Ai tempi di Marx,
secondo l’ortodossia degli economisti borghesi la crisi non doveva
esistere. Non solo per l’economia volgare, ma anche per i primi,
grandi economisti classici.
Secondo Adam Smith, per esempio, i
meccanismi del mercato sono perfetti: dobbiamo il nostro benessere
all’egoismo degli operatori economici e alla mano invisibile del
mercato, mentre lo Stato, per non compromettere questo idillio,
dovrebbe limitarsi a svolgere alcune funzioni, pur importanti, quale
l’istruzione, la difesa ecc. astenendosi dall’interferire
nell’economia.
David Ricardo, da parte sua, aderì alla cosiddetta
legge di Say, o legge degli sbocchi, secondo cui le crisi generali di
sovrapproduzione sono impossibili in quanto ogni offerta di prodotti
crea la propria domanda. Possono esserci quindi solo sovrapproduzioni
settoriali, non generali, e per i brevi periodi necessari al
raggiungimento di un equilibrio tra domanda e offerta7 .
Certamente
anche a quei tempi non mancarono gli eretici più dubbiosi, quali
Sismondi e Malthus. Ma si trattò appunto di eresie contro l’egemonia
schiacciante dei negazionisti. Figuriamoci poi cosa poterono dire gli
apologeti. Qualcuno ebbe modo perfino di studiare le macchie solari8
, tanto per escludere che le crisi potessero essere causate da
contraddizioni insite al modo di produzione capitalistico.
Insomma la crisi o
non esiste, o è il prodotto di cause “esogene”, o frutto di
comportamenti di operatori irrazionali, o troppo egoisti
(capita a volte di esagerare), oppure è il risultato di politiche
sbagliate. Comunque si tratta di uno spiacevole inconveniente, di un
evento patologico estraneo alla fisiologia del capitalismo.
Marx ha confutato la
legge degli sbocchi, partendo dall’incipit del Capitale:
il duplice carattere della merce9 . Questa «cellula elementare» del
capitalismo è già in sé una contraddizione in quanto è sia un
bene utile a soddisfare bisogni umani che una depositaria di
ricchezza sociale astratta, di lavoro umano sociale astratto
occorrente per la sua produzione. Per il produttore la sua utilità è
solo quella di essere un potenziale involucro di ricchezza sociale ma
non ha un valore d’uso immediato, altrimenti non la scambierebbe; è
un valore di scambio potenziale che per realizzarsi come effettivo
valore di scambio deve incontrare nel mercato qualcuno che le
consideri un buon valore d’uso.
Con l’introduzione
del denaro il valore si polarizza in quest’ultimo, più
appropriato, contenitore, la cui utilità sta solo nel conferire al
possessore il potere di acquistare merci utili, mentre al polo
opposto, specularmente, le merci sono valori d’uso che possono
realizzare il loro valore solo scambiandosi con denaro.
Il denaro separa in
due atti distinti la metamorfosi della merce (M-D-M’) a differenza
di quanto avviene con lo scambio immediato o baratto (M-M’). Nel
baratto colui che vende è nello stesso istante colui che acquista
l’altra merce e viceversa, vendita e acquisto coincidono, per cui
in questo contesto vale la legge degli sbocchi. Se invece lo scambio
viene spezzato in due fasi (vendita e acquisto) esiste la possibilità
che, dopo la prima, il venditore preferisca non spendere subito il
suo denaro, ma tesaurizzarlo o spenderlo in altri mercati,
togliendolo quindi dalla circolazione senza mettere in atto la
domanda corrispondente. In tal modo ci sarà da qualche parte un
potenziale venditore che non troverà il suo acquirente, che non
riuscirà a trasformare la sua merce in denaro10.
Parafrasando il
brano di Ricardo riportato nella nota 7, Marx afferma: «Nessuno può
vendere senza che un altro compri, ma nessuno ha bisogno di comprare
subito per il solo fatto di aver venduto». E poi prosegue: «La
circolazione spezza i limiti cronologici, spaziali ed individuali
dello scambio dei prodotti […]. L’opposizione immanente alla
merce di valore d’uso e valore, di lavoro privato che si deve allo
stesso tempo presentare come lavoro immediatamente sociale, di lavoro
concreto particolare che allo stesso tempo vale solo come lavoro
astrattamente generale […], questa contraddizione immanente riceve
le sue forme sviluppate di movimento nelle opposizioni della
metamorfosi della merce». Questa è la forma più astratta, la
possibilità della crisi11.
Tale possibilità si
accentua in presenza della circolazione del capitale. Non solo perché
con il capitale si ha l’espansione e la generalizzazione della
produzione di merci, ma anche perché fra la prima fase, l’acquisto
dei mezzi di produzione e della forza lavoro, e la seconda, la
vendita del prodotto, si incunea la produzione e il tempo di
produzione, nel corso del quale sono possibili rivolgimenti del
mercato tali da non consentire la completa realizzazione del valore
prodotto.
Poiché
in questo lasso di tempo [il tempo intercorrente fra l’acquisto dei
fattori produttivi e la vendita del prodotto] nel mercato si
verificano grandi rivolgimenti e modificazioni, poiché si verificano
notevoli variazioni nella produttività del lavoro, e quindi anche
nel valore reale delle merci, è evidente che dal punto di partenza –
dal capitale presupposto – fino al suo ritorno devono verificarsi
grandi catastrofi e devono ammassarsi e svilupparsi elementi di crisi
che non si eliminano con la miserevole frase che i prodotti si
scambiano contro prodotti. Il confronto fra i valori di una medesima
merce in due epoche successive […] costituisce il principio
fondamentale del processo di circolazione del capitale12.
