venerdì 12 luglio 2013

La luxemburg, Lenin e la democrazia. - Stefano Garroni. 14/06/2006 -



Nel suo scritto su La rivoluzione russa[1], la Luxemburg considera lo scioglimento dell’Assemblea costituente, voluto da Lenin e ampiamente giustificato da Trockij, come un punto nodale, partendo dal quale la politica bolscevica si va effettivamente determinando, assumendo un profilo preciso. Ed ovviamente la Luxemburg non manca di sottolineare che i bolscevichi avevano duramente criticato il precedente governo Kerenskij, perché ostile all’Assemblea costituente: ciò nonostante, appena fu loro possibile, proprio i bolscevichi si resero responsabili dello scioglimento di quella stessa Assemblea.
La Luxemburg, inoltre, cita ampiamente le successive argomentazioni di Trockij a giustificazione di codesto scioglimento -argomentazioni contenute nell’opuscolo, giudicato “interessante” dalla stessa Rosa, Dalla Rivoluzione d’Ottobre alla pace di Brest-Litowsk.[2]
In quello scritto sostanzialmente Trockij svolgeva un argomento tipico della sua riflessione: ovvero, il meccanismo elettorale della democrazia parlamentare o borghese segna un momento di passività delle masse e le fissa nello stato d’animo e nelle scelte fatte al momento delle elezioni, anche se proprio da quel momento la generale situazione politica e lo stesso orientamento delle masse hanno subito mutamenti profondi. Insomma, per Trockij l’Assemblea costituente, eletta molto tempo prima della Rivoluzione d’Ottobre, rifletteva una situazione politica ormai passata e incompatibile con la nuova realtà, scaturita proprio dalla Rivoluzione: di qui l’inevitabilità di sciogliere un’Assemblea ormai non più significativa.
Questa argomentazione appare viziosa alla Luxemburg, quasi un esempio dello ‘gettare il bambino insieme all’acqua sporca’ – perché, si chiede infatti die rote Rose [3], se quell’ Assemblea costituente non rispecchiava più la situazione politica e sociale, non convocare nuove elezioni e procedere, così, all’elezione di un’Assemblea più fedele ai tempi?

