**Università di Napoli "Federico II"
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In
occasione del Centenario
della Rivoluzione d’Ottobre,
si sta opportunamente riaprendo la discussione sul significato e il
valore storico di quella straordinaria svolta che ha segnato di sé
l’intero XX secolo e che si riflette, per alcuni aspetti, a partire
dal mutamento dei rapporti di forza tra aree del mondo, sulla nostra
stessa contemporaneità. In questo quadro è essenziale approfondire
il significato ma anche i problemi di quella esperienza.
Se l’obiettivo della Rivoluzione socialista era quello
di sottomettere
i meccanismi dell’economia alla volontà cosciente e organizzata
delle masse,
in vista del benessere collettivo, Lenin fu sempre consapevole della
difficoltà di tale sfida, in particolare in un paese arretrato come
la Russia del 1917. La consapevolezza di tale difficoltà andò
crescendo nei mesi e negli anni successivi alla presa del potere,
senza però trasformarsi mai in una diversa valutazione sulla svolta
dell’Ottobre, anzi sempre ribadendo la giustezza della scelta
fatta, l’opportunità di aver colto il momento, di aver sfruttato
al meglio le possibilità offerte da una eccezionale contingenza
storica.
All’indomani
dell’Ottobre,
Lenin individua come “uno dei compiti più importanti” quello di
“sviluppare il più largamente possibile questa libera iniziativa
degli operai [...] e di tutti gli sfruttati [...] nel
campo dell’organizzazione.
Bisogna distruggere ad ogni costo – dice – il
pregiudizio assurdo [...]
secondo il quale soltanto le cosiddette ‘classi superiori’ [...]
possono dirigere lo Stato [...]. No, gli
operai non
dimenticheranno nemmeno per un istante di aver bisogno della forza
del sapere. [...] Ma il lavoro di organizzazione è
anche alla portata di un comune operaio
o contadino che sa leggere e scrivere, conosce gli uomini ed è
provvisto di un’esperienza pratica”. E “ciò che precisamente
fa la forza [...] della rivoluzione d’Ottobre [...] è che
essa suscita queste
qualità, abbatte tutte le vecchie barriere [...] fa
entrare i lavoratori nella via dove creano essi stessi la
nuova vita”,
in modo diversificato e vario. “Dopo secoli di lavoro per altri
[...] per la prima volta appare la possibilità di lavorare
per sé [...]
approfittando di tutte le conquiste della tecnica e della cultura
moderne”[1].
Per fare questo – Lenin ne è consapevole – occorre risolvere enormi problemi teorici e pratici. Il potere sovietico, infatti, “non eredita rapporti [sociali] già pronti”, e allora “l’organizzazione di un censimento, il controllo delle aziende più importanti, la trasformazione di tutto il meccanismo economico statale in una sola grande macchina” che funzioni sulla base di “un piano unico”, diventano priorità assolute[2]. “La difficoltà principale”, dunque, “è nel campo economico”, ma è soprattutto come “socializzare effettivamente la produzione”. Lenin prova a dare una risposta: “Lo Stato socialista – scrive – può sorgere unicamente sotto forma di una rete di comuni di produzione e di consumo che registrino [...] la loro produzione e il loro consumo, economizzino il lavoro, ne elevino continuamente la produttività, riuscendo così a ridurre la giornata lavorativa a sette, sei ore e anche meno”[3].
Queste frasi fanno riflettere. Nulla è più lontano dal burocratismo, e al tempo stesso la necessità di un enorme apparato che controlli e gestisca la produzione e la distribuzione delle merci è affermata a chiare lettere: ma, appunto, non è un apparato in senso classico, non è un corpo separato di tecnici o funzionari; è un apparato di massa, composto di lavoratori, a loro volta membri dei soviet. E Lenin lo dice chiaramente: “La lotta contro la deformazione burocratica dell’organizzazione sovietica è garantita dalla solidità dei legami che uniscono i Soviet con il ‘popolo’ [...]”. In questo senso, “il carattere socialista della democrazia sovietica” sta nel fatto che “si crea una migliore organizzazione dell’avanguardia dei lavoratori, cioè del proletariato della grande industria, organizzazione che gli permette di assumere la direzione della più larghe masse di sfruttati, di farle partecipare a una vita politica indipendente, di educarle politicamente sulla base della loro stessa esperienza [...] in modo che realmente tutta la popolazione impari a governare”[4]. Questa è la concezione di Lenin e dei bolscevichi, ed è una concezione non solo di democrazia diretta, ma direi di democrazia integrale[5]. In questo senso egli vedeva il sindacato come “cinghia di trasmissione” fra il partito e i lavoratori, non nel senso banale che viene propagandato di un sindacato al servizio del partito, ma di un sindacato che recepisse e trasmettesse gli orientamenti delle masse, collaborasse alla pianificazione economica, organizzasse il controllo dei lavoratori sul partito e sullo Stato, e al tempo stesso fosse una “scuola di comunismo” e una “scuola di amministrazione dell’industria socialista”, formando e promovendo “alle cariche di amministratori gli operai e, in generale, le masse lavoratrici” [6]. Una funzione, quindi, importantissima.
