Guglielmo Forges Davanzati, Università del Salento, è un economista italiano.
Leggi anche: Federico Caffè e l’«intelligente pragmatismo». (in appendice “Intervista a Federico Caffè” di «Sinistra 77») - Fernando Vianello
L’economista in tuta da lavoro: Federico Caffè e il capitalismo in crisi - Riccardo Bellofiore
Vi è ampia evidenza teorica ed empirica in merito al fatto che un’istruzione diffusa – oltre a essere desiderabile in quanto tale – è un rilevante fattore di crescita economica. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che l’acquisizione di conoscenze e competenze, sia attraverso i canali formali della scolarizzazione, sia attraverso i canali informali dell’acquisizione di conoscenze mediante reti amicali e relazionali (le c.d. soft skills), entra come input nel processo produttivo e agevola la crescita della produttività del lavoro.
La
crescita economica italiana è al palo dalla svolta dei primi anni
novanta, con le manovre restrittive dei Governi Amato e Ciampi
(1992-1993), anche a causa del sistematico disinvestimento in
istruzione, ricerca e sviluppo, dal momento che minore istruzione
implica minore crescita. E vi è ampio accordo fra economisti in
merito al fatto che il ventennio che inizia a far data dal 1998 è il
peggiore della recente storia economica italiana in termini di tasso
di crescita e andamento dell’occupazione.
A
partire da quella data si fa strada quello che uno dei maggiori
economisti italiani della seconda metà del Novecento, Federico
Caffè, ebbe a definire l’allarmismo economico, con particolare
riferimento – negli anni novanta e ancora più nel successivo
decennio – alla convinzione diffusa che la disoccupazione italiana
e, in particolare, la disoccupazione giovanile dipenda dal mismatch
qualitativo fra domanda e offerta di lavoro. Ci si riferisce, in
particolare, al fatto che si è incominciato a ritenere che la
disoccupazione giovanile italiana dipenda dalla scarsa preparazione
dei nostri giovani, quest’ultima imputabile all’incapacità delle
nostre università di fornire conoscenze e soprattutto competenze
tecniche adeguate a quelle domandate dalle nostre imprese.
Sia
chiaro che il problema esiste, ma la narrazione dominante (e il
connesso allarme) ne amplifica notevolmente le dimensioni. La realtà
è che i nostri lavoratori, soprattutto giovani, ricevono per contro
una preparazione adeguata, ma vengono assunti, laddove cioè accade,
con contratti a tempo determinato, spesso in condizioni di
sottoccupazione intellettuale e spesso costretti a emigrare o ad
accettare forme di part-time involontario. Una condizione di
precariato diffusa, con contratti di lavoro intermittenti, di incerta
durata, che amplifica la spirale perversa composta da bassa crescita
e peggioramento della qualità dell’occupazione.
Per
troppi anni, la nostra crescita è stata demandata alla triade
inflazione-debito-svalutazione. Quest’ultima – si è ritenuto per
troppi anni da parte di un folto numero di economisti – avrebbe
consentito alle nostre imprese di ottenere crescenti margini di
profitto esportando, secondo un modello che gli economisti
definiscono export-led (crescita trainata dalle esportazioni). La
svalutazione, a ben vedere, si è tuttavia associata a:
1.
Riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro, dal
momento che ha incentivato le nostre imprese a perseguire una
modalità di competizione, su scala internazionale, basata sulla
compressione dei costi di produzione nella sostanziale assenza di
investimenti privati in innovazione;
2. Incremento dei divari
regionali, dal momento che la gran parte delle nostre imprese
innovatrici è localizzata al Nord.
Sia
chiaro che l’ingresso nella moneta unica europea e l’adozione
dell’euro ha aggravato problemi strutturali che la nostra economia
si portava con sé a partire da almeno due decenni precedenti. Ciò a
ragione del fatto che il dispositivo della svalutazione competitiva
degli anni settanta-ottanta si blocca a partire dal 2002. Si
stabilisce un tasso di cambio un euro/1936,27 lire, con decreto del
28 dicembre 2001 e si avvia una breve stagione di ripresa della
crescita del tasso di inflazione.
Le
riforme del mercato del lavoro avviate a metà anni novanta
contribuiscono, però, a ridurne la portata e a consentire alle
nostre imprese di sopravvivere non più attraverso il canale della
svalutazione, ma attraverso la cosiddetta deflazione interna: ovvero
una linea di moderazione salariale finalizzata a tenere bassi i
prezzi sui mercati internazionali e, per conseguenza, a mantenere in
attivo il saldo delle partite correnti (ovvero la differenza fra
esportazioni e importazioni).
Si
tratta di una linea perdente nel lungo periodo: la moderazione
salariale comprime la domanda interna e causa crescita del tasso di
disoccupazione – con la sola eccezione degli anni successivi al
2013, quando l’occupazione comincia ad aumentare (sebbene la sua
qualità continui a peggiorare). L’aumento del tasso di
disoccupazione riguarda, negli anni considerati, soprattutto la
fascia d’età compresa fra i 25 e i 35 anni, è prevalentemente
concentrata nel Mezzogiorno e riguarda soprattutto individui con
elevata qualificazione professionale e altamente istruiti.
Si
avvia un inevitabile processo di invecchiamento della popolazione, al
quale si associa l’intensificarsi della caduta del tasso di
crescita della produttività del lavoro, dal momento che, di norma,
lavoratori anziani sono meno istruiti di lavoratori giovani e meno
motivati, dunque meno produttivi.
Ma
il problema non è solo economico. Si tratta di comprendere che il
cosiddetto analfabetismo funzionale, di cui parlava il linguista
Tullio De Mauro, morto da pochi anni, ha impatti potenzialmente
devastanti sulla tenuta sociale del Paese, dal momento che –
potrebbe apparire ovvio sottolinearlo – una popolazione poco
istruita è anche una popolazione composta da elettori poco
informati: la de-culturizzazione è, in definitiva, la pre-condizione
per il peggioramento della qualità istituzionale e per una selezione
qualitativamente peggiorativa della nostra classe dirigente.
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