**Martin Empson è autore del volume Land and labour (Bookmarks, 2014).
Questo
rapporto strumentale col mondo naturale contrasta bruscamente con le
modalità attraverso le quali la natura è stata considerata, ed
usata, dalle precedenti società umane. Un’interazione inedita con
la natura emersa dalle violente trasformazioni sociali che hanno
accompagnato lo sviluppo del capitalismo in Europa occidentale,
estendendosi con la diffusione di tale sistema al resto dl mondo.
Marx ha catalogato le molteplici forme di saccheggio e distruzione
perpetuate dal primo capitalismo, nel suo rifare il mondo a propria
immagine: “La scoperta delle terre aurifere e argentifere in
America, lo sterminio e la riduzione in schiavitù della popolazione
aborigena, seppellita nelle miniere, l’incipiente conquista e
saccheggio delle Indie Orientali, la trasformazione dell’Africa in
una riserva di caccia commerciale delle pelli nere, sono i segni che
contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione
capitalistica. Questi procedimenti idillici sono momenti
fondamentali dell’accumulazione originaria“.
(3) Il capitale, conclude egli in un celebre passo, fa il suo
ingresso nel mondo “grondante sangue e sporcizia dalla testa ai
piedi, da ogni poro”, nel momento in cui la natura stessa viene
subordinata alle esigenze del sistema. (4)
In
tutte le società storiche, gli esseri umani hanno avuto una qualche
forma di interazione metabolica con la natura. Quest’ultima è
sempre stata trasformata, tramite il lavoro, al fine di soddisfare le
nostre necessità – in effetti, per ricorrere alle parole di Marx,
l’essenza del lavoro è “appropriazione degli elementi naturali
pei bisogni umani”:
In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico tra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità , braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita. Operando mediante tale moto sulla natura fuori di sé e cambiandola, egli cambia allo stesso tempo la natura sua propria. (5)
Il
capitalismo ha costituito una rottura radicale col passato: per la
prima volta la produzione di beni fondamentali è stata guidata
dall’accumulazione di ricchezza fine a se stessa, e non
primariamente dalla soddisfazione dei bisogni umani. Tale sistema di
generalizzata produzione delle merci ha cambiati anche noi stessi.
Noi ci ritroviamo ad essere alienati dal mondo naturale, poiché i
prodotti del nostro lavoro non sono più sotto il nostro controllo.
La stessa nostra percezione della natura è modellata da un sistema
economica che tratta “l’ambiente” come una raccolta di merci da
sfruttare per il profitto.
Una
simile enfasi storica circa la nostra mutevole relazione col mondo
naturale non è rimasta confinata al marxismo, o anche alla sola
sinistra. Il grande storico whig George Macaulay Trevelyan era
convinto che, tra le altre cose, la storia sociale avrebbe dovuto
occuparsi “dell’atteggiamento dell’uomo riguardo alla natura”.
(6) L’incontro coloniale tra gli europei e le popolazioni indigene
delle Americhe offre una vivida – e sanguinosa – illustrazione di
tale volubile attitudine. Queste interazioni erano, nel complesso,
enormemente distruttive per i popoli e l’ecologia delle Americhe. A
milioni morirono a causa di malattie o della conquista militare,
intere comunità e civilizzazioni furono distrutte e in migliaia
vennero ridotti in schiavitù. A dispetto della visione, condivisa da
alcuni migranti europei, di una terra libera dalle gerarchie e dallo
sfruttamento, il cosiddetto Nuovo mondo è caduto rapidamente sotto
il dominio dei rapporti sociali capitalistici. (7) Un cambiamento
analogo si è verificato nelle modalità che hanno caratterizzato
l’approccio alla terra e l’utilizzo delle sue risorse.