Certo, i bolscevichi non erano degli utopisti. “Vogliamo costruire il socialismo – diceva Lenin – con gli uomini che sono stati educati dal capitalismo, guastati, corrotti dal capitalismo, ma che in compenso il capitalismo ha temprato alla lotta. [...] Per costruire il comunismo non abbiamo che il materiale creato dal capitalismo” [7]. Egli dunque sapeva che occorreva “utilizzare” i tecnici e “gli specialisti borghesi” e al tempo stesso “creare condizioni tali che la borghesia non possa esistere”; che anche avendo instaurato “un tipo superiore di Stato” si era solo “all’inizio del passaggio al socialismo, e sotto questo rapporto l’essenziale non [era] ancora stato realizzato”; e soprattutto che questo processo avrebbe occupato “un’intera epoca storica” [8]. Ma il punto è anche un altro. Quando leggiamo Lenin che parla di “una rete di comuni di produzione e di consumo” che registrino produzione e consumo, elevino la produttività e riducano la giornata lavorativa, non possiamo non pensare quanto ciò sarebbe più facile oggi, con lo sviluppo attuale delle forze produttive e delle tecnologie informatiche: sviluppi che consentono la produzione just in time, che hanno portato la flessibilità e la precarietà del lavoro ma potrebbero favorire la sua liberazione; tecnologie che consentono ai grandi gruppi privati di pianificare la produzione, essendo informati in tempo reale – è il caso della Benetton, dotata di una rete di computer che collega tutti i punti vendita alla casa madre – su quanti e quali prodotti vengono venduti. Strumenti, questi, che renderebbero ben più facile oggi conciliare la pianificazione economica con l’andamento della domanda.
Ancora una volta, a Lenin la cosa era chiara: “Schiacciare il capitalismo non basta. – scriveva – Bisogna prendere tutta la cultura lasciata dal capitalismo e con essa costruire il socialismo. Bisogna prendere tutta la scienza, la tecnica, tutto il sapere, l’arte. Senza questo non possiamo edificare la vita della società comunista” [9]. Il contrario, dunque, di quelle idee di “azzeramento” che pure sono emerse in alcuni settori del movimento comunista novecentesco. Per Lenin, invece, come per Marx ed Engels, “il socialismo è inconcepibile senza la tecnica della grande industria capitalista, organizzata secondo l’ultima parola della scienza moderna” [10]. “La produttività del lavoro è in ultima analisi la cosa più importante [...] per la vittoria del nuovo ordine sociale” – dice enfatizzando “la grande iniziativa” dei “sabati comunisti” di lavoro volontario (un’iniziativa a cui partecipano 40.000 lavoratori nella sola Mosca [11]). “In confronto al capitalismo – aggiunge – il comunismo è la più elevata produttività del lavoro di operai volontari, coscienti e uniti, che si servono della tecnica più progredita”. Non è (solo) una questione quantitativa, dunque. “Il comunismo comincia là dove appare la preoccupazione disinteressata [...] dei semplici operai di aumentare la produttività del lavoro, di salvaguardare ogni pud di grano, di carbone, di ferro” a beneficio della “società nel suo complesso” [12].
È
uno sviluppo economico, politico e culturale insieme,
quindi, il
presupposto fondamentale per il successo della transizione.
Ed è uno sviluppo legato strettamente ai problemi della democrazia e
della partecipazione delle masse. “Combattere sino in fondo il
burocratismo – scrive infatti Lenin – [...] si può unicamente
se tutta
la popolazione partecipa alla gestione.
Nelle repubbliche borghesi [...] la
legge stessa lo impedisce.
[...] Noi abbiamo fatto sì che tutte queste pastoie non esistano più
da noi, ma [...] oltre alla legge, c’è anche il livello di cultura
[...]. Questo basso livello di cultura fa sì che i Soviet, i quali,
secondo il loro programma, sono gli organi del governo esercitato dai
lavoratori,
sono in realtà gli organi del governo per
i lavoratori,
esercitato dallo strato di avanguardia del proletariato, ma non dalle
masse lavoratrici. Dinanzi a noi si pone qui un compito che non può
essere assolto se non con un lungo lavoro di educazione” [13]. Il
carattere problematico di questi scritti di Lenin successivi
all’Ottobre è evidente: non una perfida volontà di sostituzione o
sopraffazione rischia di svuotare i soviet,
ma l’arretratezza stessa delle masse costituisce un problema
oggettivo per un loro effettivo esercizio del potere.
