lunedì 25 novembre 2019

PALESTINA. Economia e occupazione: dal Protocollo di Parigi ad oggi. - Francesca Merz

Da: http://nena-news.it -
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                      Chiarezza - Shlomo Sand 

 


 Nel 1994 l’Olp e Israele firmarono il “Protocollo di Parigi” che formalizzava le relazioni economiche per cinque anni tra Tel Aviv e la nascente Autorità Palestinese. L’intesa è però ancora operativa e sancisce di fatto il controllo totale israeliano dell’economia palestinese 



Roma, 18 novembre 2019, Nena News

Che ogni forma di controllo e repressione, e che ogni forma di colonialismo, aldilà della forza e della violenza, veda la sua espressione più fondamentale negli strumenti di controllo economico, è cosa quanto mai risaputa nonché banale. Questo principio vale ovviamente anche per l’occupazione israeliana della Palestina. Per capire con maggiore consapevolezza quelle che sono le strategie economiche sulla quale si basa questo rapporto tra colonizzati e colonizzatori, e soprattutto per non ricadere nel solito luogo comune secondo il quale gli israeliani sono riusciti a fare miracoli in una terra in cui invece i palestinesi non avevano fatto nulla, bisogna partire dalla morsa mortale del Protocollo di Parigi.

Nel 1994, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) e il governo di Israele firmarono il Protocollo di Parigi, che era collegato agli Accordi del Cairo e Oslo II. Tale protocollo stabiliva un “accordo contrattuale” volto a formalizzare le relazioni economiche, prima stabilite unilateralmente da Israele, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza per un periodo transitorio di 5 anni. Nonostante tale termine sia scaduto da molti anni, il protocollo continua tutt’ora a costituire la base delle relazioni economiche tra le due parti, ed è il quadro di riferimento principale per la condotta economica, monetaria e fiscale dell’Autorità Palestinese.

Il protocollo contiene 11 articoli: due fanno riferimento all’ambito di applicazione, al quadro generale e a un comitato economico congiunto; gli altri nove si riferiscono a commercio, tassazione, importazioni, attività bancarie, organizzazione del lavoro, nonché alle politiche relative ai settori agricolo, industriale e turistico. La scelta dell’unione doganale invece di una zona di libero scambio, come inizialmente chiesto dai palestinesi, non era dettata sostanzialmente dagli interessi economici di Israele, ma piuttosto dall’interesse politico a mantenere una “no-state solution”. Come fa notare Amal Ahmad, l’unione doganale non prevede la delimitazione delle frontiere, né la loro eliminazione, o integrazione. Ciò ha permesso a Israele di rimandare del tutto la questione dei confini, mantenendoli provvisoriamente mentre procede con la colonizzazione e l’isolamento dei Territori Occupati.

Un’analisi di fondamentale importanza sul valore economico dell’occupazione, è stata fatta da Neve Gordon, nel suo testo “L’occupazione israeliana”, Gordon ci aiuta a capire come questa situazione sia stata costruita a tavolino negli anni dagli occupanti israeliani. “Quando si confronta il primo decennio di occupazione con quelli successivi, la caratteristica che emerge come quasi del tutto unica è il tentativo israeliano di gestire la popolazione palestinese mediante la promozione della prosperità. Furono introdotte una serie di pratiche per incrementare l’utilità economica degli abitanti palestinesi, sia per imbrigliare le energie della società palestinese a vantaggio degli interessi economici di Israele, sia anche per elevare il tenore di vita nei Territori Occupati, per agevolare la normalizzazione dell’occupazione. Date tali premesse non sorprende affatto che già durante la guerra Israele fornisse dei servizi agli agricoltori palestinesi per salvare le colture e per impedire la morte del bestiame, anche al fine di monitorare e prevenire la diffusione di epidemie tra il bestiame, suo interesse diretto. Aumentò dunque la produttività degli allevatori palestinesi” .

