*Etica & Politica / Ethics & Politics, XIX, 2017, 1. http://www2.units.it/etica/
**Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi
Università di Bergamo.
Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2016/05/un-reddito-garantito-ci-vuole-ma-quale.html
https://ilcomunista23.blogspot.it/2015/12/salario-minimo-garantito-reddito-di.html
Quesito 1.
In Italia, nonostante l’assenza di misure universali di sostegno al reddito
abbia per molti anni tenuto fuori il paese dal dibattito europeo, ultimamente si
sono moltiplicate iniziative regionali (per esempio il reddito di dignitàpugliese
o il reddito di autonomia piemontese) o amministrative, proposte di legge
(quella del Movimento 5 Stelle e quella di SEL, per esempio), iniziative
popolari. Anche il ministro Poletti ha recentemente annunciato l’introduzione
di un “reddito di inclusione” a livello nazionale. In molti casi la discussione ha
riguardato dispositivi molto distanti, nell’impianto e nella filosofia, dal reddito
di base incondizionato, presentando caratteri di familismo ed eccessiva
condizionalità. In Svizzera, invece, si è recentemente svolto un referendum per
l’introduzione di un reddito di base incondizionato su scala nazionale. A cosa
è dovuto, a suo parere, il ritardo italiano – ammesso e non concesso che di
“ritardo” effettivamente si tratti? Come è possibile tradurre politicamente un
dibattito teorico che dura ormai da decenni?
G. Vertova:
Trovo abbastanza bizzarro che la prima domanda di un dibattito sul reddito
di base (RdB) non riguardi la validità della proposta, quanto il ritardo nella
discussione teorica e nella pratica politica italiana. Lo trovo ancora più
bizzarro quando si invita al dibatto una persona che, in più di una occasione,
ha sollevato critiche, sia teoriche che politiche, al RdB1
. Forse sarebbe stato
intellettualmente più stimolante chiedere ai partecipanti una analisi di tale
proposta. Mi prendo, quindi, la libertà di riassumere, molto velocemente, le
mie perplessità, prima di rispondere.
Prima di tutto è necessario chiarire di cosa si sta parlando, perché il
dibattito sia teorico che politico, soprattutto in Italia, è molto confuso: reddito
di esistenza, di base, minimo garantito, di dignità, di autonomia, di inclusione,
salario sociale, vengono usati come sinonimi delle diverse proposte, come
semplici etichette che nascondono, in realtà, cose molto diverse. Il RdB è una
proposta molto chiara e specifica: il pagamento regolare di un reddito (in
moneta, non in natura, come è, in genere, il welfare), su base individuale (non
familiare, come sono spesso i sostegni al reddito in Italia), universale (per tutti,
indipendentemente dalla condizione lavorativa) e incondizionato (non
vincolato a un requisito lavorativo o alla volontà di offrirsi nel mercato del
lavoro)2
. Questa nuova forma di welfare viene presentata dai sostenitori come
“la” proposta di politica economica per superare la precarietà e la
disoccupazione dilagante, in questa nuova fase di accumulazione capitalistica
e, a maggior ragione, oggi, in questo periodo di crisi.
Le giustificazioni teoriche della proposta3 la qualificano immediatamente.
La ricerca della giustizia redistributiva (Rawls), della libertà dalla povertà e dal
ricatto del lavoro (Rodotà), o della riappropriazione dei frutti della
cooperazione sociale (Negri) evidenziano come il RdB sia una proposta di
redistribuzione (del reddito ed, eventualmente, della ricchezza). Non va a
intaccare le cause della disuguaglianza di reddito e ricchezza, della precarietà
del lavoro, della povertà e delle condizioni di vita insostenibili. Vorrebbe,
semplicemente, mitigarne gli effetti nefasti. Misure come il RdB possono,
forse, rendere più sopportabile precarietà e disoccupazione nel breve periodo, ma non le eliminano. Semmai le cristallizzano e le congelano, soprattutto
quando tali misure sono pensate isolatamente, come la panacea di tutti i mali,
al di fuori di un pacchetto di proposte più onnicomprensivo, teso a intaccare
non solo gli effetti ma anche le cause di precarietà e disoccupazione.
Presentata singolarmente, sganciata da altre rivendicazioni, la proposta del
RdB si trasforma in un riformismo dal volto umano: si accetta il capitalismo
così come è, generatore di disoccupazione e precarietà, cercando di miglioralo.
Ecco perché questo tipo di proposta può trovare sostenitori appartenenti a
diversi schieramenti politici. Certo, anche il welfare è una forma indiretta di
redistribuzione del reddito. Che differenza c’è, quindi, tra il RdB e il welfare?
La risposta corretta è: dipende da come è declinata la proposta del primo.
Diverse sono le implicazioni sia teoriche che politiche del RdB, a seconda di
come è esplicitato: un livello di reddito che permette effettivamente di scegliere
tra offrirsi o non offrirsi sul mercato del lavoro (cioè di uscire dalla “gabbia del
lavoro salariato”); o un livello che diventa una integrazione a un reddito
lavorativo (per chi lavora) o un sussidio (per gli altri). Il primo tipo, che
definisco incompatibile, deve essere decisamente superiore al salario medio e
permettere effettivamente di vivere senza lavorare. Il secondo tipo, che chiamo
compatibile, non permette di vivere senza lavorare, ma offre semplicemente
una integrazione al reddito (a chi già lavora) o un sussidio (agli altri),
universalizzando il numero dei beneficiari. Assumendo la teoria marxiana del
valore, secondo la quale si può distribuire solo quello che è stato prodotto4, il RdB incompatibile produce una frammentazione, a livello globale, della classe
lavoratrice. Se la classe lavoratrice dei paesi ricchi può permettersi di vivere
senza lavorare (o, almeno, di fare questa scelta), chi produrrà la ricchezza da
distribuire? La classe lavoratrice dei paesi poveri. I paesi ricchi possono
redistribuire RdB, prodotto (e, andrebbe detto, estratto) dai lavoratori dei paesi
poveri. La classe lavoratrice dei paesi avanzati può permettersi di vivere senza
lavorare perché, per loro, lavora la classe lavoratrice dei paesi poveri. Non è il
mio modo di intendere il superamento del capitalismo e, men che meno, un
capitalismo dal volto umano. Nel caso di un RdB compatibile, contro le
intenzioni dei proponenti, si presenta il forte rischio di spingere tutta la
struttura salariale verso il basso, dovuto all’effetto Speenhamland5. I capitalisti
hanno tutto l’interesse a ridurre i salari, visto che la classe lavoratrice
percepisce già una forma di reddito. L’impresa assume, riducendo il salario; il
lavoratore, inizialmente, ottiene lo stesso reddito di prima, ma in una spirale di
deterioramento. Con il RdB come “pavimento” il salario può essere ridotto
sempre di più. Questa dinamica crea una massa amorfa di persone che
sopravvive e un crollo della capacità contrattuale di tutta la classe lavoratrice.