Nel
suo classico Myths
of Male Dominance,
l’antropologa Eleanor Burke Leacock ha studiato le mutevoli
strutture sociali della popolazione Montagnais-Naskapi, stanziata in
Canada, dopo l’arrivo dei commercianti francesi di pellicce nel
XVII secolo. I Montagnais erano erano caratterizzati da una società
egalitaria e matrilocale di cacciatori-raccoglitori, i cui rapporti
sociali erano governati all’insegna di “generosità, cooperazione
e pazienza… coloro che non contribuivano con la loro parte non
godevano del rispetto altrui, era inoltre considerato
estremamente insultante definire qualcuno avaro”. Malgrado gli
sconvolgimenti subiti dai Montagnais, la Leacock è riuscita a
rintracciare le vestigia di un’organizzazione sociale assai
differente durante il suo lavoro sul campo nel XX secolo:
Per quanto mi era dato comprendere, il processo decisionale riguardo tali importanti questioni costituiva un qualcosa di ben più sottile – di fatto un enigma per lo studioso sul campo ferrato sulle gerarchie competitive – nel quale si riscontrava quanto ciascun individuo si preoccupasse di non impegnarsi, finché non vi fosse stata la certezza di un accordo comune. Ero costantemente colpita dal… continuo sforzo… per agire insieme all’unanimità… in direzione della maggiore soddisfazione individuale possibile in assenza di conflitti di interesse diretti. (8)
I
missionari gesuiti che accompagnavano i commercianti francesi di
pellicce erano inorriditi dai modi di vita dei Montagnais, pertanto
cercarono di “civilizzare” la tribù. Nel giro di un decennio, il
vecchio ordine iniziò a frantumarsi, nel momento in cui la base
economica della società montagnais veniva trasformata. Il mercato
europeo delle pellicce era enorme, e al fine di andare incontro alla
sua insaziabile domanda, i mercanti offrivano ai Montagnais e ad
altre popolazioni indigene prodotti europei in cambio di decine di
migliaia di pelli. Le comunità formatesi attorno alle stazioni di
commercio, di conseguenza, divenivano sempre più dipendenti dagli
utensili, dalle armi, dagli indumenti e dal cibo francesi. Soddisfare
gli ordini francesi di pellicce significava per i Montagnais cessare
di essere cacciatori che spendevano gran parte dell’anno a coprire
enormi distanze, trasformandosi dunque in trapper sedentari.
All’esperienza collettiva e collaborativa della caccia se ne
sostituiva una di tipo molto più individualistico, nella quale i
singoli gestivano le trappole e riscuotevano la ricompensa. Prima
dell’arrivo degli europei, i Montagnais non avevano una nozione di
proprietà privata; ora invece la terra era suddivisa in lotti la cui
proprietà era individuale. Anche i rapporti sociali erano mutati: su
pressione dei gesuiti, il modello patriarcale ed europeo di famiglia
divenne dominante, per cui le donne si ritrovarono escluse dal loro
ruolo di produttrici, laddove gli uomini assolvevano il compito
primario della caccia.
Cambiamenti
simili occorrevano dovunque giungevano i mercanti europei, come
sottolineato da John F. Richards nel suo studio sulla mercificazione
degli animali. Ad esempio, “laddove i Creek si adattavano
rapidamente e con successo agli incentivi del mercato delle pelli di
cervo, essi… si trovavano tuttavia di fronte ad una contraddizione
basilare. Forze di natura economica e politica rendevano ogni anno
imperativa la consegna del quantitativo massimo di pelli. Essi
divenivano quindi cacciatori commerciali legati al mercato mondiale,
ricorrendo ai moschetti al fine di procurarsi avidamente quanti più
cervi ed orsi possibile”. (9)
È
importante non idealizzare la vita condotta delle popolazioni
indigene prima dell’arrivo degli europei, evitando di incappare nel
vecchio mito del “buon selvaggio” in perfetta armonia con la
natura. Come nota Richards, ci sono evidenze che nell’epoca
precedente il contatto, i nativi americani di fronte ad un’abbondanza
di prede non avrebbero esitato ad uccidere un numero superiore di
animali di quanto dettato dalla necessità, e ciò al fine di
garantirsi una maggiore scelta di cibo.
