mercoledì 31 luglio 2013

Pensare il proprio tempo. Ateismo positivo e uscita dal capitalismo in Claudio Napoleoni e Franco Rodano. - Riccardo Bellofiore -

[pubblicato come Riccardo Bellofiore: Pensare il proprio tempo. Il dilemma della laicità in Claudio Napoleoni e Franco Rodano (in Per un nuovo dizionario della politica, Ed. Riuniti, Roma 1992, a cura di L. Capuccelli]                                                                                                                                                                                                         https://www.facebook.com/pages/Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova/148198901904582?fref=ts                                                                                                                                 
                                                                                                                                                                               1. Introduzione
Nelle pagine che seguono si riandrà ad un episodio intellettuale tra i più significativi del secondo dopoguerra italiano. Si tratta di quel singolare confronto con il pensiero marxiano e con il pensiero cristiano che caratterizza la riflessione, prima solidale e poi separata, di Franco Rodano e Claudio Napoleoni. I due autori volevano andar oltre la mera ripresa o la pura critica dell'uno e dell'altro filone verso una sintesi che costituisse un loro effettivo "superamento": mantenendo però, in modo scientificamente rigoroso e filosoficamente fondato, l'istanza rivoluzionaria di Marx, ovvero il progetto di uscita dal capitalismo, ormai giunto alla fase dell'opulenza.

Ci resta di questa esperienza la prima serie della Rivista Trimestrale, dove i due pensatori forgiarono assieme le loro tesi in un modo così stretto da rendere disagevole il districare il contributo dell'uno e dell'altro. L'esperienza cessò nel 1971, in conseguenza di un ripensamento da parte di Napoleoni: ripensamento che egli stesso definì una vera e propria "autocritica", centrata su un mutato giudizio su Marx rispetto alla critica condotta dalla Trimestrale. Per molto tempo, e a parere di molti, si poté avere l'impressione che la storia finisse qui, con Rodano che proseguiva da solo un filo di riflessione che prima era stato comune, e con Napoleoni occupato dallo sviluppo di un diverso modo di ragionare. Non era così. Napoleoni non cessò mai di condurre un serrato confronto, critico ma non negativo, nei confronti tanto di Rodano come del seguito della riflessione della Trimestrale, che aveva intanto ripreso le pubblicazioni come Quaderni; al punto che Napoleoni divenne negli anni ottanta non soltanto interlocutore privilegiato ma anche collaboratore della nuova serie della Rivista Trimestrale. Di più, gli ultimi mesi della sua vita furono occupati da una ripresa dell'intero filo del pensiero di Rodano, in particolare nel suo aspetto di critica della teologia.

giovedì 25 luglio 2013

Ideologia ed Apparati Ideologici Statali Di Louis Althusser (Appunti per una ricerca) Traduzione di Bassi Gianmarco


Sulla riproduzione delle condizioni di produzione[1]
Devo ora esporre in modo più esaustivo ciò è stato brevemente intravisto nelle mie analisi quando ho
parlato della necessità di rinnovare i mezzi di produzione nel caso in cui la produzione sia possibile. Era
stato un suggerimenti di passaggio. Ora, però, andrò ad esaminare questo suggerimento in sé.
Come disse Marx, ogni bambino sa che una formazione sociale che non abbia riprodotto le proprie
condizioni di produzione che al tempo stesso produca, non durerebbe più di un anno.[2] La condizione
fondamentale della produzione è quindi la riproduzione delle condizioni di produzione. Tale riproduzione
potrebbe essere “semplice” (riproducendo esattamente le condizioni di produzione precedenti) o “su scala
estesa” (espandendole). Ignoriamo questa distinzione per un momento.
Cos’è dunque la riproduzione delle condizioni di produzione?
Qui stiamo entrando in un ambito (domain) che, è molto familiare (dal secondo volume del Capitale) ed al
tempo stesso unicamente ignorato. Le tenaci evidenze (evidenze ideologiche di tipo empirista) del punto di
vista della sola produzione, o persino di quello della mera pratica produttiva (essa stessa astratta, in
relazione al processo di produzione) sono quindi integrate nella nostra coscienza quotidiana, per la quale è
estremamente difficile, per non dire quasi impossibile, ergersi al punto di vista della riproduzione. Tuttavia,
tutto ciò che è situato al di fuori di questo punto di vista rimane astratto (o peggio ancora che fazioso (onesided):
distorto) - anche al livello della produzione, e, a maggior ragione, a quello della mera prassi.
Cerchiamo di esaminare la questione metodicamente.
Per semplificare la mia esposizione, ed assumendo che ogni formazione sociale sorga da un modo di
produzione dominante, posso dire che il processo di produzione mette al lavoro (sets to work) le forze
produttive esistenti in una determinati rapporti di produzione.
Ne consegue che, per esistere, ogni formazione sociale deve riprodurre le condizioni della sua produzione
contemporaneamente al suo produrre (at the same tim
produrre. Essa deve pertanto riprodurre:
1. le forze produttive
2. le esistenti relazioni di produzione

giovedì 18 luglio 2013

IL CAPITALE E’ UN RAPPORTO SOCIALE (MA QUALE?) - Gianfranco La Grassa -

PREMESSA

Torno un po’ alla teoria perché la sordità a tal proposito mi sembra piuttosto scoraggiante. Tanto più che in genere i saggi teorici li raccolgo poi in un libro e penso che una certa quantità di persone, più di quelle che leggono simili saggi in C&S, ne prenderà visione. Non c’è detto più ghiozzo e ignorante del “val più la pratica che la grammatica”. Senza grammatica (e sintassi) non si esprime nulla, salvo suoni gutturali per quanto mi riguarda incomprensibili.
Lo stimolo a quanto segue mi viene dalla lettura di questi ultimi mesi dedicata ad alcuni “classici” marxisti del secondo dopoguerra. Sono rimasto piuttosto sorpreso nel constatare che non avevano chiara la teoria del valore marxiana, pur magari sostenendo che era superata; considerare superato ciò che nemmeno si conosce tanto bene è ovviamente atteggiamento assai superficiale, per non dir di peggio. E’ assurdo, a mio parere, blaterare – e anche di scienza – se prima non si afferra il fulcro della teoria marxiana della formazione sociale. Poi c’erano gli “ortodossi”, che invece la sapevano (e anche bene) ma l’avevano irrigidita in canoni di tipo ecclesiastico. Mancava proprio l’atteggiamento a mio avviso corretto; conoscere adeguatamente il punto di partenza, ma sapere che da questo si è preso l’avvio centocinquanta anni fa; magari qualche metro di viaggio si dovrebbe essere percorso in tanto tempo.
Colombo, partendo da Palos, conosceva bene il suo porto di partenza. Invece di aggirarvisi come un tontolone andando in giro per taverne e osterie, scelse una direzione ben precisa e salpò pensando di andare alle Indie. In realtà scoperse qualcosa di inaspettato e sconosciuto, che dovette esplorare; e così pure molti altri dopo di lui. Pensate un po’ se, colpito da Alzheimer (allora malattia sconosciuta), avesse perso il senso di dove si trovava già al momento della partenza. Avrebbe levato le ancore, avrebbe preso una direzione che pensava precisa, ma che invece era anch’essa a casaccio una volta che tutto all’intorno gli fosse apparso impreciso e confuso. Chi sa dove sarebbe arrivato; dubito alle Americhe.
Un marxista deve partire da Marx; attestarsi su una determinata rotta con la convinzione di voler arrivare comunque a qualcosa di nuovo, che non può più aspettare dopo un secolo e mezzo di continuo calpestare il solito suolo, di ancoraggio nella solita rada. Restare ancora attestati “alla fonda” dopo tanto tempo implica che non si è marinai se non a chiacchiere. Partire però senza nemmeno sapere dove si stava stazionando durante i preparativi di partenza, significa votarsi a vagare in alto mare senza cognizione di quale direzione effettiva si è presa; si può consultare la bussola quanto si vuole, ma se anche gli occhi sono appannati, se i giramenti di testa sono incessanti, se le mani tremano e l’aggeggio continua a cadere di mano, l’aggirarsi come quando si esce ubriachi da un tugurio è garantito.

lunedì 15 luglio 2013

Tra Schumpeter e Keynes: l’eterodossia di Paul Marlor Sweezy e l'ortodossia di Paul Mattick - Riccardo Bellofiore -