“Israele – aggiunge Gordon – usò il Dipartimento di ricerca della Banca d’Israele e l’Ufficio centrale di statistica per tenere sotto costante osservazione la forza lavoro palestinese. Si trovano tabelle che descrivono l’età e il sesso degli operai, il numero dei lavoratori in base alla loro occupazione e al settore in cui lavoravano, il numero delle imprese locali, nonché la loro dimensione e ubicazione, il tutto per ridurre il tasso di disoccupazione che il governo militare considerava come causa potenziale di disordini sociali. Nel 1974 in Israele lavoravano 64.900 palestinesi, che costituivano un terzo della forza lavoro. I palestinesi che lavoravano in Israele guadagnavano dal 10 al 100% in più di quanto avrebbero guadagnato lavorando nei territori. Israele aveva già iniziato la sua operazione perfetta di demolizione di ogni possibilità di economia autonoma per la Palestina. Il paniere palestinese aumentava, così come la capacità di acquisto dei palestinesi che vivevano nei territori, facendo aumentare esponenzialmente la produttività in Israele, e lasciando, gioco forza, le terre incolte e tutte le attività nei Territori al totale abbandono, per ostacolare lo sviluppo di un’economia indipendente palestinese.”

Ben prima della firma del Protocollo di Parigi, la chiarezza del rapporto di colonialismo spinto che sottendeva alle relazioni tra israeliani e palestinesi è verificabile dall’infinita serie di ordinanze militari che venivano emanate dallo Stato occupante per regimentare l’economia palestinese eliminando ogni possibilità di autonomia, e trasformando anzi l’economia palestinese in un mercato totalmente vincolato dai produttori israeliani, togliendo ogni possibilità di produzione ai palestinesi. La strategia era quella della creazione invece dei consumatori necessariamente dipendenti dalla produzione israeliana, che gli stessi palestinesi erano costretti a produrre ma in territorio occupato, un vero e proprio sistema di schiavitù economica. Israele inoltre spingeva gli abitanti palestinesi a diventare operai non specializzati così da indirizzare l’utilità economica dei palestinesi in modo ben preciso. L’esercito introdusse molteplici norme e restrizioni espressamente mirate a modellare l’economia sotto occupazione secondo gli interessi israeliani.

Una delle prime azioni intraprese dopo la guerra del ‘67 fu la chiusura degli istituti finanziari e monetari arabi, tra i quali tutte le banche, e il conferimento dell’autorità su tutte le questioni monetarie alla Banca d’Israele. La valuta israeliana divenne la moneta legale e nelle due regioni furono applicati i controlli dei cambi israeliani. Come abbiamo già avuto modo di dire, Israele, nello stesso periodo in cui assumeva il controllo di tutte le istituzioni finanziarie e imponeva norme monetarie, aiutava i palestinesi a piantare migliaia di alberi da frutto, offriva ai coltivatori semi migliorati per gli ortaggi e addestrava gli agricoltori alle tecnologie moderne con corsi specifici, non abbiamo però accennato al fatto che cominciava anche a controllare i tipi di frutta e di ortaggi che si potevano piantare e diffondere e introduceva una serie di norme di pianificazione che stabilivano dove si potessero e soprattutto non si potessero piantare. Anche se le restrizioni alla semina sono comuni anche in altri paesi, gli obiettivi di quelle imposte nei Territori Occupati erano quelle di creare dipendenza dall’economia israeliana, minare lo sviluppo e l’indipendenza, e, come vedremo, agevolare la confisca di terre, grazie alla resurrezione di vecchie leggi addirittura dell’impero Ottomano.