È da considerare,
inoltre, che il movente predominante del capitale è l’accumulazione
di ricchezza astratta, a prescindere dall’utilità dei prodotti. La
crisi sopraggiunge per far ritornare alla memoria la necessità di un
rapporto coi bisogni, per rimediare allo scollamento di un modo di
produzione che tende a farne astrazione e che tuttavia si deve
misurare a posteriori con essi.
Anche la funzione
del denaro come mezzo di pagamento e il credito, che si dirama e si
interconnette tra vari produttori, amplifica la possibilità di
crisi, in quanto tende a permettere, per un po’, di continuare a
produrre prescindendo dalla validazione nel mercato dell’utilità
sociale del prodotto, rendendo così più violenta la “resa dei
conti”: il fallimento di un debitore può provocare, con la sua
insolvenza, il fallimento del suo creditore, il quale a sua volta non
potrà onorare i suoi debiti nei confronti di terzi, innescando una
reazione a catena. Anche per questo motivo le crisi si manifestano
come crisi finanziarie, provocando, in chi vede solo la superficie
delle cose, l’illusione che esse siano causate nella sfera della
finanza e del credito13.
I marxiani schemi di
produzione14 sono lo strumento per stabilire le condizioni necessarie
perché il valore prodotto possa incontrare la domanda necessaria
alla sua realizzazione. Ciò avviene se i capitalisti nel loro
complesso spendono interamente il plusvalore sia per il loro consumo
che per ampliare la scala della produzione, acquistando nuovi mezzi
di produzione e assumendo nuova forza-lavoro. Quindi la parte non
consumata improduttivamente (risparmio) deve eguagliare
l’investimento per ampliare i fattori produttivi, posto che sia
possibile e sia avvenuto il reintegro di quelli consumati nel
processo produttivo.
Si tratta
dell’uguaglianza tra risparmi e investimenti ben nota ai moderni
“macro-economisti”, che in Marx è arricchita da un’analisi
dei rapporti necessari tra i vari settori produttivi: tralasciando
per comodità i consumi dei capitalisti, il surplus di merci
dei settori che producono beni di consumo deve essere in parte
destinato ai nuovi lavoratori impiegati nei settori stessi e in parte
venduto per i consumi dei nuovi lavoratori impiegati nei settori che
producono mezzi di produzione, di modo che anche questi ultimi
settori possano assumere nuova forza-lavoro ed espandersi;
analogamente il surplus di mezzi di produzione deve essere in
parte utilizzato all’interno dei settori in cui è prodotto e in
parte scambiato con gli altri settori di modo che anche questi ultimi
possano espandere la scala della produzione.
Perché gli scambi
intersettoriali (beni di consumo contro mezzi di produzione, in
questo caso non solo per l’allargamento della produzione, ma anche
per i reintegri dei fattori produttivi consumati) possano
verificarsi, occorre che essi si bilancino anche in valore. Sono
determinabili così i rapporti di scambio necessari ad assicurare la
riproduzione allargata ottimale e che solo per caso possono
coincidere con i prezzi di mercato. Da tali rapporti si può derogare
solo temporaneamente, grazie al credito15.
In un modo di
produzione governato dagli interessi di capitalisti isolati, non
coordinati fra di loro, niente può assicurarci che la condizione si
equilibrio si realizzi. Inoltre il carattere dinamico del
capitalismo, le innovazioni tecnologiche e la tendenza a modificare
la composizione del capitale, tendono a mutare continuamente tali
condizioni. Si verificherà quindi un continuo aggiustamento, per
tentativi, errori e oscillazioni più o meno importanti, verso una
situazione ideale che, come la tartaruga di Achille, si sposta
continuamente e diviene raggiungibile solo per caso. Da qui la
possibilità della crisi.
3. Le cause della
crisi
In un sistema in cui
il movente degli agenti economici è la valorizzazione del capitale,
la causa fondamentale degli inceppamenti della produzione è
riscontrabile nell’insufficiente valorizzazione. Tale circostanza
può verificarsi o perché la massa del pluslavoro estraibile dai
lavoratori impiegati non è sufficiente a remunerare il capitale
impiegato oppure perché tale plusvalore, anche essendo prodotto in
misura sufficiente allo scopo, non è interamente realizzabile nel
mercato. In entrambi i casi il capitalista, dopo aver esaurito tutti
i margini per un maggiore sfruttamento della forza-lavoro, deve
arrestare o ridurre la produzione. In alternativa può mettere in
atto innovazioni di processo o di prodotto che lo possano ricollocare
sul mercato ai danni dei capitalisti concorrenti. Pertanto, pur
avendo ciascuna crisi proprie specifiche caratteristiche, le cause
possono essere classificate in due categorie principali, tra le quali
c’è sempre nella realtà una interazione: 3.1. crisi di realizzo,
o da domanda, e 3.2. crisi legata all’andamento del saggio del
profitto.
3.1. Crisi di
realizzo
Gli
schemi di riproduzione dimostrano che il sistema può riprodursi
armonicamente, solo a patto che vengano mantenute determinate
proporzioni fra i settori e fra gli scambi intersettoriali. Qualsiasi
sproporzione significativa può causare una crisi. Tale sproporzione
non si riferisce solo ai rapporti tra i diversi rami produttivi: una
eccessiva o insufficiente capacità produttiva di un’industria
rispetto alle necessità delle altre. Esiste anche la sproporzione
tra produzione e consumo. La domanda di beni di consumo può essere
insufficiente ad assorbire completamente la produzione a causa della
distribuzione del reddito, del fatto che ai lavoratori va solo una
parte del valore da essi aggiunto nel processo produttivo e che
quindi possono acquistare solo una parte del corrispondente prodotto
che viene messo sul mercato.
