col 1945 si è aperto un altro e diverso ciclo del capitalismo. Questo nuovo
ciclo del capitalismo possiamo chiamarlo variamente a seconda degli aspetti su
cui si insiste: lo possiamo chiamare americanismo, cibernetismo, arma atomica,
multinazionalizzazione, divario nord-sud ecc. E con nord-sud,
indicazione ormai entrata nell’uso, noi già avvertiamo che col 1945 ai sono
introdotti connotati di profonda e drammatica dissomiglianza rispetto ai
periodi precedenti. Possiamo dire, altresì, che il post 1945 è un periodo di “sovietismo”
e di “socialismo realizzato”? Per definirlo di “socialismo realizzato” avremmo
bisogno, pel 1945-1988, non solo di attese o promesse di
trasformazione ma altresì di una qualche omogeneità di queste attese e di
decorsi reali verso tali attese. Peraltro col 1943 la terza internazionale
venne sciolta, col 1953 muore Stalin e gli subentra il krusciovismo; attualmente
stiamo vivendo nel gorbaciovismo ma questo gorbaciovismo noi non sappiamo
ancora che cosa effettivamente esso sia. Di consolidato e di acquisito, dunque,
noi sappiamo che, come tipologia diffusa, esiste una american way of life,
un tipo di acculturamento largamente intriso di sportivismo e di cordialismo definibile
americanismo, con modi di cangevole abbigliamento definiti “casuali” [casual],
sappiamo che nell’americanismo questa “casualità” coincide (ne è il vestimento)
largamente con nuovi moduli (americanisti, appunto) di nomadismo, di
peregrinazione, di insediamenti e di disancoramenti rappresentativi della
libera iniziativa [free enterprise] e, a co-identificazione con la free
enterprise, rappresentativi della libertà civile: la Freedom, con la
effe maiuscola, di cui l’americanismo sarebbe il modello pervasivamente
mondiale (di passata: con “americanismo” non intendo comprendere la cultura
statunitense, verso cui ho il massimo rispetto, ma certo tipo di atteggiamento
di vita che ha dato sembiante e non solo sembiante a questo post 1945).
Fare una storia di questo americanismo ci porterebbe
troppo in là; basti dire che queste costumanze hanno avuto e hanno un tasso
enorme di attecchimento: dal Giappone alla Corea del sud all’Italia (comprese
quelle massicce zone di “terzo mondo” incluse nell’Italia stessa), all’Europa
tutta, alla Cina, pur apparentemente uscita da una rivoluzione proletaria, e
ora anche all’Unione sovietica. L’Unione sovietica è costretta a confrontarsi
col paradigma dell’american way of life, e cioè non esiste, pare, un soviet
way of life che possa fare da sembiante contrapposto. A nessuna Mrs.
Gorbaciov è venuto in mente di trovarsi ridicola ad entrare in .in luogo
prendendosi per mano, come due quindicenni, con una vecchietta rimessa a nuovo
come la Lady Reagan, l’una e l’altra cinguettandosi reciprocamente – ma senza
capirsi – quello che una volta si chiamava “nome di battesimo”. Se si pensa che
Mrs.Thatcher o la regina Elisabetta (o, più semplicemente, mia moglie) non
avrebbero mai concesso simili familiarizzamenti fra il protettivo e il
collegiale (né a una Mrs. Reagan sarebbe passato pel capo di chiederli o
offrirli a costoro) c’è anche di che rimanere umiliati e comunque rimane da
confermare quanto l’american way of life sia diventato estroverso ed
epocale nella fase di capitalismo che stiamo attraversando con tutte le sue
coloriture di dialogo promozionale. La stessa cosa si può dire per gli incontri
che il Presidente Reagan ha chiesto ed ottenuto con i cosiddetti “dissidenti”
in occasione della sua visita in Urss col solito condimento epocale di
spettacolarità. Nel frattempo in Unione sovietica si susseguono le “riabilitazioni”
ma queste riabilitazioni non seguono tanto la strada silenziosa e unica
proficua di aperture di archivi e di produzione critico-storica in modo che ai
Carr-Davies, C. Bettelheim o G. Boffa sia dato modo di documentare arricchendo
o mutando quanto hanno già scritto di storia sovietica, o in modo che i
dottorandi in storia sovietica possano avere a disposizione sulla politica
della terza internazionale o sulla questione dei Kulachi o sui processi del
1938 qualcosa di più che non siano i libri di Roy Medvedev o il c.d. testamento
di Bukharin mandato a memoria dalla vedova Bukharin o dei filmati sedicenti documentari
di “nuovo corso” che la attuale amministrazione Gorbaciov ci fornisce. Anche
qui siamo in piena spettacolarità, e cioè di fornire in forme “americanistiche”
e non critico-storiche quanto già il Tribunale Dewey ci aveva detto nei
controprocessi tenuti a Parigi negli anni ‘30 a proposito dei crimini dello
stalinismo.