Ma
ciò appare difficilmente comparabile con la scala del massacro di
animali frutto della richiesta di pelli e pellicce da parte degli
europei. Come afferma Richards: “una volta che gli indiani subivano
lo stimolo delle richieste del mercato, qualsiasi remora avuta in
precedenza veniva meno rapidamente. Il perseguimento delle ricompense
materiali offerte dai commercianti di pellicce costringeva gli
indiani a cacciare le specie più ricercate in modo costante, a
dispetto del loro numero decrescente… Essi divenivano cacciatori
commerciali intrappolati in un mercato che consumava tutto”. (10)
Persino
le descrizioni meravigliate del Nuovo Mondo da parte degli europei
spesso suonano come dei cataloghi di merci naturali. Così
l’esploratore Martin Pring, nel suo resoconto del 1603 sull’isola
in seguito nota come Martha’s Vineyard, sembrava intento a
compilare una sorta di lista della spesa a proposito di alberi.
Secoli di deforestazione avevano reso il legname europeo costoso,
motivo per cui Pring riconosceva la potenziale ricchezza dell’isola:
Per quanto concerne gli alberi, il paese annovera i sassofrassi, pianta dalle virtù supreme per la cura del mal francese, e come alcuni hanno ben scritto in seguito, contro la peste e altri morbi; vi sono, inoltre, viti, cedri, querce, faggi, betulle e ciliegi dei cui frutti abbiamo mangiato; e ancora noccioli e amamelidi, il miglior legno fra tutti per fare sapone dalle ceneri; alberi di noce, aceri, pianta benedetta per trarne pania ed un genere di albero dai frutti simili ad una piccola prugna rossa. (11)
Le
lettere di altri visitatori delle Americhe includevano analoghi
inventari delle risorse naturali. L’esploratore James Rosier
descriveva la vegetazione costiera del Maine come “profitti e
frutti naturali di queste terre”. (12)
La
trasformazione dell’atteggiamento nei confronti della natura,
seguita all’arrivo degli europei nelle Americhe, rispecchiava
quella che aveva accompagnato l’ascesa del capitalismo in Europa.
Keith Thomas ha puntualizzato come in epoca Tudor e Stuart, “era
sentire comune e di lunga data che il mondo fosse stato creato per il
bene dell’uomo, e le altre specie dovevano essere considerate come
subordinate ai suoi desideri e necessità”. (13) A titolo di
esempio, Thomas cita un fantasioso poema degli inizi del XVII secolo,
nel quale gli animali si avviano di spontanea volontà al massacro al
fine di soddisfare il consumo umano:
Il
fagiano, la pernice e l’allodola,
Volano alla tua
casa, come già all’Arca.
Il bue volenteroso, da sé
si reca,
Con
l’agnello, al suo massacro;
Ed ogni bestia qui si porta
Quale offerta
La
separazione delle popolazioni dal suolo, una delle “fonti della
ricchezza”, era protratta e brutale. I produttori rurali si
trasformavano in lavoratori salariati. In molti si ritrovavano
espulsi dalle loro terre, per andare a popolare centri urbani sempre
più grandi; altri erano costretti ad emigrare, spesso verso le
frontiere del capitalismo, nel Nuovo Mondo. Coloro che restavano
perdevano il proprio ruolo tradizionale in ambito rurale, divenendo
salariati, come riconosciuto da Marx:
Il produttore immediato, l’operaio, ha potuto disporre della sua persona soltanto dopo aver cessato di essere legato alla gleba e di essere servo di un’altra persona… il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati si presenta, da un lato, come loro liberazione dalla servitù… Ma dall’altro lato questi neoaffrancati diventano venditori di se stessi soltanto dopo essere stati spogliati di tutti i loro mezzi di produzione e di tutte le garanzie per la loro esistenza offerte dalle antiche istituzioni feudali. (14)
Questa
nuova preminenza della proprietà privata esigeva applicazione, e in
Inghilterra, il Parlamento aveva emanato centinaia di nuove leggi
allo scopo di incoraggiare ulteriori enclosure e
limiti all’uso comune dei terreni. Una simile legislazione era