Intanto
le ipotesi di allargamento dell’ondata rivoluzionaria all’Europa
occidentale vanno svanendo, e si pone il problema di costruire
una società socialista nella “fortezza assediata” della Russia
sovietica.
Lenin sa che in vaste zone del Paese vigono
“rapporti precapitalistici”
e prevale la “piccola produzione”. Proprio per questo promuove
la Nuova
Politica Economica,
afferma che lo Stato proletario deve passare attraverso lo scambio
mercantile fra prodotti agricoli e industriali, la “ricostruzione
della piccola industria”, le “concessioni” a privati anche
stranieri, per poi andare
– attraverso la modernizzazione, l’elettrificazione e il
capitalismo di Stato – verso il socialismo [14]. La sua è una
riflessione autocritica sulle fughe in avanti del “comunismo di
guerra”, e in generale più consapevole della complessità della
transizione [15].
Trasportati
dall’ondata dell’entusiasmo – scrive – [...] ci proponevamo
[...] di organizzare, con ordini diretti dello Stato
proletario,
la produzione statale e la ripartizione statale dei prodotti su base
comunista in un paese di piccoli contadini. La vita ci ha rivelato il
nostro errore. Occorreva
una serie di fasi transitorie:
il capitalismo di Stato e il socialismo, per preparare –
con un lavoro di una lunga serie d’anni – il passaggio al
comunismo. Bisogna “costruire dapprima un solido ponte che [...]
attraverso il capitalismo di Stato, conduca verso il socialismo”
[16]. Il primo
obiettivo è
dunque quello di avviare
la modernizzazione del
Paese,
sapendo che dal socialismo la Russia è separata da un
abisso ma
pure che occorre “gettare un ponte” su questo abisso, ponendo le
basi dello sviluppo economico, culturale e politico, a partire dalla
creazione di un nuovo “apparato statale” e di partito che possa
dirigere questo processo [17]. Né ovviamente questo comporta un
diverso giudizio sulla Rivoluzione. A chi ripropone la tesi
menscevica secondo cui, mancando le condizioni per il socialismo, i
bolscevichi non avrebbero dovuto prendere il potere, Lenin replica:
“Per creare il socialismo, voi dite, occorre la civiltà.
Benissimo. Perché dunque da noi non avremmo potuto creare
innanzitutto quelle premesse
della civiltà che
sono la cacciata dei grandi proprietari fondiari e la cacciata dei
capitalisti russi per
poi cominciare
la marcia verso il socialismo?” [18]. E sull’importanza
del nuovo Stato sovietico nonostante
i suoi difetti, aggiunge: “per
la prima volta è stata scoperta una forma non borghese di Stato. Può
darsi che il nostro apparato sia scadente, ma si dice che anche la
prima macchina a vapore fosse scadente; non si sa neppure se
funzionasse o no... Ma l’importante è che ora abbiamo le macchine
a vapore. Per quanto scadente possa essere il nostro apparato
statale, esso è stato creato; è stata fatta la più grande
invenzione della storia, è stato creato un tipo di Stato
proletario”[19].
Accanto
alla costruzione di un apparato statale nuovo, Lenin individua le
altre priorità del potere sovietico, ossia l’industrializzazione e
il problema del rapporto
coi contadini.
Quest’ultimo è l’asse decisivo della rivoluzione russa. Scrive
Lenin: “Solo se, nella pratica, riusciremo a provare ai contadini i
vantaggi dei metodi sociali, collettivi, cooperativi [...] la classe
operaia [...] potrà realmente [...] esercitare la sua influenza in
modo reale e durevole” [20]. Lenin coglie nel
mondo rurale una stratificazione di classe per
cui distingue un proletariato
agricolo,
i contadini poveri, quelli medi e quelli ricchi, i cosiddetti kulaki.
Solo per sconfiggere la eventuale resistenza di questi ultimi ammette
l’uso di metodi coercitivi, mentre con gli altri va consolidata
l’alleanza evitando “modi da caporale”. “Dobbiamo dimostrare
– dice nel ’19 – che in un paese stremato dalla fame il primo
compito è quello di aiutare i contadini; ma si possono aiutare i
contadini solo dopo aver unito la loro attività, [...] perché i
contadini sono dispersi, isolati, abituati a vivere e a lavorare
ciascuno per conto suo”. Di qui la necessità della loro
organizzazione collettiva e di “un lungo lavoro educativo” [21].