Sweezy è nato a New York, nel 1910, rampollo della alta borghesia degli Stati Uniti, figlio di un vicepresidente della First National Bank. I suoi primi scritti compaiono sull’«American Economic Review», la più prestigiosa rivista di economia, prima ancora di aver esaurito il primo ciclo degli studi universitari. Studia alla Philips Exeter Academy e alla Harvard University, dove si laurea nel 1931. Nel 1932-33 va alla London School of Economics, dove fu influenzato dal pensiero di Laski, e dove ebbe un primo contatto col marxismo. Tornato ad Harvard nel 1939 per il dottorato, divenne assistente di Schumpeter: per lui curò, oltre ai rapporti con gli studenti, una serie di seminari. Importante fu quello di un gruppo molto ristretto, cui partecipavano solo 4-5 persone: tra loro Elizabeth Boody, storica economica, futura moglie dell’economista austriaco; e Samuelson, futuro Premio Nobel per l’economia. Allievo di Sweezy fu pure un altro premio Nobel, Robert Solow, che partecipò al corso sull’economia del socialismo. In una bella intervista a Savran e Tonak, tradotta da L’ospite ingrato, Sweezy ricorda come Solow fosse al tempo uno dei giovani economisti più radicalmente orientati a sinistra (non si poteva dire lo stesso, osserva, di Samuelson). Ottenuta una posizione di ruolo, continua Sweezy, il radicalismo di Solow impallidì alquanto.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                Paul Mattick. Nato nel 1904, giovanissimo operaio diviene spartachista, e partecipa alla fallita rivoluzione tedesca. Nei primi anni Venti, comunista «consiliare» e parte dell’opposizione di sinistra al bolscevismo leninista, abbandona il Partito comunista di Germania per entrare nel Partito comunista operaio diGermania. Emigra nel 1926 negli Stati Uniti, dove contribuì a redigere il Programma degli Industrial Workers of the World a Chicago nel 1933.
Mattick è stato «uno dei tre» del comunismo dei consigli, insieme a Karl Korsch e Anton Pannekoek. Denunciando i limiti e l’involuzione del partito leninista, Mattick ha invece sostenuto l’importanza della nuova forma organizzativa emersa spontaneamente durante la rivoluzione russa del 1905: i consigli operai. Tornati sulla scena con maggior forza nel febbraio 1917, determinarono la natura del processo rivoluzionario, ispirando la formazione di analoghe organizzazioni spontanee nella rivoluzione tedesca del 1918, e poi un pò dappertutto fino ai giorni nostri. Secondo Mattick, con il sistema consiliare nasceva una forma organizzativa capace di coordinare in piena indipendenza le autonome attività di masse molto vaste. Oltre ai saggi di critica dell’economia, ha pubblicato dal 1934 una rivista vicina al movimento dei consigli, l’ «International Council Correspondence», divenuta «Living Marxism» nel 1938, per cambiare ancora nome nel 1942 col titolo di «New Essays». Nel1936 scrisse per la «Zeitschrift für Sozialforschung» di Horkheimer un saggio sul movimento dei disoccupati dopo il 1929: aveva partecipato alle organizzazioni spontanee per l’occupazione di case, per l’uso proletario del gas e dell’elettricità, per le grandi manifestazioni che la polizia non riusciva più a contenere.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           ... È soltanto su questo sfondo che si può intendere quello che viene dopo, la nuova grande crisi che stiamo vivendo: a partire da Sweezy e Mattick, ma andando oltre Sweezy e Mattick.  La risposta del capitale alla crisi degli anni Settanta si è mossa su due gambe. Da un lato, la frantumazione del lavoro, cioè la precarizzazione nel mercato e nel processo di lavoro, la concorrenza aggressiva dei global player che determina sovra-capacità, la centralizzazione senza concentrazione, il trasformarsi della struttura produttiva verso un capitalismo di imprese modulari articolate in rete. È un mondo di catene transnazionali della produzione, di delocalizzazioni e in-house-outsourcing, di lavoro migrante e sempre più «femminile». Dall’altro lato, abbiamo la finanziarizzazione. Favorita dalla globalizzazione dei capitali e dai cambi flessibili, e dalla conseguente incertezza, il rinnovato primato della finanza ha preso la forma di un money manager capitalism,di un «capitalismo dei fondi», che ha fatto esplodere il debito privato, e in particolare il debito al consumo, grazie ad una inflazione dei prezzi delle attività finanziarie che è fuori dall’orizzonte dei due pensatori qui considerati (ne ha scritto in importanti lavori Jan Toporowski). Questa nuova finanziarizzazione altro non è che una autentica «sussunzione reale del lavoro alla finanza» (ai mercati finanziari e alle banche). Essa non solo ha incluso le «famiglie» in modo subalterno. Essa ha anche, da un lato, accelerato la decostruzione del lavoro per mille vie, incidendo potentemente sui processi capitalistici di lavoro, dall’altro stimolato una domanda effettiva manovrata politicamente. Una sorta di paradossale «keynesismo privatizzato» di natura finanziaria...                                                                                                                                        https://www.facebook.com/notes/economisti-di-classe-riccardo-bellofiore-giovanna-vertova/tra-schumpeter-e-keynes-leterodossia-di-paul-marlor-sweezy-e-lortodossia-di-paul/483435408400092
https://www.facebook.com/notes/economisti-di-classe-riccardo-bellofiore-giovanna-vertova/tra-schumpeter-e-keynes-leterodossia-di-paul-marlor-sweezy-e-lortodossia-di-paul/485323824877917

venerdì 12 luglio 2013

La luxemburg, Lenin e la democrazia. - Stefano Garroni. 14/06/2006 -



Nel suo scritto su La rivoluzione russa[1], la Luxemburg considera lo scioglimento dell’Assemblea costituente, voluto da Lenin e ampiamente giustificato da Trockij, come un punto nodale, partendo dal quale la politica bolscevica si va effettivamente determinando, assumendo un profilo preciso. Ed ovviamente la Luxemburg non manca di sottolineare che i bolscevichi avevano duramente criticato il precedente governo Kerenskij, perché ostile all’Assemblea costituente: ciò nonostante, appena fu loro possibile, proprio i bolscevichi si resero responsabili dello scioglimento di quella stessa Assemblea.
La Luxemburg, inoltre, cita ampiamente le successive argomentazioni di Trockij a giustificazione di codesto scioglimento -argomentazioni contenute nell’opuscolo, giudicato “interessante” dalla stessa Rosa, Dalla Rivoluzione d’Ottobre alla pace di Brest-Litowsk.[2]
In quello scritto sostanzialmente Trockij svolgeva un argomento tipico della sua riflessione: ovvero, il meccanismo elettorale della democrazia parlamentare o borghese segna un momento di passività delle masse e le fissa nello stato d’animo e nelle scelte fatte al momento delle elezioni, anche se proprio da quel momento la generale situazione politica e lo stesso orientamento delle masse hanno subito mutamenti profondi. Insomma, per Trockij l’Assemblea costituente, eletta molto tempo prima della Rivoluzione d’Ottobre, rifletteva una situazione politica ormai passata e incompatibile con la nuova realtà, scaturita proprio dalla Rivoluzione: di qui l’inevitabilità di sciogliere un’Assemblea ormai non più significativa.
Questa argomentazione appare viziosa alla Luxemburg, quasi un esempio dello ‘gettare il bambino insieme all’acqua sporca’ – perché, si chiede infatti die rote Rose [3], se quell’ Assemblea costituente non rispecchiava più la situazione politica e sociale, non convocare nuove elezioni e procedere, così, all’elezione di un’Assemblea più fedele ai tempi?

martedì 9 luglio 2013

H.H.Holz, Philosophie, Hamburg 1990



La filosofia è quel modo di conoscenza,che non tanto si orienta mediante gli oggetti indagati dalle scienze particolari, quanto piuttosto sulle condizioni e la struttura dei loro [1]
insiemi ordinati, sul modo del loro esser dati nella conoscenza, sul loro significato per l‘uomo e, dunque, in fine, sull’orientamento teorico e pratico dell’uomo nel mondo. (672). La filosofia si interroga anche sull’essenza del singolo essere e del mondo come tutto, sulla verità e le forme del pensiero, nonché circa il senso della vita e lo scopo dell’agire. A differenza di altre forme di visione del mondo, la filosofia sottopone la propria teoria ed argomenti e criteri razionali, per opera dei quali essa generalmente risulta comprensibile e nei migliori dei casi si può dimostrare che essa dovrebbe esser vincolante. Poiché il movimento di pensiero della filosofia non si pone al livello dell’oggetto, ma a ciò giunge partendo dai rapporti tra gli oggetti, ovvero dal rapporto tra essere e pensiero, inizialmente la filosofia si pone in contraddizione rispetto ad altre forme di visione del mondo, quali ad es. il mito, la religione, la concezione naturalistica, che procedono da qualcosa di presupposto. La filosofia,invece, non procede da altro se non da se stessa: la filosofia deve –e in ciò consiste la sua difficoltà- intraprendere il tentativo di iniziare senza presupposti, in modo da potere, nel corso del suo sviluppo, esplicitare i presupposti nascosti in un inizio che apparentemente ne è privo. Ciò significa che il suo movimento, che la fonda, è circolare e si verifica nella costruzione non viziosa di questo circolo.(673)

domenica 7 luglio 2013

A proposito della lukàcciana Distruzione della ragione. - Stefano Garroni -



Secondo Garin, La distruzione della ragione[1] fu scritta da Lukàcs in funzione anti-Zhdanov[2], esattamente per criticare l’endiadi idealismo/materialismo, a cui Lukàcs contrappone quella di razionalismo/irrazionalismo, intendendo che entrambe queste ultime prospettive possono assumere sia forma materialistica che idealistica.[3]

Si può azzardare da ciò, che Lukàcs, realmente, ponga in secondo piano il problema gnoseologico (espresso dalle domande che e quali possibilità di conoscenza posso effettivamente avere)?

                                                                                                                                                                                                  Come che stiano le cose, non è dubbio che la pagina lukàcciana non è mai contenuta nei limiti e nella determinatezza di un  problema, ma  che al contrario, anche quando in questione sia un singolo tema, il suo respiro, la sua apertura va oltre, quasi a cogliere una totalità di prospettiva, che comprende, ma supera anche, la questione sul tappeto.
Per render conto di questo carattere peculiare (hegeliana) della scrittura lukacciana, avanziamo l’ipotesi che, almeno a volte, Lukàcs scriva la storia della filosofia, avendo a mente due modelli letterari: ed esattamente Dostoevskij e in particolare il  Th. Mann della Montagna incantata.. Esempio evidente di ciò dovrebbe essere, appunto, La Distruzione della ragione.
Introducendo questi modelli, intendo che gli eventi, i personaggi, gli episodi –rilevanti o meno- della filosofia, quasi personaggi di un romanzo, son comunque tutti elementi, che servono, in Lukàcs, a dar carne allo scheletro di fondo, alla trama che sta alla base della costruzione scritta (rispettivamente, lo svolgersi della Pietroburgo moderna, ovvero –forse- del capitalismo in Russia; la dinamica della crisi europea ed infine l’esacerbarsi della barbarie imperialistica).
Se effettivamente così è impostata la pagina lukàcciana, allora è implicito in essa un certo taglio ‘riduzionistico’, che però non sempre disturba, se mette effettivamente in luce come a largo livello culturale, politico, storico, e in condizioni storiche date, le filosofie possono funzionare rispetto alla loro finalità di comprensione/descrizione olistica, anche rischiando certe cadute.[4]

sabato 6 luglio 2013

Del materialismo storico - Antonio Labriola -

I.    In questo genere di considerazioni, come in tanti altri, ma in questo più che in ogni altro, è di non piccolo impedimento, anzi torna di fastidioso impaccio, quel vizio delle menti addottrinate coi soli mezzi letterarii della coltura, che di solito dicesi verbalismo. Si insinua e si espande in ogni campo di conoscenze cotesto mal vezzo; ma nelle trattazioni che si riferiscono al così detto mondo morale, e ossia al complesso storico-sociale, accade assai di sovente, che il culto e l’impero delle parole riescano a corrodervi e a spegnervi il senso vivo e reale delle cose.

Là dove la prolungata osservazione, il reiterato esperimento, il sicuro maneggio di raffinati istrumenti, l’applicazione totale o almeno parziale del calcolo, finiron per metter la mente in una metodica relazione con le cose e con le variazioni loro, come è il caso delle scienze naturali propriamente dette, ivi il mito ed il culto delle parole rimasero oramai superati e vinti, ed ivi le questioni terminologiche non hanno in fin delle fini se non il valore subordinato di una mera convenzione. Nello studio, invece, dei rapporti e delle vicende umane, le passioni, e gl’interessi, e i pregiudizii di scuola, di setta, di classe, di religione, e poi l’abuso letterario dei mezzi tradizionali della rappresentanza del pensiero, e poi la scolastica non mai vinta e anzi sempre rinascente, o fanno velo alle cose effettuali, o inavvertitamente le trasformano in termini, e parole, e modi di dire astratti e convenzionali.
Di tali difficoltà bisogna che innanzi tutto si renda conto chi mette fuori in pubblico la espressione, o formula, di concezione materialistica della storia. A molti è parso, pare e parrà sia ovvio e comodo di ritrarne il senso dalla semplice analisi delle parole che la compongono, anziché dal contesto di una esposizione, o dallo studio genetico del come la dottrina si è prodotta 1, o dalla polemica con la quale i sostenitori suoi ribattono le obiezioni degli avversarii. Il verbalismo tende sempre a rinchiudersi in definizioni puramente formali; porta le menti nell’errore, che sia cosa facile il ridurre in termini e in espressioni semplici e palpabili l’intricato e immane complesso della natura e della storia; e induce nella credenza, che sia cosa agevole il vedersi sott’occhi il multiforme e complicatissimo intreccio delle cause e degli effetti, come in ispettacolo da teatrino; o, a dirla in modo più spiccio, esso oblitera il senso dei problemi, perché non vede che denominazioni.

venerdì 5 luglio 2013

Pacifismo come servo dell'imperialismo - L. Trotsky - Scritto nel periodo tra la formazione del Governo Provvisorio e la metà del 1917.