Israele limitò la bonifica dei terreni finalizzata a renderli coltivabili, restrinse anche l’accesso della popolazione alla terra e all’acqua, espropriando, fino al 1987, non meno del 40% delle terre e impossessandosi delle principali risorse idriche. Nello stesso tempo rese illegale piantare nuovi alberi di agrumi, sostituire quelli vecchi improduttivi o piantare altri alberi da frutto senza permesso, per la cui approvazione occorrevano dai cinque ai sei anni. Molti generi di frutta e di ortaggi che gli agricoltori palestinesi erano autorizzati a coltivare non potevano essere venduti in Israele, misura tesa a proteggere i produttori israeliani. Per contro, gli agricoltori israeliani avevano accesso illimitato ai mercati dei Territori Occupati e riuscivano a fornire alcuni prodotti a prezzi con cui le controparti palestinesi non potevano competere, portando a una riduzione nella varietà dei prodotti agricoli coltivati nei Territori, e l’assurda situazione per cui i prezzi di alcuni generi erano più alti nei Territori Occupati che in Israele. La strategia nel settore industriale fu analoga a quella usata in agricoltura. Inizialmente Israele fornì un certo sostegno all’industria perché le autorità militari ritenevano che la disoccupazione potesse destabilizzare i Territori Occupati, furono dunque concessi inizialmente piccoli crediti alle fabbriche esistenti così che potessero svilupparsi e dotarsi di nuove attrezzature. L’assenza di istituti finanziari intermediari, di banche per lo sviluppo e di fonti di credito di vario tipo ostacolò lo sviluppo industriale, nello stesso tempo Israele introdusse una serie di restrizioni tese a contrastare lo sviluppo di un’industria ad alta densità di capitale. Gli aiuti governativi sotto forma di agevolazioni fiscali, sovvenzioni all’esportazione, credito agevolato e obbligazioni di sicurezza non furono estesi ai palestinesi.

Le ordinanze militari poi controllavano anche tutto il commercio estero, Israele inserì un complesso sistema di procedure di certificazione sulle merci che ebbero l’ulteriore risultato di separare commercialmente la Palestina anche dai paesi arabi confinanti. “Israele – osserva Gordon – impose inoltre delle limitazioni al tipo e alla quantità di materie prime che si potevano importare nei Territori Occupati. I palestinesi divennero ben presto dipendenti da Israele per l’elettricità, i carburanti, il gas e le comunicazioni. Lo stesso fu per i generi di prima necessità come la farina, il riso, lo zucchero. Israele richiedeva delle licenze per tutte le attività industriali e, eliminando nel frattempo ogni concorrenza palestinese, usò tali licenze per ristrutturare le industrie in base alle sue necessità. Così, mentre si concedevano licenze alle aziende tessili che fornivano dei servizi ai produttori israeliani le si negavano quelle per la produzione della frutta, poiché potevano essere potenziali concorrenti ai produttori israeliani. In altre parole, la creazione di imprese sussidiarie a forte tasso di manodopera e l’esternalizzazione del lavoro a forte tasso di manodopera nelle fabbriche palestinesi fu la fonte principale di investimento industriale israeliano all’interno dell’economia palestinese."

“Israele inoltre – continua Gordon – emanò numerose ordinanze riguardanti la registrazione delle società, i marchi d’impresa e i nomi commerciali; stabilì le condizioni di commercio, la tipologia e l’importo di tasse, dazi e imposte doganali da pagare; e impose una serie di tributi ai produttori palestinesi, i quali finirono col pagare fra il 35 e il 40 per cento in più di tasse rispetto ai produttori israeliani, va ricordato che un’ampia percentuale di quelle tasse non venne reinvestita nei Territori, ma trasferita direttamente nelle casse israeliane. Secondo alcune stime, queste politiche privarono i Territori Occupati di entrate doganali rilevanti, valutate tra circa 118 e 176 milioni di dollari nel solo 1986. Il mancato gettito complessivo nel periodo 1970-1987 oscillerebbe tra una stima minima di 6 miliardi di dollari e una massima di 11 miliardi di dollari, in teoria questi soldi avrebbero potuto essere investiti nella creazione di un’industria indipendente."