E all’VIII Congresso del Partito aggiunge: “Non
ammettiamo nessuna violenza nei confronti dei contadini medi”;
persino dei contadini ricchi va evitata “l’espropriazione
totale”. In generale, nelle campagne “bisogna evitare tutto ciò
che potrebbe [...] incoraggiare gli eventuali abusi. [...] Agire
in questo campo con la violenza, significa rovinar tutto.
Qui occorre un lungo lavoro di educazione. Al contadino [...]
dobbiamo offrire esempi concreti per provargli che la ‘comune’ è
migliore di ogni altra cosa”, ed esse “devono essere organizzate
in modo da
conquistare la fiducia del contadino”,
incoraggiandone l’associazione e mirando a ottenerne “il consenso
volontario” a farvi parte. “Se potessimo domani dare centomila
trattrici [...] allora il contadino medio direbbe: ‘Io sono per la
comune’ (cioè per il comunismo). Ma per far questo, bisogna prima
vincere la borghesia internazionale, [...] oppure bisogna elevare a
nostra produttività in modo che possiamo fornirle noi stessi”
[22]. Il Congresso diede ascolto a Lenin, approvando una risoluzione
redatta da lui stesso in cui si diceva chiaramente: ‘Pur
incoraggiando le cooperative [...] le comuni agricole dei contadini
medi, i rappresentanti del potere sovietico non devono esercitare la
minima costrizione al momento della loro creazione’, e coloro che
lo fanno ‘devono essere severamente perseguiti’ [23].
Intanto
però l’intervento delle armate
straniere e
la guerra
civile avevano
provocato una gravissima
crisi dell’agricoltura e dell’industria.
“Nessuno può dire – scrive Carr – quanti milioni di persone
siano perite in seguito a violenza, fame, epidemie”; molti dei
migliori militanti furono falciati [24]. Sono morti causati
dal blocco
commerciale e
dalla guerra senza quartiere promossa dalle potenze
imperialistiche contro la Russia sovietica,
ma è probabile che oggi siano inseriti nella macabra contabilità
dei Libri
neri del comunismo!
In questa situazione Lenin vede la necessità urgente di “aumentare
le forze produttive dell’economia contadina”. E promovendo
la NEP,
individua uno dei punti cruciali proprio nella sostituzione del
prelevamento delle eccedenze agricole con un’imposta
in natura che
consenta ai contadini di vendere sul mercato il resto del prodotto.
“La giusta politica del proletariato [...] in un paese a piccola
economia contadina – dice – è lo scambio del grano coi prodotti
dell’industria, indispensabili ai contadini” stessi [25].
Dopo
la morte di Lenin, e contro le pressioni della sinistra interna, il
Partito bolscevico rimase fedele a questa impostazione. Lo sviluppo
dell’industria richiedeva un forte finanziamento da parte delle
campagne, ma si decise di procedere a ritmi non troppo elevati
proprio per non richiedere sforzi eccessivi ai contadini. Nel 1927-28
furono costruite le prime grandi fabbriche e stazioni statali di
trattori funzionali alla modernizzazione delle campagne, ma la
priorità era ancora dell’industria leggera. Al XV Congresso, che
pure lanciò ‘un’offensiva contro il kulak’, Molotov ribadì la
necessità di uno “sviluppo graduale di grandi fattorie
collettive”, escludendo scorciatoie e metodi coercitivi, e lo
stesso Stalin fu su questa linea. Nel 1929 si discusse della
possibilità di ammettere anche i kulaki nei kolchoz.
‘Né
terrore né dekulakizzazione –
titolava la “Pravda” – ma
un’offensiva socialista nella direzione della NEP’
[26].
Come
si vede, dunque, il problema del rapporto
coi contadini –
almeno fino a una certa fase – non venne affatto impostato in
termini coercitivi, ma di una loro conquista all’agricoltura
collettiva attraverso strumenti economici e politici. È chiaro,
peraltro, che la questione era strettamente collegata al secondo
elemento, quello dello sviluppo
industriale.
“L’unica vera base su cui potremmo consolidare le nostre risorse
per creare una società socialista – aveva scritto Lenin nel ’21
– è la grande industria. Senza [...] una grande industria
progredita non si può neppure parlare di socialismo [...] e ancor
meno [...] in un paese contadino” [27]. E l’anno dopo, aveva
ribadito: “Se non si riorganizzerà l’industria pesante, non
potremo costruire nessuna industria: e senza l’industria noi, come
paese indipendente, periremo” [28]. Secondo Carr, questo pericolo
tornò a essere avvertito in modo acuto nel ’27, a seguito della
sconfitta comunista in Cina e
alla rottura delle relazioni con la Gran
Bretagna.
Fu allora che si cominciò a puntare decisamente
sull’industrializzazione, e in particolare sull’industria
pesante,
ma questa scelta dipese anche dalla necessità di modernizzare
un’agricoltura che cresceva troppo lentamente e
nella quale andava riformandosi l’elemento mercantile e borghese.
