Leggi anche: Il buco nero dell’informazione globale - Geraldina Colotti
In
questo momento critico e di ebollizione in America Latina mi sembra
quanto mai opportuno un libro in cui si raccolgono alcuni documenti,
che ci fanno conoscere come è sorto in Venezuela il chavismo, quali
sono le sue basi e i suoi programmi politici. Gli autori sono lo
stesso Chávez e i suoi collaboratori e seguaci (Rangel, Duno,
Vadell) con lettere, interviste, discorsi.
Penso che non si possa comprendere il chavismo se non si fa
riferimento al ruolo che le forze armate hanno
avuto sempre in America Latina e in particolare a partire dal 900,
quando non sono mai state impegnate in guerre significative contro
nemici esterni. Sicuramente ciò si deve al contributo che gli
eserciti, diretti dalle élite creole, hanno dato al raggiungimento
dell’indipendenza con l’aiuto dell’Inghilterra da parte
dell’America Latina, che avrebbe dovuto costituire un unico paese,
secondo la volontà di Simón Bolívar, governata dal codice
boliviano ispirato a quello napoleonico. L’unificazione non si è
realizzata anche per le lotte intestine, ma costituisce ancora oggi
un obiettivo politico, che va sotto il nome di Patria
grande, contrapposta per la sua peculiarità culturale,
religiosa, politica all’America anglosassone.
Tuttavia, come è noto, benché si siano sempre ritenute le
guardiane della sicurezza e dell’identità nazionali, in America
Latina le forze armate non hanno giocato sempre nella stessa
prospettiva: vi sono stati eserciti che hanno dato vita a
brutali dittature militari, sostenute in
funzione anticomunista dagli USA, ed eserciti che hanno sostenuto
governi di tutt’altro segno, come quello di Velasco
Alvarado in Perù, che attuò significative
nazionalizzazioni, e di Torrijos a Panama,
che cercò di mettere sotto la sua giurisdizione l’omonimo canale
(siamo negli anni ‘70). A differenza dei primi, preoccupati di
distruggere il nemico interno annichilendolo
(come si fece in Cile, Brasile, Argentina), questi ultimi si
preoccuparono di affrontare, non in maniera conseguente, i problemi
strutturali della società latinoamericana: la povertà
generalizzata, l’informalità, l’esclusione sociale (questioni
ancora attuali come mostrano le proteste di questi giorni in molti
paesi, e che sono certamente scaturite dalla dipendenza economica e
finanziaria di quella regione dal capitale internazionale). Proteste
ferocemente represse, cosa non certo sottolineata dai nostri media
[1].
D’altra parte, dopo la fuga di Batista, la Rivoluzione cubana
non avrebbe potuto avanzare se non fosse stata sostenuta
dall’Esercito rebelde, la cui presenza e forza ne
favorirono la radicalizzazione.
Come scrive Geraldina
Colotti nelle Note per il lettore che
si appresta a leggere questo piccolo ma interessante libro, il
movimento chavista si è costituito sotto l’influenza del Partito
comunista del Venezuela, con il suo particolare simbolo del
gallo rosso, del Partito della Rivoluzione Venezuelana, del Movimento
della Sinistra rivoluzionaria e del Partito Bandiera rossa di matrice
stalinista, che tuttavia ha partecipato alle manifestazioni contro il
governo di N. Maduro nel 2014 e nel 2017.
La Rivoluzione bolivariana nasce dalle analisi sviluppate dal PCV
sulla situazione politico-economica del Venezuela, dalle quali si
ricava, come già aveva sottolineato José Carlos
Mariátegui, la volontà di coniugare i metodi e gli
obiettivi del marxismo con la specificità della realtà
latino-americana. Quest’ultima si esprime in tre figure: quella
di Simón Bolívar, al cui progetto si è già
fatto cenno, quella di Ezequiel Zamora, altro
militare noto per aver sconfitto l’esercito conservatore nel 1859
in una famosa battaglia, ed infine quella di Simón
Rodríguez o Robinson, antispagnolo, uomo di grandi
esperienze internazionali, che fu anche il precettore di
Bolívar.
Nella presentazione il fratello del dirigente
bolivariano, prematuramente scomparso, Adán Chávez ricorda che fu
lui ad avvicinare Hugo al PRV che intendeva ribaltare le condizioni
socio-economiche del paese, prostrato dalla corruzione della classe
dirigente e dalla sua subordinazione agli interessi statunitensi, e a
spingerlo a dar vita ad “un’unione civico-militare” per la
presa del potere. Disegno che si stava delineando tra i militari
progressisti venezuelani attratti dal Movimento rivoluzionario
bolivariano-200, fondato formalmente da Hugo nel 1983, espressione
che evoca il fatto che 200 anni prima era nato Bolívar. Le parole
d’ordine del movimento, riprese da Zamora, erano e sono: “Terra e
uomini liberi, Scelta popolare, Rifiuto dell’oligarchia”. Secondo
Adán fu determinante l’incontro con Douglas Bravo,
che a quel tempo dirigeva il PRV, per progettare l’azione
rivoluzionaria del 4 febbraio 1992, conclusasi in una sconfitta e con
la prigionia del fratello minore nel carcere di Yare, dove Hugo
continuò a riflettere e a scrivere sulla trasformazione del
Venezuela. Paese che avrebbe dovuto caratterizzarsi per l’aumento
delle sue capacità produttive collegato al miglioramento del tenore
di vita della popolazione, nel quadro della fratellanza di tutti quei
popoli, che si trovano a sud del Rio Grande.