Visto
che il valore corrispondente al lavoro non pagato va ai profitti e
alle rendite, il capitale tende ininterrottamente ad accrescerlo
comprimendo i salari. Con lo sviluppo tecnologico si possono produrre
i mezzi di sussistenza della classe lavoratrice con meno dispendio di
lavoro. Così una frazione sempre più piccola della ricchezza
prodotta va ai lavoratori e una sempre più grande costituisce il
plusvalore. Cosa succede del plusvalore prodotto, cioè del valore
eccedente la capacità di spesa dei lavoratori? I capitalisti
potrebbero spenderlo in beni di lusso ma, per quanto ingenti siano
tali consumi, il consumo improduttivo contraddice la stessa natura
del capitalista, che è un funzionario, la personificazione del
capitale, la cui vocazione è l’accumulazione. Debbono quindi
spenderla in buona parte per accrescere la capacità produttiva.
Ma
a chi vendere il prodotto di questa nuova capacità? Certo il mercato
di mezzi di produzione fra capitalisti assume un’importanza
crescente, ma è assurdo ritenere che si possano produrre sempre più
mezzi di produzione per venderli ad altri capitalisti che i quali li
acquistano per poter produrre ancor più mezzi di produzione e così
via. Il capitalista può tendere ad astrarre dai bisogni reali per
concentrarsi sul profitto, ma può farlo solo entro certi limiti. A
lungo andare la crisi gli ricorderà che non si può produrre senza
un rapporto col consumo e con i bisogni. E in questo caso i bisogni
che contano sono quelli “solvibili”16, non quelli che le classi
impoverite non riescono a soddisfare.
In
sostanza il capitale tende a limitare la capacità di consumo dei
lavoratori e nello stesso tempo a espandere il livello della
produzione, di conseguenza ad accrescere la massa di prodotti che non
possono entrare nella circolazione.
3.2. Caduta
tendenziale del saggio del profitto
Un
altro motivo per cui è improbabile un’accumulazione indisturbata
consiste nel fatto che i capitalisti investono, e quindi comprano
mezzi di produzione e forzalavoro, solo se prevedono un sufficiente
ritorno del capitale investito, se si aspettano di poter fare
profitti a sufficienza. Altrimenti arrestano il processo di
accumulazione e con esso la loro domanda di mezzi di produzione e la
domanda di mezzi di consumo da parte dei propri lavoratori.
La
convenienza a investire si verifica quando l’importo del plusvalore
determina una sufficiente aliquota del capitale anticipato, cioè in
un ragionevole saggio del profitto, in base alle condizioni sociali e
tecniche vigenti in quel determinato momento, saggio del profitto,
definito come il rapporto tra plusvalore e capitale anticipato sia
per retribuire la forza-lavoro (capitale variabile) che per
acquistare mezzi di produzione quali macchinari, materie prime e
semilavorati, energia, brevetti ecc. (capitale costante).
pv
r = -----
c+v (1)
(r
= saggio
del profitto; pv = plusvalore; c = capitale costante; v = capitale
variabile)
La
tendenza alla diminuzione del saggio del profitto è una
caratteristica del modo di produzione capitalistico, rilevata in
moltissimi studi empirici18. Già gli economisti classici, di fronte all’evidenza, avevano cercato di individuarne le cause. Ricardo, ad
esempio, la spiegò con la necessità di mettere a coltura terre sempre nuove e sempre
meno fertili19. Marx la spiega col progressivo aumento della composizione del
capitale (c/v) e del valore complessivo del capitale per addetto o, che è la stessa cosa,
con tendenza a sostituire lavoratori con macchine, con la conseguenza che il
numeratore della (1), il plusvalore, viene a rapportarsi con un denominatore, il
capitale, sempre più grande.
Non si tratta quindi di un problema del singolo capitalista, ma della classe dei
capitalisti nel loro insieme, in quanto si abbassa il saggio medio del profitto, dato dai
valori aggregati della (1), che per distinguerli rappresentiamo con la lettera
maiuscola.
Pv
r = -------
C+V (2)
Vediamo come può accadere. Il mercato determina una tendenza al livellamento
dei prezzi, cioè all’affermazione, per ogni merce prodotta, di un valore medio di
mercato20, dato dal lavoro sociale necessario alla produzione di quella merce sulla
base di un livello medio di produttività. Se un capitalista riesce a introdurre nella sua
impresa un’innovazione che accresce la produttività e gli permette di produrre a un
costo (valore individuale) inferiore a quello prevalente nel mercato (valore sociale), si
assicura ugualmente la possibilità di vendere al valore di mercato, o anche a un
corrispettivo alquanto inferiore. In questo modo, visti i minori costi, realizzerà un
profitto e un saggio del profitto superiori a quello medio. Produrre a costi inferiori al
valore di mercato equivale a diminuire la quantità di lavoro impiegata in quella
produzione, diminuire il valore individuale di quel prodotto e incrementare il margine
di profitto individuale. È questo il movente principale dell’introduzione delle
innovazioni.