“O l’industria nazionalizzata [...] riusciva a subordinare a sé
l’economia contadina e a integrarla in un sistema pianificato [...]
oppure la resistenza dei contadini si sarebbe rivelata invincibile”
nell’impedire la formazione di un’economia socialista. La crisi
dei raccolti, parte dei quali veniva nascosta per far lievitare i
prezzi ben al di sopra di quelli statali, fece il resto, avviando la
lotta senza quartiere a kulaki e
speculatori e la collettivizzazione accelerata dell’agricoltura, i
cui caratteri si radicalizzarono in corso d’opera [29].
Una
cosa simile accadde per l’industrializzazione. Avviata inizialmente
‘a passo di lumaca’ (per dirla con Bucharin), e privilegiando
l’industria dei beni di consumo, a seguito delle crisi agricole e
del crescente isolamento internazionale, essa subì una netta
accelerazione, che procedette assieme all’avvio della
pianificazione economica. Ha scritto Carr: “Il successo di questa
campagna”, che pure ebbe costi umani altissimi, ma che “in
trent’anni, partendo da una popolazione semianalfabeta di contadini
arretrati, portò l’URSS
al livello del secondo paese industriale del mondo [...]
è forse il più significativo di tutti i successi della rivoluzione
russa”, accompagnandosi all’aumento della durata media della
vita, al diffondersi dell’istruzione, alla costruzione di una rete
impressionante di servizi sociali. “Nel
giro di cinquant’anni, un popolo primitivo e arretrato è stato
messo in condizione di costruire con le proprie mani un nuovo tipo di
vita e una nuova civiltà. L’ampiezza, la grandiosità e la
velocità di questa avanzata [...] non hanno eguale”
[30]. Ma – come aggiunge Hill – sebbene questo lavoro sia stato
“prodigioso”, l’esperimento sovietico “fu ben più che
questo. Fu
un periodo di esperienze e di errori su scala gigantesca, di
tentativi di forme di organizzazione sociale mai provate fino
allora”,
il tutto “in condizioni
di eccezionale difficoltà,
con risorse materiali ed umane disperatamente inadeguate, contro
l’aperta ostilità di
quasi tutti gli altri governi del mondo civile” [31].
Certo,
oggi toni trionfalistici sarebbero fuori luogo: siamo reduci da una
sconfitta storica e un atteggiamento simile non ci servirebbe.
Bisogna però riconoscere alla Rivoluzione d’Ottobre e
all’esperienza sovietica la sua grandezza, i suoi eroismi, assieme
ai limiti oggettivi e agli errori soggettivi che pure non mancarono.
E se sul piano economico i successi sono di gran lunga superiori, sul
terreno politico i limiti che andarono emergendo furono pesanti. Nei
suoi ultimi scritti, Lenin li rileva con grande lucidità. In
particolare si sofferma sulle questioni della democrazia socialista,
dello Stato sovietico in formazione, e sulla necessità di evitare la
separazione rappresentanti/rappresentati tipici dei paesi borghesi.
Egli osserva preoccupato che l’apparato statale sovietico
“rappresenta al massimo grado una sopravvivenza di quello passato”,
e propone di riorganizzare il Commissariato
del popolo per l’Ispezione operaia e contadina,
che era un organismo finalizzato a evitare appunto quella
separazione. Lenin chiede di fondere il suo “nucleo fondamentale”
con la Commissione
Centrale di Controllo del Partito,
in modo da garantire che anche rispetto a quest’ultimo vi sia
un’azione di vigilanza, verifica e circolazione delle informazioni,
‘senza riguardo per chicchessia’ [32]. Esortando
a fare meno
ma meglio,
ribadisce l’obiettivo di “costruire un apparato veramente nuovo
che meriti veramente il nome di socialista”, sapendo che occorrerà
“dedicare a questo lavoro alcuni anni”, sconfiggendo resistenze e
inerzie. Tuttavia Lenin non dimentica il quadro internazionale in cui
avviene l’esperimento sovietico, per il quale è sempre più duro
resistere “fino alla vittoria della rivoluzione socialista nei
paesi più progrediti”. Perciò pone gli obiettivi primari di
“conservare il nostro potere operaio”, migliorare l’apparato,
elettrificare il Paese.