    Dal 1967 al 1993 Israele ha operato per trasformare i contadini e gli artigiani palestinesi in manodopera a basso costo. Dopo gli Accordi di Oslo la finta unione doganale tra Tel Aviv e Ramallah ha prodotto un annichilimento della capacità produttiva e di esportazione palestinese, separando ulteriormente Gaza e Cisgiordania 

Roma, 20 novembre 2019, Nena News

Israele ha ostacolato lo sviluppo di un’economia palestinese anche in diversi modi: la costruzione delle infrastrutture e il grande progresso magnificato dello Stato israeliano è avvenuta in gran parte su strutture ben precedenti alla stessa creazione dello Stato di Israele. Ma non solo.

In netto contrasto con il potere mandatario britannico – che aveva eseguito o permesso a soggetti privati di realizzare una serie di progetti di sviluppo, il porto marittimo di Haifa, l’aeroporto di Lydda (oggi Ben Gurion) e diverse linee ferroviarie, che svolsero un ruolo cruciale nella successiva crescita economica della Palestina, e poi di Israele – il regime militare instaurato da Israele come potenza colonizzatrice e occupante, non solo si astenne dall’investire i propri fondi nelle infrastrutture civili necessarie allo sviluppo economico nei Territori Occupati, ma impedì anche ad altri di farlo.

La decisione iniziale israeliana di consentire il libero passaggio delle frontiere a lavoratori non sindacalizzati, forza lavoro a basso costo e senza alcun diritto ma necessaria per la creazione dello Stato di Israele, e la costruzione delle sue case e infrastrutture, svolse una funzione di cui Israele era ben consapevole e che agevolò sotto le mentite spoglie di “aiuto alla popolazione palestinese e tentativo di convivenza” la totale erosione della capacità produttiva della Cisgiordania e della Striscia di Gaza.

La domanda israeliana di manodopera non qualificata non solo condizionò i singoli lavoratori, ma ebbe anche effetti nocivi a lungo termine sull’economia palestinese, poiché la diffusione di lavoro non qualificato contribuì a far stagnare le condizioni economiche di sottosviluppo nei Territori Occupati e ostacolò il processo di professionalizzazione.

Il numero crescente di palestinesi che entravano in Israele per trovare lavoro portò anche a un calo notevole del numero di lavoratori che restarono nei territori a coltivare la terra palestinese. Il fatto di non coltivare più terra fu aggravato dalle quote fisse di acqua, stabilite nei primi anni Settanta e non cambiate per più di dieci anni, e dal fatto che gli agricoltori palestinesi pagavano per l’acqua quattro volte di più degli agricoltori israeliani.

Neve Gordon nel suo testo L’occupazione israeliana sottolinea quelli che vengono definiti errori di Israele nel tentativo di normalizzazione dell’occupazione: nel corso degli anni Settanta Israele permise ai palestinesi di aprire diverse Università nel tentativo di normalizzare l’occupazione. In un periodo relativamente breve queste università produssero una classe professionale piuttosto numerosa composta da laureati.

Tuttavia, a causa di una serie di restrizioni e di vincoli imposti all’economia palestinese, l’industria e il settore dei servizi non potevano svilupparsi e le opportunità di lavoro aperte ai professionisti palestinesi all’interno dei Territori Occupati erano molto limitate. Di conseguenza, molti dei laureati non riuscivano a trovare lavori che riflettevano o impiegavano le loro competenze. Questa frustrazione rappresentò una importante forza di opposizione allo scoppio della prima intifada.

“L’esperienza lavorativa in Israele unita alla realtà della loro vita quotidiana nei Territori Occupati, produsse tra i lavoratori la comune consapevolezza di essere sfruttati e di essere destinati a restare, secondo il sistema economico corrente, in fondo alla scala economica israeliana”. Come nota Neve Gordon, “la mancanza di posti di lavoro nei Territori Occupati era compensata dalle opportunità di occupazione in Israele e si può supporre che Israele abbia ostacolato intenzionalmente lo sviluppo di un’industria indipendente palestinese al fine di mantenere un’offerta costante di manodopera a basso costo”.