Prima o poi gli altri capitalisti reagiranno introducendo anch’essi delle
innovazioni per annullare il vantaggio competitivo iniziale del concorrente, o
addirittura mandarlo “fuori mercato” attraverso tecnologie o trucchi21 ancora più efficaci. Nella incessante corsa della concorrenza, una volta incamerati i vantaggi
temporanei da parte di chi è più veloce nell’introdurre l’innovazione, abbiamo come
risultato che diminuisce il lavoro complessivo speso per la produzione delle merci,
quindi il loro valore, e che uno stesso numero di lavoratori mette in movimento una
massa crescente di mezzi di produzione. Detto altrimenti, con la generalizzazione
delle innovazioni, in ogni merce sarà inglobata una minore quantità di lavoro, mentre
aumenterà il valore complessivo del capitale in rapporto al lavoro vivo speso e il
valore del capitale costante in proporzione a quello del capitale variabile.
La tendenza generale sarà quindi verso la diminuzione del saggio del profitto22,
pur con interruzioni, rimbalzi e fasi – anche prolungate nel tempo – in cui prevale la
tendenza opposta.
Non si tratta di una ineluttabile caduta. Marx considera anche l’azione dei fattori,
da lui chiamati cause antagonistiche23, che mitigano, e in alcuni casi invertono,
questa tendenza. Infatti il capitale mette in atto politiche che ostacolano questa
caduta: in primo luogo, un maggiore sfruttamento della forza lavoro. A tale scopo
funzionano sia l’intensificazione del lavoro che la riduzione del valore della forzalavoro,
attraverso innovazioni tecnologiche ma anche attraverso l’abbassamento del
tenore di vita dei lavoratori. L’ampliamento dell’esercito industriale di riserva può
servire per abbassare il livello dei salari al pari dell’attuale tendenza alla
delocalizzazione delle produzioni in parti del globo terrestre in cui la forza-lavoro è a
più a buon mercato. Tutte queste pratiche tendono però a comprimere la domanda e
comunque possono solo parzialmente o temporaneamente, anche se per periodi
rilevanti, contrastare la caduta del saggio del profitto.
Quando il livello del saggio del profitto non consente di proseguire
convenientemente la produzione, si ha una contrazione della produzione, un arresto
degli investimenti e un’interruzione dell’accumulazione. La convenienza viene
ripristinata violentemente attraverso una crisi che permette la distruzione del capitale
in eccesso, particolarmente quello dei capitalisti “marginali” e l’avvio un nuovo ciclo.
Col progressivo accrescimento della produttività, con la sostituzione progressiva del
lavoro umano con le macchine, sempre meno il lavoro sarà in grado di valorizzare
l’enorme massa di capitale accumulato.
Nel famoso frammento sulle macchine dei Grundrisse, citato a proposito e a
sproposito, vi si trova già l’esposizione dei limiti della valorizzazione, ma si ragiona
sulle conseguenze più generali di una tale prospettiva, non solo dal punto di vista del
capitale24.
Con l’incorporazione della scienza nelle macchine, il lavoratore si riduce a
un’appendice delle macchine stesse. La massa di valori d’uso prodotti (di ricchezza
reale, di cui il valore è solo un aspetto) dipende più dalle potenze della scienza che
dal lavoro vivo.
Perdendo importanza il lavoro vivo nella produzione di valori d’uso, perde
importanza anche il tempo di lavoro come misura del valore. E anche il plusvalore
prodotto cessa di essere la condizione per lo sviluppo della ricchezza.
Il capitale è esso stesso la contraddizione in processo, per il fatto che tende a ridurre
il tempo di lavoro a un minimo, mentre, d’altro lato, pone il tempo di lavoro come unica
misura e fonte della ricchezza. Esso diminuisce, quindi, il tempo di lavoro nella forma
del tempo di lavoro necessario, per accrescerlo nella forma del tempo di lavoro
superfluo [...]. Da un lato esso evoca, quindi, tutte le forze della scienza e della natura,
come della combinazione sociale e delle relazioni sociali, al fine di rendere la creazione
della ricchezza (relativamente) indipendente dal tempo di lavoro impiegato in essa.
Dall’altro lato esso intende misurare le gigantesche forze sociali così create alla stregua
del tempo di lavoro, e imprigionarle nei limiti che sono necessari per conservare come
valore il valore già creato25.
Viene in tal modo ribadito il concetto che lo sviluppo capitalistico tende a ridurre
il tempo di lavoro necessario ma, contraddittoriamente, pone il tempo di lavoro e
l’eccedenza di lavoro come unica fonte di arricchimento e di valorizzazione del
capitale. A ben guardare sia la caduta del saggio del profitto che il sottoconsumo sono
riconducibili a questo carattere di fondo del capitalismo.
La pulsione del capitalismo di accrescere il pluslavoro diminuendo il lavoro
necessario attraverso le macchine, crea le condizioni per aumentare il tempo di non
lavoro disponibile per l’umanità. Da un lato, quindi, si ampliano le potenzialità per
sviluppare la ricchezza materiale, moltiplicare i beni utili prodotti a prescindere
dall’accumulazione di valore e di ridurre il tempo di lavoro per tutti. Dall’altro, la
forma capitalistica della produzione e dell’appropriazione tende invece a bloccare
queste potenzialità. L’accumulazione di plusvalore a prescindere dai valori d’uso
genera una sovrapproduzione di capitale e di merci, una crisi e un’interruzione
dell’accumulazione stessa. La contraddizione si risolve positivamente solo se la
crescita delle forze produttive non viene subordinata all’estorsione di pluslavoro, se i
lavoratori divengono padroni del loro prodotto e regolano l’attività economica sulla
base dei bisogni e dell’obiettivo di liberare progressivamente gli uomini dal lavoro.
La vera misura della ricchezza sarà appunto questo tempo liberato e non il tempo di
lavoro. Ma questa possibilità di sviluppo umano presuppone il superamento del
capitalismo.