Si corre così il pericolo dell’instaurarsi di un compromesso malsano: i
capitalisti offrono bassi salari e lavori precari e i lavoratori li accettano perché,
intanto, c’è il RdB.
Spesso, in un’ottica tipicamente keynesiana, si giustifica il RdB come una
“regolazione istituzionale” per rendere stabile il cosiddetto post-fordismo (un sostegno ai consumi delle famiglie, nella speranza che questi facciano crescere
l’economia), così come la crescita salariale in relazione alla produttività
avrebbe stabilizzato il fordismo dei Trent’anni gloriosi. Peccato che la crescita
postbellica si deve alle componenti autonome della domanda aggregata
(investimenti privati delle imprese, spesa pubblica, esportazioni nette positive),
in un contesto macroeconomico più stabile di quello attuale e in un situazione
internazionale irripetibile, di capitalismo da guerra fredda. Contrariamente al
mito fordista, i consumi sono stati trascinati e, quando le lotte nella
produzione hanno morso, il modello è saltato.
In merito alla fattibilità pratica di tale proposta, due sono i problemi che
vorrei evidenziare, uno di carattere economico e l’altro politico. Prima di tutto
l’annosa questione del suo finanziamento. Il neoliberismo imperante ha
riformato il sistema di tassazione di tutti i paesi avanzati, rendendolo molto
poco progressivo. In assenza di una riforma fiscale, che reintroduca un sistema
veramente progressivo, e combatta elusione ed evasione, il RdB finanziato
dalla tassazione generale diventa una semplice partita di giro tutta interna alla
classe lavoratrice: i lavoratori occupati pagano il RdB a coloro che non hanno
lavoro. Non mi sembra una misura il cui costo sia equamente distribuito tra le
classi sociali. La questione politica è non meno importante. Il neoliberismo è
riuscito pienamente a indebolire, sia politicamente che sindacalmente, la
classe lavoratrice6
. I movimenti dal basso esistono, ma sono piccoli e
frammentati. In questa situazione di debolezza temo che questa proposta getti
le basi per uno scambio con la sinistra “moderata” (o anche con la destra
“sociale”): accettazione, più o meno dichiarata, della flessibilità in cambio di
qualche sostegno al reddito, probabilmente condizionato.
Quest’ultimo punto mi permette di rispondere alla domanda. Sì, è vero: il
dibattito italiano sul RdB è in ritardo rispetto ad altri paesi (così come lo è,
peraltro, su tanti altri argomenti). Va, tuttavia, ricordato che, anche in quei
paesi dove il dibattito è di più vecchia data, non è mai stato introdotto un RdB
incompatibile7, ma solo compatibile e, spesso, condizionato. È il passaggio dal
welfare state al workfare state8 tipico del neoliberismo attuale. Workfare è un
termine coniato dalla letteratura anglosassone per indicare un sistema di
welfare assistenziale che viene concesso, tuttavia, sotto certe condizioni (per
esempio, seguire dei corsi di formazione o di aggiornamento, aver svolto determinati lavori utili o sociali, etc.). L’idea centrale è che gli individui
rimangono disoccupati per via di una benefit trap (trappola dei benefici) o di
incentivi inadeguati (come sono considerati i sussidi alla disoccupazione). Il
workfare, quindi, vincola i sostegni al reddito alla dimostrazione di una
volontà di lavorare, qualsiasi sia il lavoro e/o il salario offerto. È la stessa logica
ortodossa che ha segnato il passaggio da politiche volte al full employment
(piena occupazione) a quelle volta alla employability (“occupabilità”): nel
primo caso, lo stato keynesiano si preoccupava che la forza lavoro trovasse
un’occupazione; nel secondo, lo stato neoliberista si preoccupa che gli
individui abbiamo le giuste caratteristiche per trovarsi un lavoro e poi sarà il
mercato a conciliare domanda e offerta di lavoro.
Proposte di politica economica “di classe” dovrebbero essere a tutto tondo,
concentrandosi su tutti gli elementi che determinano le attuali condizioni di
lavoro e di vita. Al contrario la proposta del RdB è sempre presentata a sé
stante: si propone il RdB come la soluzione di disoccupazione e precarietà,
mantenendo inalterati gli altri elementi del sistema. Una politica economica
“di classe” con l’obiettivo della riunificazione di un mondo del lavoro sempre
più debole e frammentato deve essere, necessariamente, più onnicomprensiva
e non limitarsi alla richiesta di “un reddito per tutti e tutte”. È da qui che
dovrebbe partire il dibattito.
Quesito 2.
Di fronte al declino della soggettivitaà “lavorista” su cui si è costruita la
mediazione costituzionale novecentesca e a una produzione sempre più
eterogenea, il welfare assicurativo di matrice fordista si dimostra inadeguato a
garantire le protezioni sociali necessarie a un numero sempre più ampio di
soggetti. Si assiste, contemporaneamente, all’emersione di nuove forme di
lavoro cooperativo – nell’ambito della cosiddetta sharing economy – che
coniugano l’ampia inclusività dell’accesso e della gestione con una proprietà
privatistica ed escludente, che ha favorito una rimodulazione delle dinamiche
di accumulazione capitalista. Che ruolo può avere il reddito di base in questo
quadro? Preso singolarmente, può esso costituire una risposta all’insicurezza
sociale, ponendo le basi, al contempo, per una nuova idea di cittadinanza
inclusiva e plurale?
