Nel
suo scritto su La rivoluzione russa[1],
la Luxemburg
considera lo scioglimento dell’Assemblea costituente, voluto da Lenin e
ampiamente giustificato da Trockij, come un punto nodale, partendo dal quale la
politica bolscevica si va effettivamente determinando, assumendo un profilo
preciso. Ed ovviamente la
Luxemburg non manca di sottolineare che i bolscevichi avevano
duramente criticato il precedente governo Kerenskij, perché ostile
all’Assemblea costituente: ciò nonostante, appena fu loro possibile, proprio i
bolscevichi si resero responsabili dello scioglimento di quella stessa
Assemblea.
La Luxemburg,
inoltre, cita ampiamente le successive argomentazioni di Trockij a
giustificazione di codesto scioglimento -argomentazioni contenute
nell’opuscolo, giudicato “interessante” dalla stessa Rosa, Dalla Rivoluzione
d’Ottobre alla pace di Brest-Litowsk.[2]
In
quello scritto sostanzialmente Trockij svolgeva un argomento tipico della sua
riflessione: ovvero, il meccanismo elettorale della democrazia parlamentare o
borghese segna un momento di passività delle masse e le fissa nello stato
d’animo e nelle scelte fatte al momento delle elezioni, anche se proprio da
quel momento la generale situazione politica e lo stesso orientamento delle
masse hanno subito mutamenti profondi. Insomma, per Trockij l’Assemblea
costituente, eletta molto tempo prima della Rivoluzione d’Ottobre, rifletteva
una situazione politica ormai passata e incompatibile con la nuova realtà,
scaturita proprio dalla Rivoluzione: di qui l’inevitabilità di sciogliere
un’Assemblea ormai non più significativa.
Questa
argomentazione appare viziosa alla Luxemburg, quasi un esempio dello ‘gettare
il bambino insieme all’acqua sporca’ – perché, si chiede infatti die rote
Rose [3],
se quell’ Assemblea costituente non rispecchiava più la situazione
politica e sociale, non convocare nuove elezioni e procedere, così,
all’elezione di un’Assemblea più fedele ai tempi?
“Invece
Trockij –scrive la
Luxemburg- “trae le sue conclusioni dall’insufficienza
specifica dell’Assemblea costituente d’ottobre, e addirittura le generalizza
fino ad affermare l’inutilità di ogni assemblea rappresentativa uscita da
elezioni generali in tempo di rivoluzione.”[4]
Ma
c’è anche un’altra argomentazione di Trockij, che la Luxemburg sembra, almeno
in questo contesto, trascurare: “grazie alla lotta diretta ed aperta per il
potere governativo –scriveva il dirigente bolscevico, nell’opera che abbiamo
già citata- le masse operaie accumulano in brevissimo tempo una grande
esperienza politica e salgono rapidamente nel loro sviluppo da un grado
all’altro. Il pesante meccanismo delle istituzioni democratiche tanto meno
segue questo sviluppo quanto più il paese è esteso e imperfetto il suo apparato
tecnico.”[5]
Come
si vede, il punto di contrasto fra Trockij e la Luxemburg sembra avere
un carattere di fondo: non si tratta, in altre parole, di rimproverare ai
bolscevichi di aver compiuto un’errata scelta tattica (lo scioglimento
dell’Assemblea costituente); piuttosto, si tratta della valutazione, che viene
data dagli uni e dall’altra, circa l’essenza stessa della democrazia
parlamentare, nel senso che per i bolscevichi la maturazione politica delle
masse non avviene tanto mediante un’acquisita tradizione d’uso degli strumenti
democratico-parlamentari, quanto piuttosto attraverso l’esperienza
compiuta in nuovi istituti democratici, dal carattere esplicitamente di
classe e che segnano una rottura –non una loro radicalizzazione-
nei confronti degli istituti democratico-parlamentari.