Andando ai testi presentati nel libro, si ricava – da
un’intervista del 1992 – che Chávez non aveva in mente una
politica riformistica, ma strutturale, la quale si concreta
nel Progetto Nazionale S. Bolívar, che
enfatizza la specificità dell’America Latina ed osteggia la
visione politica neoliberale basata su una falsa democrazia dominante
tuttora, anzi in revival. Come risulta dalle inchieste
tale Progetto era condiviso dal 90% degli ufficiali giovani e di
grado medio, disgustati dalla corruzione amministrativa, dal
clientelismo, dal voto di scambio praticati dall’Alto Comando
venezuelano. A queste legittime richieste il governo, capeggiato da
Carlos Andrés Pérez, aveva risposto con una spietata repressione e
assoldato anche militari. Dette vita così a formazioni paramilitari,
tratto specifico dei paesi latino-americani, dove spesso lo Stato non
è in grado di esercitare il monopolio della violenza e quindi
ricorre a vari espedienti, che spesso non è in grado poi di
controllare (si veda il caso del Messico).
Nel Progetto di dichiarazione programmatica del
MBR-200 Chávez comincia col porsi il problema
dell’esercizio del potere, che a suo parere deve restare nelle mani
del popolo, al quale spetta il ruolo di forza dirigente. Per
garantire il protagonismo popolare ritiene sia opportuno costituire
consigli che vadano da quello di quartiere a quello nazionale di
governo. I primi saranno creati dalle stesse masse organizzate, i
secondi, invece, saranno votati da assemblee elettive, i cui membri
non saranno permanenti e non riceveranno uno stipendio. In caso di
gravi crisi spetterà all’unione dei civili e dei militari la
difesa del paese. È questa la struttura di uno Stato popolare, a
democrazia diretta, in cui anche i più alti vertici sono sotto il
controllo della base, con il quale si intende sostituire la
democrazia oligarchica che ha determinato l’incremento della
povertà e le fortissime differenze nella redistribuzione della
ricchezza.
Gli obiettivi del nuovo Stato, già indicati in precedenza,
saranno possibili accelerando l’industrializzazione del paese, in
particolare creando una vera industria petrolchimica,
che farebbe superare la cosiddetta economia rentista, basata sul
petrolio, purtroppo ancora in vigore anche per
difficoltà prodotte dall’esterno. Il Venezuela si sarebbe
dovuto trasformare da paese mono-esportatore a paese
pluri-esportatore, che avrebbe prodotto al suo interno le risorse
necessarie al suo sostentamento e sviluppo, e che si sarebbe dovuto
dotare di una manodopera qualificata.
Questo processo di cambiamento si doveva realizzare con la
partecipazione del capitale privato, dato che il nuovo Stato prevede
e prevedeva la persistenza della borghesia locale.
A parere di Chávez, forse troppo fiducioso, quest’ultima non
avrebbe generato problemi, a differenza del capitale straniero, di
cui tuttavia il Venezuela non può fare a meno, dato che le imprese
estere accedono a molti mercati ed hanno creato brevetti di grande
utilità. In questa prospettiva, il governo venezuelano ha stabilito
rapporti con imprese miste cinesi e russe (come per esempio la russa
Rosneft e la cinese Sinovensa), in collaborazione con PDVSA, in base
ai quali si realizza uno scambio tra il crudo e la prestazione di
servizi da parte dei partner stranieri. Inoltre, queste imprese
straniere hanno apportato tecnologia e competenze nel processo di
raffinazione del petrolio. Tuttavia, le sanzioni statunitensi creano
problemi ai russi e ai cinesi, perché, dovendo pagare i loro
fornitori in dollari, debbono lottare con le banche internazionali
che pongono ostacoli a tutto ciò che ha a che fare con la produzione
e la vendita del petrolio venezuelano. Ovviamente queste presenze
costituiscono per gli Stati Uniti una forma di ingerenza in una
regione che considerano di sua esclusiva proprietà, soprattutto dopo
che il fallimento delle varie guerre orientali e mediorientali ha
spinto questo prepotente paese a volgersi un’altra volta verso
l’America Latina.