Non ci sono mai stati tanti pacifisti al mondo quanti ve ne sono oggi, quando in tutti i paesi gli uomini si stanno uccidendo l'un l'altro. Ogni epoca storica ha non solo la propria tecnica e la propria forma politica, ma anche una forma di ipocrisia da essa peculiare. Una volta i popoli si distruggevano l'un l'altro nel nome dell'insegnamento cristiano di amore per l'umanità. Oggi solo governi arretrati si richiamano a Cristo. Le nazioni progressiste si sgozzano a vicenda in nome del pacifismo. Wilson trascina l'America in guerra nel nome della Società delle Nazioni e della pace perpetua. Kerensky e Tsereteli richiamano all'offensiva nell'interesse di una pace imminente.
La nostra epoca manca dell'indignata satira di un Giovenale. In ogni caso, persino le più potenti armi satiriche corrono il rischio di risultare impotenti ed illusorie a confronto della trionfante infamia e della spregevole stupidità; due elementi egualmente liberati dalla guerra.
Il pacifismo fa parte della stessa stirpe storica della democrazia. La borghesia ha fatto un grande e storico tentativo per ordinare tutte le relazioni umane in conformità alla ragione, per soppiantare cieche e mute tradizioni con le istituzioni del pensiero critico. Le gilde con le loro restrizioni della produzione, le istituzioni politiche con i loro privilegi, la monarchia assolutista - tutte queste cose erano relitti tradizionali del medio evo. La democrazia borghese esigeva uguaglianza legale per la libera concorrenza, e il parlamentarismo come mezzo per governare gli affari pubblici. Essa ha cercato di regolare anche le relazioni internazionali alla stessa maniera. Ma qui essa è venuta incontro alla guerra, cioè incontro ad un metodo di risolvere i problemi che è una completa negazione della "ragione". Così essa ha preso ad insegnare alle persone la poesia, la filosofia, l'etica ed i metodi commerciali, che sono molto più utili per loro per diffondere la pace perpetua. Questi sono gli argomenti logici per il pacifismo.
L'ereditato fallimento del pacifismo, però, fu il male fondamentale che caratterizzò la democrazia borghese. Le sue critiche toccano soltanto la superficie dei fenomeni sociali, esso non ha il coraggio di tagliare nel profondo, nei sottostanti fatti economici. Il realismo capitalista, però, accarezza l'idea di una pace perpetua basata sull'armonia della ragione forse più spietatamente delle idee di libertà, uguaglianza e fratellanza. Il capitalismo, che ha sviluppato tecniche razionali, ha fallito nel regolarne razionalmente le condizioni d'uso. Esso ha costruito armi di mutuo sterminio che i "barbari" dei tempi medievali non si sarebbero mai sognati.
Il rapido intensificarsi dei rapporti internazionali e l'incessante crescita del militarismo, hanno tolto la terra da sotto i piedi del pacifismo. Ma, allo stesso tempo, queste stesse forze stavano dando al pacifismo nuova vita sotto i nostri stessi occhi, una nuova vita che è differente dalla vecchia tanto quanto un tramonto rosso sangue è differente da una rosea alba.

giovedì 4 luglio 2013

STORIA DEL MARXISMO - Andras Hegedus -



La costruzione del socialismo in Russia

 1  Il nuovo Stato

Una situazione rivoluzionaria nella storia raramente ha trovato una immagine del futuro già pronta, come quella che prese forma all’interno della corrente bolscevica russa del marxismo. E qui dobbiamo pensare anzitutto ai lavori di Lenin e specialmente allo scritto, terminato nel settembre del 1917, dal titolo Stato e rivoluzione. Secondo il contenuto di quest’opera, la prima tappa della via che conduce al comunismo è l’instaurazione della dittatura del proletariato, che significa da un lato democrazia per la stragrande maggioranza del popolo, dall’altro violenta esclusione dalla democrazia per gli antichi oppressori del popolo. Per quest’ultima tuttavia non ci sarà bisogno, o “quasi” non ci sarà bisogno, di un apparato speciale, perché sarà sufficiente l’organizzazione delle masse armate. Dapprima verrà eliminata solo quell’ingiustizia sociale derivante dal fatto che i mezzi di produzione sono di proprietà di singoli individui, mentre la distribuzione dei beni di consumo non avverrà ancora secondo i bisogni, bensì secondo il lavoro, nel senso che, non esistendo un altro diritto, sussiste ancora il “diritto borghese”; anche la tecnica inoltre esige la più severa attenzione, altrimenti la fabbrica si ferma e nascono disturbi nel funzionamento del macchinario. Lo Stato, proprio per la necessità di organizzare questi rapporti, continua a sopravvivere, sebbene abbia perso ormai la sua funzione oppressiva, perché deve difendere il suddetto ruolo di divisione dei prodotti e del lavoro. Ogni cittadino sarà il funzionario retribuito di questo potere, che allora veniva immaginato ancora come omogeneo, senza articolazione e funzionante come un “cartello” esteso a tutto il popolo. “L’intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario”. (Lenin, Stato e rivoluzione, Roma 1966, p.178)

Solo in tale periodo di transizione possono lentamente maturare le condizioni per la totale estinzione dello Stato e con ciò le condizioni del raggiungimento del grado superiore del comunismo, ma solo nel caso che vengano applicate immediatamente tutte le misure atte a contrastare la burocratizzazione; e quindi non solo l’eleggibilità delle cariche, ma anche la mobilità; retribuzioni non superiori a quelle degli operai, transizione immediata alla fase in cui ognuno è “burocrate” per un certo tempo, così che nessuno possa diventare burocrate.

     Questa immagine del futuro si distingue dalle “profezie” di Marx non soltanto per il fatto che - almeno per certi aspetti – in essa si delineano con maggior precisione i contorni della nuova società, ma anche per l’accentuazione che viene data al ruolo dominante dello Stato nella vita economica, sebbene si tratti di un nuovo tipo di Stato. Possiamo arrischiare la supposizione che in questo “statocentrismo” avesse un ruolo molto importante la peculiarità dello sviluppo russo e il livello di tale sviluppo: quella certa “asiaticità” (Asientum), tanto spesso citata, e da cui, secondo la teoria di Lenin, il popolo può essere fatto uscire solo dall’avanguardia della classe operaia organizzata in Stato nella forma dei soviet. In quella situazione non si poteva neppure parlare di “libere associazioni dei produttori”. In quell’immagine del futuro rimaneva ancora incerta la funzione di due importanti sistemi istituzionali: il ruolo del partito e quello dei sindacati nello Stato proletario, che si immaginava privo di partiti indipendenti. La teoria sottolinea la funzione del partito, come avanguardia della classe operaia, soprattutto in riferimento al periodo della rivoluzione. I sindacati invece svolgono la funzione di terreno di confronto nella lotta tra le forze rivoluzionarie e le varie forze revisioniste e riformiste.

venerdì 21 giugno 2013

LA DIALETTICA IN MARX - CAP. VI INEDITO – INTRODUZIONE - Stefano Garroni* 20/11/1995 -

* Stefano Garroni primo ricercatore CNR docente di filosofia alla “Sapienza” università di Roma: collettivo di formazione marxista “Maurizio Franceschini”.                                                                                                                                                                                                                      http://www.youtube.com/watch?v=UzQ3jByb_Fo&list=PL762B203FF376DC46                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                Marx è un autore in realtà profondamente diverso da quello che comunemente si pensa. 
Noi non dobbiamo dimenticare due fatti: 
1) una dichiarazione di Lenin il quale nei suoi quaderni filosofici diceva che senza aver capito la logica di Hegel non si capisce nulla del capitale di Marx. E purtroppo questo è proprio vero. Lenin ricavava da questa osservazione la conseguenza che “quindi sono 50 anni che nessuno capisce niente del testo di Marx” . E la situazione è cambiata solamente per il numero degli anni. 
Ora, questo rapporto stretto con la logica di Hegel deve in qualche modo spaventare. Io lo dico anche con una funzione se volete terroristica, nel senso che Marx è un autore difficile, complesso. La decisione di cominciare a capire che cosa Marx dice è una decisione importante che implica un impegno intellettuale per ognuno. 
Io credo che noi dovremo procedere già dalla seconda riunione in questa maniera: e cioè volta a volta un compagno fa una sorta di esposizione riassuntiva di una parte del testo che lui ha letto – lo incarichiamo volta a volta – e successivamente discutiamo quella parte introducendo tutti gli elementi di approfondimento che consentano poi di capire effettivamente che cosa c’è scritto in quella parte. 
Perché procedere così? Perché è importante che ognuno sia effettivamente impegnato nella lettura del testo e si renda conto anche direttamente della complessità del ragionamento marxista. e badate che questo ha una conseguenza politica importante: appunto esser comunisti non è una cosa semplice, non è semplicemente l’elaborare una politica contro un’altra politica, ma è una forma di impegno estremamente più di fondo. E questo noi dobbiamo riuscire a ricavarlo ovviamente da Marx. 
2)perché abbiamo scelto il capitolo VI inedito del capitale? Al fondo ci sono due osservazioni: a) se Marx non avesse scritto il capitale occuperebbe al massimo poche righe dentro la storia della filosofia nel capitolo sullo sviluppo dell’hegelismo. La partita di Marx si gioca tutta sul capitale. Quindi bisogna avere bene in testa questo: senza un rapporto con il testo del capitale non si ha un rapporto con il pensiero di Marx. Questo deve essere chiaro: non ci sono scorciatoie. 
In più il capitolo VI inedito appartiene a quelle migliaia di pagine che Marx scrisse nel periodo in cui andava tentando di comporre l’opera del capitale. 
Voi sapete che Marx consegnò all’editore solamente il primo libro del capitale. Il resto lo ha lasciato tutto in condizioni di appunti, di prime stesure, di seconde stesure: tutto materiale grezzo. Solo successivamente alla sua morte Engels, Kautsky e Bernstein, si occuparono di pubblicare il secondo e il terzo libro e il così detto quarto libro del capitale. Il quarto libro sarebbe la serie di note che Marx prende quando riflette su i vari pensatori dell’economia politica. Però in realtà Engels, Kautsky e Bernstein, hanno fatto una selezione tra le migliaia e migliaia di pagine che Marx ha scritto. 
Mano a mano, a partire dagli anni ’70 in sostanza, queste migliaia di pagine che sono state pubblicate – prima nell’edizione dell’opera di Marx in lingua russa, poi nell’edizione tedesca e poi anche in Italia – non hanno veramente fatto attempo ad agire su un universo culturale perché sono state pubblicate - come dire -, troppo recentemente. 
Quello che va sotto il nome di “Capitolo VI inedito” è un piccolo numero di queste pagine che non trovarono posto nel primo, nel secondo e nel terzo libro del capitale, e che si collocano a cavallo tra il primo e il secondo libro. In questo senso costituiscono una sorta di riassunto, se non di tutto il capitale, ma almeno di alcuni temi fondamentali, scritto da Marx stesso.

venerdì 14 giugno 2013

Daniel Defoe: La vera storia di Jonathan Wilde - Ermanno Semprebene*

* Collettivo di formazione marxista "Stefano Garroni"



"La vita di Jonathan Wilde è uno scenario di assoluta novità: come la sua condotta è stata inimitabile, così è possibile che la particolare attività da lui iniziata finisca con lui; riteniamo che neppure tra i più efferati criminali ce ne sia uno solo così incallito da continuarla dopo di lui".