L’americanismo è uno dei fenomeni più complessi e nel
contempo contraddittori della fase di capitalismo che si viene svolgendo in
questi decenni, e nell’aspetto contraddittorio è da comprendere quanto ci dice
M. Harrington sulla povertà in America o la commissione Ford sull’analfabetismo
in Usa, o quanto, più alla spicciola, ci informano le assai interessanti
cronache Usa di F. Colombo dalla terza pagina di la Stampa. La base
strutturale del capitalismo nel suo attuale sembiante americanistico è il suo
essere tecno-oligopolistico e tecno-finanziario. L’invenzione di tecnologie
legate tanto al decentramento della produttività quanto al controllo
finanziario del decentramento stesso è una delle sue caratteristiche
strutturali principali, specialmente a partire dagli anni ‘70.
Il campo principale – quello più spettacolare – di queste ristrutturazioni
è stata l’elettronica il cui territorio di applicazione, oltre a quello
militare, è stata la computerizzazione industriale, la videoregistrazione, l’automazione
di fabbrica e tutto un complesso di macchine utensili legate all’automazione,
con estensioni d’uso, diciamo, nel privato per fotocopiare, videofotocopiare,
videoscrivere ecc. Parallelamente è diventata esplosiva la politologia
liberaldemocratica per lo più anglosassone (è nel post 1945 e nei recenti
decenni che la “political science” ha ricevuto uno statuto mai avuto
prima), con nomi nuovi o nomi riscoperti: J. Rawls, R. Nozick, M.N. Rothbard,
N. Luhman, Sartori ecc., e con, dalla fine degli anni ‘70, un ritorno poderoso
di quello che in termini italiani si può chiamare il “neoeinaudismo”; in Usa
direi neomisesismo.1 Con neoeinaudismo intendiamo una
filosofia economica che, riassumendola in breve, non pone più alla maniera di Keynes
la disoccupazione come un equilibrio possibile ma negativo, un equilibrio che
possa mantenersi stabile malgrado interne patologie di disoccupazione, che
rimangono da combattere costringendo il sistema (mediante la politica economica
del deficit spending) ad assumere un diverso equilibrio capace di
sostenersi da sé ma senza disoccupazione; il neoeinaudismo neppure pone la
disoccupazione come una impossibilità teorica come il vecchio einaudismo. Per
Say, F.Ferrara, L. Einaudi un keynesiano equilibrio con disoccupazione era una
incongruenza teorico-pratica fruendo il libero mercato di una meccanica di
elasticità reciproche tali che la disoccupazione poteva intervenire solo
momentaneamente, come fatto frizionale. Di qui il fiero contrasto tra 1’einaudismo
(e il neoeinaudismo) e il keynesismo; questo postulando la possibilità di punti
di inelasticità del sistema concedeva possibilità di politiche di intervento
che invece la “legge degli sbocchi” sayiana contestava. Sotto questo punto di
vista Malthus e Ricardo erano non meno sayiani di Say e questo che io chiamo
einaudismo ha rappresentato l’ortodossia fino a tutto il primo interguerre.