“Invece Trockij –scrive la Luxemburg- “trae le sue conclusioni dall’insufficienza specifica dell’Assemblea costituente d’ottobre, e addirittura le generalizza fino ad affermare l’inutilità di ogni assemblea rappresentativa uscita da elezioni generali in tempo di rivoluzione.”[4]
Ma c’è anche un’altra argomentazione di Trockij, che la Luxemburg sembra, almeno in questo contesto, trascurare: “grazie alla lotta diretta ed aperta per il potere governativo –scriveva il dirigente bolscevico, nell’opera che abbiamo già citata- le masse operaie accumulano in brevissimo tempo una grande esperienza politica e salgono rapidamente nel loro sviluppo da un grado all’altro. Il pesante meccanismo delle istituzioni democratiche tanto meno segue questo sviluppo quanto più il paese è esteso e imperfetto il suo apparato tecnico.”[5]
Come si vede, il punto di contrasto fra Trockij e la Luxemburg sembra avere un carattere di fondo: non si tratta, in altre parole, di rimproverare ai bolscevichi di aver compiuto un’errata scelta tattica (lo scioglimento dell’Assemblea costituente); piuttosto, si tratta della valutazione, che viene data dagli uni e dall’altra, circa l’essenza stessa della democrazia parlamentare, nel senso che per i bolscevichi la maturazione politica delle masse non avviene tanto mediante un’acquisita tradizione d’uso degli strumenti democratico-parlamentari, quanto piuttosto attraverso l’esperienza compiuta in nuovi istituti democratici, dal carattere esplicitamente di classe e che segnano una rottura –non una loro radicalizzazione- nei confronti degli istituti democratico-parlamentari.
Per la Luxemburg, al contrario, il modello (democratico-parlamentare) dell’Assemblea costituente sembra essere appunto quel bambino che va salvato, buttando via le degenerazioni, le insufficienze della democrazia parlamentare (dunque, l’acqua sporca).
Questo giudizio della Luxenburg desta qualche perplessità, perché sembra prescindere da un complesso di circostanze, che invece ella stessa sottolinea circa la disperata situazione, in cui la rivoluzione si trovava in Russia (“I bolscevichi stessi non potranno negare, la mano sul cuore,[6] di aver dovuto procedere a tentoni, tentare, esperimentare, fare assaggi in tutti i sensi, e che buona parte dei loro provvedimenti non sono affatto delle perle. Così devono andare e andranno le cose per tutti noi, quando affronteremo gli stessi compiti, quantunque non possano esservi ovunque circostanze così difficili”)?  E va sottolineato, ancora, che sia Lenin che Trockij ripetutamente (anche riguardo alla questione democratica) hanno sottolineato l’eccezionalità della vicenda sovietica e come fosse, dunque, dar prova, appunto, di filisteismo o di apriorica e acritica accettazione della tradizione democratico-borghese non comprendere tutte le implicazioni –anche nel senso di limitare la portata e il peso effettivo delle nuove strutture di governo proletario, che la Rivoluzione andava introducendo o cercando di introdurre-  della durissima lotta che la Russia sovietica combatteva sia contro implacabili nemici esterni (e le loro ‘quinte colonne’ interne), sia contro l’immane arretratezza della Russia profonda (la merda asiatica, di cui Lenin diceva).
In realtà, ci imbattiamo qui in una contraddizione, in cui salutarmene la Luxemburg cadde: come nota, infatti, l’editore italiano della sua opera, “è interessante osservare, a proposito di questa difesa della Costituente, che nel corso della rivoluzione tedesca, nel novembre-dicembre 1918, (proprio die rote Rose) sostenne invece la tesi che tutto il potere dovesse andare ai consigli dei delegati degli operai e dei soldati e si oppose all’elezione della Costituente.”[7]
Senonchè, anche in questa scelta c’è qualcosa di ambiguo, è infatti vero che Rosa condivideva sostanzialmente la tesi di Kautsky (la si trova, quest’ultima, in particolare nelle pagine che egli dedicò, in funzione anti-bolscevica, ad analizzare criticamente la dinamica della Rivoluzione francese), secondo cui la tendenza di ogni organizzazione è di sostituirsi alle azioni spontanee del proletariato.
Questa luxemburghiana diffidenza fondamentale nei confronti di ogni organizzazione (si tratta di un tema, che –sappiamo bene- conoscerà grande fortuna nei movimenti del 1968 ed in quelli che, ancor oggi stancamente lo ripetono) è sottolineata da G. Lukàcs nel suo Storia e coscienza di classe, riferendosi in particolare allo scritto luxemburghiano Sciopero generale, partito e sindacati.[8] Ma anche qui bisogna badare a non cadere nello schematismo.
Contrapporre rigidamente la Luxemburg (notandone anche certi riecheggiamenti kautkiani), quale esaltatrice dell’azione spontanea delle masse e delle forme più nette e radicali di democrazia (borghese, roussoiana) ad una tendenza bolscevica, tutta volta al contrario ad enfatizzare il tema della centralizzazione statuale e di partito, significherebbe cadere in un grave fraintendimento storico.
Nel senso che anche quelle componenti di ‘sinistra’ che, dopo la votazione dei crediti di guerra da parte dei grandi partiti socialdemocratici, si staccarono in varie forme dalla II Internazionale, ovviamente avevano avuto in quest’ultima –nel suo clima politico e culturale- la loro culla, il loro luogo di formazione. Il che significa, ad es., che tutte erano state formate ad un autentico culto della democrazia e dei suoi valori.
In questo contesto, il Che fare? di Lenin e più ancora la sua più volte esposta tesi sul carattere di classe dello Stato, con la conseguenza, per il proletariato, di dover imporre la propria dittatura, costituirono non solo una sicura rottura con una lunga tradizione politica, ma anche un patrimonio teorico, assai spesso accolto ben superficialmente e senza comprenderne le implicazioni più profonde (in questo senso, è esemplare la vicenda di Korsch, che pure qui non possiamo analizzare).
E, si badi, ciò non vale solo per gli altri; ma sì per lo stesso Lenin, le cui pagine e le cui parole d’ordine qualche volta hanno il senso (o sembrano averlo) di recuperare quella ‘democraticità’, che così tanto aveva segnato i grandi maestri Kautsky e Plechanov (maestri, fino a che punto effettivamente rinnegati, poi, da Lenin?)
Ma pur cercando di evitare ogni schematismo, sembra utile rimandare a G. Boffa[9], quando sottolinea la fondamentale impronta realistica[10], che aveva il pensiero di Lenin e bolscevico-leninista in generale: è proprio questo realismo, infatti, quale che sia la misura in cui Lenin (e il bolscevismo) si liberarono effettivamente dell’influenza secondointernazionalista, a ritematizzare le istanze democratiche nel nuovo quadro della dittatura del proletariato e, dunque, all’interno del riconoscimento pieno del ruolo della centralizzazione.
La Luxemburg, al contrario (e con essa i cosiddetti ‘comunisti di sinistra’),  resterà prigioniera dello schema kautskiano e dell’ortodossia secondointernazionalista, che affermava la netta e inarrestabile tendenza della società capitalistica a scindersi in due sole classi[11], rigidamente contrapposte, e che, su questa base, tendeva a vedere nell’autorganizzazione ‘dal basso’ l’unica prospettiva politico-democratica per una classe lavoratrice, pensata già sostanzialmente in condizione di riorganizzare la società nel suo insieme e non bisognosa di porsi –come problema basilare- quello dell’alleanza con altre classi o settori di classe.[12]