Con questo incipit Daniel Defoe ci introduce nella sua storia che vuole essere nient'altro che una esposizione scarna e succinta dei fatti in specie, sicuro che la vicenda sia così talmente eclatante da non aver bisogno di ulteriori abbellimenti stilistici. Uno scarno resoconto raccontato dal protagonista stesso allo scrittore, prima di venire giustiziato, che si commenta da se, senza bisogno di altro.


"A Jonathan non è mai stata rivolta l'accusa di essere stato personalmente un rapinatore o un ladro o di avere mai accompagnato le bande di puledri [come si dice in gergo di Newgate (carcere)] quando uscivano a realizzare uno dei suoi grandi piani e abbiamo appurato che questa è la verità: conosceva troppo bene il suo mestiere, per rischiare la vita ... era troppo furbo per una cosa simile. Inoltre, così facendo, il suo commercio diveniva più fruttuoso, perche riusciva a trarre profitto sia dai derubati che dai criminali che li derubavano. … Il ruolo avuto nel fatto per cui fu condannato fu più grave del solito ... perché in quel caso svolse contemporaneamente la parte del  ladro e del suo persecutore, mentre di solito non si spingeva a tanto … Basti dire che a Jonathan la morte non venne per le sue pratiche di persecutore di ladri, ma per avere deviato dalla sua strada partecipando ad un furto e assicurandosi poi una parte della ricompensa promessa per la restituzione della refurtiva: e qui cadde nella sua stessa trappola perché furono proprio i ladri di cui si era servito a testimoniare contro di lui per farlo impiccare". Questo scrive Defoe nell'introduzione. 

giovedì 13 giugno 2013

Robert Skidelsky - Keynes, Hobson, Marx - October 10, 2012 -

http://www.skidelskyr.com/site/article/keynes-hobson-marx/

Il presidente Lyndon Johnson chiese a John Kenneth Galbraith di scrivergli un discorso sulla politica economica. Dopo uno sguardo, LBJ rispose “Sai Ken, il problema con l'economia è come il fare la pipì nei pantaloni. Tu ti senti caldo, ma lascia tutti gli altri freddi”.


Ho provato molta simpatia per LBJ questo pomeriggio, mentre ascoltavo un paio di matematici intelligenti che si divertivano un sacco con le loro equazioni. Ho pensato che si stessero divertendo troppo – proprio come gli economisti! I buoni economisti non dovrebbero godere troppo con la matematica. Ogni volta che sono tentati di mostrare qualcosa, dovrebbero chiedersi: “E' davvero necessario? Aiuta a raccontare la storia che voglio raccontare?”

 Sono anche  molto d'accordo con Jamie Galbraith sul fatto che  la storia che raccontiamo deve andare al di là di Keynes.

Voglio contribuire ad ampliare la serata attirando la vostra attenzione su due tradizioni non-keynesiane che gettano luce sulla crisi: quelle che sottolineano la disparità di reddito e quelle che enfatizzano il tema del potere. In altre parole, Hobson e Marx.

martedì 11 giugno 2013

L’eccezione esemplare: il caso italiano nella crisi globale ed europea* - Riccardo Bellofiore -

Qual è la natura di questa crisi? In Italia, come altrove, si sono riprodotte le medesime interpretazioni.
Tralascio qui quelle più marcatamente mainstream: colpa dello Stato predatore, dell’eccesso o della
mancanza di regolazione, e così via. Lascio pure sullo sfondo quelle letture, alla Stiglitz o Krugman, che
ritengono la Grande Recessione una ‘eccezione’ di così grave portata da dover indurre a riesumare il
tradizionale armamentario keynesiano, almeno per un po’. A sinistra, le visioni più diffuse sono state
due. Minoritaria, la lettura marxista ortodossa, che riconduce la crisi globale alla caduta tendenziale del
saggio di profitto nella sua versione tradizionale: l’aumento della composizione di capitale farebbe
cadere a un certo punto la massa, oltre che il saggio del profitto. Più diffusa la lettura sottoconsumista:
in un mondo di bassi salari non vi sarebbe sufficiente domanda per poter realizzare il plusvalore
potenziale. Mettiamo da parte alcune considerazioni ovvie, sul terreno teorico ed empirico.
Teoricamente, non pare proprio che le critiche alla necessità della caduta del saggio di profitto siano
mai state controbattute efficacemente. Né si capisce come sia possibile distinguere sul piano dei ‘fatti’ le
diverse forme di crisi. Se la domanda aggregata è insufficiente, o se si verificano lotte nella distribuzione
o nella produzione che comprimono il saggio di plusvalore, ciò non può che far aumentare il rapporto
stock di capitale/reddito nazionale, dunque il rapporto capitale costante/neovalore (ovvero una delle
misure della composizione del capitale). Quello che è certo è che il neoliberismo, a dispetto della
distribuzione massimamente inegualitaria, la domanda se la è saputa procurare da sé. E’ stata piuttosto
una era di sovra-consumo per rispondere al vero problema che lo affligge, quello del sottoinvestimento.                                                                                                                                            
http://criticamarxistaonline.files.wordpress.com/2013/06/2_2013_bellofiore.pdf

lunedì 10 giugno 2013

In margine a un vecchio libro di Maurice Dobb - Aristide Bellacicco -

Sono passati più di settant’anni da quando l’economista marxista Maurice Dobb pubblicò il suo “Economia politica e capitalismo”. Il libro uscì in edizione inglese nel 1937, in piena epoca stalinista e alla vigilia della seconda guerra mondiale: Dobb aveva sotto gli occhi, come fenomeni di prima grandezza, da un lato il tumultuoso processo di industrializzazione dell’Unione Sovietica e, dall’altro, l’affermarsi dei regimi fascisti in Italia e in Spagna e del nazismo in Germania. Queste drammatiche circostanze storiche si riflettono in modo evidente nel particolare carattere del libro che, oltre a rappresentare un contributo di pensiero ancora utile e prezioso, rivela un’ atteggiamento di fondo di cui oggi si avverte, e in modo assai acuto, la mancanza: mi riferisco al fatto che Dobb, come uomo di scienza, non solo analizza e spiega ma si schiera. E si schiera – dalla parte del socialismo e della classe operaia - proprio perché è un uomo di scienza.
Solo una breve citazione dalla chiusa dell’ultimo capitolo per chiarire meglio questa affermazione:
“Quando l’interesse ostacola la ragione” scrive Dobb “parlare il linguaggio della ragione è inutile, salvo che ciò non significhi predicare l’abbandono dell’interesse…Per infondere la vita nello scheletro delle nozioni astratte, (l’economista) deve non solo uscire dal suo chiostro per camminare sulle piazze di mercato del mondo, ma prender parte alle loro battaglie… E ciò non significa alienare la propria primogenitura, bensì camminare nelle migliori tradizioni dell’economia politica. Ad ogni modo, se egli non si decide a far questo, il mondo, e il suo chiostro con esso, può cominciare ben presto a sconvolgersi intorno a lui.”
Dunque, il mondo e il chiostro: una metafora che rovescia l’ aforisma cristiano che prescrive di “essere nel mondo ma non del mondo” per affermare non solo il dovere morale, ma la necessità storica, che lo scienziato e l’intellettuale siano non solo nel mondo, bensì del mondo.
Nello sconfortante paesaggio in cui siamo immersi, fatto di chiacchiere, opportunismo e completa sottomissione al pensiero unico del capitale, le parole di Dobb suscitano, in ogni coscienza vigile e non subalterna, un senso di rabbia e di rivolta. Siamo fin troppo abituati ai numeri da avanspettacolo di “economisti” di varia tendenza che si affacciano dai teleschermi per somministrarci lezioncine e proporre ricette “per uscire dalla crisi” che fanno venire in mente il delirio di un medico che si proponesse di curare il cancro con l’aspirina. E tutti con l’aria di dire: “noi non c’entriamo per nulla, sono le leggi dell’economia.”
Raccontano bugie sapendo di raccontarle: e i più “a sinistra” fra loro sono i più colpevoli, perché non hanno, in molti casi, nemmeno la ridicola scusa di non aver letto Marx e quindi di ignorare che nelle cosiddette “leggi” dell’economia non c’è proprio nulla di naturale.
Ora, è trascorso più un secolo e mezzo da quando proprio Marx rese chiaro quale poteva e doveva essere il ruolo di un intellettuale, e di uno scienziato, sotto il capitalismo: quello di prendere posizione contro. 
Nel ventesimo secolo molte fra le migliori menti imboccarono, anche se con tonalità diverse, questa strada: e non parlo solo dei marxisti “doc”- si pensi a un personaggio come Wittgenstein e, in parte, allo stesso Bertrand Russell: nessuno di loro, per fare un esempio, è mai caduto nella volgarità di credere o dire che la società di classe fosse un fenomeno naturale.
Non esiste la cultura proletaria come non esiste una scienza operaia: Trockji lo sosteneva apertamente. Gli intellettuali, per ovvi motivi storici e sociali, sono tutti borghesi: Marx lo era, Engels lo era, lo era anche Dobb, e tanti altri, compreso Trockij e lo stesso Lenin.
Ma la grande forza che si sprigionò nella prima metà del ventesimo secolo, e che portò all’Ottobre, fu proprio la conseguenza della alleanza fra il meglio dell’eredità intellettuale – filosofica, scientifica ecc- “borghese” e le istanze di emancipazione della classe operaia (Stalin no, lo stalinismo fu il frutto di un processo completamente diverso e, anzi, opposto).
Se mai è esistito un periodo nella storia in cui si possa toccare con mano quanto la borghesia abbia esaurito il suo ruolo storico e stia semplicemente, e ferocemente, sopravvivendo a se stessa, ebbene, questo è proprio il tempo in cui viviamo: eppure il sistema capitalistico non è morto e sembra più che mai disposto a far pagare a caro prezzo all’umanità il prezzo del suo sopravvivere: come un “cadavere vivente”, per citare Stefano Garroni.
Gli intellettuali e gli uomini di scienza portano in tutto ciò il peso di una responsabilità a cui non possono sottrarsi. Se qualcosa in loro si ribella ancora alla sottomissione ed al servaggio, questo è il momento di farsi avanti: per schierarsi contro, per dire la verità e per uscire, riprendendo Dobb, dal chiostro, o meglio, dall’ovile.

venerdì 7 giugno 2013

L'egemonia borghese c'è. Ma è invincibile? - Questioni di teoria* - Alessandro Mazzone


*Il presente articolo è già stato pubblicato nella rivista PROTEO, N°1, 2004 con il titolo: “ il movimento dei lavoratori e la nozione storica di egemonia”, nella rubrica “Teoria e storia del movimento operaio”.                                                                                                   

                                                                                                                                                                                                                                                                 
I. La nozione di “egemonia” entra nella discussione del Movimento operaio all'inizio del secolo XX. Essa è legata strettamente alla trasformazione imperialistica della borghesia, al fatto dell'imperialismo moderno e al problema che esso poneva alla classe operaia, ai partiti socialisti, ai sindacati, ma anche a tutti i democratici, sia nelle metropoli imperiali che nei territori e Paesi dipendenti. 