Anche Ricardo nel capitolo sulle macchine e sulla disoccupazione tecnologica
considera “frizionale” la disoccupazione.
Nella filosofia economica odierna – quella che io chiamo
neoeinaudismo – il problema della disoccupazione non già costituisce una
impossibilità teorica ma non esiste, e non esiste perché esso riguarda la pubblica
amministrazione come le poste o la scuola pubblica. Nel neoeinaudismo, del
calderone del welfare state e del deficit spending è sopravvissuto
come concetto-base principale il solo concetto di mediazione sociale, il che
significa assumere i disequilibri di disoccupazione sotto forma di controllo
sociale e di pubblica assistenza; di quella, cioè, che una volta si sarebbe
chiamata pubblica assistenza, presentata, peraltro, oggi come corrispettivo di
uno stato la cui costituzione proclama il “diritto al lavoro”. Con il che il deficit
spending – che in Italia ha raggiunto cifre iperboliche nella sfera
imponente dei consumi improduttivi caratteristici dello stadio attuale del
capitalismo – ritorna dalla finestra dopo essere stato estromesso dalla porta
del welfare state keynes-beveridgiano e non più quale strumento
promotore di fattori di produzione e, assieme, di piena occupazione.
Qualche parola in tema di consumismo nella odierna
collocazione capitalistica. Da un lato vi sono i comuni fuoruscenti dalla cosiddetta
spesa sociale e cioè dagli oneri di pubblica finanza attinenti la disoccupazione
cronica e le esigenze di controllo sociale, con connesse sociologie delle “società
complesse”, dall’altro lato esiste una filosofia del consumismo privato, con le
“complesse” connessioni fra le due sfere. Il consumismo privato – oltre che
come forme di spese improduttive di massa – giuoca, come “spese dei ricchi”, attualmente,
un ruolo di centralità che ci riporta ai discorsi settecenteschi da Mandeville
in poi sulla funzione delle spese di ostentazione, di Corte, di mecenatismo
ecc. E, sul punto del mecenatismo, esiste un intreccio “complesso” fra il
pubblico e il privato, sol che si pensi alle “spese promozionali” di cultura
cui enti pubblici e enti privati in Italia e altrove variamente sopperiscono.
In linea generale sul consumismo quale categoria portante
del “libero mercato” ci pare si possa dire, in generale, quanto segue. Nei
paesi a sviluppo demografico che siano in cosiddetta riconversione tecnologica
permanente e il cui sviluppo demografico si avvicini allo zero, e che quindi
siano lontani tanto dall’aberrante iperincremento dei paesi poveri quanto dall’ottimale
incremento demografico dei secoli 1700 e 1800, lo sviluppo dei consumi finali
viene assicurato mediante l’invenzione dei consumi, la imitazione
consumistica e specialmente l’amplificazione del settore terziario consumistico;
tale amplificazione ha tanto la funzione – malgrado la stasi demografica e l’espulsione
dai settori primario e secondario – di fornire domanda di beni finali tramite
occupazioni nuove quanto di somministrare incentivi sempre mutevoli di domanda
mediante “tecniche” pubblicitarie di esperti del terziario e sociologie del
consumo che rendano i consumi allettanti, rappresentativi, strumentalmente
necessari ecc. Come è noto al tempo dei “classici” si discuteva molto sulla “produttività”
o meno del prete o del maestro di scuola e questo discorso era strettamente
legato alla funzione di diffusione dei principi di economia politica che
allora erano basati sull’etica della vocazione al risparmio e all’astensione.
Oggi questi medesimi discorsi si riaffacciano ultrapossentemente ma con segno
invertito in rapporto alla parte del terziario addetto al consumismo.
Quanto
sia possente questo consumismo abbiamo già indicato a proposito del recente
incontro Reagan-Gorbaciov e del reciproco sfoggio di toilettes di dame,
di cordialità d’alta mondanità e di spettacolarità di tipo americanistico.