Detto con le parole di Marx,
il processo produttivo materiale immediato viene a perdere esso stesso la forma della
miseria e dell’antagonismo. [Subentra] il libero sviluppo delle individualità, e dunque
non la riduzione del tempo di lavoro necessario per creare lavoro eccedente, ma in
generale la riduzione del lavoro necessario alla società ad un minimo, a cui poi
corrisponde la formazione artistica, scientifica, umana degli individui grazie al tempo
divenuto libero e ai mezzi creati per essi tutti26.
Nell’ambito del capitalismo, invece, la contraddizione si supera con la distruzione
di capitale e con la crisi.
4. L’operare congiunto delle contraddizioni 3.1. e 3.2.
La mancanza di un ritorno adeguato blocca il processo di investimento e
l’occupazione dei lavoratori e quindi compromette lo sbocco delle produzioni delle
industrie che vendono mezzi di produzione e di quelle che vendono beni di consumo
dei lavoratori, le quali a loro volta domanderanno meno mezzi di produzione e meno
forza lavoro, innescando una spirale perversa27.
Quindi nella realtà la contraddizione derivante dall’insufficienza degli sbocchi e
quella derivante dalla caduta del saggio del profitto – riconducibili entrambe, come si
è visto, alla scissione fra utilità sociale e arricchimento privato – spesso convivono,
agiscono in simbiosi e danno luogo a interazioni importanti. Per questo, dovendo
analizzare una situazione concreta, è assai difficile isolare e misurare empiricamente i
due aspetti in maniera distinta.
La crisi, in estrema sintesi, ha il suo fondamento nella contraddizione fra lo
sviluppo delle forze produttive sociali e i rapporti di produzione capitalistici. Se da un
lato il capitale viene spinto ad espandersi sempre di più, dall’altro lato i rapporti di
produzione e di proprietà si frappongono a questo sviluppo creando
sovrapproduzione di capitale, cioè un capitale che non riesce a valorizzarsi
adeguatamente e una sovrapproduzione di merci, cioè merci che non riescono a
essere vendute a un prezzo remunerativo.
Le cause quindi possono essere molteplici: espansione non armonica tra i vari
settori produttivi, scarsa valorizzazione del capitale investito, scarsità di domanda
solvibile. Nella pratica esse quasi sempre coesistono e concorrono a trasformare la
potenzialità in crisi reale che interrompe l’accumulazione di capitale, producendo
scossoni e inceppamenti della produzione discontinui nel tempo.
Non solo. Se è agevole rilevare empiricamente una tendenza, pur fra grandi
oscillazioni, anche di lunga durata, alla diminuzione del saggio del profitto, molto più
complesso è stabilire in che misura questa caduta sia da attribuire a una
sovrapproduzione di capitale, quindi a una insufficiente estrazione di pluslavoro
rispetto al lavoro “morto”, o a una carenza della domanda che impedisce di vendere a prezzi che consentano di realizzare tutto il valore prodotto, concorrendo i due fattori a
determinare tale caduta28.
Detto ciò, non troviamo spiegazione delle ragioni di una disputa fra marxisti per
individuare la vera teoria di Marx, se essa sia legata ai problemi dello sbocco o alla
caduta del saggio del profitto. Marx in un passo delle Teorie sul plusvalore ebbe ad
affermare che la crisi è «la compensazione violenta di tutte le contraddizioni
dell’economia borghese»29, che possono essere ricondotte alla contraddizione tra il
carattere sociale della produzione, che si è imposto con lo sviluppo del capitalismo, e
il carattere privato dell’appropriazione.
Quello appena citato è solo di uno dei tanti passi in questo senso all’interno di un
abbozzo di critica a Ricardo, ma è curioso che ciò non sia bastato a prevenire questa
disputa. Le crisi ci dicono che tale modo di produzione non è né naturale né eterno ed
è destinato a fare spazio, pena l’arretramento della nostra civiltà, a un modo superiore
di produrre, in cui le scelte vengano effettuate dai produttori associati su base
consapevole, con riguardo ai bisogni umani e non demandate alla spontaneità del
mercato e guidate dalla brama di arricchimento privato.
Per questo lascia perplessi anche una recente affermazione di Vladimiro Giacché,
secondo cui la caduta del saggio del profitto «non è una spiegazione delle singole
crisi, ma un’interpretazione delle tendenze di lungo periodo del modo di produzione
capitalistico»30. Invece è l’una non meno dell’altra. Non solo perché la stessa teoria
della crisi in Marx è uno strumento efficace per sostenere l’esigenza di superare il
modo di produzione capitalistico e non solo per spiegare il “ciclo” economico, ma
anche in quanto la crisi si sviluppa proprio nel rapporto dialettico fra le diverse
contraddizioni di questo modo di produzione, dal momento che la legge non agisce
isolatamente fino a compromettere le prospettive di lungo periodo, scontrandosi
quotidianamente con gli altri problemi dell’economia borghese.
I tasselli di una teoria coerente e unitaria sono costituiti dall’insieme delle
contraddizioni individuate da Marx, in quanto è sempre possibile mettere delle pezze
quando una singola classe di ostacoli tocca particolarmente il corpo sociale e
soprattutto la tasca dei capitalisti, ma non è altrettanto agevole aggredire
contemporaneamente l’insieme degli intoppi. Infatti, nel caso di crisi da domanda è possibile farvi fronte con una più equa distribuzione, con il sostegno della spesa
pubblica e con altri accorgimenti che anche il buon Keynes ci ha suggerito. Ma
queste misure vanno a deprimere il saggio del profitto, in quanto accrescono il costo
della forza-lavoro, dato dal salario diretto, indiretto e differito.