G. Vertova:
Anche in questo caso, prima di rispondere, mi sento obbligata a fare delle
precisazioni, in quanto la domanda sottende un’analisi che non condivido: si
chiede se il RdB, preso singolarmente, può costituire una risposta
all’insicurezza sociale in un contesto dove la soggettività “lavorista” è declinante e il welfare assicurativo di matrice fordista inadeguato. L’idea di un
declino della soggettività lavorista, tipica del periodo fordista e individuata nel
lavoratore maschio, eterosessuale, in catena di montaggio, è propria di una
lettura dello sviluppo capitalistico a stadi, dove ogni stadio è caratterizzato da
una figura centrale di riferimento. Così come si sarebbe passati dal capitalismo
concorrenziale dell’Ottocento a quello oligopolistico/monopolistico del
Novecento (anche se andrebbe qualificato: primo Novecento negli USA e
secondo Novecento in Europa), per giungere al capitalismo cognitivo odierno;
allo stesso modo l’operaio di mestiere avrebbe lasciato spazio all’operaio massa
e, infine, all’operaio sociale, e poi al lavoratore cognitivo, o, secondo altri, al
lavoro autonomo di seconda generazione9, flessibile e precario. Tutto ciò
sarebbe causato dalle trasformazioni del lavoro: da un lavoro prevalentemente
manuale produttore di beni materiali a uno cognitivo produttore di beni
immateriali. Indicatori di questo passaggio sarebbero le statistiche
sull’occupazione che mostrano una riduzione dell’occupazione nel settore
manifatturiero (deindustrializzazione) e un aumento in quello dei servizi
(terziarizzazione). Oltretutto questa terziarizzazione sarebbe portatrice di
lavori intellettuali, tecnologici, cognitivi, altamente qualificati, svolti dai
knowledge workers (lavoratori della conoscenza), figura centrale del
capitalismo cognitivo10.
Questa analisi mi convince poco. In un’ottica marxiana, la visione a stadi
dello sviluppo capitalistico implica una meccanica successione temporale tra
l’estrazione del plusvalore assoluto (sussunzione formale) a quella del
plusvalore relativo (sussunzione reale), che, appunto, porterebbe a individuare
un tendenza (e quindi un soggetto sociale di riferimento), rispetto alla quale le
altre forme di lavoro sono considerate residuali11. Ammessa ma non concessa
la correttezza di questa analisi, vale la pena ricordare che sarebbe valida solo
per un francobollo del pianeta, cioè per le aree economicamente e
tecnologicamente più avanzate. Peccato che i restanti nove decimi del pianeta
siano composti da lavoratori salariati e, spesso, coatti, che subiscono una
estorsione di plusvalore assoluto senza precedenti, permettendo lo sviluppo del
terziario dei paesi avanzati. Sarebbe, quindi, forse, più opportuno interrogarsi
sulla relazione tra i diversi tipi di sfruttamento, sulle modalità con cui quantità
enormi di plusvalore assoluto, prodotte nei paesi arretrati, sorreggano
produzioni iper-tecnologiche e terziarizzazione qui da noi. Andrebbe anche ricordato che anche qui da noi, come negli altri paesi avanzati, l’estrazione di
plusvalore assoluto si interseca con l’estrazione di plusvalore relativo. Inoltre
solo una lettura superficiale dei dati statistici può portare a pensare che
l’aumento di occupazione nei servizi sia il risultato di un aumento dei lavori
intellettuali e tecnologicamente avanzati. La terziarizzazione dei paesi avanzati
non si nutre solo di lavori altamente qualificati: i servizi spaziano dal
progettatore di pagine web all’addetto alle pulizie. Anche nel terziario esistono
lavori a bassa qualifica e a basso salario. Infine, la ricerca spasmodica di un
soggetto sociale, centrale e rappresentativo della fase attuale, sostituisce vuote
astrazioni all’inchiesta concreta. Il mondo del lavoro è sempre eterogeneo: lo
era ai tempi di Marx e lo è oggi, anche se in grado maggiore. Va da sé che ogni
rivoluzione tecnologica crea nuovi prodotti, nuovi processi di produzione,
nuovi mestieri, nuove modalità di estrazione del lavoro vivo, aumentando così
la differenziazione della composizione di classe: ieri la ferrovia spiazzava la
diligenza, oggi le email la posta cartacea12. Tuttavia, ridurre forzatamente
all’unità un mondo plurale nega, alla base, l’esigenza della riunificazione tra
soggetti del lavoro differenti e con pari dignità. In ogni fase del capitalismo, il
centro della valorizzazione e dell’accumulazione è il lavoratore produttivo di
plusvalore: il lavoratore eterodiretto capitalisticamente comandato, “materiale”
o “immateriale” che sia il lavoro erogato. Non si tratta di una figura
tecnologicamente o concretamente definita, che abbia a che vedere soltanto
con la catena di montaggio o con il contratto giuridico di lavoro salariato tra
acquirente e venditore della forza-lavoro (che comunque rimane prevalente):
può essere lavoratore comandato dal capitale e produttivo di plusvalore tanto
l’operaio di Melfi quanto l’operatore di call center, quanto i lavoratori soggetti
a una subordinazione ibrida al capitale non nella forma del contratto di lavoro
salariato. Invece di cercare, ossessivamente, di individuare una figura centrale
inesistente, sarebbe più utile indagare l’intersezione tra le “nuove” e le
“vecchie” modalità di sfruttamento di una classe lavoratrice molto più
eterogenea che in passato.
Fatte queste precisazioni, arrivo alla risposta: non credo che, preso
singolarmente, il RdB possa fornire una risposta all’insicurezza sociale. Una
premessa è qui necessaria. Non capisco perché il RdB venga proposto sempre
in contrapposizione ad altre rivendicazioni: si propone il RdB come risposta
all’insicurezza sociale, mantenendo inalterate tutte le altre componenti del
sistema che concorrono a creare tale insicurezza. L’insicurezza sociale non si risolve solo con una trasferimento monetario, come è il RdB, ma soprattutto
con condizioni lavorative più sane e con un welfare in beni/servizi veramente
universale e funzionante. Ridurre l’insicurezza sociale a una questione
meramente monetaria cancella un po’ di problemi. Prima di tutto, l’annosa
questione del livello di questo ipotetico RdB: se incompatibile o compatibile
(come da me definiti nella risposta al quesito 1). Quasi tutti i paesi avanzati
che prevedono una tale misura distribuiscono un RdB compatibile (quindi una
mera integrazione al salario), che non elimina l’insicurezza sociale; la mitiga e
la rende, forse, più sopportabile nel breve periodo. Questo perché l’insicurezza
sociale non è solo una questione monetaria. Si ragiona come se il RdB da solo
dia accesso ai beni/servizi e alla scelta del lavoro. Ma è chi comanda finanza e
domanda autonoma che definisce livello e composizione della produzione,
consumo reale, quantità e qualità del lavoro.
L’insicurezza sociale è creata da un mercato del lavoro precario, dove la
forza-lavoro è costantemente sotto coercizione, perché la vera funzione dalla
precarizzazione è quella di stabilire un permanente potere di ricatto che rende
poco contestabile il comando del capitale dentro il processo di valorizzazione.