Questo problema si può riassumere in breve. Nella fase imperialistica le borghesie “centrali”, metropolitane, tendono a diventare oligarchie che detengono il potere economico, finanziario, politico-militare sul -”loro” popolo e su quelli dipendenti. Non ci si può aspettare che esse portino avanti (se non costrette) trasformazioni democratiche, che oltretutto andrebbero a vantaggio della classe operaia organizzata. Le borghesie “periferiche” sono in genere troppo deboli per perseguire delle trasformazioni, per attuare “la rivoluzione democratico borghese” nei loro Paesi. Cosi l'epoca delle rivoluzioni democratico-borghesi appare conclusa. Ma l'avanzamento democratico, multiforme e vario che possa essere nel globo che l'imperialismo sta unificando, è ben altro che formula politico-istituzionale! Senza la “democratizzazione delle masse” (A. Labriola 1895), senza le “condizioni fondamentali di civiltà”( Lenin, 1921, e fino alla fine) non si può pensare ad una prospettiva socialista, o anche a una alternativa all'oppressione e alla guerra che si sta preparando. Alla base del problema della strategia, su cui si scontrano e si dividono i socialisti europei all'inizio del secolo XX (“programma massimo” o “programma minimo”, rivoluzionari e riformisti, ecc. )si manifesta una questione più profonda, di orientamento del mondo di oppressione, militarismo, guerre che lo sviluppo imperialistico del capitale ha creato.

E' un problema di continuità obiettiva delle trasformazioni democratiche.

Non si tratta solo dei “diritti”, ma soprattutto della capacità di esercitarli, di farne vita effettiva di grandi masse, della libertà di movimento dei diritti politici, dall'istruzione alla previdenza sociale, alla sicurezza di vita per tutti i lavoratori. Solo con l'esercizio, la pratica quotidiana e diffusa dei diritti in tutte le sfere della vita, e con l'acquisto della cultura e della scienza e tecnica moderne, le plebi incolte e superstiziose possono emanciparsi. Il 1914 mostra, anche e proprio nella “civilissima” Europa: chi non è emancipato (e cosciente e organizzato abbastanza) diventa carne da cannone, massacrerà i suoi fratelli di classe, e sarà massacrato.

Ma la questione è più generale e più profonda ancora. Lo sviluppo complessivo della società pone le basi materiali della alta produttività del lavoro (“fordismo”), dell'integrazione della scienza nelle forze produttive , della cultura non più riservata a pochi. Nello stesso tempo, si realizza quel “mercato mondiale” forma capitalistica dell'unificazione del genere umano immanente, secondo Marx, alla dinamica interna al Modo di produzione capitalistico. Ma si realizza nella figura della spartizione del globo in sfere d'influenza rivali, e di dominio violento e spietato su popoli “arretrati”, con forme varie di lavoro coatto, peonato, e massacri sistematici, fino al genocidio (il Congo paga la “civiltà”portata dall'Europa con la scomparsa di circa_dei suoi abitanti).

Ma chi potrà portare le conquiste della produzione della ricchezza, della scienza, della cultura, alla loro destinazione divenuta materialmente possibile,quella di essere fondamenti e strumenti dello sviluppo democratico nel suo senso vero e pieno di sviluppo e capacità, di potenzialità umane, per le masse lavoratrici, e in prospettiva, per tutti? Chi, quale classe?Non certo più la borghesia, imperialista e oligarchica, o debole e dipendente. Non la maggioranza contadina della popolazione, nelle “periferie”, ma anche in alcuni Stati del “centro”, come la Russia e l'Italia, dispersa nelle
campagne e per lo più analfabeta, immobile nella ripetizione di modi di vita secolari, o destinata presto o tardi all'espulsione dalla terra con lo sviluppo dell'agricoltura capitalistica. Per la classe operaia, la continuità dello sviluppo democratico è non solo difesa, sindacale e anche politica, delle sue condizioni di lavoro e di vita nelle varie fasi dello sviluppo capitalistico (prima , durante e dopo lo sviluppo fordista,NB!) - ma anche tendenza alla realizzazione in lei stessa delle conquiste produttive, culturali, scientifiche, in una parola, dell'elemento positivo della civiltà moderna.

La continuità dello sviluppo democratico non è solo questione politica, non si riduce alle forme istituzionali, anche se le comprende. Essa è sviluppo di civiltà, e della forma di civiltà che il capitalismo, diventato sistema imperialistico, ha insieme reso possibile storicamente, e ora blocca. L'unità storica di democrazia e socialismo è- all'inizio del '900- percepita da filosofi e sociologi conservatori (da Pareto a Gentile, in Italia). Nietzsche aveva esteso la “rivolta delle mosse”, destinate per natura a esser schiave, fino comprendervi il Cristianesimo. Fioriscono teorie dell'irrazionalismo e della violenza, il “progresso” diventa oggetto di dileggio. Ma è al livello sostanziale che la violenza e la negazione della democrazia, anche in Europa, vengono attuate su scala inaudita, con la guerra del 1914, 18.

Si dimentica troppo spesso che in questo modo, all'inizio del secolo XX, erano poste delle condizioni del dramma, che continua ancora ai giorni nostri con la minaccia all'ecosistema, lo sterminio per fame e malattia in un mondo di risorse abbondati, la guerra come soluzione ricorrente, la segmentazione della classe operaia, crescente di numero ma disorganizzata, la trasformazione autoritaria delle forme politico- istituzionali, ecc, ecc. - Recuperare la continuità delle sviluppo democratico, ricostituire un soggetto che se ne faccia portatore, e che può solo essere un soggetto di classe- in queste formule non si riassume forse il nostro problema, all'inizio del secolo XXI? Ebbene, esso, considerato nel senso più ampio, è un problema di egemonia, come si vedrà.

All'inizio del '900, la nozione di egemonia è legata alla presa di coscienza della trasformazione monopolistica del capitale, allora soprattutto nella forma di “cartelli” e trusts nell'industria del paese. Questa nuova fase della produzione capitalistica portava con sé la prevalenza dell'esportazione di capitali in Paesi “nuovi” sulla esportazione di merce tipica della fase precedente. (l'Inghilterra “fabbrica del mondo”, nella prima metà dell'800), e la trasformazione dei grandi Stati- nazione in centri di dominio diretto e indiretto su tutto il resto del globo. In pochi decenni, l'Africa viene spartita in colonie inglesi, francesi, poi anche tedesche e belghe (il Congo), l'Asia sudorientale tra Francia, Gran Bretagna e Olanda (che “modernizza” il vecchio impero commerciale in Indonesia); si prepara lo smembramento e spartizione della Cina, gigantesco bacino di mano d'opera a buon mercato; la Russia zarista conquista l'Asia Centrale, e si scontra (1905)con il nascente imperialismo nipponico. Meno visibile sulle carte geografiche, ma determinante, è il passaggio dal capitalismo di concorrenza ai grandi trusts industriali e bancari negli USA, che fu più rapido che in qualunque altra parte del mondo. Poco più di vent'anni dopo la guerra si secessione americana, e quando il sistema delle piantagioni coltivate da schiavi durava ancora in Brasile e a Cuba, l'America latina, tradizionale sfera d'influenza commerciale britannica, vide arrivare in forze il nuovo dominatore yankee, che mette le mani direttamente su cuba, Portorico, e le Filippine (guerra del 1898 contro la Spagna).

Tutto questo implicava anche una nuova figura dei rapporti di produzione capitalistici. Il rapporto di produzione fondamentale, quello dello sfruttamento del lavoro salariato, naturalmente rimaneva. Ma, in primo luogo, il tasso del profitto veniva sempre più a integrare i profitti abbondanti tratti dall'investimento estero, dal saccheggio delle colonie, dalle rendite finanziarie di prestiti privati e pubblici a Statoi meno “moderni”( la Russia, p. es.). In secondo luogo, non era più necessario sfruttare all'osso (cioè mediante superlavoro, lavoro minorile senza limiti, e fino alla riduzione pericolosa dell'aspettativa di vita della massa della popolazione operaia, scesa al di sotto dei 30 anni in Inghilterra verso il 1820) la popolazione lavoratrice metropolitana, o almeno la sua parte più qualificata e “preziosa”per il funzionamento del sistema. In terzo luogo, si veniva costituendo (già allora) una gerarchia di Stati entro il sistema mondiale imperialistico. Si facevano via via più stretti i legami tra le metropoli e le “periferie” o “semiperiferie”, che allora erano colonie vere e proprie oppure territori a statualità indipendente (America latina, soprattutto), ma dipendenti economicamente dal capitale finanziario dominante l'intero sviluppo a partire dai centri imperiali.

Il problema dello sviluppo economico in genere, ma anche dello sviluppo politico, civile e, generalmente umano per l'immensa maggioranza della popolazione del globo, si poneva ormai nell'ambito complessivo del dominio universale dell'oligarchia capitalistico-finanziaria, attraversata dalla rivalità interimperialistiche, ma anche dal conflitto tra il dominio stesso e lo sviluppo della riproduzione sociale in forme moderne, capitalistiche, che veniva esportata, col capitale nei Paesi dipendenti. Era il “risveglio”- attraverso la tragedia dello sfruttamento, sradicamento, dell'oppressione- della stragrande maggioranza dell'umanità, dall'India alla Cina al Messico all'Egitto ecc.- trascinata violentemente nel mondo moderno, costretta ad uscire dalle forme statistiche di riproduzione sociale complessiva caratteristiche dei Modi della produzione precapitalistici.