Alla vigilia degli Accordi di Oslo (1993), subito prima che la responsabilità delle infrastrutture passasse dalle mani di Israele all’Autorità Palestinese, il 5% dei residenti di Gaza e circa il 26% degli abitanti delle aree rurali in Cisgiordania non avevano accesso all’acqua corrente, a Gaza il 38% della popolazione non aveva accesso al sistema fognario e solo il 69% della popolazione rurale della Cisgiordania aveva accesso all’elettricità per ventiquattrore al giorno.

Dopo più di due decenni e mezzo di occupazione israeliana, dei territori palestinesi solo il 9% della popolazione rurale della Cisgiordania aveva accesso per ventiquattro ore al giorno all’elettricità, alla rete idrica, ai servizi di smaltimento dei rifiuti e alla rete di scarico fognario, considerati primari in Israele anche prima del 1967.

La mancanza di investimenti in infrastrutture serviva a sottolineare il loro stato di popolazione oppressa; invece di costruire nuove aule per affrontare i bisogni crescenti della popolazione, Israele impose un orario di lezione a doppio turno. Il 50% degli studenti di Gaza e della Cisgiordania abbandonava la scuola prima di aver raggiunto la nona classe e non è un caso che, di fatto, nel 1986 gli studenti che avevano abbandonato la scuola costituivano il 40% del totale degli operai palestinesi in Israele.

L’induzione sistematica a lasciare la scuola e la creazione di condizioni insostenibili per studenti ed insegnanti rientrò perfettamente nella strategia per garantire forza lavoro sempre giovane e disponibile e per impoverire culturalmente un popolo che, in assenza di possibilità di accedere all’istruzione, sarebbe certamente diventato più facilmente soggiogabile sia dal punto di vista politico che economico.

L’economia palestinese subì una drastica contrazione dopo il passaggio dell’autorità all’Anp. Negli anni di Oslo Israele impose una politica della chiusura, lo Stato israeliano era ormai forte e costruito, non aveva più così tanto bisogno della manodopera palestinese a basso costo, altra manodopera fu richiamata da paesi come l’Eritrea e le Filippine. Oltre agli effetti diretti sulla forza lavoro, la politica della chiusura ostacolò anche le esportazioni palestinesi in Israele e in altri paesi, infliggendo un colpo mortale alle esportazioni agricole più redditizie, come per esempio i fiori (presenti in abbondanza sul mercato palestinese ben prima della nascita della narrazione israeliana sui fiori nel deserto – vedi articolo I fiori del deserto), e alle nuove fabbriche create dopo il primo fatuo buon umore economico scaturito da Oslo, che producevano beni destinati ai mercati europei.

I nuovi industriali palestinesi non poterono impegnarsi a fornire le merci con puntualità e i contratti che avevano firmato con le aziende e i mercati esteri furono presto annullati. La politica della chiusura creò anche una separazione tra la Striscia di Gaza e la Cisgiordania, riducendo in misura notevole il commercio tra le due regioni e danneggiando l’agricoltura e l’industria impedendo ai palestinesi di sfruttare i rispettivi vantaggi di ogni area. Mentre prima dell’imposizione delle chiusure circa il 50% delle merci prodotte a Gaza era commercializzato in Cisgiordania, nel 1995 questa cifra ammontava al solo 8%. Israele inoltre continuò a controllare il flusso di cassa dell’Anp in modo diretto, bloccandone di fatto gli introiti doganali.

La coercizione e l’imbrigliamento di ogni possibilità di sviluppo economico per la Palestina furono spesso attuate a colpi di ordinanze militari: l’ordinanza militare 363 (dicembre 1969) impose rigide limitazioni all’uso agricolo e pascolativo della terra nelle zone qualificate come riserve naturali. Anche se dichiarare la terra riserva naturale era una misura apparentemente concepita per proteggere l’ambiente, fu ritenuta dalle autorità parte integrante del programma di confisca della terra ed è attualmente una delle principali strategie utilizzate dallo Stato israeliano, nel 1985 erano già stati dichiarati appartenenti a riserve naturali 250mila dunam, circa il 5% del territorio.
La scusa delle riserve naturali e di parchi pubblici, del verde cittadino, è tristemente usata anche attualmente per coprire ben altri intenti, e come sempre salutato dalla comunità internazionale come un segnale di riqualificazione degli spazi e delle periferie degradate.