necessaria poiché, come ha notato Edward P. Thompson, “nel 1700
,le leggi del Parlamento non rappresentavano un sistema di protezione
della proprietà che prevedesse un uso generalizzato della pena di
morte”. (15) Thompson fa esplicito riferimento al celebre Black Act
del 1723, sulla base del quale “Cacciare, ferire o rubare cervi o
daini, cacciare lepri e conigli selvatici, pescar di frodo,
rappresentavano il più importante gruppo di reati”. La legge
prevedeva la pena capitale per coloro ritenuti colpevoli di
bracconaggio. (16)
Come
sostenuto dal grande sindacalista agricolo Joseph Arch, il Black Act
insieme ad altre leggi anti-bracconaggio andavano ben oltre la
protezione della proprietà privata, alterando le modalità di
utilizzo delle risorse naturali del paese:
Noi lavoratori non crediamo che lepri e conigli appartengano ad un qualsivoglia individuo, non più dei tordi e dei merli… Vedere lepri e conigli che attraversano il suo cammino rappresenta una grande tentazione per un uomo con una famiglia da nutrire… quindi egli può uccidere una lepre o un coniglio che passano, perché il suo salario è inadeguato alle sue esigenze, o per terribile necessità, o semplicemente perché gli piace lo stufato di lepre come a tanti altri. (17)
Il
Black Act rientrava nel disegno finalizzato a “rendere il mondo più
sicuro per mercanti e proprietari terrieri inglesi, così da
consentire loro di accrescere la propria ricchezza e dunque
contribuire al nuovo potere dello stato inglese”. (18)
Come
nelle Americhe – sebbene con molto meno spargimento di sangue –
tali cambiamenti trasformavano l’attitudine sociale nei confronti
della natura. Herny Best era un piccolo proprietario inglese, il
quale aveva visto triplicare il valore delle sue terre tramite un
processo di enclosure alla metà del Seicento. Autore di svariate
opere circa i metodi per rendere più redditizia l’agricoltura,
Best aveva sviluppato un suo sistema finalizzato a vendere il
bestiame a prezzi ottimali. Tutto ciò lo rendeva “intollerante”
alle rimanenti tradizioni comunitarie dei suoi compaesani, portandolo
a rifiutarsi di contribuire alla scorta di fieno per l’inverno
poiché “il nostro fieno sarebbe stato usato per nutrire il
bestiame di altri”. Best lavorava duramente per assicurarsi che gli
animali di altri allevatori non sconfinassero nella sua terra,
prestando sorveglianza persino nel mezzo della notte. Isolandosi
deliberatamente dai suoi vicini, Best rappresentava un caso precoce
di piccolo proprietario terriero capitalista, guidato dal desiderio
di massimizzare i profitti a scapito della collettività. (19)
La
parcellizzazione della terra, in effetti, creava la proprietà
privata laddove prima non vi era mai stata; inoltre, le inedite
restrizioni sull’accesso alle risorse naturali da parte della
popolazione rurale erano parte fondante del nuovo ordine capitalista,
gestito e protetto dallo stato. Come ha scritto lo storico George
Yerby, “la terra veniva definita precisamente, fissata ad una
distanza concettuale, catturata sulla carta e stimata nella teoria,
anziché semplicemente lavorata in un continuo, ininterrotto atto
fisico”. (20)
Light
Shining in Buckinghamshire,
un anonimo pamphlet fatto circolare dai Diggers
(Zappatori) nel
1648, lamentava amaramente il rapido diffondersi delle enclosure:
Ogni terra, albero, bestia; pesce, volatile ecc., sono rinchiusi in poche mani mercenarie; tutti gli altri, deprivati e resi schiavi di quest’ultime, se tagliano un albero per il fuoco vengono puniti, o se cacciano un uccello imprigionati, perché è un gioco per soli signori, sostengono; né possono mantenere il bestiame, o farsi una casa, tutti i terreni essendo recintati, senza lasciare permesso per nessun’altro, né possibilità di comprare, al di fuori del padrone, colui che ha recintato, il signore del maniero, o qualcun’altro sciagurato e crudele quanto lui.