Peraltro non va dimenticato che il consumismo è una categoria psicologica che –
oltre a corrispondere in quanto, proprio, divismo – a obbiettivi di mediazione
sociale, ha “diritti di natura” propri. Una rivoluzione sociale, in effetti,
può resistere alle velleità del consumismo, poniamo, per una generazione, dopo
di che incomincia l’attesa di migliorare il tenore di vita mediante quello che
costituisce il “superfluo”. Il dosaggio, insomma, fra il necessario, l’abbondante
e il superfluo è un dosaggio che implica capacità di tenuta di classe dirigente
che non è facile né riscontrare né mantenere, specialmente se esiste un centro
metropolitano che irradi filosofia del consumismo e di libero mercato com’è il
caso degli Stati Uniti odierni, relegando la cosiddetta giustizia sociale fuori
dell’economia politica e dentro alla politica assistenziale.
In questa filosofia del consumismo (diventata componente
organica di cosiddetta società del benessere, con uso del tutto pervertito dei
concetti beveridgiani) l’esercito disoccupato di riserva, abbiamo già indicato,
è scomparso come problema dell’equilibrio concorrenziale. Nei fatti la
concorrenzialità è scomparsa, si badi, nel significato classico della parola,
assorbita dagli oligopoli e dagli interimperialismi finanziari e dal controllo
esercitato dalle tecniche del consumismo, ma poiché è scomparsa altresì la
disoccupazione come problema teorico che possa invitare a una pianificazione di
tipo almeno keynesiana, la concorrenzialità può rimanere ancora come concetto
limite; almeno quanto basti per teorizzare un nei fatti inesistente tasso corrente
del profitto che regolerebbe, attraverso la invisibile mano, la capitalizzazione
secondo i moduli neoeinaudiani e neomisesiani. Sicché noi possiamo tornare alla
legge degli sbocchi di Say, dell’equilibrio generale walrasiano quale verità
teorica, da rendere sempre più ricca di matematiche in modo che le razionalità
teoriche del sistema si ficchino bene nei crani degli studenti candidati alle
banche, alle funzioni manageriali e, di nuovo, al terziario o alle carriere
della politica, specialmente in paesi (e si torna agli Stati Uniti) la cui
classe politica è fatta di uomini di affare, facendo riapparire le figure
primoottocentesche dei non labouring poors, se sono inoccupati e dei labouring
poors se si tratta di occupati.
Sociologicamente parlando non so se sia più interessante
oggi la categoria dei non labouring poors proveniente, ad es., dal terzo
mondo oppure la categoria dei labouring poors interna al decentramento
produttivo, al piccolo è bello, all’occupazione occulta ecc. Soffermiamoci,
però, solo un momento sul concetto di povertà in generale. Storicamente parlando
i concetti di povero e di povertà sono concetti che, abbiamo detto, mirano ad
escludere tanto la categoria di “classe operaia” che di disoccupazione
riassorbendo il disoccupato nella non-occupazione e collocandolo fuori dall’economia
politica dove il fattore occupazione è presente sotto forma di costo del
lavoro e variabile interdipendente.
Il passaggio dal concetto di povertà al concetto di
disoccupazione (da poverty a unempolyment) è stato un passaggio
complesso lungo l’‘800. Esso implica il costituirsi di un movimento operaio, di
partiti di classe e la imposizione di nuovi tipi di concettualizzazione alle
borghesie. Attualmente si è tornati alla concettualizzazione di non-occupazione
in termini ottocenteschi e cioè di miseria o miserabilità, e sul concetto di
inoccupato come misero e del misero come incapace, inadatto, vizioso, ribelle
ecc. c’è stata una vasta letteratura contro il “diritto al lavoro” e quindi il
diritto al concetto di disoccupazione ha combattuto fiere battaglie.