Un documento significativo di quello, che indicavo come il realismo bolscevico (che, dopo la morte di Lenin, si badi, va perdendosi o, comunque, adulterandosi), mi pare sia questa pagina di Trockij, dalla quale risalta, anche (ed in stretto legame col realismo di cui sopra) una precisa attenzione alle oscillazioni della psicologia di massa, nonché la convinzione che l’avanguardia non può lasciarsi prendere da questi continui ‘su e giù’, ma–tutt’al contrario- ha il compito di cercare di mantenersi, quali che siano le obiettive difficoltà, nella prospettiva di trasformare progressivamente le masse lavoratrici in classe dirigente, consapevole di sé fino al punto da affrontare i compiti della costruzione di una società nuova.
“Nella guerra civile –osservava Trockij-, più ancora che in qualunque altra guerra, la vittoria può essere assicurata soltanto con un’offensiva recisa e continuata. Oscillazioni non ce ne debbono essere. Trattative son pericolose: fermarsi ad un dato punto aspettando, è pernicioso. Si tratta in fin dei conti, di masse popolari, che non ebbero ancora mai nelle loro mani il potere, che finora sono sempre state sotto il giogo di un’altra classe e che, per conseguenza, mancano per lo più di sicurezza politica. Ogni titubanza nel centro direttivo della rivoluzione produce immediatamente una dissoluzione fra le masse. Solo nel caso che lo stesso partito rivoluzionario marci sicuro e risoluto verso la sua meta, può aiutare le masse operaie a vincere i loro secolari istinti di schiavitù, può condurre le masse operaie alla vittoria. E solo per mezzo di una decisa offensiva si può ottenere la vittoria con un minimum di forze e di vittime.”[13]
Per un punto di estremo rilievo, l’ottica della Luxemburg sembra decisamente opposta, a quella in cui si colloca la citazione precedente; parrebbe lecito dire che organizzazione, centralizzazione, direzione sono tutti termini che. nell’esperienza e nella prospettiva luxemburghiane, abbiano un senso assai diverso da quello, che hanno nell’orizzonte dell’esperienza e della riflessione bolsceviche.
Ponendo “lo sciopero di massa al centro della sua teoria, Rosa Luxemburg formula nello stesso tempo la sua valutazione della dialettica materialistica come il <motore specifico del proletariato cosciente che lotta per le sue rivendicazioni>.” [14]; ed ancora “è precisamente la dialettica tra spontaneità ed organizzazione, che conduce i processi sociali di là da ogni meccanica dell’ automovimento e dei modi di pensare e di comportarsi unilaterali oggettivati; essa determina non solo la legge della dinamica politica dell’emancipazione della classe operaia, ma anche la struttura della teoria che le è propria e il cui nucleo è la dialettica materialistica.”[15]
Prima di procedere, rimarchiamo che dalla pagina citata cominciamo a cogliere, nella Luxemburg, una teoria della ‘spontaneità’ che, paradossalmente, rischia di concludersi in quell’appiattimento del marxismo a mera ‘guida per l’azione rivoluzionaria’, che sarà una delle componenti di fondo della elaborazione staliniana e più in generale del cosiddetto diamat.[16]
Appare chiaro che il punto di fondamentale contrapposizione, per la Luxemburg, è quella forma di
burocratizzazione dell’organizzazione operaia, per cui il partito risulta di fatto dominato dal suo gruppo parlamentare e dal suo apparato, mentre i sindacati si sono sempre più trasformati da organi di lotta in strumenti per la risoluzione, concertata con il padronato, dei conflitti di lavoro. In questo contesto, l’appello alla spontaneità dei movimenti, alla già data capacità d’autorganizzazione dei lavoratori, in effetti, possono apparire come lo strumento radicale per liberare il proletariato dalla sovrastruttura burocratica, che ne limita e devia le potenzialità di sviluppo.
Senonchè, da questo quadro di contrapposizioni può derivare anche qualcosa d’altro, ovvero la propensione, anche nel contesto della Russia rivoluzionaria, a dare a termini come organizzazione, centralizzazione, direzione lo stesso senso, che hanno nel quadro di un movimento dei lavoratori, che opera entro una società  ancora dominata dalla grande proprietà capitalistica. Ma c’è di più.
Ponendo “lo sciopero di massa al centro della sua teoria, Rosa Luxemburg formula nello stesso tempo la sua valutazione della dialettica materialistica come <il modo specifico di pensare del proletariato cosciente che lotta per le sue rivendicazioni>. Il suo concetto di dialettica marxista ha una sfumatura tutta particolare: ella riprende l’esigenza di Marx di procedere dall’astratto al concreto, un indirizzo di pensiero che contrasta con le tradizioni di pensiero europeo, tradizioni di pensiero che vede rivivere non solo nella socialdemocrazia tedesca, ma anche nella concezione del partito di Lenin … Per lei la dialettica è precisamente, come pensa Hegel, il metodo, la forma, la coscienza dell’automovimento del suo contenuto. Perciò il modo con cui ella intraprende l’analisi dei rapporti sociali e delle lotte di classe non è mai rivolto <verso l’alto>, verso le idee, i programmi, le direttive organizzative, i comitati centrali, e quindi non è mai idealistico; al contrario, i concetti centrali della critica dell’economia politica sono aperti <verso il basso>, verso le esperienze reali delle masse e degli individui.” [17]
Il fatto è che lo studioso tedesco, che stiamo citando, ha ragione: in effetti, accanto alla tendenza ad appiattire il marxismo a mera guida per l’azione, nella Luxemburg  vediamo operare, ancora in un senso puramente empiristico, nozioni come astratto, concreto, contenuto che, nel significato specificato, sono sicuramente fuori (e prima) della prospettiva dialettica: è anche in questo contesto, in realtà, che va collocata e interpretata l’enfasi luxemburghiana sulla spontaneità.
In definitiva, ciò che voglio dire è che l’accusa di <autoritarismo>, di scarsa sensibilità democratica (se non addirittura di disprezzo verso la democrazia), che la Luxemburg muove a Lenin e al bolscevismo leninista deriva, anche, da una diffidenza –tutta empiristica e vitalistica- verso la teoria, giudicata ‘astratta’ e lontana dal ‘reale’, perché ancora la Luxemburg è convinta di ciò che l’empirismo scientifico aveva ormai abbandonato –intendo, la concezione della teoria come astrazione dal particolare e non, invece, come condizione per poter riconoscere lo stesso particolare.[18]