Così sono peggiorate tutte le condizioni di lavoro, non solamente il salario.
Faccio un esempio: si ipotizzi che un lavoratore precario riceva un RdB a
integrazione del suo salario e che il suo rapporto di lavoro sia del tipo jobs on
call. Questo lavoratore dovrà vivere 24 ore al giorno a disposizione di chi lo
chiama per lavorare, senza potersi permettere di rifiutare alcuna chiamata
(perché oggi arriva, domani chissà), senza poter quindi contestare le condizioni
lavorative, pur ricevendo un RdB. Non mi sembra un’idea brillante. Inoltre,
l’insicurezza sociale è creata dalla mancanza di un vero welfare (in
beni/servizi), universale e funzionante, e dalla sua costante privatizzazione.
Faccio un esempio paradossale a scopo di chiarimento: ipotizziamo che l’Italia
sia in grado di distribuire anche un RdB incompatibile, ma che, allo stesso
tempo tutto il welfare in beni/servizi venga privatizzato. Quanto RdB
dovremmo distribuire affinché una persona possa pagarsi la sanità privata,
tutto il ciclo di istruzione privato, l’utilizzo di strade o treni privati,
dell’illuminazione, etc. affinché possa vivere senza insicurezza? Un welfare di
beni/servizi completamente privatizzato si adegua, ovviamente, alle leggi di
mercato con prezzi decisi delle imprese private. E quando i prezzi aumentano?
Basterà il RdB per garantirne l’acquisto?
Personalmente ritengo la proposta del RdB accettabile solamente se inserita
in un quadro più ampio. Prima di tutto, andrebbero discusse la messa al
lavoro, il contenuto del lavoro, il “cosa, come, quanto e per chi si produce”,
accompagnando la discussione con proposte di riduzione della giornata lavorativa e di aumenti salariali. Inoltre, andrebbe rivendicata la cancellazione
di tutta legislazione che ha introdotto precarietà e flessibilità, e delle riforme
pensionistiche che hanno allungato la vita lavorativa riducendo,
contemporaneamente, le pensioni. Infine, ma non meno importante, andrebbe
ripensato tutto il sistema del welfare (sia i trasferimenti monetari, all’interno
dei quale si colloca il RdB, che l’offerta di beni/servizi), rendendolo veramente
universale e gratuito (penso, per esempio, alla sanità, all’istruzione, a una
mobilità sostenibile, al diritto all’abitazione, a tutti i servizi sociali che hanno
una connotazione di genere, etc.), accompagnandolo a una revisione del
sistema fiscale, per renderlo più equo e più progressivo, combattendo
veramente elusione ed evasione. Queste proposte eviterebbero fasulle
contrapposizioni tra “redditisti”, da un lato, e “lavoristi” e “salarialisti”
dall’altro, e permetterebbero l’apertura di un vero dibattito sulle condizioni di
lavoro e di vita oggi.
Quesito 3.
Il declino della sovranitànazionale, negli ultimi anni, è andato di pari passo
con una verticalizzazione della governance, a livello europeo. Il paradigma
dell’austerity, dettato dalla troika a trazione tedesca, si è tradotto nella norma
fondamentale di governo, fino a deformare le costituzioni nazionali e a
incidere sulle politiche nazionali dei paesi “colpevoli” e “incapaci” in quanto
indebitati. Possono ancora le proposte di reddito di base fondarsi sul piano
nazionale? Oppure, di fronte a una governance trans-nazionale sempre più
verticistica e violenta, è necessario assumere lo spazio europeo come terreno
costituente? In questo scenario, evidentemente complesso, come si trasforma il
ruolo delle soggettività politiche all’interno dei singoli stati?
G. Vertova:
Anche in questo caso, prima di rispondere, sono obbligata ad alcune
precisazioni: si parla di declino della sovranità nazionale, verticalizzazione
della governance, paradigma dell’austerità. Innanzitutto, il dibattito teorico sul
declino della sovranità nazionale, che equivale a parlare del ruolo dello statonazione
e della globalizzazione, è vasto e presenta posizioni molto
contrastanti13. I due estremi sono rappresentati dai “globalisti”, convinti che le
multinazionali e la finanza senza frontiere abbiano eroso la possibilità dello
stato-nazione di incidere sul sistema economico; e dagli “scettici”, persuasi che
lo stato-nazione possa ancora svolgere un ruolo nel sistema economico. Tra questi due estremi ci sono una miriade di posizioni intermedie. Personalmente
ritengo che lo stato-nazione svolga ancora un ruolo importante, ma diverso
rispetto a quello svolto nel periodo cosiddetto fordista. Certo, oggi lo statonazione
ha un controllo meno esclusivo sui processi economici e sociali che si
dipanano nel territorio nazionale, ma questo non vuol dire che non sia un
attore cruciale nell’economia internazionalizzata. Da stato-nazione di stampo
keynesiano, teso al raggiungimento di un compromesso tra capitale e lavoro,
alla piena occupazione e alla creazione di un welfare per tutelare le classi
sociali più deboli, si è giunti allo stato-nazione di tipo neoliberista, preoccupato
della competitività della “azienda-paese”. Le politiche economiche sono
motivate dalla impellente necessità di far sopravvivere o prosperare le imprese
nazionali nel grande gioco del capitalismo globale, indipendentemente dai
costi sociali ed ecologici. Vale la pena sottolineare che, come giustamente
esplicita la domanda, la questione della sovranità nazionale è tipicamente
europea. Nulla di simile è accaduto negli Stati Uniti (come si potrebbe
sostenere il contrario, quando la macchina da guerra statunitense si mette
regolarmente in moto per difendere gli interessi delle multinazionali
statunitensi del petrolio?); né in Giappone o nel Regno Unito (paesi che
detengono ancora lo strumento della politica monetaria); tanto meno nella
Cina emergente (dove la sovranità nazionale è detenuta militarescamente dal
Partito). Anche sulla questione della governance a livello europeo
bisognerebbe fare alcune qualificazioni. La verticalizzazione più forte è stata
quella relativa alla politica monetaria con la creazione della Banca Centrale
Europea, unica istituzione formalmente sovranazionale14. Ma sarebbe un
errore credere che l’assetto politico e istituzionale europeo sia sovra-nazionale.