La miseria – proprio con i suoi interni equivoci di
significato – ha avuto in questi ultimi decenni sviluppo imponente. E con tipologie
varie e variegati esiti di subalternità, e soprattutto con portata planetaria. È
chiaro che la tipologia del terzo mondo centrafricano non è la stessa del terzo
mondo sudafricano o dell’Africa settentrionale o dell’America latina; e queste
tipologie di terzo mondo sono a loro volta diverse dalle cosiddette
sacche di zone depresse interne al cosiddetto nord del globo; da noi, ad
es., abbiamo la sacca del mezzogiorno d’Italia,sacca che è una vasta
regione con vasti e complicati (e anche contraddittori) elementi di struttura;
altrettanto dicasi per gli imponenti fenomeni di analfabetismo di ritorno, di
ghettizzazione, di vivere sull’orlo della sussistenza presenti negli Stati
Uniti, o della situazione della classe lavoratrice giapponese che non si può
neppure chiamare “classe lavoratrice” visto che in Giappone un’organizzazione
sindacale nel significato italiano, francese, americano ecc. del termine non
esiste. Per quanto paradossale questo possa suonare, a meno di non ritrovare
nei classici del marxismo i discriminanti di forza-lavoro occupata e di
plusvalore, e di riscoprire dall’interno dei “miseri” e dei “subalterni”, la “classe”
e la “coscienza di classe”, oggi ci sono ricchi, ricchissimi,
benestanti, mediocremente stanti, miseri ... in categorie che sanno tutte di V.
Hugo, E. Sue, E. Zola ma non certo di Karl Marx; e ci sono, certo, gli occupati
(quelli che costituiscono il costo del lavoro dell’equilibrio generale) e ci
sono i disoccupati (quelli frizionali, quelli in cerca di prima occupazione,
ecc.), così come c’è interdipendenza fra inoccupati (es. il “lavoro nero”),
occupati e disoccupati, in modo da accrescere in proporzioni, forse, mai viste
per l’innanzi, il monte del plusvalore assoluto [penso al iii libro del Capitale]
che la classe capitalista si spartisce sotto forma del cosiddetto “tasso
corrente del profitto”. Gli stessi decentramenti produttivi, il cosiddetto “piccolo
è bello”, rappresentano un ritorno al putting out system, cioè alla
produzione su commissione del protocapitalismo, dove però, attualmente, il
committente non è più il mercante ma l’industriale metropolitano, e cioè un
industriale che si riserva alcune fasi della produzione per decentrare altre
fasi dove si trovi manovalanza non organizzata (che sia, quindi, non classe ma 1abourinrg
poors) o perché femminile o perché terzomondista o, semplicemente,perché ha
convenienza a rimanere lavoro nero (in questo incontrandosi con gli interessi
del committente) per occultare i guadagni al fisco o all’anagrafe; o perché a
lavorazione saltuaria e complementare.
È di gran moda indicare la produzione decentrata come
espressione di “spirito di intrapresa” e si rievoca l’imprenditore rappresentativo
marshalliano, si dichiara “meraviglioso” il tasso di mobilità interno a questi
settori, si invoca l’antropologia regionale (il modo veneto o emiliano di
produzione ..) ecc. Non nego che possano esserci aspetti “meravigliosi” in
queste imprenditorie di area diffusa; ma può darsi che ci siano forme
cosiddette “avanzate” d’imprenditoria che siano riuscite ad avanzare tramite il
resuscitamento di sfruttamenti di forza-lavoro di tipo protocapitalistico; e
qui si torna al concetto di “miseria”, miseria che può benissimo comportare, in
certi territori, il possesso di automobile, la casa di proprietà, gli
elettrodomestici e, anzitutto, la televisione da cui imparare la qualità del
consumismo e come sia meraviglioso imitare i più ricchi svendendo
clandestinamente forza-lavoro per procurarsi entrate aggiuntive.