Le
potenze capitalistiche dell’Europa occidentale – scrive – [...]
hanno fatto tutto il possibile per respingerci indietro, per
utilizzare gli elementi di guerra civile in Russia al fine di
rovinare il più possibile il nostro paese [...]. Non rovesciarono il
nuovo regime creato dalla rivoluzione, ma non gli permisero di fare
subito un passo in avanti tale da [...] permettergli di sviluppare
con grandissima rapidità le forze produttive, di sviluppare tutte
quelle possibilità, che [...] avrebbero dato il socialismo, di
dimostrare a tutti [...] che il socialismo racchiude in sé forze
gigantesche e che l’umanità è ora passata ad una nuova fase di
sviluppo, che racchiude in sé possibilità magnifiche [33]. Certo,
la storia non si fa coi “se”, ma lo stesso storico Hill osserva:
“Se le cose fossero andate diversamente nel 1919, se le risorse
industriali e il progresso tecnico dell’Europa centrale fossero
stati a disposizione di un’unione di repubbliche sovietiche, quante
sofferenze umane e quanti sforzi sarebbero stati evitati, alla Russia
nel 1920 e al mondo intero dopo l’avvento di Hitler” [34]. Quanto
meno difficile – aggiungerei – sarebbe stato il tentativo di
transizione al socialismo!
In
ogni caso a Lenin erano ben chiari quelli che sarebbero stati
i principali
problemi della Russia sovietica:arretratezza, difficoltà di
realizzare il socialismo in un paese a maggioranza contadina, gravi
difetti dell’apparato statale e di partito, pericolo di formazione
di un ceto burocratico separato, accerchiamento capitalistico.
E a questi problemi tentò di fornire degli abbozzi di soluzione
tuttora di grande interesse: l’intensificazione del controllo
popolare sugli apparati, sul piano politico; e l’accentuazione dei
momenti del consenso e
dello scambio economico
nel rapporto coi contadini, prevedendo la superiorità e la
prevalenza della proprietà statale dei grandi mezzi di produzione,
ma anche una rete di cooperative legate allo Stato, che consentisse
un’adesione convinta dei contadini alla costruzione dell’economia
socialista. In generale, negli ultimi scritti, Lenin accentua
ulteriormente il momento dell’egemonia rispetto
a quello della forza:
un’egemonia che – diversamente da Gramsci – egli pensa possa
realizzarsi soprattutto dopo la
presa del potere, col vantaggio di avere tutto l’apparato statale e
gran parte dell’apparato produttivo nelle mani del proletariato e
del suo partito. Tuttavia, se alcuni problemi sollevati da Lenin (in
particolare quelli di tipo economico) saranno affrontati e in buona
parte risolti dal gruppo dirigente staliniano, molti altri (quelli,
ad esempio, relativi al sistema politico) rimarranno insoluti e
spesso si aggraveranno, con tutte le deviazioni dalla “legalità
socialista” e le “deformazioni” del sistema sovietico su cui
Togliatti si soffermerà nel 1956 [35]. Le stesse contingenze
storiche indussero
infatti, da un lato ad accantonare le proposte di Lenin, dall’altro
ad accelerare statalizzazione delle forze produttive e accentramento
politico, in un processo drammatico eppure ricco di successi sul
piano economico: l’obiettivo della modernizzazione della Russia
sovietica venne in buona parte raggiunto, ma rimanevano aperti
problemi rilevanti relativi al modello di socialismo in costruzione.
Oggi
quella esperienza si è chiusa, ma i suoi effetti – come quelli
della Rivoluzione francese – rimangono come dati
permanenti dello
sviluppo storico:
il movimento di liberazione
dei popoli e
il processo di decolonizzazione,
le altre rivoluzioni
del ’900,
l’affermarsi di nuovi
diritti sociali,
lo sviluppo di una vasta area del mondo, ma soprattutto
la dimostrazione
pratica che un altro sistema economico,
un’altra organizzazione della società sono
davvero possibili;
che pianificare l’economia si può, anche se è molto difficile;
che socializzare la produzione si può, anche se bisogna trovare le
forme più adeguate a far sì che la socializzazione sia effettiva;
che più evolute modalità di partecipazione alla cosa pubblica sono
possibili, anche se non irreversibili; che nuovi rapporti tra gli
uomini – rapporti di cooperazione costruttiva, anziché di quella
competizione individualistica che sta portando il Pianeta alla
catastrofe – sono possibili.
Certo,
rimane anche il retaggio degli errori e delle deviazioni. Ma
soprattutto, alla luce dell’esperienza, acquista maggiore pregnanza
l’idea di Marx, Engels e Lenin che la
transizione al socialismo è un processo storico, lungo,
complesso e tortuoso;
che le accelerazioni possono rispondere ad alcune emergenze ed essere
necessarie in alcuni momenti, ma non possono surrogare gli elementi
strutturali, il loro sviluppo, la loro maturità. Questi
elementi oggettivi, paradossalmente, oggi sono molto più maturi di
ieri.