[1] - Vedilo in Rosa Luxemburg, Scritti  politici, a cura di L. Basso, Roma 1967: 555ss.
[2] - Lo scritto fu pubblicato anche in Italia nel 1920 dalle edizioni socialiste Avanti!.
[3] - In tedesco Rosa la rossa, come spesso la Luxemburg veniva chiamata.
[4] - R. Luxemburg, op. cit.: 583.
[5] - Il passo è citato dalla Luxemburg, op. cit.: 584.
[6] - Luxemburg, op. cit.: 589.
[7] - Luxemburg, op. cit.: 588n.
[8]  - G. Lukàcs, Geschichte und Klassenbewußtsein,Neuwied und Berlin 1968: 456; il testo della Luxemburg vlo in Luxemburg, op. cit.
[9] - G. Boffa, Storia dell’Unione Sovietica. I. (1917-27), Roma 1990: 143s.
[10] - S’intenda bene, <realistica>, non utopistica –qualunque senso si voglia dare a quest’ultimo termine!
[11] - Per la Luxemburg, “la società tedesca si compone di due classi irrimediabilmente antagonistiche, borghesia e proletariato. Gli strati intermedi sono o ignorati, o inclusi nell’una o nell’altra di queste due classi. Di qui il suo erifiuto a qualsiasi compromesso,e al limite, di ogni contatto della socialdemocrazia (che rappresenta la classe operaia) e i democratici …” (AAVV, Storia del marxismo contemporaneo. IV. Luxenburg, Liebknecht, Pannekoek, Milano 1973: 34.
[12] - AAVV, Storia del marxismo contemporaneo. IV. Luxenburg,Liebknecht,Pannekoek, Milano 1973: 109.


[13] - Trockij, op. cit.: 61s.
[14] - O. Negt, “Rosa Luxemburg ed il rinnovamento del marxismo”, in AAVV, Storia del marxismo. 2. Il marxism della Seconda Internazionale, Torino, 1979: 329.
[15]  - O. Negt, op. cit.: 3927.
[16]  - Su questo tema –della deformazione buchariniano-staliniana del marxismo e, più in generale dei caratteri del diamat, il cui inizio viene giustamente indicato in Engels, non in Marx- ottime pagine le si trovano in N. Kohan, Marx en su (Tercer) mundo, La Habana 2003.
[17] - O. Negt, op. cit.: 299s.
[18] - cf. O empirismo de John Stuart Mill: da epistemologia ao etico-politico, in SOFIA vol. IX, números 11 e 12, Editora da Universitade Federal do Espirito Santo 2004.

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