Questi
mutamenti provocavano una vivace resistenza. I movimenti
anti-enclosure abbattevano le recinzioni e le siepi, mentre
scoppiavano rivolte contro le nuove leggi sula terra. Bande di
cacciatori di frodo affrontavano i guardiacaccia, le comunità si
battevano nei tribunali, nelle strade e nei campi al fine di
difendere i propri interessi comuni. In seguito, l’ascesa dei
sindacati agricoli avrebbe spostato la lotta dal terreno degli
scontri violenti a quello delle vertenze sui salari e l’orario di
lavoro, tuttavia, le rivolte e le proteste rimasero per decenni la
sola forma di indignazione di massa a fronte di ciò che subivano le
persone comuni e le loro terre.
Secondo
quanto scrive Thompson, “l’inefficienza e lo spreco di tempo”
rappresentavano “le motivazioni classiche contro i campi aperti e
le terre comuni”. Egli cita una cronaca del 1795, nella quale si
lamenta che il lavoratore rurale, “nell’andare dietro al suo
bestiame… acquisisce un abito di indolenza. Un quarto, mezza,
talora intere giornate vengono perdute senza accorgersene. Il lavoro
del giorno diventa ripugnante”. (21) Dal punto di vista di
Thompson, le enclosure e le migliorie in campo agricolo erano
“entrambi interessati, in qualche modo, a un’amministrazione
efficiente della forza-lavoro”. Nelle città il cuore
dell’industria urbana era “la disciplina del tempo”, e tramite
l’educazione venivano “plasmate le nuove abitudini di lavoro”.
(22 tr. ita. pp. 34 e 54-55)
Tale
forma di accumulazione originaria della ricchezza, per riprendere la
definizione di Marx, gettava le fondamenta del sistema capitalistico,
recidendo i tradizionali legami tra la popolazione e la terra,
concentrando i lavoratori nelle città. Questo processo di
urbanizzazione e proletarizzazione si accompagnava anche ad una nuova
forma di disciplina del tempo, oltreché ad un “esercito
industriale di riserva”, costituito da disoccupati, la cui funzione
era di inibire le lotte dei lavoratori contro i padroni.
Tutto
ciò conduceva in ultima analisi all’ascesa dei combustibili
fossili, i quali avrebbero dominato l’industria inglese nel XIX
secolo. Un processo, questo, né automatico né tanto meno immediato.
Ancora nel 1800, in Inghilterra, si contavano solo ottantaquattro
cotonifici alimentati a vapore, rispetto ai circa mille ancora
alimentati ad acqua. (23) John Robison, professore di filosofia e
amico di lunga data di James Watt, l’inventore della macchina a
vapore, a tal proposito lamentava: “l’acqua costituisce la forza
più comune, e invero la migliore, essendo la più costante ed
uniforme; laddove il vento talvolta giunge con grande violenza,
tal’altra è del tutto assente. Gli opifici possono anche esser
mossi dalla forza del vapore… ma il costo del combustibile
previene, non v’è dubbio, che una tale modo di costruire gli
stabilimenti divenga sempre più diffuso” (24)
Nonostante
ciò, le macchine a vapore venivano infine adottate, a dispetto degli
alti costi degli impianti e dl combustibile, nonché delle nuove
capacità ingegneristiche necessarie. Un a delle ragioni risiedeva
nel fatto che liberavano i proprietari delle fabbriche dai limiti
naturali dell’energia idrica; infatti, solo poche ruote idrauliche
potevano essere installate su di un fiume particolare, ed poche erano
le località adatte a disposizione. I combustibili fossili, economici
ed abbondanti, non presentavano simili vincoli.
Ma
la principale ragione per cui i combustibili fossili sono giunti a
dominare la produzione capitalistica consiste nel fatto che, come
argomenta Andreas Malm nel suo recente libro Fossil
Capital,
la forza del vapore garantiva “un biglietto per la città”. Il
vapore significava che l’industria poteva ora essere collocata
nelle aree urbane, dove lavoratori disciplinati a lavoro di fabbrica
potevano facilmente essere assunti (e licenziati). I proprietari
delle fabbriche non sarebbero più stati costretti a costruire case,
chiese e scuole in valli remote. Gli slum di Manchester, Birmingham e
Glasgow divenivano i siti principali degli stabilimenti industriali.