Perché questo “risveglio”arrivasse a prender la forma di lotte anticoloniali vittoriose, sarebbe occorso ancora un cinquantennio di resistenza, rivolte, repressioni sanguinose e spesso ignorate, in tre continenti. La crisi del dominio imperialistico durante la prima guerra mondiale, con la rivoluzione russa, la fondazione dell'Unione Sovietica, l'Internazionale comunista, poi l'indebolimento degli imperi europei nella seconda guerra mondiale, la sconfitta del nazifascismo- furono gli antecedenti dell'indipendenza politica, conquistata o concessa nelle ex colonie, e di un loro sviluppo economico e civile- possibile, certo, non garantito o senza intoppi.
Ma già nel 1921, con il proclama di Baku e la parola d'ordine dell'unità dei proletari di tutti i Paesi e dei popoli oppressi, la concezione strategica generale - e nuova - era quella dell'egemonia di classe, su scala mondiale e Paese per Paese, nel quadro della teoria leniniana dell'imperialismo.

Una volta avvenuta la spartizione delle risorse, dei mercati, dei popoli del globo in sfere di influenza del capitale finanziario e delle sue metropoli imperiali, e realizzata quindi una rete di dipendenze dirette e indirette delle borghesie locali dal mercato mondiale cosi configurato, non era più pensabile che le borghesie dei Paesi colonizzati, assoggettati o “periferici” potessero percorrere la via “classica”(olandese, inglese, francese) delle rivoluzioni borghesi: prima, instaurazione di rapporti di produzione capitalistici distruggendo quelli precedenti, e realizzando l'egemonia borghese nelle strutture economiche, giuridiche, scientifiche della società civile, poi, conquista del potere politico e costruzione di Stati moderni. Le borghesie “periferiche” erano in genere deboli e subalterne economicamente, povere di tradizioni democratiche, povere anche di quadri intellettuali, professionali, scientifici. Culturalmente, scientificamente, e per la tecnica, non potevano che guardare al “centro”, alle metropoli imperiali.

All'inizio del XX secolo, la più numerosa di queste borghesie “non classiche”era quella russa.
In Russia, il capitalismo si sviluppa rapidamente, anche se forse l'80% della popolazione era ancora rurale. Ma nello stesso tempo, la finanza e la grande industria russa (isola non grande, ma moderna, nel amare contadino e artigiano) dipendevano dai capitali stranieri (anche il bilancio dello Stato russo era legato ai prestiti di banche britanniche e francesi). La Russia degli zar era a sua volta un immenso impero, con più di 100 nazionalità non-russe dominate; ed era una autocrazia, senza diritti politici, né diritti civili, di fatto, per la stragrande maggioranza della popolazione. Da mezzo secolo, la grande letteratura russa era- con poche eccezioni-patriottica,cioè mirante a far riflettere i suoi lettori russi su se stesi e la loro condizione, e ad aprire cosi le vie per una trasformazione, che doveva essere emancipazione, e implicava l'abbattimento dell'ultimo e più dispotico ancien regime.

Ma con la rivoluzione del 1905, e dopo di esse, la borghesi russa aveva mostrato la sua incapacità di trasformazione rivoluzionaria. Il decrepito e barbarico regime autocratico restava – e i capitalisti russi se ne accomodavano tanto più facilmente, in quanto gli anni seguenti furono di espansione economica, e di repressione poliziesca del movimento operaio.

Da questo nodo di sviluppi contraddittori, in un Paese che era per metà “imperiale” e per metà “periferia”, epitome per un verso dell'unificazione capitalistica del genere umano come sviluppo ineguale,e unico per altro verso perché unico era l'insieme di contrasti, di grandezza e miseria, di umanità e barbarie, di arcaismi di massa e di consapevolezza di minoranze illuminate che gli eran propri, nasce la problematica dell'egemonia negli scritti di Lenin dal Che fare? (1902), in poi.
Dapprima, riguardo alla Russia stessa. Solo il proletariato avrebbe potuto prender la testa della lotta per l'emancipazione- cioè per la democrazia, il suffragio universale, i diritti civili e politici, l'istruzione obbligatoria universale e gratuita, la trasformazione della cultura di massa in forme razionali e moderne, abbattendo le superstizioni diffuse, l'oscurantismo, l'inerzia. Ossia: solo il proletariato, non più la borghesi , può prendere la testa della rivoluzione democratico- borghese.

Questa è l'origine della teoria dell'egemonia. Essa si sviluppa poi in Russia (la NEP), ma soprattutto nella teoria e nella pratica della III Internazionale. In condizione diversissime, dalla Cina al Messico al Brasile, ma poi anche in Europa con i fronti democratici antifascisti (dal 1935), si pone il problema politico delle alleanze. Ma queste alleanze hanno portata strategica, non tattica soltanto, e sono alleanze di classe, con quelle frazioni della borghesia o della massa contadina che sono disponibili alla difesa antifascista, alle conquiste democratiche, allo sviluppo nazionale e autonomo, e quindi prima o poi, apertamente antimperialista. Dopo lo scioglimento della III Internazionale (1943), e la vittoria sul fascismo, l'alleanza strategica con le “borghesie nazionali” diventa questione centrale del movimento di liberazione delle colonie ed ex-colonie, dall'Indonesia all'Iran, all'Egitto, “nasseriano”, più tardi ancora all'Etiopia.- Qui non possiamo discutere i limiti (e gli errori)di queste politiche. La concezione, e anche la percezione della realtà dello sviluppo civilizzatorio che il capitalismo porta con sé, ma, dovunque possibile, con la classe operaia alla sua testa, e quindi come instaurazione, a lungo termine, di un confronto di egemonia con l'imperialismo.

Noi sappiamo che l'imperialismo ha contrattaccato e vinto in gran parte.

Nelle metropoli (riduzione delle garanzie sociali , smantellamento del c. d. “Stato del benessere”, svuotamento delle istituzioni politiche democratiche, mutamento della funzione dello Stato) e nelle periferie assoggettate o ricolonizzate in forme nuove. Vuol dire questo che si è perduta una battaglia nella lotta egemoniale per lo sviluppo democratico complessivo, (per la democrazia- che- sbocca nel socialismo, in termini un po' obsoleti)? O che si è entrati in una fase storica completamente, qualitativamente nuova? E come lavorare per la ricostituzione di un soggetto democratico, progressivo, o forse rivoluzionario, nel tempo nostro?

Queste, come tutti sappiamo, sono questioni pratiche brucianti, presenti. Formularle in modo adeguato, però, significa né più né meno che orientarsi nel mondo di oggi. Si sosterrà qui che si tratta di questioni di egemonia, e di lotta tra egemonie, cominciata con la fase imperialistica dello sviluppo capitalistico, e che dura tuttora, anche se, ovviamente, in condizioni mutate. Cominciamo col ricapitolare la nozione teorica di “egemonia” (riprendendo il filo dal massimo teorico dell'egemonia come rapporto di classe, Antonio Gramsci.)

II. La nozione di “egemonia” riguarda il processo della vita sociale in tutti i suoi aspetti, cioè tutta la riproduzione sociale complessiva. La produzione e riproduzione degli uomini associati è bensì determinata dal rapporto di produzione fondamentale (nel Modo di produzione capitalistico, quello di sfruttamento, cioè del rapporto Capitale/Lavoro), ma è attuata attraverso tutte le attività vitali degli uomini associati – attività lavorative non solo, ma anche di educazione, insegnamento e apprendimento, di cura del corpo e della mente (igiene, sanità, sport, riposo), di produzione.
In una società di classe, questo complesso di attività può tendere a riprodurre, e dunque a perpetuare, il rapporto fondamentale di classe – nel mondo moderno, capitalistico, il rapporto Capitale/Lavoro – oppure, al contrario, a metterlo in crisi, a superarlo, quando la Riproduzione sociale complessiva e il suo fondamento, la riproduzione materiale del corpo sociale mediante il lavoro, entra in conflitto con il rapporto di produzione fondamentale, quindi con la configurazione di classe della società in questione.

Ma va tenuto presente che si tratta di processi storici: in altre parole, che stiamo parlando di forme di vita e di autoattuazione, o si può dire, di manifestazioni “umane”, complessivamente considerate, e via via divenute possibili. Operai, capitalisti, ma anche ingegneri e Istituti politecnici per produrli, scienziati specialistici, tecnici specializzati e Istituti tecnici o apprendistato per produrli, medicina sperimentale ecc. ecc. non sono pensabili al di fuori o “prima” della produzione capitalistica. E così non lo sarebbe la scuola di base obbligatoria e universale, che diventa indispensabile quando la popolazione lavoratrice deve almeno saper leggere, scrivere e far di conto. Neppure avrebbe senso immaginare una società feudale, o schiavistica, con diritti civili (libertà di movimento, di contratto, di compravendita) per tutti, o addirittura diritti politici, “volontà popolare”, suffragio universale e via dicendo. Tutto questo divenne pensabile, e poi possibile, in società plasmate dal Modo di produzione capitalistico e dal suo sviluppo – nel mondo moderno, appunto.

In secondo luogo, va tenuto presente che egemonia è un processo, anzi una figura determinata del processo sociale complessivo: non uno stato immobile, e neppure un equilibrio stabile. Perciò essa importa sempre una tensione, una tendenza, e un contrasto. Il contrasto può essere con resistenze alla penetrazione del rapporto di produzione dominante, e quindi dei modi di vita che esso viene plasmando – come nel caso delle masse contadine nell'Europa dell'800 e di parte del '900, che non si oppongono attivamente al capitalismo, ma tendono a conservare forme economiche, e forme di lavoro e di vita, ai margini del mercato6. Oppure può trattarsi di contrasto attivo, di lotta tra classi dominanti, o di lotta per affermare la loro egemonia su quelle subalterne. O, ancora, di lotta “dal basso”, che ha la prospettiva di nuovi rapporti di produzione e riproduzione complessiva, e quindi di nuova egemonia. Una egemonia (anche plurisecolare, come quella della borghesia inglese o francese) non è mai immobile.

Fatte queste osservazioni, possiamo fissare preliminarmente una nozione astratta di “egemonia”. Egemonia è un rapporto di classe. In quanto in tutti i rapporti sociali (ossia nella produzione e riproduzione di concreti esseri umani, dunque anche nelle istituzioni in cui questi operano ed esistono) prevale l'instaurazione, il perfezionamento, la riproduzione, la perpetuazione del rapporto di classe fondamentale (Capitale/Lavoro nel nostro caso), la classe egemone vede attuate e conservate le condizioni della sua esistenza come classe, del suo sviluppo, e, se vi è rapporto di sfruttamento, dello sfruttamento del lavoro delle classi subalterne. Nel quadro di questo sviluppo, si attuano, conservano e modificano anche le condizioni dell'esercizio del potere politico, culturale, ideale della classe egemone, esercitato in tutto il corpo sociale.
Questa nozione di “egemonia” è astratta, come si è detto (e data qui preliminarmente, appunto per fissare le idee da sviluppare di seguito, e i termini indispensabili. Lo è, perché necessariamente tralascia i processi storici concreti, in cui una egemonia di classe di realizza, in rapporto e scontro con altre classi, e ogni volta in contesti economici, politici, culturali, istituzionali ben determinati
In quanto nozione del rapporto e processo di classi, “egemonia” è prima di tutto una nozione storica, non immediatamente politica.
Da questo discendono alcune conseguenze.