Se in questo contesto s’inserisce l’appannamento dell’utopia
portante della “società socialista”, della uguaglianza del punti di partenza,
del “a ciascuno secondo i bisogni”, della giustizia distributiva, del “a ciascuno
secondo i meriti” ecc. nonché la scomparsa dell’oggettivismo (sia quello
ricardiano, sia quello marxiano) per un rinnovato soggettivismo
(neojevonsiano, neomisesiano, neoeinaudiano) a conforto dei “neoteorismi
concorrenziali”; se si tiene presente quanto difficile risulti oggi dare vigore
teorico-operativo alle categorie marxiane, e come queste difficoltà siano
inerenti alle “ragioni” del capitalismo contemporaneo non rima ne che
concludere che le difficoltà attuali di inserire nel contesto una linea
teorico-organizzativa di ortodossia marxista dipenda dal fatto, proprio, che
una siffatta inserzione è l’unica che possa dare lumi di discernimento critico
agli svolgimenti economico-civili del post 1945 che stiamo vivendo.
Un’ultima considerazione: Libertà e suffragio
universale. “Libertà” e “suffragio universale” possono servirsi di molti
espedienti per inceppare, dall’interno dei contesti descritti,il costituirsi di
una “oggettività organizzata”. Là dove prevale, ad es., il sistema uninominale
o il sistema americano di formulare le nominations, partiti che possono
definirsi di classe non solo è difficile che sì affermino ma è difficile,
addirittura, che possano mai costituirsi. Quando J. S. Mill nel suo celebrato
saggio On liberty patrocinava un sistema elettorale in cui tutti
potessero votare tranne gli analfabeti, e i voti dei votanti a loro volta
pesassero diversamente a seconda dei titoli accademici o delle professioni in
modo da assicurare al paese una democrazia veramente qualificata indicava un
sistema per salvare diversi interessi: la rappresentatività, la selezione, il
censo e il dialogo sociale; nel sistema di voto diversificato ognuno si sentirà
incentivato ad andare a scuola e poi ad acquisire quelle posizioni
professionali che possano portarlo a pesare sempre meglio nel giuoco elettorale
e a entrare nel dialogo sociale. Ho l’impressione che in questi ultimi decenni
si siano sviluppate molte cose nella direzione suggerita da J.S. Mill. Le “astuzie”
interne al controllo capitalistico e gli espedienti di controllo sedicenti
democratici si sono straordinariamente moltiplicati, ivi compresi gli
espedienti per scoraggiare la ricerca empirico-fattuale e storico-fattuale
delle categorie di “lotta di classe” interne al tipo di capitalismo maturato,
specialmente a partire dal 1970. In Italia vi sono trecento e più riviste di
storia, in grandissima parte patrocinate e sponsorizzate da enti vari e non so
quanto innumerevoli riviste di economia anch’esse patrocinate, mentre esistono
solo tre, quattro riviste che si richiamano al marxismo, poverissime di mezzi
di ricerca e, addirittura, di sussistenza. Sono condizioni che rendono cioè “eroico”
il costituirsi di un’organizzazione di ricerca marxista. Si ha,cioè, il
paradosso che quanto più si è accresciuto il bisogno di un tale tipo di ricerca
tanto più, almeno in Italia, sono stati sottratti sbocchi, mezzi, opportunità
per organizzare e svolgere tali tipi di ricerca. Il tutto all’insegna delle
predisposizioni al dialogo, al confronto delle idee ecc., segno che il dialogo
in sé e per sé può diventare strumento, in condizioni di gestioni date, per
impedire l’ingresso a certi dialoganti – come capita a certi non convitati nel
metaforico banchetto del saggio malthusiano.
In tema di americanismo Dialogue è il nome dato ad
assai ben fatta rivista di propaganda Usa che molti dei lettori, suppongo,
ricevono in omaggio. Periodico di grande sapienza culturale, bello e ben fatto,
aristocratico nella sua propaganda priva di propagandismo. L’american way of
life, la liberty, la freedom, 1’ethos self-help si
appalesano nella loro intelligenza di modi di cultura, persuasivi e quindi
accattivanti. Nel contempo siamo fuori – e ovviamente – di ogni “conflittualità”.