Non a caso dagli anni Settanta del secolo scorso in poi, a seguito di una
contrazione del saggio del profitto, queste politiche sono state messe al bando, non
solo nella pratica e nelle istituzioni accademiche, ma perfino nel disegno istituzionale
dell’Europa. La risposta è stata quindi – dal Cile di Pinochet alla Gran Bretagna della
Thatcher, all’America di Reagan e successivamente alla generalità delle economia
occidentali – l’introduzione del nuovo vangelo liberista, che, contraendo il reddito dei
lavoratori e la spesa pubblica, ha determinato problemi di domanda.
A questi ultimi si è cercato di far fronte con il ricorso al credito. Come ha rilevato
acutamente Vladimiro Giacché, si è cercato di realizzare così «il sogno di ogni
capitalista»: lavoratori pagati poco ma buoni consumatori.31 Per accertare per quanto
tempo può funzionare il trucco, è bastato avere la pazienza di attendere lo scoppio
della bolla creditizia come nel caso dei mutui subprime e dei loro derivati negli
USA32.
Analogamente si può intervenire sul saggio del profitto riducendo i salari diretti,
indiretti e differiti, dislocando le produzioni dove i salari sono più bassi, aumentando
la velocità di circolazione del capitale, riducendo le scorte e procedendo alla
cosiddetta produzione snella ecc. Ma in questo modo si deprime la domanda33.
È come se il sistema economico fosse un vascello che naviga in uno stretto fra
due pericolosi scogli: il sottoconsumo e la caduta del saggio del profitto, omettendone
per semplicità un terzo, la questione ambientale connessa ai limiti fisiologici dello
sfruttamento della natura, per quanto in buona parte dilatabili grazie al progresso
della scienza. Con le misure che servono per promuovere la domanda al fine di
evitare Scilla si riducono i margini di profitto, in quanto cresce il valore della forzalavoro
e ci si avvicina paurosamente a Cariddi. Cercando di allontanarci da
quest’ultima, ripristinando i margini di profitto, sia pure entro i limiti già visti, si
deprime la domanda e ci si avvicina pericolosamente a Scilla.
Certo, esistono poi altre politiche che possono aggredire la caduta tendenziale, per esempio le privatizzazioni, cioè la sussunzione sotto il dominio del capitale di
attività finora demandate alla socialità pubblica, non mediata dal mercato (istruzione,
cultura, previdenza, tutela dell’ambiente, mobilità), oppure alla socialità immediata
comunitaria, quali alcune attività domestiche. Infine soccorre lo sfruttamento più
intenso dell’ambiente dei beni comuni. Ma anche questa pervasività non può andare
oltre il limite del capitale che si impadronisce di tutto, abbracciando ogni aspetto
dell’esistenza naturale e sociale.
Possiamo concordare con l’osservazione di Sgro’ che in Marx non vi sia un’unica
teoria della crisi, solo nel senso che quest’ultimo non ha individuato un’unica causa
ma almeno due. Tuttavia l’intreccio di queste cause permette di comporre un sistema
coerente. Si può anche assentire che non esista una teoria marxiana della crisi
compiuta, così come invece lo è l’analisi della merce e del denaro, del plusvalore ecc.
Nondimeno è altrettanto vero che, nel contesto di una serie di abbozzi in cui non è
facile districarsi, emergono con nettezza tutti gli elementi fondamentali che,
opportunamente organizzati, possano offrirci una teoria generale unitaria, nel suo
insieme robusta, ovviamente nell’ambito di un modello semplificato in cui non
intervengono molti altri fattori che devono essere considerati nell’analisi delle crisi
reali, tra cui il mercato mondiale, la finanza, il ruolo dello Stato, argomenti che non
possiamo trattare in questa sede.
Nel paragrafo precedente abbiamo posto l’evidenza su «tutti» pensando
all’articolo di Breda citato in premessa. Infatti ci pare che non ci sia necessità di
introdurre teorie cuscinetto per una spiegazione generale della crisi. Certamente ogni
crisi fa storia a sé. Se vogliamo esporre come si è verificata, per esempio, la crisi
esplosa nel 2007 (ma in realtà avente origine negli anni Sessanta/Settanta del secolo
scorso), dobbiamo introdurre tutta una serie di elementi empirici, dati e analisi che ci
possano far cogliere le particolarità di questa crisi. Se poi vogliamo intervenire
politicamente nel contesto di questa crisi, a maggior ragione devono essere prese in
considerazione ulteriori variabili, quali i rapporti di forza, gli strumenti per operare, il
contesto istituzionale le possibili alleanze internazionali ecc. Ma solo disponendo di
una teoria generale appropriata, anche al livello di astrazione cui è potuto giungere
Marx, è possibile valutare adeguatamente questi elementi e isolare le specificità che
rendono questa crisi diversa dalle altre. Se la teoria di Marx non fosse coerente,
dovremmo invece inventarcene un’altra, per evitare di incorrere in una «descrizione
caotica di un insieme» senza pervenire a «una totalità ricca, fatta di determinazioni e
relazioni»34.
Note.
7 «
No man produces but with a view to consume or sell, and he never sells but with an intention to purchase
[…]. By producing, then, he necessarily become either the consumer of his own goods, or the purchaser and
the consumer of the goods of some other person» (Nessuno produce se non allo scopo di consumare o
vendere e non vende mai se non con l’intenzione di comprare […]. Producendo, quindi, diventa
necessariamente sia il consumatore delle proprie merci che l’acquirente e consumatore di merci altrui). D.