Per
la Luxemburg,
al contrario, il modello (democratico-parlamentare) dell’Assemblea costituente
sembra essere appunto quel bambino che va salvato, buttando via le
degenerazioni, le insufficienze della democrazia parlamentare (dunque, l’acqua
sporca).
Questo
giudizio della Luxenburg desta qualche perplessità, perché sembra prescindere
da un complesso di circostanze, che invece ella stessa sottolinea circa la
disperata situazione, in cui la rivoluzione si trovava in Russia (“I bolscevichi
stessi non potranno negare, la mano sul cuore,[6] di aver dovuto procedere a tentoni,
tentare, esperimentare, fare assaggi in tutti i sensi, e che buona parte dei
loro provvedimenti non sono affatto delle perle. Così devono andare e andranno
le cose per tutti noi, quando affronteremo gli stessi compiti, quantunque non
possano esservi ovunque circostanze così difficili”)? E va sottolineato, ancora, che sia Lenin che
Trockij ripetutamente (anche riguardo alla questione democratica) hanno
sottolineato l’eccezionalità della vicenda sovietica e come fosse, dunque, dar
prova, appunto, di filisteismo o di apriorica e acritica accettazione della
tradizione democratico-borghese non comprendere tutte le implicazioni –anche
nel senso di limitare la portata e il peso effettivo delle nuove strutture di
governo proletario, che la
Rivoluzione andava introducendo o cercando di
introdurre- della durissima lotta che la Russia sovietica combatteva
sia contro implacabili nemici esterni (e le loro ‘quinte colonne’ interne), sia
contro l’immane arretratezza della Russia profonda (la merda asiatica,
di cui Lenin diceva).
In
realtà, ci imbattiamo qui in una contraddizione, in cui salutarmene la Luxemburg cadde: come
nota, infatti, l’editore italiano della sua opera, “è interessante osservare, a
proposito di questa difesa della Costituente, che nel corso della rivoluzione
tedesca, nel novembre-dicembre 1918, (proprio die rote Rose) sostenne
invece la tesi che tutto il potere dovesse andare ai consigli dei delegati
degli operai e dei soldati e si oppose all’elezione della Costituente.”[7]
Senonchè,
anche in questa scelta c’è qualcosa di ambiguo, è infatti vero che Rosa
condivideva sostanzialmente la tesi di Kautsky (la si trova, quest’ultima, in
particolare nelle pagine che egli dedicò, in funzione anti-bolscevica, ad
analizzare criticamente la dinamica della Rivoluzione francese), secondo cui la
tendenza di ogni organizzazione è di sostituirsi alle azioni spontanee del
proletariato.
Questa
luxemburghiana diffidenza fondamentale nei confronti di ogni organizzazione (si
tratta di un tema, che –sappiamo bene- conoscerà grande fortuna nei movimenti
del 1968 ed in quelli che, ancor oggi stancamente lo ripetono) è sottolineata
da G. Lukàcs nel suo Storia e coscienza di classe, riferendosi in
particolare allo scritto luxemburghiano Sciopero generale, partito e
sindacati.[8]
Ma anche qui bisogna badare a non cadere nello schematismo.
Contrapporre
rigidamente la Luxemburg
(notandone anche certi riecheggiamenti kautkiani), quale esaltatrice
dell’azione spontanea delle masse e delle forme più nette e radicali di
democrazia (borghese, roussoiana) ad una tendenza bolscevica, tutta volta al
contrario ad enfatizzare il tema della centralizzazione statuale e di partito,
significherebbe cadere in un grave fraintendimento storico.
Nel
senso che anche quelle componenti di ‘sinistra’ che, dopo la votazione dei
crediti di guerra da parte dei grandi partiti socialdemocratici, si staccarono
in varie forme dalla II Internazionale, ovviamente avevano avuto in
quest’ultima –nel suo clima politico e culturale- la loro culla, il loro luogo
di formazione. Il che significa, ad es., che tutte erano state formate ad un
autentico culto della democrazia e dei suoi valori.