Le carenze maggiori riguardano invece il piano soggettivo, quello
dell’elaborazione teorica e della proposta politica. Bisogna perciò
ricominciare a studiare, contribuire alla ricostruzione storica ma
anche a una nuova critica dell’economia politica, tornare a fare un
lavoro di formazione, tornare a impegnarsi nella “battaglia delle
idee”.
Note
1.
V. I. Lenin, Come
organizzare l’emulazione? [gennaio
1918], in Id., Opere
scelte,
Roma, Editori Riuniti, 1965, pp. 1028-1033.
2. V. I. Lenin, Rapporto sulla guerra e sulla pace al VII Congresso del PC(b)R [marzo 1918], ivi, p. 1064.
3. V. I. Lenin, I compiti immediati del potere sovietico [aprile 1918], ivi, pp. 1089, 1101.
4. Ivi, pp. 1116-1118.
5. Sull’idea di comunismo come “espansione della democrazia nella totalità della vita sociale”, cfr. J. Texier, “Stato e Rivoluzione” di Lenin e la faccia nascosta del pensiero politico marx-engelsiano, in Lenin e il Novecento, a cura di R. Giacomini e D. Losurdo, Napoli, La Città del Sole, 1997, p. 379 e passim.
6. C. Hill, Lenin e la rivoluzione russa, Torino, Einaudi, 1979, p. 148; V. I. Lenin, La funzione e i compiti dei sindacati nelle condizioni della Nuova politica economica [gennaio 1922], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1682-1685.
7. V.I. Lenin, Successi e difficoltà del potere sovietico [marzo 1919], ivi, pp. 1228-1231.
8. Lenin, I compiti immediati del potere sovietico, cit., pp. 1092-1095, 1127.
9. Ivi, p. 1229.
10. V. I. Lenin, L’infantilismo “di sinistra” e la mentalità piccolo-borghese [maggio 1918], ivi, p. 1540.
11. Hill, op. cit., p. 157.
12. V. I. Lenin, La grande iniziativa [luglio 1919], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1304-1305.
13. Lenin, Rapporto sul programma del partito presentato all’VIII Congresso..., cit., pp. 1260-1261.
14. V. I. Lenin, Sull’imposta in natura [maggio 1921], in Id., Opere scelte, cit. pp. 1549-1561. Per Lenin occorre “incanalare lo sviluppo inevitabile (fino a un certo punto e per un certo periodo) del capitalismo nell’alveo del capitalismo di Stato”, in modo da assicurare “in un futuro non lontano la trasformazione del capitalismo di Stato in socialismo”.
15. Su questo tema, cfr. A. Catone, Lenin e la transizione dal capitalismo al socialismo, in Lenin e il Novecento, cit., pp. 177-214.
16. V.I. Lenin, Per il quarto anniversario della rivoluzione d’Ottobre [ottobre 1921], in Id., Opere scelte, cit., p. 1629.
17. I. Getzler, Ottobre 1917: il dibattito marxista sulla rivoluzione in Russia, in Storia del marxismo, cit., vol. 3*, pp. 46-47.
18. V.I. Lenin, Sulla nostra rivoluzione. A proposito delle note di N. Sukhanov [gennaio 1923], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1807-1808 (corsivi miei).
19. Cfr. Hill, op. cit., p. 158.
20. Ivi, pp.76-77.
21. Lenin, Successi e difficoltà del potere sovietico, cit., pp. 1234-1235.
22. V. I. Lenin, Rapporto sul lavoro nella campagna all’VIII Congresso del Partito comunista (bolscevico) di Russia [marzo 1919], ivi, pp. 1271-1278.
23. E.H. Carr, 1917. Illusioni e realtà della rivoluzione russa, Torino, Einaudi, 1970, p. 116.
24. Ivi, pp. 140-141. Nel 1921 i prodotti forniti dall’agricoltura erano meno della metà rispetto a prima della guerra; l’industria pesante era ridotta al 13% di quella pre-bellica; quella leggera al 44%.
25. Lenin, Sull’imposta in natura, cit., pp. 1546-1547.
26. Carr, 1917..., cit., pp. 117-119, 126.
27. V. I. Lenin, Operai e contadini [maggio 1921], in Id., Opere scelte, cit., p. 1574.
28. V. I. Lenin, Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale [novembre 1922], ivi, p. 1752.
29. Carr, 1917..., cit., pp. 119-131.
30. Ivi, pp. 142-146, 18-19, 201.
31. Hill, op. cit., pp. 129-130.
32. V.I. Lenin, Come riorganizzare l’Ispezione operaia e contadina [gennaio 1923], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1809-1813.
33. V.I. Lenin, Meglio meno, ma meglio [marzo 1923], ivi, pp. 1815-1827.
34. Hill, op. cit., pp. 121.
35. P. Togliatti, Intervista a “Nuovi Argomenti”, maggio-giugno 1956, in Id., Il 1956 e la via italiana al socialismo, a cura di A. Höbel, Roma, Editori Riuniti, 2016.
