La celebre Prefazione della Fenomenologia, portata a termine nel gennaio del 1807, fu concepita dal filosofo non solo come avviamento alla lettura dell’opera, ma come presentazione della posizione dell’autore; per questo si può considerare come una introduzione al sistema filosofico hegeliano. Nella Prefazione, Hegel ripercorre con un unico sguardo tutte le tappe del cammino fenomenologico, per coglierne il significato complessivo ed esporre la concezione di un sapere rigorosamente scientifico. Condizione essenziale di un tale sapere è che l’Assoluto non sia concepito come identità immota, ma come realtà che include anche le differenze; non solo come sostanza, ma anche come soggetto vivente che esce da sé, si fa altro da sé, negandosi, e, attraverso "il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo", ritorna a se stesso. L’assoluto, dunque, è il risultato di un processo di scissione e di riunificazione; ciò si può esprimere dicendo che "il vero è l’intero".
"La vita di Dio e il conoscere divino potranno bene venire espressi come un gioco dell'amore con se stesso; questa idea degrada fino all'edificazione e a dirittura all'insipidezza quando mancano la serietà, il dolore, la pazienza e il travaglio del negativo. In sé quella vita è l'intatta eguaglianza e unità con sé, che non è mai seriamente impegnata nell'essere-altro e nell'estraneazione, e neppure nel superamento di questa estraneazione. Ma siffatto in-sé è l'universalità astratta, nella quale, cioè, si prescinde dalla natura di esso di essere per sé e quindi, in generale, dall'automovimento della forma (3). Qualora la forma venga espressa come eguale all'essenza, si incorre poi in un malinteso se si pensa che il conoscere stia pago allo in-sé o all'essenza, e possa invece fare a meno della forma; - se si pensa che l'assoluto principio fondamentale o l'intuizione assoluta rendano superflua l'attuazione progressiva della prima o lo sviluppo della seconda. Appunto perché la forma è essenziale all'essenza, quanto questa lo è a se stessa, quest'ultima non è concepibile né esprimibile meramente come essenza, ossia come sostanza immediata o come pura autointuizione del divino; anzi, proprio altrettanto come forma, e in tutta la ricchezza della forma sviluppata; solo così è concepita ed espressa come Effettuale. Il vero è l'intero. Ma l'intero è soltanto l'essenza che si completa mediante il suo sviluppo. Dell'Assoluto devesi dire che esso è essenzialmente risultato, che alla fine è ciò che è in verità; e proprio in ciò consiste la sua natura, nell'essere effettualità, soggetto o divenir-se-stesso.
Per quanto possa sembrare contraddittorio che l'Assoluto sia da concepire essenzialmente come risultato, basta tuttavia riflettere alquanto per rendersi capaci di questa parvenza di contraddizione. Il cominciamento, il principio o l'Assoluto, come da prima e immediatamente viene enunciato, è solo l'Universale. Se io dico: « tutti gli animali», queste parole non potranno mai valere come una zoologia; con altrettanta evidenza balza a gli occhi che le parole: « divino», « assoluto», « eterno», ecc. non esprimono ciò che quivi è contenuto; e tali parole in effetto non esprimono che l'intuizione intesa come l'immediato. Ciò che è più di tali parole, e sia pure il passaggio a una sola proposizione, contiene un divenir-altro che deve venire ripreso, ossia una mediazione (4). Della mediazione peraltro si ha un sacro orrore, come se, quando non ci si limiti ad affermare che essa non è niente di assoluto e non si trova nell'assoluto, si debba rinunziare alla conoscenza assoluta. Ma, in effetto, quel sacro orrore deriva dall'ignoranza della natura della mediazione e della stessa conoscenza assoluta. Infatti la mediazione non è altro che la moventesi eguaglianza con sé o la riflessione in se stesso, il momento dell'Io che è per sé, la negatività pura o abbassata alla sua pura astrazione, il Divenire semplice. L'Io o il divenire in generale, questo atto del mediare, in virtù della sua semplicità è appunto l'immediatezza che è in via di divenire, nonché l'immediato stesso. - Si disconosce quindi la ragione, quando la riflessione, esclusa dal vero, non viene accolta come momento positivo dell'Assoluto. È la riflessione che eleva a risultato il vero, ma che anche toglie questa opposizione verso il suo divenire; giacché il divenire è altrettanto semplice e quindi non diverso da quella forma del vero, la quale fa sì che esso, nel suo risultato, si mostri semplice: esso è, per meglio dire, l'esser ritornato nella semplicità. - Se, indubbiamente, l'embrione è in sé uomo, non lo è tuttavia per sé; per sé lo è soltanto come ragione spiegata, fattasi ciò che essa è in sé; soltanto questa è la sua effettuale realtà. Ma tale risultato è esso stesso immediatezza semplice; esso è infatti la libertà autocosciente, che riposa in se stessa, senza aver messo da parte, per poi lasciarvela abbandonata, l'opposizione; che è, anzi, conciliata con l'opposizione."
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