Nel 1883, sulle pagine della Edinburgh
Review,
J. R. McCulloch illustrava questi sviluppi: “Il lavoro compiuto
grazie all’aiuto del flusso dell’acqua è generalmente
altrettanto economico di quello svolto col vapore, talvolta molto più
economico. Tuttavia, l’invenzione della macchina a vapore ci ha
sollevati dall’incombenza di costruire fabbriche in situazioni
inconvenienti, in grazia meramente di una cascata. Ha consentito,
dunque, di collocarle nel mezzo di una popolazione addestrata a più
industriosi abiti”. (25) Ha scritto Marx, a proposito
dell’accumulazione capitalistica, “Questi metodi conquistarono
il campo all’agricoltura capitalistica, incorporarono la terra ala
capitale e crearono all’industria delle città la necessaria
fornitura di proletariato eslege” (26)
Che
il modo di produzione capitalistico abbia trasformato i rapporti
sociali umani è cosa universalmente nota, ma ha anche operato nel
senso di alterare il rapporto tra l’umanità e la natura. La
separazione tra città e campagna è cresciuta, e la concentrazione
della popolazione in nuove, e sempre più grandi, aree urbane ha
determinato l’adozione di nuove tecnologie e metodi di lavoro. I
combustibili fossili sono diventati la forma dominante di energia,
consentendo al capitale di sfruttare ulteriormente la forza-lavoro.
La crisi ecologica del XXI secolo non è mai stata un qualcosa di
inevitabile , ma è divenuta sempre più probabile con l’espansione
globale del capitalismo. La comprensione dei processi storici che
hanno dato origine all’antropocene sarà
un’arma vitale nella lotta per un mondo sostenibile e giusto.
Note
-
Questo articolo si basa su due colloqui, il primo tenutosi nel maggio 2014 al Birkbeck College, Università di Londra, il secondo nel novembre del 2016 alla Marx Memorial Library, a Londra, nel contesto della Raphael Samuel History Center’s History and Environment seminar series.
-
Karl Marx, Grundrisse (Torino, Einaudi, 1976), p. 377.
-
Karl Marx, Il capitale, Vol. I (Torino, Einaudi, 1975), p. 922.
-
Marx, Il capitale, Vol. I, p. 934.
-
Citato in John Bellamy Foster, Marx’s Ecology (New York, Monthly Review Press, 2000), p. 157; Marx, Il capitale, Vol. I, p. 215.
-
G. M. Trevelyan, English Social History (Londra, Pelican, 1982), p. 10.
-
Per un’ottima discussione di questo processo riguardo ad una relativamente piccola area del Nord America, si veda John Tully, Crooked Deals and Broken Treaties (New York, Monthly Review Press, 2016).
-
Richards, The World Hunt (Berkeley, CA, University of California Press), pp. 35–36.
-
Richards, The World Hunt, pp. 45–46.
-
William Cronon, Changes in the Land (New York, Hill and Wang, 1983), p. 21.
-
Cronon, Changes in the Land, pp. 20-21.
-
Keith Thomas, Man and the Natural World (New York, Pantheon, 1983), p. 17.
-
Marx, Il capitale, p. 881.
-
Edward P. Thompson, Whigs e cacciatori (Firenze, Ponte alle grazie, 1989), p. 27.
-
Thompson, Whigs e cacciatori, p. 28.
-
Citato in Horn, The Rural World 1780–1850 (Londra, Hutchinson, 1980), p. 181.
-
Christopher Hill, Liberty against the Law (Londra, Penguin, 1997), p. 9.
-
George Yerby, The English Revolution and the Roots of Environmental Change (New York, Routledge, 2016), p. 250.
-
Yerby, The English Revolution, p. 89.
-
Edward P. Thompson, Tempo e disciplina del lavoro (et al. / EDIZIONI, 2011), pp. 32-33.
-
Thompson, Tempo e disciplina del lavoro, p. 34 e pp. 54-55.
-
Andreas Malm, Fossil Capital (Londra, Verso, 2016), p. 56.
-
Malm, Fossil Capital, p. 56.
-
Citato in Malm, Fossil Capital, pp. 123-124.
-
Marx, Il capitale, Vol. I, p. 903.
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