2. V. I. Lenin, Rapporto sulla guerra e sulla pace al VII Congresso del PC(b)R [marzo 1918], ivi, p. 1064.
3. V. I. Lenin, I compiti immediati del potere sovietico [aprile 1918], ivi, pp. 1089, 1101.
4. Ivi, pp. 1116-1118.
5. Sull’idea di comunismo come “espansione della democrazia nella totalità della vita sociale”, cfr. J. Texier, “Stato e Rivoluzione” di Lenin e la faccia nascosta del pensiero politico marx-engelsiano, in Lenin e il Novecento, a cura di R. Giacomini e D. Losurdo, Napoli, La Città del Sole, 1997, p. 379 e passim.
6. C. Hill, Lenin e la rivoluzione russa, Torino, Einaudi, 1979, p. 148; V. I. Lenin, La funzione e i compiti dei sindacati nelle condizioni della Nuova politica economica [gennaio 1922], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1682-1685.
7. V.I. Lenin, Successi e difficoltà del potere sovietico [marzo 1919], ivi, pp. 1228-1231.
8. Lenin, I compiti immediati del potere sovietico, cit., pp. 1092-1095, 1127.
9. Ivi, p. 1229.
10. V. I. Lenin, L’infantilismo “di sinistra” e la mentalità piccolo-borghese [maggio 1918], ivi, p. 1540.
11. Hill, op. cit., p. 157.
12. V. I. Lenin, La grande iniziativa [luglio 1919], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1304-1305.
13. Lenin, Rapporto sul programma del partito presentato all’VIII Congresso..., cit., pp. 1260-1261.
14. V. I. Lenin, Sull’imposta in natura [maggio 1921], in Id., Opere scelte, cit. pp. 1549-1561. Per Lenin occorre “incanalare lo sviluppo inevitabile (fino a un certo punto e per un certo periodo) del capitalismo nell’alveo del capitalismo di Stato”, in modo da assicurare “in un futuro non lontano la trasformazione del capitalismo di Stato in socialismo”.
15. Su questo tema, cfr. A. Catone, Lenin e la transizione dal capitalismo al socialismo, in Lenin e il Novecento, cit., pp. 177-214.
16. V.I. Lenin, Per il quarto anniversario della rivoluzione d’Ottobre [ottobre 1921], in Id., Opere scelte, cit., p. 1629.
17. I. Getzler, Ottobre 1917: il dibattito marxista sulla rivoluzione in Russia, in Storia del marxismo, cit., vol. 3*, pp. 46-47.
18. V.I. Lenin, Sulla nostra rivoluzione. A proposito delle note di N. Sukhanov [gennaio 1923], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1807-1808 (corsivi miei).
19. Cfr. Hill, op. cit., p. 158.
20. Ivi, pp.76-77.
21. Lenin, Successi e difficoltà del potere sovietico, cit., pp. 1234-1235.
22. V. I. Lenin, Rapporto sul lavoro nella campagna all’VIII Congresso del Partito comunista (bolscevico) di Russia [marzo 1919], ivi, pp. 1271-1278.
23. E.H. Carr, 1917. Illusioni e realtà della rivoluzione russa, Torino, Einaudi, 1970, p. 116.
24. Ivi, pp. 140-141. Nel 1921 i prodotti forniti dall’agricoltura erano meno della metà rispetto a prima della guerra; l’industria pesante era ridotta al 13% di quella pre-bellica; quella leggera al 44%.
25. Lenin, Sull’imposta in natura, cit., pp. 1546-1547.
26. Carr, 1917..., cit., pp. 117-119, 126.
27. V. I. Lenin, Operai e contadini [maggio 1921], in Id., Opere scelte, cit., p. 1574.
28. V. I. Lenin, Cinque anni di rivoluzione russa e le prospettive della rivoluzione mondiale [novembre 1922], ivi, p. 1752.
29. Carr, 1917..., cit., pp. 119-131.
30. Ivi, pp. 142-146, 18-19, 201.
31. Hill, op. cit., pp. 129-130.
32. V.I. Lenin, Come riorganizzare l’Ispezione operaia e contadina [gennaio 1923], in Id., Opere scelte, cit., pp. 1809-1813.
33. V.I. Lenin, Meglio meno, ma meglio [marzo 1923], ivi, pp. 1815-1827.
34. Hill, op. cit., pp. 121.
35. P. Togliatti, Intervista a “Nuovi Argomenti”, maggio-giugno 1956, in Id., Il 1956 e la via italiana al socialismo, a cura di A. Höbel, Roma, Editori Riuniti, 2016.
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