Ricardo, On the Principles of Political Economy and Taxation, Prometheus Books, Amherst-New York,
1996, p. 201.
8 W.S. Jevons scrisse diverse opere su questo argomento, segnaliamo qui per brevità Commercial Crises and
Sun-Spots, «Nature», vol. 19 (14.11.1878), pp. 33-37 (parte 1) e vol. 19 (24.4.1879), pp. 588-590 (parte 2).
9 Da qui fino alle contraddizioni insite nella metamorfosi della merce incluse, il riferimento è K. Marx, Il
capitale, libro I, a cura di R. Fineschi, La città del sole, Napoli, 2011, pp. 45-159.
10 È da evidenziare che la posteriore confutazione da parte di Keynes della legge di Say, così come esposta
nella sua Teoria Generale, è in maniera impressionante sovrapponibile a quella precedente di Marx. Cfr. J.M.
Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Utet, Torino, 2001, pp. 202-206.
11 K. Marx, Il capitale, libro I, cit., p. 126.
12 Id., Storia delle teorie economiche, Einaudi, Torino, 1955, vol. II, pp. 546-547.
13 «In un sistema di produzione in cui tutto il meccanismo del processo di produzione riposa sul credito, deve
evidentemente prodursi una crisi, un’affannosa ricerca di mezzi di pagamento, al momento in cui
improvvisamente il credito viene a mancare e tutti i pagamenti devono essere fatti in contanti. A prima vista
sembra quindi che la crisi nel suo complesso, sia unicamente una crisi creditizia e monetaria». Id., Il
capitale, libro III, Ed. Riuniti, Roma, 1965, p. 576.
14Cfr. Id., Il capitale, libro II, Ed. Riuniti, Roma, 1965, pp. 411-544.
15 Il motivo è che se i prezzi di mercato non rispettano questo rapporto, un settore realizzerà meno valore di
quello necessario ad acquistare dall’altro e quindi la riproduzione sarà possibile a condizione che uno dei due
settori sia deficitario. A questa situazione si può rimediare col credito fra industrie o col credito bancario.
Tuttavia, se l’equilibrio di bilancio in qualche modo non si ripristina, qualche impresa prima o poi deve
fallire o comunque le quantità prodotte e gli scambi non soddisfano i rapporti che assicurerebbero la crescita
ottimale.
16 «Che c’entra la sovrapproduzione in generale con i bisogni assoluti? Essa ha a che fare solo con i bisogni
capaci di pagamento». K. Marx, Storia delle teorie economiche, cit., vol. II, p. 570.
17 Id., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. II, La Nuova Italia, Firenze, 1970, p.
27. È vero che con il credito anche questa contraddizione può essere per un po’ ed entro certi limiti
dimenticata. Ma la crisi dei mutui subprime, per esempio, è stato il modo pratico per rammentare questi
limiti.
18 Fra gli innumerevoli studi al riguardo si possono citare A. Shaikh, The Falling Rate of Profits as the Cause
of Long Waves: Theory and Empirical Evidence, in A. Kleinknecht ‒ E. Mandel ‒ I. Wallerstein (eds.), New
Findings in Long-Wave Research, Macmillan Press, London, 1992; F. Moseley, The Rate of Profit and the
Future of Capitalism, in «Review of Political Economics», may 1997; D. Basu ‒ P.T. Manolakos, Is there a
tendency for the rate of profit to fall? Econometric evidence for the U.S. economy, 1948-2007, Working
Paper Univ. of Massachusetts, Amherst, 2010; A. Freeman, National Accounts in Value Terms: the Social
Wage and Profit Rate in Britain 1950-1986, in P. Dunne (ed.), Quantitative Marxism, Polity Press,
Cambridge, 1991; A. Kliman, The Falling-Rate-of-Profit Tendency, Insufficient Destruction of Capital, and
Bubbles, Depart. of Economic, Pace University, Pleasantville-New York, 2009; G. Duménil ‒ D. Lévy, The
Economics of the Profit Rate: Competition, Crises, and Historical Tendencies in Capitalism, Edward Elgar,
Aldershot, 1993; F. Moseley, The Falling Rate of Profit in the Postwar United States Economy, Palgrave
Macmillan, London, 1991; M. Li ‒ F. Xiao ‒ A. Zhu, Long waves, institutional changes, and historical
trends: a crisi study of the longterm movement of the profit rate in the capitalist world economy, in «Journal
of World-Systems Research», vol. XIII (2007), n. 1. È da precisare che se c’è sufficiente accordo sulla
tendenza rilevata, non altrettanto è per le cause. Per esempio Moseley preferisce parlare di Profit Squeeze e
ne attribuisce la causa al processo di crescita del lavoro e degli investimenti improduttivi, molti altri autori
invece ritengono di spiegare questa tendenza storica con i crescenti problemi di realizzo del plusvalore.
19 Si tratta della nota teoria della rendita differenziale. Cfr., D. Ricardo, On the Principles of Political
Economy and Taxation, cit., pp. 45-57.
20 Prescindiamo qui dal problema della trasformazione dei valori in prezzi di produzione, la cui trattazione ci
porterebbe a dilungarci troppo. Ai nostri fini è sufficiente osservare i valori di mercato, purché si consideri
già risolto opportunamente, come ritengo sia avvenuto, tale problema, a proposito del quale rimando al
volume collettaneo A. Freeman ‒ G. Carchedi (eds.), Marx and Non-equilibrium Economics, Edward Elgar,
Cheltenham, 1996 e, in lingua italiana, a L. Vasapollo (a cura di), Un vecchio falso problema, la
trasformazione dei valori in prezzi nel Capitale di Marx, Laboratorio per la Critica Sociale, Roma, 2002. Per
un’impostazione diversa dalla TSSI (Temporal Single-System Interpretation) si veda G. Cingolani, La teoria
del valore-lavoro dopo Sraffa, Franco Angeli, Milano, 2006.