1. “Egemonia” non si riduce a “potere”, anche se implica potere, anzi molte forme di potere: quello che si esercita come costrizione, con la violenza pubblica8, quello che è “costrizione silenziosa” (economica); quello che è influenzare, sì, ma nel senso più lato e inevitabile (poiché ogni educazione, ogni creazione e offerta di orizzonti di esperienza e di pensiero, influenza gli allevati, educati, promossi, aiutati, nel bene e nel male); e che è diverso dal potere che opera come propaganda, e oggi, manipolazione e anticultura sistematica; ecc.
Ora: arrivare a detenere il potere (politico, di Stato) è un risultato di lotte (di classe, cioè egemoniali); detenerlo ed esercitarlo, è normalmente una parte dell'attuazione o dell'esercizio dell'egemonia.
Tuttavia: non si dirà che una classe è “egemone” perché “ha il potere”!9 Questa espressione è priva di senso. Prima di tutto, il potere, politico o di Stato p. es., non è esercitato da una classe, ma attraverso istituzioni, gestite da individui in carne ed ossa. Questi operano, coscientemente o no, per conto, e talvolta ance in nome, di una classe. La classe non è affatto una somma di individui, ma una totalità di rapporti, un “insieme di rapporti sociali”10.
Tra questi rapporti ve ne è uno fondamentale, il rapporto di produzione. Si sa bene che, nel mondo moderno, questo è il rapporto di Capitale/Lavoro. Ma molte discussioni astruse sarebbero evitate, e si avrebbero più chiare le idee, ricordando che quel rapporto è fondamentale semplicemente perché esso concerne il fondamento – la produzione di “beni” (in forma di merci cariche di plusvalore, e in cui il capitale si realizza, certo): e che senza questi “beni” non ci sarebbe società né vita di uomini. Ricordato questo, allora,

2. la corretta comprensione di “egemonia” permette di evitare l'economicismo.
Tutta l'annosa discussione sulla misura o il modo in cui la “base” determina la “sovrastruttura” è viziata fin dall'inizio da un fraintendimento della teoria marxiana. Se dico che “base” è “forze produttive + rapporti di produzione” - e infatti le forze produttive, “umane” e “naturali”, ma mediate dal lavoro umano, non esisterebbero al di fuori dei rapporti di produzione entro cui operano e di trasformano – ho già detto che il rapporto di produzione fondamentale può venire sorretto, garantito, bloccato, modificato da quelle “altre” attività umane, in cui si realizza la Riproduzione sociale complessiva, e che costituirebbero la “sovrastruttura”. La quale non può prodursi né esistere e operare se non c'è … quel fondamento, che se proprio vi piace, potete anche chiamare “base”,

3. Si dice spesso che un partito, o talvolta un gruppo, o anche un'ideologia o un modo di vita, è “egemone” in una condizione o una determinata società13: si vuol dire che quel partito, o gruppo, o modo di pensare ecc., è prevalente, ed esercita un potere, o anche una funzione di guida, su altri gruppi, partiti, modi di vita ecc. - È compresa in questo l'idea di un contrasto, di una competizione, e del prevalere di una parte su altre. Fin qui, bene – ma soltanto fin qui. La nozione di modo di produzione, e quindi quella di classi e di egemonia di classe, è logicamente a monte dei processi politici, culturali ecc., che si instaurano nelle società di classe e attuano (o mettono in forse) l'egemonia. Questa si realizza storicamente, configurando in un processo lungo, per lo più secolare, tutta la vita associata, e dunque creando un tipo di società.14 - In quanto rapporto e processo di classe, la nozione di egemonia è assai più vasta della sfera politica, culturale ecc. Essa riguarda il complesso delle attività attraverso cui gli uomini di una determinata società producono e riproducono la loro vita nell'ambiente non-umano, ovvero “natura”, e quindi fondamentalmente, ma non esclusivamente, mediante il lavoro produttivo in senso stretto. Con tutte queste attività gli uomini associati producono e riproducono, in definitiva, sé stessi. Perciò “egemonia” è una categoria storica. Essa riguarda la Riproduzione sociale complessiva, e in essa si esercita. Si attua dunque in una Formazione economico-sociale (nella terminologia che risale a Marx), o in un segmento di essa – come le singole nazioni o Stati sono oggi, nel mondo capitalistico, segmenti, diversamente sviluppati e interconnessi, dell'unica Formazione economico-sociale borghese, capitalistica.

4. Ma l'egemonia di una classe sfruttatrice non significa oppressione della maggioranza sfruttata? Questo è un punto da trattare con attenzione. Si sa che il sentimento dell'oppressione subita, se resta solo sentimento, dà luogo a impulsi di ribellione e tendenze anarcoidi15. Ma di fatto, l'oppressione è percepita; e, quel che più conta, esiste realmente. E allora?
Il sentimento dell'oppressione non si risolve nello “invidioso confronto” con i più fortunati (J.M. Keynes), non è “risentimento” per la propria sorte (M. Scheler), non si spiega col fatto che, a differenza di quanto avveniva nella società tradizionale, preborghese, la massa della popolazione è in grado di confrontare continuamente la propria condizione con altre (B. Russell). Queste teorizzazioni appartengono al sociologismo povero, che parte da “astratti individui” come dati, e poi li riferisce gli uni agli altri – quasi che gli “individui” fossero pensabili prima e al di fuori del processo sociale di cui sono, essi sì, i luoghi dell'azione. Il “confronto”, caso mai, è tra le possibilità umane che, in una data fase dello sviluppo storico, sono obiettivamente aperte e pensabili, e solo perciò diventano anche più o meno confusamente, immaginabiliQueste possibilità umane esistono obiettivamente. Il problema non è se esse siano attuabili “per tutti” (“tutti ingegneri”, “tutti medici”, ma anche “tutti operai” è evidentemente fuori questione). Ciò che ad esse è comune obiettivamente è la realizzabilità materiale: p. es., oggi, sarebbe possibile (in un Paese avanzato) ridurre drasticamente la giornata lavorativa, garantire alloggio, istruzione, assistenza sanitaria. (ci si torna più avanti). La realizzabilità materiale (le “risorse”, non solo economiche ma anche di capacità, abilità soggettive) non è ancora, beninteso, realizzabilità sociale, o politica – ma quella è condizione di questa, è ciò che la rende possibile. Questo possibile obiettivamente inerente a un dato grado di sviluppo umano, cioè sociale, è quello che G. Lukàcs chiama “genericità” o “adeguatezza allo sviluppo del genere umano”17: adeguatezza che può realizzarsi, una volta raggiunta, con la produttività del lavoro, la realizzabilità materiale, ma solo attraverso tutta la vita sociale, dunque attraverso le lotte sociali, politiche, culturali, che – in una società di classe – sono, nel loro complesso, come unità in movimento, lotte egemoniali per l'affermazione di quei rapporti di produzione e di riproduzione sociale complessiva (di produzione e riproduzione di uomini) che siano adeguati e conformi alla riproduzione e al potere della classe che si pone come egemone, e che è già diventata.

Non si tratta dunque di negare o svalutare il sentimento dell'oppressione, ma sì di intendere ciò che esso è. Come sentimento, esso è nell'animo dei singoli; e non è ancora chiaro pensiero, né azione razionale. Confusamente, c'è in lui la percezione del non attuarsi, in sé o in chi è prossimo, di quello che “sarebbe umanamente possibile, se... le cose stessero altrimenti, se... l'oppressione cessasse, se...”. Finché resta chiuso nel sentire, questo “se”può arrivare al triste “dovrebbe essere” della coscienza morale, che si sa nel giusto (“dovrebbe essere così, ma non è”) e contemporaneamente nell'impotenza (“non è, anche se dovrebbe essere”)18. Ma non esce dal “qui e ora”, non diventa processo, pensiero-azione. Il pensiero razionale e l'agire che a lui adeguato, ed è suo, sono sempre collettivi; diventano esperienza della contraddizione obiettiva, del lavoro e della lotta per superare quel “sarebbe giusto, ma...” in cui la coscienza astratta si blocca. Il pensiero, a differenza del mero sentire, non può restar chiuso nell'animo mio, o uscirne come semplice grido e impulso di rivolta. Esso esce fuori nel mondo degli uomini, è comunicazione e linguaggio per definizione, si misura con gli altri (“discussione”), e con le cose:è ragione che conosce e modifica il mondo. È, in generale, la forma in cui si muove il mondo degli uomini, e perciò è obiettivo, e storico
Tutto questo va bene (dirà forse qualcuno). Ma (ecco l'obiezione) – questo pensiero razionale, collettivo, obiettivo, storico, hai appena detto che diventa lotta per attuarsi, per costruire un mondo adeguato. E questa lotta, che appunto non ha da essere sogno o mera rivolta – che possibilità ha, in pratica?

5. A questa obiezione, una volta fatta, non si sfugge e non si può neppure cercar di aggirarla, predisponendo “in teoria” le condizioni di un processo, che appunto è di lotta, e lotta storica, e non uno schema, o un meccanismo ripetitivo. E allora? Allora – c'è l'esperienza, collettiva anche lei (manco a dirlo), che non permette di predire l'andamento di questa lotta qui, ma ha insegnato e insegna. E qualche conclusione teorica, si, la permette.
Rivolta, si sa, non è rivoluzione. E non è neppure transizione. “Transizione ” a un'altra formazione sociale vuol dire transizione a un altra situazione egemonica, all'egemonia di un 'altra classe, a rapporti di produzione diversi; e quindi, nel tempo, a modi nuovi di produzione e di vita, per tutti i membri della società. Queste transizioni, nella storia a noi nota, sono avvenute per lo più tramite rivoluzioni e cicli di rivoluzioni, costituendo e ricostituendo nuovi blocchi storici20, o unità-in-movimento, più o meno stabili, di classi egemonie classi subalterne. Ma qualunque forma abbiano avuto quelle lotte, esse furono, in quanto capaci di portare alla transizione, lotte egemoniali21, che portavano a instaurare una nuova egemonia di classe. Oppure non arrivarono a tanto – quando si cercò di rompere l'egemonia della classe dominante, la si costrinse in alcuni casi a un compromesso, la si spinse a modificare il blocco storico con le classi subalterne, (come avvenne nelle fasi di crescita della borghesia prima e poi del movimento operaio): e si trattò allora di conflitto tra un'egemonia sussistente e una potenziale, o soltanto in fieri.