Al contrario, è un luogo di scontro dei fortissimi interessi dei singoli
capitalismi nazionali, nel quale, ovviamente, vince lo stato-nazione con più
potere (oggi, la Germania). Il potere legislativo ed esecutivo sono detenuti da
istituzioni15 ancora definite su basi nazionali e, spessissimo, sono gli interessi
nazionali a determinare la promulgazione di regolamenti, direttive,
raccomandazioni, pareri e altro. Infine, va detto chiaramente che oggi il
paradigma dell’austerità non è un vincolo economico, ma politico, come ieri lo
erano il Trattato di Maastricht e il Patto di Stabilità: un alibi per poter imporre “con le mani legate” quelle politiche di classe che sarebbero state comunque
portate avanti16. Sono stati i capitali nazionali, e gli Stati, a volere questa
delega di potere per ragioni attinenti ai rapporti di classe.
Fatte queste precisazioni, la mia risposta è: certo che no. Tuttavia, non
solamente il RdB; anche le rivendicazioni del mondo del lavoro e quelle sul
welfare dovrebbero essere portate a livello europeo. Si eviterebbe così la
creazione di una spaccatura geografica delle condizioni di vita e di lavoro della
classe lavoratrice. Quel “pacchetto” di politiche economiche, che ho indicato
nella risposta al quesito 2, dovrebbe essere rivendicato su base europea, con
l’obiettivo di unificare una classe lavoratrice, oggi, frammentata dal capitale e
dall’intervento politico. La geografia economica di ispirazione marxista17
insegna che lo spazio rappresenta un valore d’uso nel processo di
accumulazione. Il capitale “usa” lo spazio in tutti i suoi processi. Il processo di
produzione strettamente inteso (il momento della creazione del plusvalore)
necessita di una organizzazione spaziale della società: capitale e lavoro devono
“incontrarsi” in qualche luogo per dar vita al processo di produzione.
Successivamente, il processo di circolazione necessita di infrastrutture
funzionali alla circolazioni delle merci (per esempio, il sistema dei trasporti, le
comunicazioni reali e virtuali, etc.). Infine, anche il processo di riproduzione
della forza-lavoro è spazialmente determinato, attraverso la creazione di
infrastrutture sociali (per esempio, gli ospedali, le scuole, etc.). Tutti questi
processi richiedono una struttura territoriale coerente, funzionale al processo
di accumulazione capitalistica. Tuttavia, il capitale non basta. L’intervento
politico è fondamentale per la creazione e il mantenimento della struttura
territoriale. In questo modo, il capitale e l’intervento politico sono in grado di
creare una gerarchizzazione dei luoghi, dei territori, dei paesi, che determina
condizioni di lavoro e di vita, che variano a secondo delle loro specificità.
E, mentre il capitale si sposta su scala globale, le rivendicazioni “di classe” si
incartano su scala locale. In Italia a quasi tutte le legittime rivendicazioni dei
movimenti dal basso manca un collante politico e/o sindacale che riesca a
spostarle almeno sul piano nazionale, se non, meglio, europeo. Addirittura
alcune di esse si pongono in una ottica meramente localista: la moneta locale;
o RdB regionale concesso solo ad alcune categorie di persone (precari, etc.). Il
neoliberismo e la crisi odierna sono grandi sfide per la classe lavoratrice che,
al momento, sembrano essere vinte dalla classe avversa18. Bisognerebbe quindi domandarsi quanto l’incapacità di creare movimenti sociali e politici
transnazionali, a livello almeno europeo, non abbia contribuito a questa
vittoria. Così come precedentemente tale incapacità non abbia contribuito alla
creazione di questa integrazione europea, che tutto è tranne che amica dei
lavoratori e delle lavoratrici. Il capitale è sempre stato molto bravo nel divide
et impera: nel neoliberismo, le differenziazioni territoriali (locali, regionali o
nazionali che siano) sono un’arma in più.
Quesito 4.
Nella sua forma “classica”, o fordista, il welfare aveva stabilito una
particolare relazione con il sistema produttivo: quest’ultimo fungeva da
elemento centrale (creazione diretta e distribuzione primaria di ricchezza)
mentre il primo agiva da ente periferico (azione ridistribuita finalizzata alla
tutela individuale e collettiva in caso di fallimento del progetto economico). A
sua volta il sistema produttivo si basava sulla centralità del salario in quanto
istituzione-chiave della mediazione sociale, cioè sul lavoro subordinato come
architrave dell’accesso alla cittadinanza e sulla piena occupazione come
obiettivo di fondo della politica economica.
Crediamo sia importante sottolineare come l’elasticità, la forza centripeta
dell’istituzione-salario richiedesse alcune condizioni per risultare funzionale,
una delle quali è la divisione sessuale del lavoro – denunciata in modo
convincente dall’economia politica femminista – e quindi da un lato
l’invisibilizzazione del lavoro domestico femminile e dall’altro il
disciplinarmente del lavoratore salariato maschio. Coma ha ben messo in luce
Silvia Federici (1972), la lotta per il salario al lavoro domestico aveva un
duplice obiettivo: in primo luogo mostrare la rilevanza del lavoro femminile
extra-salariale per la valorizzazione capitalistica, cioè renderlo visibile, denaturalizzarlo.
In secondo luogo salarizzare il lavoro domestico significava
scardinare irrimediabilmente il sistema delle compatibilità capitalistiche.
In una situazione, come quella attuale, in cui il lavoro di riproduzione
(femminile e non) si sovrappone sempre più al lavoro produttivo classicamente
inteso, è possibile pensare al reddito di base come risposta all’internalizzazione
della variabile di genere nella valorizzazione capitalistica? Se sì, si tratta della
conquista di un grado di libertà superiore in un processo ormai irreversibile,
oppure di una nuova modalità, ancor piùintensa, di sfruttamento?
G. Vertova:
Un paio di qualificazioni sulla domanda sono, anche in questo caso,
necessarie, visto l’impianto teorico sotteso. Si parla della “centralità del
salario” come “architrave dell’accesso alla cittadinanza”, termine molto vago che può indicare tante cose diverse. Mi permetto, quindi, un paio di
osservazioni. L’accesso alla cittadinanza è stata prima di tutto garantita dal
diritto di voto universale per uomini e donne, che nulla aveva a che fare con la
condizione lavorativa (ricordando, ovviamente, la pesante questione di
genere19). Anche il Sistema Sanitario Nazionale, istituito nel 1978, è parte
centrale dell’accesso alla cittadinanza; così come lo è stata l’istruzione
pubblica. Non parlerei quindi di “accesso alla cittadinanza”, garantito dal
lavoro salariato, ma di accesso al welfare assicurativo, che era, effettivamente,
concesso sulla base della condizione lavorativa.