In
questo contesto, il Che fare? di Lenin e più ancora la sua più volte
esposta tesi sul carattere di classe dello Stato, con la conseguenza, per il
proletariato, di dover imporre la propria dittatura, costituirono non solo una
sicura rottura con una lunga tradizione politica, ma anche un patrimonio
teorico, assai spesso accolto ben superficialmente e senza comprenderne le
implicazioni più profonde (in questo senso, è esemplare la vicenda di Korsch,
che pure qui non possiamo analizzare).
E,
si badi, ciò non vale solo per gli altri; ma sì per lo stesso Lenin, le
cui pagine e le cui parole d’ordine qualche volta hanno il senso (o sembrano
averlo) di recuperare quella ‘democraticità’, che così tanto aveva segnato i
grandi maestri Kautsky e Plechanov (maestri, fino a che punto effettivamente
rinnegati, poi, da Lenin?)
Ma
pur cercando di evitare ogni schematismo, sembra utile rimandare a G. Boffa[9],
quando sottolinea la fondamentale impronta realistica[10],
che aveva il pensiero di Lenin e bolscevico-leninista in generale: è proprio
questo realismo, infatti, quale che sia la misura in cui Lenin (e il
bolscevismo) si liberarono effettivamente dell’influenza
secondointernazionalista, a ritematizzare le istanze democratiche nel nuovo
quadro della dittatura del proletariato e, dunque, all’interno del
riconoscimento pieno del ruolo della centralizzazione.
La Luxemburg,
al contrario (e con essa i cosiddetti ‘comunisti di sinistra’), resterà prigioniera dello schema kautskiano e
dell’ortodossia secondointernazionalista, che affermava la netta e
inarrestabile tendenza della società capitalistica a scindersi in due sole
classi[11],
rigidamente contrapposte, e che, su questa base, tendeva a vedere
nell’autorganizzazione ‘dal basso’ l’unica prospettiva politico-democratica per
una classe lavoratrice, pensata già sostanzialmente in condizione di
riorganizzare la società nel suo insieme e non bisognosa di porsi –come
problema basilare- quello dell’alleanza con altre classi o settori di classe.[12]
Un
documento significativo di quello, che indicavo come il realismo
bolscevico (che, dopo la morte di Lenin, si badi, va perdendosi o, comunque,
adulterandosi), mi pare sia questa pagina di Trockij, dalla quale risalta,
anche (ed in stretto legame col realismo di cui sopra) una precisa attenzione
alle oscillazioni della psicologia di massa, nonché la convinzione che l’avanguardia
non può lasciarsi prendere da questi continui ‘su e giù’, ma–tutt’al contrario-
ha il compito di cercare di mantenersi, quali che siano le obiettive
difficoltà, nella prospettiva di trasformare progressivamente le masse
lavoratrici in classe dirigente, consapevole di sé fino al punto da affrontare
i compiti della costruzione di una società nuova.
“Nella
guerra civile –osservava Trockij-, più ancora che in qualunque altra guerra, la
vittoria può essere assicurata soltanto con un’offensiva recisa e continuata.
Oscillazioni non ce ne debbono essere. Trattative son pericolose: fermarsi ad
un dato punto aspettando, è pernicioso. Si tratta in fin dei conti, di masse
popolari, che non ebbero ancora mai nelle loro mani il potere, che finora sono
sempre state sotto il giogo di un’altra classe e che, per conseguenza, mancano
per lo più di sicurezza politica. Ogni titubanza nel centro direttivo della
rivoluzione produce immediatamente una dissoluzione fra le masse. Solo nel caso
che lo stesso partito rivoluzionario marci sicuro e risoluto verso la sua meta,
può aiutare le masse operaie a vincere i loro secolari istinti di schiavitù,
può condurre le masse operaie alla vittoria. E solo per mezzo di una decisa
offensiva si può ottenere la vittoria con un minimum di forze e di vittime.”[13]
Per
un punto di estremo rilievo, l’ottica della Luxemburg sembra decisamente
opposta, a quella in cui si colloca la citazione precedente; parrebbe lecito
dire che organizzazione, centralizzazione, direzione sono tutti termini
che. nell’esperienza e nella prospettiva luxemburghiane, abbiano un senso assai
diverso da quello, che hanno nell’orizzonte dell’esperienza e della riflessione
bolsceviche.