Da Dialogue passiamo al misesismo. Ludwig von Mises [nato 1881, morto
nel 1973] è stato un economista-sociologo, discepolo della “scuola austriaca”
di C. Menger, E. Böhm Bawerk, F. von Wieser. Siamo nella Vienna primonovecento
nelle scuole di antiricardismo e, ovviamente, antimarxismo, teorico e
teorico-militante a indirizzo soggettivista. Siamo nella Vienna dell’ultimo E.
Mach, del penultimo Wieser, dei giovani Popper e Hayek, del giovane H. Kelsen,
di R. Hilferding. Siamo nella Vienna primonovecento che è la Vienna di molte
altre cose; di molte cose che, diciamo, erano venute a maturazione (in arte,
letteratura, scienze sociali, epistemologia) all’interno di un vasto impero
mitteleuropeo e che nel 1918 vedranno questo impero frantumarsi, con Vienna
improvvisamente declassata e con i successivi eventi drammatici che si concluderanno
nel 1938 con l’annessione alla Germania di Hitler; e, nel frattempo, si avrà la
diaspora del folto stuolo di economisti “austriaci”, da Rosenstein-Rodan a Schumpeter,
a Mises, Hayek e via dicendo. Von Mises si stabilirà in America e diventerà l’ideologo
principale (come Hayek a Londra) dell’antikeynesismo, dell’antisocialismo, dell’anti-welfare
state, della liberty of enterprise. Non si dimentichi che dal 1917 e
dal 1945 si avrà il socialismo incarnato principalmente nell’Urss. Sta di fatto
che la Liberty press, i Liberty fund, le Hoover institutions,
le cattedre “Carl Menger” o “Ludwig von Mises”, gl’incontri di “misesismo” si
contano a.bizzeffe negli Stati Uniti, con appoggi tanto universitari che
parauniversitari. Non è facile, dato lo sparpagliamento degli enti o delle
iniziative, farsene un quadro esaustivo, poiché 1’anti-johnkennedismo e 1’anti-lyndonjohnsonismo
(in breve l’anti anni ‘60) è la piattaforma americana di fondo (Kennedy e
Johnson avendo sostituito, secondo questi indirizzi, la “minaccia socialistica”
di neorooseveltismo ecc.). Il richiamo a von Mises e al soggettivismo in
economia e sociologia costituisce il punto di guarentigia di fondo, con
particolare vigore a partire circa dal 1980. Cito qualche titolo curioso di
annuari: intorno al 1980 (non so se continui tuttora) esce un Journal of
postkeynesian economics, col 1987 incomincia a uscire un annuario The
review of austrian economics; elementi intellettuali di supporto J.M.
Buchanan, L.M. Lachmann, E. Butler, M.N. Rothbard, I.M. Kirzner ed altri. Il
motivo di fondo è difendere lo smithianesimo e il soggettivismo-individualismo
della scuola austriaca, garantire la perennità del misesismo (e dell’hayekismo),
garantirne il “ritorno” ecc. come supporto inteso come un unicum di Freedom,
free enterprise, american way of life, Liberty; e,
ovviamente, di antimarxismo, anticomunismo, antisocialismo, antikeynesismo,
antistatualismo ecc.
Questi gruppi a loro volta sono animati da notevole spirito
di proselitismo, e trovano i loro omologhi negli altri paesi capitalistici,
compresa l’Italia dove i loro rinvii principali sono al magistero di M.