Dall’occupazione del 1967 e fino alla firma degli Accordi di Oslo, il regime commerciale de facto tra palestinesi e israeliani era paragonabile all’unione doganale. In teoria, l’unione doganale è un accordo commerciale in cui i Paesi coinvolti permettono la libera circolazione delle merci tra loro e concordano una comune tariffa doganale per le importazioni da altri Paesi. Tuttavia, nella relazione di “unità doganale” tra Israele e l’Autorità Palestinese, entrambi applicano la politica commerciale di Israele, cioè le tariffe doganali e altri regolamenti di Israele tranne che per pochi, specifici beni. In altre parole, il Protocollo di Parigi ha formalizzato un’unione doganale in cui la politica commerciale di Israele viene imposta a Cisgiordania e Gaza.

Il prodotto interno lordo dei Territori Occupati (in dollari) ammontava, nel 2016, a 13.397 miliardi, una percentuale minima, circa il 4,2%, di quello di Israele. Il fatto che il protocollo di Parigi non abbia tenuto conto del divario tra le due economie è un grosso problema, visto che la struttura tariffaria che sarebbe stata necessaria per tentare di ricostruire un’economia palestinese indebolita era molto diversa da quella adatta a un’economia industrializzata come quella di Israele. Quindi, anche se l’unione doganale fosse stata applicata alla perfezione, come stabilito dal protocollo, avrebbe avuto un impatto negativo sull’economia palestinese, dato che non risponde ai suoi bisogni.

L’applicazione contraddittoria e a senso unico dell’unione doganale da parte di Israele ha solo peggiorato le cose. Sulla carta, il Protocollo di Parigi ha consentito la circolazione di beni agricoli e industriali tra le due parti e ha permesso ai palestinesi di avere legami commerciali diretti con altri Paesi. Tuttavia, in violazione del Protocollo di Parigi, a partire dagli anni ‘90 Israele ha imposto restrizioni alla circolazione dei beni tra Israele e i Territori: i beni, cioè, potevano circolare liberamente da Israele verso i Territori, ma non viceversa.

Israele ha anche imposto restrizioni alla circolazione di beni all’interno dei Territori Occupati. Dal 1997 ha tentato di isolare la Striscia di Gaza dalla Cisgiordania e l’assedio israeliano decennale su Gaza ha ulteriormente ostacolato le relazioni commerciali tra le due aree. Le politiche israeliane di chiusura hanno distrutto anche le relazioni commerciali all’interno della Cisgiordania. La conseguente frammentazione del sistema economico dei Territori in piccoli mercati disconnessi tra loro ha incrementato i tempi e i costi di trasporto dei beni da una zona all’altra della Cisgiordania.
Inoltre, le politiche di chiusura imposte da Israele e alcuni ostacoli tariffari hanno pesantemente ridotto il commercio con l’estero. Alcuni esempi di tali misure: non riconoscimento da parte di Israele delle certificazioni palestinesi, tempi lunghi per le verifiche di conformità e lista dei “beni a duplice uso”, beni cioè che, secondo Israele, possono essere utilizzati sia per scopi militari che per scopi civili, e che sono quindi vietati o soggetti a interminabili procedure di sicurezza. Questi provvedimenti israeliani violano il Protocollo, che riconosce all’import/export palestinese un trattamento pari a quello dell’import/export israeliano.

Di conseguenza, i Territori Occupati sono diventati un mercato vincolato per le esportazioni da Israele. Secondo un report del 2016 della Conferenza delle Nazioni Unite sul Commercio e lo Sviluppo (Unctad), Israele ha recentemente beneficiato dell’85% dell’export palestinese e “rappresenta oltre il 70%” dell’import palestinese. I Territori Occupati rappresentano, invece, solo il 3% degli scambi commerciali israeliani”

                                                                   

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