Ponendo
“lo sciopero di massa al centro della sua teoria, Rosa Luxemburg formula nello stesso
tempo la sua valutazione della dialettica materialistica come il <motore
specifico del proletariato cosciente che lotta per le sue rivendicazioni>.” [14];
ed ancora “è precisamente la dialettica tra spontaneità ed organizzazione, che
conduce i processi sociali di là da ogni meccanica dell’ automovimento e dei
modi di pensare e di comportarsi unilaterali oggettivati; essa determina non
solo la legge della dinamica politica dell’emancipazione della classe operaia,
ma anche la struttura della teoria che le è propria e il cui nucleo è la
dialettica materialistica.”[15]
Prima
di procedere, rimarchiamo che dalla pagina citata cominciamo a cogliere, nella
Luxemburg, una teoria della ‘spontaneità’ che, paradossalmente, rischia di
concludersi in quell’appiattimento del marxismo a mera ‘guida per l’azione
rivoluzionaria’, che sarà una delle componenti di fondo della elaborazione
staliniana e più in generale del cosiddetto diamat.[16]
Appare
chiaro che il punto di fondamentale contrapposizione, per la Luxemburg, è quella forma
di
burocratizzazione
dell’organizzazione operaia, per cui il partito risulta di fatto dominato dal
suo gruppo parlamentare e dal suo apparato, mentre i sindacati si sono sempre
più trasformati da organi di lotta in strumenti per la risoluzione, concertata
con il padronato, dei conflitti di lavoro. In questo contesto, l’appello alla
spontaneità dei movimenti, alla già data capacità d’autorganizzazione
dei lavoratori, in effetti, possono apparire come lo strumento radicale per
liberare il proletariato dalla sovrastruttura burocratica, che ne limita e
devia le potenzialità di sviluppo.
Senonchè,
da questo quadro di contrapposizioni può derivare anche qualcosa d’altro,
ovvero la propensione, anche nel contesto della Russia rivoluzionaria, a
dare a termini come organizzazione, centralizzazione, direzione lo
stesso senso, che hanno nel quadro di un movimento dei lavoratori, che opera
entro una società ancora dominata dalla
grande proprietà capitalistica. Ma c’è di più.
Ponendo
“lo sciopero di massa al centro della sua teoria, Rosa Luxemburg formula nello
stesso tempo la sua valutazione della dialettica materialistica come <il
modo specifico di pensare del proletariato cosciente che lotta per le sue
rivendicazioni>. Il suo concetto di dialettica marxista ha una sfumatura
tutta particolare: ella riprende l’esigenza di Marx di procedere dall’astratto
al concreto, un indirizzo di pensiero che contrasta con le tradizioni di
pensiero europeo, tradizioni di pensiero che vede rivivere non solo nella
socialdemocrazia tedesca, ma anche nella concezione del partito di Lenin … Per
lei la dialettica è precisamente, come pensa Hegel, il metodo, la forma, la
coscienza dell’automovimento del suo contenuto. Perciò il modo con cui ella
intraprende l’analisi dei rapporti sociali e delle lotte di classe non
è mai rivolto <verso l’alto>, verso le idee, i programmi, le direttive
organizzative, i comitati centrali, e quindi non è mai idealistico; al
contrario, i concetti centrali della critica dell’economia politica sono aperti
<verso il basso>, verso le esperienze reali delle masse e degli
individui.” [17]
Il
fatto è che lo studioso tedesco, che stiamo citando, ha ragione: in effetti,
accanto alla tendenza ad appiattire il marxismo a mera guida per l’azione,
nella Luxemburg vediamo operare, ancora
in un senso puramente empiristico, nozioni come astratto, concreto,
contenuto che, nel significato specificato, sono sicuramente fuori (e prima)
della prospettiva dialettica: è anche in questo contesto, in realtà, che va
collocata e interpretata l’enfasi luxemburghiana sulla spontaneità.