Pantaleoni e L. Einaudi. In Italia la tradizione di “libertà d’impresa”
antistatualista e di antistatualismo/antisocialismo sono da tempo fondate (direi
dal 1850 circa, e cioè dai primi tempi di Fr. Ferrara); in nome dell’antistatualismo/antisocialismo
i nostri economisti “smithiani” e “soggettivisti” combatterono battaglie
anticrispine negli anni 1890, poi subentrò il socialgiolittismo, visto come una
sorta di johnkennedismo e newdealismo sui tempo- ris, con alle
spalle il socialismo diventato potenziale minaccia organizzata. Di qui la
indefessa polemica antisocialgiolittiana di Luigi Einaudi e Luigi Albertini,
del gruppo della Riforma sociale, diretta da L. Einaudi e del Giornale
degli economisti diretto da De Viti De Marco e M. Pantaleoni; di qui il
ferocissimo esplodere di polemiche in difesa tanto dell’ortodossia economica
post 1918 quale difesa, assieme, dello stato costituzionale, del ripristino
della sicurezza dei frutti dell’investimento privato, contro le vociferazioni d’imposizione
di patrimoniali, d’imponibile di mano d’opera, di “fare come in Russia”, di
spreco delle classi subalterne, di insubordinazionismo infoiato di bolscevismo
ecc.
In Politica, di A. Rocco e F. Coppola, si potevano
trovare Pantaleoni e De Ruggiero come G. Gentile, P. Jannaccone e si potevano
trovare certe “postille” di Croce invettivanti contro il parlamentarismo cosiddetto
democratico in un clima di possibile e temibile ritorno “bolscevico” di nittismo
e di giolittismo; e del pari in gerarchia di Mussolini per i contributi
di G. Prato, sodale strettissimo di L. Einaudi, o di V. Pareto, così come
Pantaleoni era il contributore indefessamente battagliero di La vita italiana
di G. Preziosi. Il gruppo della Riforma sociale appoggerà fervorosamente
l’avvento del mussolinismo destefaniano, cioè del mussolinismo smobilitatore
delle bardature di guerra, di ritorno all’ortodossia di pareggio del bilancio,
contro una legislazione sedicente “popolare” scoraggiatrice dei generosi rischi
di libera impresa. Sicché quando Pantaleoni morirà nel 1924 U. Ricci
commemorerà nella Riforma sociale 1924 l’alto magistero, civile e
teorico nel contempo: Pantaleoni, dapprima deputato radicale, poi collaboratore
di L’idea nazionale; poi vedremo Pantaleoni “quando era più necessario
far vibrare l’amor patrio e riscattare il paese dalla corruzione pacifistica e
socialistica. Lo vedremo fondato re dei fasci di difesa nazionale dopo
Caporetto ... amico di Mussolini e del fascismo”(p. 460). Durante il biennio
1922-1924 la Riforma sociale punterà sul mussolinismo destefaniano non
solo per il “ritorno alla fiducia” dell’imprenditorialità privata ma anche per
l’abolizione della tariffa del 1921, ultraprotettiva, e il ritorno alla tariffa
del 1887, come primo passo della completa liberalizzazione degli scambi
internazionali; l’abolizione della tariffa del 1921 era uno dei cardini del
gruppo libero-scambista di cui la Riforma sociale si considerava organo,
e costituiva uno dei motivi di speranza riposti nell’avvento del mussolinismo.
Avvento che il filosofo liberale, stretto sodale di L. Einaudi, B. Croce vedeva
con pari – seppure guardinga – fiducia, talché Gentile, quando Croce nel 1925
passerà all’opposizione, potrà rinfacciare al magistero crociano d’aver
meritato a Croce la qualifica di “camicia nera ad honorem”. Poi, dopo il
1924, le attese liberal-liberiste di Croce ed Einaudi verranno via via meno:
per Einaudi ci sarà non soltanto il delitto Matteotti e l’incalzante dispotismo
politico-civile del regime mussoliniano ma ci saranno le ‘‘bardature” dello
stato corporativo, dei consorzi obbligatori, dell’autarchia ecc. Ci sarà, cioè,
la fine dell’illusione 1920-1924 che le regole dell’einaudismo potessero venir
ripristinate tramite il ritorno ai rigori costituzionali.
Quanto sopra valga soltanto come accenno al complesso
problema dei nessi fra liberismo o, in generale, einaudismo e neoeinaudismo, e
le “responsabilità” della libera impresa in assetti statuali di garanzia antisocialista.
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