Opera qui un'altra distinzione gramsciana importante, quella tra classe dirigente e classe dominante. Il primo termine vale per una classe capace, nell'attuare le sue istanze, di realizzare anche istanze di altre classi, pur subalterne – così la borghesia nella fase espansiva e rivoluzionaria. Il secondo vale per una classe che è dominante ancora, ma non più espansiva, non più capace di assimilare segmenti di altre classi alleate o subalterne, e che tende a trasformarsi in gruppo privilegiato o in oligarchia22.
Si è detto che “egemonia” è una categoria storica. Nelle rivoluzioni borghesi classiche (come l'olandese e l'inglese nel '600, la americana e più la francese nel '700) le rivendicazioni antiassolutistiche e antifeudali della borghesia si presentavano come affermazioni di diritti. 
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Facendo trionfare in tutto o in parte queste rivendicazioni, che si presentavano come ideali “umani”, come “diritti dell'uomo”, la borghesia apriva di fatto nuove vie di sviluppo e di autorealizzazione anche ad elementi o frazioni delle classi subalterne. L'accesso alla proprietà borghese, cioè all'artigianato, alla piccola industria, al commercio, collegati all'urbanizzazione, è stato per generazioni uno stimolo potente di integrazione di frazioni consistenti di popolazione, e ciò in senso obiettivo, cioè economico, e anche soggettivo. L'espansione economica complessiva, portato dalla produzione capitalistica, permetteva ed esigeva nuove imprese, nel commercio, nei trasporti, meno spesso nell'industria vera e propria: se era ridicolo predicare agli operai “Diventate capitalisti!” (ma lo si predicò), non pochi piccoli capitalisti, nell''800 e ancora in parte nel '900, ebbero un nonno operaio. (Si parla sempre, qui, dei Paesi borghesi “classici”, diventati poi metropoli imperialiste.) - Ancora: l'istruzione pubblica apriva la via delle professioni a una minoranza di “capaci e meritevoli”, che venivano integrati, talvolta nel corso di due-tre generazioni, nel ceto medio borghese. Ancora, e più in generale: il capitale non crea la scienza, ma la usa, e quindi la esige: la scienza è infinita, crea linguaggi universali, e può (non: deve necessariamente) contribuire a creare forme di linguaggio e coscienza universalmente umane.

In breve: la borghesia “classica” era una classe espansiva, capace di integrare in sé elementi di altre classi, e di assimilarli. E fu, nella fase pre-imperialistica, una classe progressiva: nel senso primario e obiettivo, che lo sviluppo indefinito della produzione capitalistica aveva una funzione civilizzatoria26: la generalizzazione della produzione di merci rompeva l'idiotismo localistico, metteva gli uomini in contatto con un mondo più vasto, li spingeva a cercare strade sempre nuove – sebbene queste strade, per i più, fossero poi quelle dello sfruttamento spietato, ma nello sviluppo della produttività del lavoro sociale. E nelle vicende politiche, fin verso il 1870: finché le rivendicazioni antifeudali e di libertà abbattevano ostacoli all'espansione capitalistica e all'egemonia borghese in tutte le sfere della società, e non aprivano la porta, nella loro “contaminazione” con esigenze democratiche, p. es. il suffragio universale, l'istruzione generale e gratuita, al proletariato e alle nuove classi subalterne, la borghesia in generale le portò avanti, le sostenne, e spinse il “popolo” a battersi per esse.

6. Ma l'obiezione, giustamente, ritorna. E allora? - si dirà. Tutto questo è acqua passata. Queste lotte egemoniali, i blocchi storici che la borghesia ha costruito e rimodellato quando minacciavano di rompersi, sono storia di ieri. Noi ne veniamo, e perciò è bene studiarle e capirle. Ma ora? Quali prospettive può avere una lotta egemoniale che non miri a instaurare l'egemonia della borghesia (progressiva in altri tempi, ma ora no davvero...), ma i rapporti di produzione e di via che vadano al di là del capitalismo in quanto fondamento dell'egemonia borghese?
Qui la considerazione teorica, concettuale, può fare ancora una deduzione, e un rimando.
La deduzione è questa: se, e nella misura in cui, le lotte attuali e future prossime riusciranno a essere lotte per l'egemonia, cioè per trasformare la realizzabilità materiale di nuovi rapporti di produzione e di vita(che c'è, sostanzialmente), in prospettiva effettiva dell'attuazione di questi rapporti(e dunque sia nelle cose, nelle istituzioni economiche, civili, politiche, della formazione, che negli uomini, nel loro modo di essere, di pensare sé stessi e gli altri, di agire collettivamente) – allora queste lotte, e tutto quelle che le prepara nella conoscenza e nell'organizzazione non saranno soltanto rivolta, o resistenza nobile ma residuale, e simili, ma avvio alla transizione. Quanto questo avvio sarà lungo, con quali processi rivoluzionari, e altri, la deduzione concettuale non può dire.
In secondo luogo, il rimando all'esperienza. C'è stata una lotta egemoniale, non per l'instaurazione dell'egemonia borghese, ma per il suo superamento, nel passato recente, in vari Paesi, e anche in Italia? Certo che c'è stata, e si chiamava comunemente (fino agli anni '70 circa) lotta per l'egemonia della classe operaia, nel secondo blocco storico italiano recente, quello uscito dalla lotta antifascista, dal “Secondo Risorgimento”, e dal compromesso di classe (solo e vero compromesso “storico”) iscritto nella Costituzione della nostra Repubblica (Art. 1: “Repubblica democratica fondata sul lavoro”).
L'Italia uscita dalla seconda guerra mondiale era un'epitome del mondo di allora (come la Russia, mutatis mutandis, lo era stata all'inizio del '900). Era innanzitutto un Paese industriale, con un capitalismo avanzato, ma con una semicolonia interna, il Mezzogiorno. Era poi un Paese in cui la borghesia aveva abbandonato la sua funzione nazionale, perseguendo un progetto di imperialismo subalterno (lo “imperialismo straccione” dell'inizio del secolo, fino al c.d. “intervento” del 1915, e all'insensata “guerra parallela” del 1940). Un paese a sovranità limitata dal 1938, e la cui sovranità era stata restaurata, in parte grazie all'azione della classe operaia nella Resistenza. Un Paese la cui borghesia cercò e trovò, dopo il '45, una nicchia nel nuovo mercato mondiale configurato dalla prevalenza industriale e monetaria statunitense, basandosi prevalentemente sui bassi salari, piuttosto che sulla ricerca e l'innovazione, salvo quella importata. E dove però la borghesia, con il forte sviluppo industriale degli anni '50 e '60, e pur continuando l'emigrazione di massa, seppe dare una grande risposta di classe alla sfida della “unità degli operai dei contadini”, del Nord e del Sud, svuotando le campagne e introducendo, entro certi limiti, un regime di alti consumi e di protezione sociale. Quando questo regime fu di nuovo sfidato, alla fine degli anni'60, da lotte che si proponevano l'instaurazione di diritti sociali per la sanità, l'alloggio, i trasporti, la previdenza, l'istruzione pubblica e generale fino alle scuole superiori, insomma per una sicurezza di vita di ogni lavoratore nella “Repubblica fondata sul lavoro”, e dunque per l'apertura di prospettive di sviluppo umano quanto meno per chi volesse e sapesse perseguirle - quando, dico, queste rivendicazioni furono poste e sembrarono per qualche tempo attuabili, vi fu chi parlò di “introduzione di elementi di socialismo” nella vita della nostra Repubblica, pur Paese capitalista (e imperialista-subalterno). Sbagliava?

Qui si tratta solo, per noi, di sviluppare la nozione di egemonia e di lotta egemoniale. La lotta politica può modificare comportamenti collettivi, e ottenere cambiamenti nell'ordinamento, nelle istituzioni pubbliche. Sancire dei diritti sociali non significa ancora realizzarli nella vita di tutti e di ciascuno (come sappiamo anche troppo bene): occorre per questo una grande forza politica,

La borghesia ha potuto essere indotta a questa sorta di compromessi storici, per es. in alcuni Paesi europei, nella fase c.d. “fordista”, e della presenza di un sistema concorrente, il “campo socialista” (che si presentava come uno dei “tre reparti” del movimento democratico mondiale, gli altri due essendo la classe operaia dei Paesi industrializzati, e il movimento di liberazione dei Paesi “periferici”). Ma certamente le instaurazione piena dei diritti sociali, che appunto non sono, per la forma della loro realizzazione, assimilabili ai “diritti civili” e “politici” delle rivoluzioni democratico-borghesi classiche, non poteva non urtarsi, da un lato con le esigenze del capitale in genere, dall'altro con tutte le forme giuridiche, amministrative, di vita associata in genere, che l'egemonia borghese aveva instaurato, in modi diversi, nei singoli blocchi storici, cioè nelle nazioni e Stati borghesi moderne.

Questa è la questione di egemonia – cioè dei rapporti di forza tra le classi, che naturalmente si pongono e modificano non solo nei singoli Paesi, ma ormai in tutta la Formazione economico-sociale, di cui i singoli Paesi, nella fase imperialistica, sono segmenti. L'ipotesi fatta qui sopra avrebbe implicato una lotta egemoniale, condotta dal movimento di classe e democratico del periodo in questione, e capace di far valere diritti sociali, che – se realizzati fino in fondo, a cominciare dal diritto al lavoro – vanno al di là dell'orizzonte borghese.

Ma resta vero che oggi, in un Paese avanzato, si potrebbe ridurre drasticamente la giornata lavorativa, garantire reddito di lavoro per tutti, istruzione previdenza sanità alloggio per tutti, ecc.? In astratto, certo, resta vero. Pero: la realizzabilità materiale, appunto, non è ancora realizzabilità concreta (ne è la condizione di possibilità, come abbiamo visto).
E tuttavia, la realizzabilità materiale dei diritti sociali non è scomparsa. È vero: trent'anni dopo, in presenza delle rovine di quei diritti sociali, e della nuova tappa dell'imperialismo, si tratta innanzitutto di vedere come la borghesia, essa stessa mutata, non più espansiva ma oligarchica, modifica il suo blocco storico di classi subalterne, e di popoli subalterni nella “periferia” ricapitalistizzata e ricolonizzata. E, senza dubbio, si tratta di ricominciare dopo una grande sconfitta. Ma chiunque affermi seriamente che l'orizzonte, non importa quanto lontano, è quello di una fuoruscita dal Modo di produzione capitalistico, pone una questione di lotta egemoniale, e ha obbligo di pensare conseguentemente, e indicare, come ritiene possa configurarsi un soggetto di classe di questa lotta.

Non importa qui se tale soggetto sia pensato come tutto da ricostruirsi in un lavoro e una lotta assai lunga, ecc. - La questione è un'altra: chi afferma (come Hardt e Negri, ma non solo) che la transizione non avrà più soggetto di classe, afferma con ciò stesso di pensare a una transizione (rivoluzionaria??) diversa nel genere, imparagonabile a tutte le transizioni e trasformazioni sociali del mondo moderno, borghesi o socialiste che fossero. Anche questo è lecito, beninteso. Ma ha alcune conseguenze. Non si tratta solo dei mezzi politici (non violenza, Gandhismo, movimentismo ecc.). si tratta di fondare e argomentare razionalmente un progetto storico senza precedenti storici, e senza riscontri nella costituzione di classe che è pur quella del presente. Se se ne è capaci, lo si faccia. Ma qui non valgono le frasi (“situazione inedita”, “postmodernità” “fine della storia” e via vaticinando).