In
definitiva, ciò che voglio dire è che l’accusa di <autoritarismo>, di
scarsa sensibilità democratica (se non addirittura di disprezzo verso la
democrazia), che la
Luxemburg muove a Lenin e al bolscevismo leninista deriva,
anche, da una diffidenza –tutta empiristica e vitalistica- verso la teoria,
giudicata ‘astratta’ e lontana dal ‘reale’, perché ancora la Luxemburg è convinta di
ciò che l’empirismo scientifico aveva ormai abbandonato –intendo, la concezione
della teoria come astrazione dal particolare e non, invece, come condizione
per poter riconoscere lo stesso particolare.[18]
[1]
- Vedilo in Rosa Luxemburg, Scritti
politici, a cura di L. Basso, Roma 1967: 555ss.
[2]
- Lo scritto fu pubblicato anche in Italia nel 1920 dalle edizioni socialiste Avanti!.
[3]
- In tedesco Rosa la rossa, come spesso la Luxemburg veniva
chiamata.
[4] - R. Luxemburg, op. cit.: 583.
[5]
- Il passo è citato dalla Luxemburg, op. cit.: 584.
[6] - Luxemburg, op. cit.: 589.
[7] - Luxemburg, op. cit.: 588n.
[8] - G. Lukàcs, Geschichte
und Klassenbewußtsein,Neuwied und Berlin 1968: 456; il testo della
Luxemburg vlo in Luxemburg, op. cit.
[9]
- G. Boffa, Storia dell’Unione Sovietica. I. (1917-27), Roma 1990: 143s.
[10]
- S’intenda bene, <realistica>, non utopistica –qualunque senso si
voglia dare a quest’ultimo termine!
[11]
- Per la Luxemburg,
“la società tedesca si compone di due classi irrimediabilmente antagonistiche,
borghesia e proletariato. Gli strati intermedi sono o ignorati, o inclusi
nell’una o nell’altra di queste due classi. Di qui il suo erifiuto a qualsiasi
compromesso,e al limite, di ogni contatto della socialdemocrazia (che
rappresenta la classe operaia) e i democratici …” (AAVV, Storia del marxismo
contemporaneo. IV. Luxenburg,
Liebknecht, Pannekoek, Milano 1973: 34.
[12]
- AAVV, Storia del marxismo contemporaneo. IV. Luxenburg,Liebknecht,Pannekoek, Milano 1973: 109.
[13] - Trockij, op. cit.: 61s.
[14]
- O. Negt, “Rosa Luxemburg ed il rinnovamento del marxismo”, in AAVV, Storia
del marxismo. 2. Il marxism della Seconda Internazionale, Torino, 1979:
329.
[15] - O. Negt, op.
cit.: 3927.
[16] - Su questo tema –della deformazione
buchariniano-staliniana del marxismo e, più in generale dei caratteri del
diamat, il cui inizio viene giustamente indicato in Engels, non in Marx- ottime
pagine le si trovano in N. Kohan, Marx en su (Tercer) mundo, La Habana 2003.
[17] - O. Negt, op. cit.: 299s.
[18]
- cf. O empirismo de John Stuart Mill: da epistemologia ao etico-politico, in
SOFIA vol. IX, números 11 e 12, Editora da Universitade Federal do Espirito
Santo 2004.
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