La domanda prosegue sulla questione di genere, sottolineando come la
divisione sessuale del lavoro fosse una condizione necessaria per la centralità
del lavoro salariato. Mi sembra che questa analisi sia un po’ troppo sbrigativa.
È vero che il processo di accumulazione capitalistico degli anni cosiddetti
fordisti si basava generalmente su una forza-lavoro maschile, con una forte
divisione sessuale del lavoro (“l’uomo in fabbrica, la donna a casa”). È,
tuttavia, altrettanto vero che uno dei punti di forza del capitale è quello di
sapere utilizzare al meglio forza-lavoro necessaria per specifici processi di
produzione: uomini giovani e forti per la catena di montaggio; donne giovani e
piacenti in quei lavori dove l’esteriorità è una valore d’uso non indifferente
(ricordo, comunque, che oggi come allora ci sono donne che lavorano in
catena di montaggio). Quindi, la divisione sessuale del lavoro non era allora,
come non lo è oggi, solo il risultato del processo di accumulazione
capitalistico; ma anche del patriarcato. Era socialmente accettato il male
breadwinner family model (modello del maschio capofamiglia che porta a casa
la paga): era considerato “naturale” che il lavoro domestico venisse svolto dalla
donne e che gli uomini dovessero lavorare per mantenere la famiglia.
Infine, ma forse più importante per le implicazioni con il RdB, la domanda
ripropone il dibattito sul salario al lavoro domestico, sottolineando come
questa proposta avesse due obiettivi: (i) de-naturalizzare e rendere visibile il
lavoro per la riproduzione sociale; (ii) scardinare il sistema delle compatibilità
capitalistiche. Per amore di verità, andrebbe ricordato che se nel femminismo
degli anni Settanta c’era grande convergenza sul primo punto, non altrettanto
si può dire sul secondo. Per sommi capi le argomentazioni delle femministe
critiche20 erano: (i) il lavoro domestico non rappresenta un “modo di
produzione” marxianamente inteso e, quindi, (ii) non è produttore di valore e non risponde alla teoria del valore; (iii) nella “produzione domestica” i
rapporti sociali sono, sì, asimmetrici e basati su relazioni di potere (il
patriarcato), ma non sono assimilabili ai rapporti capitalistici di produzione
(che si basano su relazioni di potere legate alla collocazione sociale nel
processo di produzione). Per tutti questi motivi, le femministe critiche
ritenevano che la proposta avrebbe rappresentato l’accettazione della status
quo della divisione sessuale del lavoro domestico, rimborsandolo con un
salario. Visto che la maggior parte del lavoro domestico era svolto dalle donne,
implicitamente si accettava che le donne avrebbero continuato a fare le
“casalinghe”. Inoltre, poiché il dibattito femminista aveva anche ampiamente
dimostrato che la diversa partecipazione di uomini e donne al mercato del
lavoro era inficiata proprio dal lavoro domestico e dalle responsabilità
familiare, accettare lo status quo nella divisione sessuale del lavoro
riproduttivo implicava l’accettazione dello status quo anche nella divisione
sessuale del lavoro produttivo: le donne avrebbero continuato a svolgere il
lavoro domestico, retribuito ora da un salario, tale lavoro avrebbe fortemente
condizionato loro partecipazione al lavoro produttivo, mantenendo la
lavoratrice in condizioni di maggiore debolezza rispetto al lavoratore.
Per venire ora alla domanda, ho bisogno di fare una precisazione. È vero
che il lavoro di riproduzione si sovrappone sempre più al lavoro produttivo,
ma il RdB viene proposto a tutti, su base individuale e incondizionatamente
(almeno questo dovrebbe essere il senso della proposta). Quindi, come ho già
sostenuto nella riposta alla domanda 1, il RdB congela la situazione esistente,
poiché non contesta l’uso della forza-lavoro all’interno del sistema di
produzione. La stessa critica si può applicare a quella parte di lavoro
domestico non inglobato dal mercato. Un RdB per internalizzare la variabile
di genere, senza aprire una discussione sulla divisione di genere del lavoro
domestico, non farà altro che cristallizzare l’esistente. Si creerà, anche in
questo caso, un compromesso malsano: le donne che svolgono il lavoro
domestico non pagato ricevono il RdB, all’interno di una struttura sociale che
non mette mai a tema questa divisione di genere del lavoro riproduttivo.
Inoltre, il congelamento della divisione di genere del lavoro di riproduzione
implica, necessariamente, quello della divisione di genere nel lavoro
produttivo, poiché, ieri come oggi, la partecipazione delle donne al mercato
del lavoro produttivo è fortemente condizionata dalle responsabilità familiari.
Ciò si traduce nell’accettazione delle disparità di genere che esistono, ancora oggi, nel mercato del lavoro21: una segregazione occupazionale orizzontale (le
lavoratrici si concentrano in certi tipi di lavori, secondo lo stereotipo di genere
per il quale esistono “lavori da donna” e “lavori da uomini”) e verticale (le
lavoratrici fanno fatica ad accedere alle posizioni apicali); una disuguaglianza
contrattuale pesante (se è vero che i contratti precari sono, oggi, abbastanza
equamente distribuiti tra uomini e donne, non si può dire lo stesso del lavoro
part-time, contratto che le donne spesso “subiscono”, visto l’alta percentuale di
part-time involontario tra le lavoratrici); una disuguaglianza retributiva (il
cosiddetto gender pay gap) che non verrebbe superato da un RdB uguale per
tutti e tutte; e, come risultato delle precedenti, una disuguaglianza
pensionistica (le lavoratrici ricevono pensioni minori rispetto ai lavoratori
anche per via della loro maggiore discontinuità nel mondo del lavoro spesso
causata dal lavoro di riproduzione). Un RdB come risposta alla “questione di
genere” dimostra ancora più chiaramente come questa proposta, presa
singolarmente, non faccia altro che mantenere lo status quo.
Quesito 5.