21 Come aveva notato anche Joseph Schumpeter, le innovazioni possono riguardare non solo la tecnologia,
ma anche l’organizzazione della fabbrica, le relazioni con i lavoratori (Marchionne docet), l’individuazione
di nuovi prodotti o mercati, la creazione di un marchio o di un altro strumento in grado di assicurarsi un
monopolio, la ricerca di nuove e più convenienti forme di approvvigionamento delle materie prime, ecc. (cfr.
J.A. Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, Etas, Milano, 2002, p. 68). Tuttavia il “verso” delle innovazioni tecnologiche rimane quello indicato e anche una parte degli altri tipi di innovazione si traduce in
risparmio di lavoro.
22Cfr. K. Marx, Il capitale, libro III, cit., pp. 259-281.
23Cfr. ivi, pp. 283-292.
24 Cfr. Id., Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. II, cit., pp. 398-411.
25 Ivi, p. 402.
26 Ivi, pp. 401-402.
27 Keynes aveva trattato formalmente le ripercussioni di un incremento o di una diminuzione
dell’investimento, o anche della spesa pubblica, introducendo la nozione di moltiplicatore degli investimenti
(J.M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, cit., pp. 301-308). Marx, pur trattando l’argomento in
maniera non formalizzata, era più che consapevole di queste interrelazioni e per alcuni aspetti le aveva
anticipate o quantomeno aveva indicato una linea di ricerca nella medesima direzione. Per esempio, in un
passo delle Teorie sul plusvalore, evidenziò come la contrazione iniziale della spesa per investimenti in
un’industria possa innescare una spirale con conseguenze in tutto il sistema, determinando una generalizzata
carenza di domanda e disoccupazione (cfr. K. Marx, Storia delle teorie economiche, cit., vol. II, pp. 576-78).
Nel secondo volume delle Teorie sul plusvalore (ivi, pp. 585-587) troviamo invece un’anticipazione di un
altro concetto sviluppato poi da Albert Aftalion e da John Maurice Clark nelle prime due decadi del
Novecento: l’acceleratore degli investimenti.
28 Per quanto lo consenta la raccolta e l’organizzazione dei dati statistici, è utile a tal fine accertare
l’andamento nel tempo del valore del capitale per addetto.
29 K. Marx, Storia delle teorie economiche, cit., vol. II, p. 560 (corsivo mio).
30 Giacché lo sostiene in una recente recensione su «Micromega» a un libro di Cesaratto, cfr. V. Giacché, “Sei
lezioni di economia”: un libro per capire la crisi dell’Europa. E uscirne, 13/12/2016: http://temi.repubblica.it/micromega-online/%E2%80%9Csei-lezioni-di-economia%E2%80%9D-un-libroper-capire-la-crisi-dell%E2%80%99europa-e-uscirne/.
Il libro di Cesaratto ‒ Sei lezioni di economia.
Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), Imprimatur, Reggio Emilia, 2016 ‒ è
indubbiamente un importante testo divulgativo di critica dell’economia ortodossa, utile alla comprensione
della natura della crisi attuale e alla demistificazione delle “ricette” fin qui seguite per uscirne. Tuttavia,
proprio per essere un testo divulgativo ma rigoroso, dispiace che vi venga licenziata con troppa sicurezza la
teoria del “valore-lavoro” (le virgolette sono d’obbligo, visto che l’espressione non è di Marx) e
conseguentemente la legge della caduta tendenziale del saggio del profitto, senza dare conto delle
interpetazioni della teoria del valore di Marx alternative a quelle della scuola sraffiana, limitandosi a
liquidare come «orfanelli del valore-lavoro» e «anacronisti» i relativi fautori.
31 V. Giacché, Il ritorno del rimosso. Marx, la caduta del saggio del profitto e la crisi, in G. Sgro’ (a cura di),
Crisi e critica in Karl Marx, cit., p. 261. Per motivi di brevità non trattiamo il credito alle imprese e la
finanza, rispetto al quale comunque troviamo negli abbozzi di Marx notevoli spunti. Si veda per esempio i
capitoli del terzo libro del Capitale dedicati al capitale fittizio. Cfr. K. Marx, Il capitale, libro III, cit., pp.
547-690.
32 «Il sistema monetario è essenzialmente cattolico, il sistema creditizio essenzialmente protestante. […]
Come carta l’esistenza monetaria delle merci ha soltanto un’esistenza sociale. È la fede che rende beati […].
Ma come il protestantesimo non riesce a emanciparsi dai principi del cattolicesimo, così il sistema creditizio
non si emancipa dalla base del sistema monetario» (ivi, p. 690). Questo monito funziona ancora per l’odierna
“base monetaria” inconvertibile in oro creata dalle banche centrali e, a maggior ragione, per la base
monetaria creata dal niente, attraverso i depositi, dalle banche ordinarie. Lo testimoniano le ricorrenti crisi
monetarie.
33 Altre cause antagonistiche possono essere la centralizzazione del capitale e il mercato mondiale ecc. Ma la
prima avviene spesso attraverso la distruzione del capitale delle imprese che chiudono i battenti e il mercato
mondiale non rappresenta altro che un trasferimento su una scala più vasta delle medesime contraddizioni.
34 K. Marx, Lineamenti della critica dell’economia politica, vol. I, La Nuova Italia, Firenze, 1968, pp. 26-27
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