Nella domanda precedente abbiamo accennato all’invisibilizzazione del
lavoro domestico femminile come condizione dell’elasticità per così dire
onnivora dell’istituzione-salario. Una seconda condizione è la noncontabilizzazione
della variabile ecologica nell’analisi economica. Infatti, a
differenza dei fattori della produzione (capitale e lavoro), l’ambiente naturale è
stato pensato in termini di simultanea gratuità e inesauribilità, finendo ai
margini della riflessione sulle politiche di welfare – almeno fino agli anni
Ottanta. Claus Offe (1997) ha mostrato come come il nesso produttivista tra
sicurezza sociale e sviluppo economico – cementato dal duplice obiettivo della
crescita continua e della piena occupazione – non solo implichi un impatto
dirompente sull’ambiente naturale ma freni fortemente politiche volte alla
protezione ambientale in quanto inclini a privilegiare la preservazione delle
risorse rispetto alla crescita. In una situazione, come quella attuale, in cui la
lotta al cambiamento climatico e al deterioramento ecologico in generale non
può essere ulteriormente procrastinata, è possibile pensare al reddito di base
come liberazione dal dogma della crescita e come architrave di un welfare
post-produttivista?
G. Vertova:
Non stupisce che, anche in questo caso, prima di rispondere alla domanda,
voglia fare alcune precisazione sul discorso sottinteso. Si sostiene che, durante
il periodo cosiddetto fordista, il nesso produttivista tra sicurezza sociale e
sviluppo economico, cementato dal duplice obiettivo della crescita continua e
della piena occupazione, abbia portato ad accantonare le preoccupazioni per
la questione ambientale.
Prima di tutto, a livello teorico, Keynes ha dimostrato che, quando le
componenti private del capitalismo (investimenti delle imprese e consumi
delle famiglie) non erano sufficienti per riassorbire la disoccupazione, doveva
intervenire direttamente lo stato con spesa pubblica (sino a spingersi a una
“socializzazione degli investimenti”) e creazione di posti di lavoro (che Minsky,
sulla scorta del New Deal, avrebbe voluto addirittura diretta, da occupazione
di ultima istanza), per garantire piena occupazione e crescita economica. Il
discorso cruciale, semmai, avrebbe dovuto essere che tipo di spesa pubblica.
Tendenzialmente, nei paesi europei, la teorizzazione keynesiana si è tradotta
politicamente nella creazione di posti di lavoro pubblici con finalità sociali
(welfare state): produzione di valori d’uso per la collettività piuttosto che di
valore per il capitale. Negli Stati Uniti, invece, lo stesso impianto teorico si è
tradotto nel cosiddetto “keynesismo militare”. In secondo luogo, la storia di
quegli anni non può essere riassunta, semplicisticamente, dal nesso
produttivismo versus ambientalismo. Molte battaglie del movimento operaio
degli anni ’60 e ’70, iniziate all’interno della fabbrica, sulle condizioni di
lavoro, non si concentravano solo ed esclusivamente su questioni salariali, ma
anche sulla questione della salute nel luogo di lavoro, in una ottica, diremmo
oggi, ambientalista. Inoltre, quando queste rivendicazioni sono state portate
fuori dalla fabbrica, hanno contribuito a mettere in discussione la distruzione
ambientale, tipica della produzione capitalistica22.
Fatte queste precisazioni, mi sembra difficile che il RdB, preso
singolarmente, possa risolvere la questione ambientale. Come ho già spiegato
nella risposta alla domanda 1, quantità e qualità della produzione è decisa dal
capitale, e il RdB non le mette in discussione: al di là delle buone intenzioni, si
cancella la discussione sul “cosa, come e quanto produrre” per rifugiarsi nel
consumo. Si accettano le produzioni ecologicamente insostenibili, rimandando
alla volontà e/o coscienza dei consumatori, relativamente più ricchi in quanto
percettori del RdB, la scelta di acquistare merci ecologicamente sostenibili.
Cosa peraltro fattibile se e solo se il capitale decide di produrre queste merci.
Da questo punto di vista, la proposta keynesiana della socializzazione degli investimenti unita alla preoccupazione ambientalista di creare valori d’uso a
basso impatto ambientale mi sembra decisamente più valida, soprattutto se
coniugata con la riduzione dell’orario di lavoro e una messa in discussione
della composizione della spesa pubblica. Quello che serve, quindi, è anche un
cambiamento del modello di sviluppo, non solo una libertà nel consumo.
Inoltre, la liberazione dal dogma della crescita è un obiettivo che pone non
pochi problemi. Il RdB come risposta al dogma della crescita può funzionare
se e solo se il livello di tale reddito permette effettivamente di vivere senza
lavorare (quello che ho chiamato incompatibile nella risposta alla domanda 1.
Rimando, quindi, ai problemi che ho già sollevato). Il lavoratore può rifiutarsi
di vendere la propria forza-lavoro per vivere (o sottrarsi dal vederla per le
produzioni ecologicamente incompatibili) e tali produzioni cessano.
Ovviamente, ragionando su scala nazionale, ma anche su quella europea, tutto
ciò non impedisce al capitale di continuare a produrre merci ecologicamente
insostenibili, con la forza-lavoro di paesi dove il RdB non è una possibilità, e di
venderle in quei mercati dove i consumatori non hanno la presunta libertà di
scelta che darebbe il RdB. Nel caso, invece, di un RdB compatibile, il dogma
della crescita non entra nemmeno in discussione. Esiste sempre la necessità di
vendere la propria forza-lavoro per vivere e, quindi, la qualità e quantità
dell’occupazione e della produzione è decisa dal capitale. Non si esce,
pertanto, dal nesso crescita economica-occupazione. Personalmente ritengo
che il vero problema non sia quello della crescita illimitata, ma di mettere in
questione il modello di crescita odierno, ecologicamente incompatibile.
Note
1 Rimando al dibattito sul il manifesto nell’estate del 2006, aperto con il mio articolo “Le
tante trappole del reddito garantito” (4 giugno 2006) e chiuso da un mio articolo “Reddito e
salario: si parte dal lavoro e dal conflitto” (15 agosto 2006). Per una elaborazione più esaustiva,
rimando al mio articolo “Nuovo capitalismo e frammentazione del lavoro”, pubblicato in
Essere Comunisti, anno II, n. 6 (marzo-aprile), 2008.
2 Fonte: www.basicincome.org/basic-income.
3 Si vedano le Note di contesto in: E. Leonardi – G. Pisani, Materiali preparatori. Note di
contesto e Questionario, in questo stesso numero di Etica & Politica.
4 L’interpretazione operaista, poi degenerata in quella post-operaista, ha fatto un feticcio del
“frammento sulle macchine” nei Grundrisse di Marx. Non solo ne è stata tratta una filosofia a
disegno della storia (dalla sussunzione formale a quella reale), ma la si è poi degradata a
sequenza di figure sociologiche del mondo del lavoro (operaio di mestiere, operaio massa,
operaio sociale, lavoratore cognitivo cosiddetto immateriale, immediatamente “produttivo”,
perno del cognitariato, e così via). Il tutto all’insegna di notevoli confusioni concettuali e
interpretative. Il brano di Marx è non poco problematico: si presenta come una troppo facile
teoria del crollo quando lo stadio delle macchine evolve nel primato del general intellect, a
causa della riduzione del tempo di lavoro diretto contenuto nelle merci che ne consegue. Ne Il
Capitale Marx stesso chiarirà che la riduzione del tempo di lavoro individuale non è affatto in
contrasto con l’aumento del tempo di lavoro totale; il quale è anzi sistematicamente spinto dalla
lotta di concorrenza dei molti capitali e della simbiotica espansione dell’estrazione di plusvalore
assoluto e di quello relativo. Come spesso capita, l’errore di ieri, che aveva una sua grandezza,
si riproduce ai nostri giorni in forme degenerate e impoverite. Nel discorso post-operaista di
oggi, dove si proclama spesso l’esaurimento del valore-lavoro, si fa grande confusione tra, da un
lato, la produttività di valore d’uso, di ricchezza (cui certo contribuisce il general intellect, e che
è però appannaggio del capitale che include in sé il lavoro concreto) e, dall’altro, la produttività
di valore e di denaro (che resta funzione esclusiva del lavoro astratto, il lavoro vivo eterodiretto
dal capitale). E si afferma l’esaurimento del lavoro salariato, quando esso ancora si espande su
scala planetaria. Si pretende che la cooperazione sociale del lavoro sia un parto autonomo che
“attualisticamente” muoverebbe il capitale, e non, invece, l’esito della forma determinata dell’inclusione del lavoro dentro il capitale. Si confonde l’attività di produzione e di consumo:
se è vero che il consumatore oggi partecipa più che in passato alla definizione del valore d’uso
sociale della merce (la figura del prosumer), ciò non ha nulla a che vedere con una generica
produttività della “vita” in quanto tale, tesi che ha raggiunto vette di involontaria comicità. E si
potrebbe proseguire. Su tutto ciò si vedano le condivisibili critiche di Riccardo Bellofiore e
Massimiliano Tomba in due loro scritti a quattro mani: la postfazione al bel volume di Steve
Wright, L’assalto al cielo. Per una storia dell’operaismo (Edizioni Alegre, Roma 2008); e il
capitolo “The “Fragment on the Machines” and the Grundrisse. The Workerist Reading in
Question, nel volume Beyond Marx. Theorising the Global Labour Relations in the TwentyFirst
Century, a cura di Marcel van der Linden e Karl Heinz Roth (Brill, Chicago 2014, pp.
345-367).
5 La Speenhamland Law viene analizzata da Polanyi ne La grande trasformazione (Einaudi,
Torino 1984, capitolo settimo): essa introduce un sistema di sussidi da aggiungere ai salari, in
relazione al prezzo del pane. Polanyi sostiene che questo sistema: “introduceva una innovazione
sociale ed economica come quella del «diritto al vivere»”. E prosegue: “Nessuna misura fu mai
più universalmente popolare. I genitori venivano liberati dal peso economico dei loro figli e i
figli non erano più dipendenti dai genitori; i datori di lavoro potevano ridurre i salari a volontà
e i lavoratori erano al sicuro dalla fame sia che lavorassero sia che non lavorassero”
(sottolineature mie). Più avanti, prosegue: “Alla lunga il risultato fu agghiacciante. […] Poco a
poco la gente della campagna fu immiserita”.
6 Per una storia del neoliberismo in un’ottica di classe, si veda: D. Harvey, Breve storia del
neoliberismo, Il Saggiatore, Milano 2007.
7 I paesi che hanno una misura di RdB incompatibile si contano sulle dita di una mano
monca. Per quanto ne so, l’Alaska.
8 Per una critica al workfare, si veda: Unsocial Europe. Social Protection of Flexploitation?,
di Anne Gray, Pluto Press, 2004.
9 Cfr. S. Bologna e A. Fumagalli (a cura di), Il lavoro autonomo di seconda generazione:
scenari del postfordismo in Italia, Feltrinelli, Milano 1997.
10 Cfr. C. Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’epoca
postfordista, Manifestolibri, Roma 2006.
11 Rimando alla nota 2.
12 Per una analisi di lungo periodo delle rivoluzioni tecnologiche, si veda: C. Freeman e F.
Louça, As Time Goes By: From the Industrial Revolutions to the Information Revolutions,
Oxford University Press, 2001.
13 Si veda P. Hirst e G. Thompson, Globalization in Questions, Polity Press, London 1996
(trad. it. La globalizzazione dell’economia, Editori Riuniti, Roma 1997).
14 Augusto Graziani, commentando lo Statuto della BCE, aveva messo in dubbio la sua
indipendenza dai governi nazionali. A questo proposito, si veda il suo articolo: The Euro: an
Italian perspective, in “International Review of Applied Economics”, 16(1), 2002.
15 I parlamentari europei sono votati su base nazionale; il Consiglio è formato dai Ministri
dei governi degli stati membri, competenti per la materia in discussione; i membri della
Commissione vengono nominati dal Parlamento, con una preoccupazione informale che più o
meno tutti gli stati membri siano rappresentati.
16 A questo proposito si veda R. Bellofiore, La crisi globale, l’Europa, l’euro, la Sinistra,
Asterios Editore, Trieste 2012.
17 Cfr. D. Harvey, The Limits to Capital, Blackwell Publisher, Oxford 1982.
18 Cfr. L. Gallino, Lotta di classe dopo la lotta di classe, Laterza, Roma-Bari 2012.
19 Il suffragio universale maschile è stato introdotto nel 1918. Le cittadine dovranno
aspettare il 1945.
20 Cfr. S. Himmelweit e S. Mouhn, Domestic labour and capital, in pubblicato sul
“Cambridge Journal of Economics”, 1977, vol. 1, pp. 15-31
21 Si veda il mio capitolo “Il mercato del lavoro in un’ottica di genere”, in La costruzione
del genere: norme e regole, a cura di Barbara Pezzini, Sestante Edizioni/Bergamo University
Press, 2012.
22 Cfr. D. Sacchetto e G. Sbrogió (a cura di), Quando il potere è operaio. Autonomia e
soggettività politica a Porto Marghera (1960-1980), Manifestolibri, Roma 2009.
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