Sempre secondo lo statista venezuelano lo Stato si sarebbe dovuto
limitare a gestire le industrie di base, lasciando in piedi un
settore manifatturiero privato, la cui produzione sarebbe stata
diretta al mercato interno. Un aspetto importante doveva essere
rappresentato dalla rigorosa distribuzione del
reddito tra la popolazione e dall’azione delle
assemblee popolari per contrastare forme di burocratizzazione,
tendenze contro cui hanno sempre lottato i regimi di carattere
popolare. Tenuto conto del quadro internazionale, che vede un “mondo
tripartito a livello economico, unipolare a livello militare” (ma
forse le cose in questo ambito stanno cambiando), tali cambiamenti
avrebbero dovuto svilupparsi in un contesto favorevole caratterizzato
dal rafforzamento della “fratellanza latino-americana” (pp.
75-81). Previsione, che è venuta meno, per gli attacchi riusciti con
appoggi interni ed esterni contro i governi affini politicamente al
Venezuela, ma probabilmente anche per la mancanza di una più decisa
politica di nazionalizzazioni, richiesta
dal PCV, che forse non si era in grado di fare.
Questa lacuna ha
alimentato la gravissima contraddizione tra le forze progressiste e
quelle reazionarie, sostenute dall’esterno, che ancora lacera e
impoverisce il paese, ora più isolato dopo i cambiamenti politici
avvenuti nell’ordine in Brasile,
Argentina, Ecuador e Bolivia.
Nel libro sono anche indicati gli elementi più problematici della
Rivoluzione Bolivariana, cui prima ho accennato; vi faccio cenno,
benché non intendo sostenere che le sue difficoltà derivino solo da
questi, convinta che esse siano state ampliate dal
dichiarato sabotaggio
imperialista, la cui prima significativa espressione sta nel
decreto esecutivo di Obama del 2015, in cui senza nessun fondamento
realistico il Venezuela è accusato di costituire una minaccia alla
sicurezza degli Stati Uniti.
Questi elementi problematici sono indicati da Manuel Vadell,
seguace di Chávez sin dagli inizi, editore di testi di analisi
politica e rivoluzionaria, in un’intervista del 2012. In
particolare, ci sembra interessante il continuo riferimento alla
necessità dell’espansione, nella nuova società, dell’etica
socialista, fondata sull’alternativa al consumismo
capitalistico, che spinge i lavoratori a tenere conto solo del
livello dei salari. Questa forma di comportamento, basata sul
parossismo consumistico, ha esercitato anche una forte attrazione
sulle popolazioni dell’est Europa, le quali non reagirono quasi
allo smantellamento dei loro sistemi politici, il cui risultato è
stato la perdita di molti diritti sociali, l’impoverimento e la
disoccupazione.
Altro punto dolente è rappresentato dal funzionamento
delle Comunas, aggregazione di consigli
comunali, varate dal secondo governo Chávez, fondamento del potere
popolare e che dovrebbero contribuire alla creazione di uno Stato
socialista. Secondo Vadell, editore rivoluzionario, le Comunas, che
segnano un avanzamento verso il socialismo, non sono definite in
maniera adeguata dalla Costituzione del 1999 e secondo alcuni esse si
sovrappongono alle precedenti istituzioni, a cui erano già stati
trasferiti alcuni servizi per la collettività. La loro istituzione
derivò dalla volontà di superare la democrazia rappresentativa e
partecipativa prevista dalla Costituzione per costruire un Estado
comunal immaginato dal pensatore Kléber
Ramírez Rojas (1937-1998), la cui riflessione fornì
significativi elementi teorici alla Rivoluzione bolivariana. La loro
struttura e le loro funzioni si basano sulla volontà di dar impulso
al protagonismo popolare, che si deve concretare nella pianificazione
e nella gestione della politica economica, nell’esercizio
dell’autogoverno e dell’autorganizzazione implementato dalla
decentralizzazione, nell’amministrazione della giustizia a
salvaguardia di una pacifica convivenza all’interno dell’area di
competenza della Comuna caratterizzata anche dalla condivisione di
tradizioni e usanze. Come si vede, le Comunas non sono puri enti
economici ed amministrativi, ma dovrebbero costituire delle comunità,
i cui membri sono legati anche da forti vincoli culturali e morali.
Altri temi trattati da Vadell sono le difficoltà del PSUV, cui
nel 2007 non volle aderire il PCV, che ha il difetto di mettersi in
movimento solo nelle fasi pre-elettorali e che non si caratterizza
per un significativo dibattito interno, e il tema della corruzione.
L’editore chiavista ha denunciato più volte la necessità di
epurare tutti quei funzionari pubblici, che si sono avvantaggiati
economicamente grazie alla loro posizione e che non hanno alcun
interesse alla costruzione del socialismo. L’eliminazione di tali
personaggi va di pari passo con il controllo esercitato dal potere
popolare, il quale non può che fondarsi su individui preparati da un
punto di vista ideologico e questa preparazione implica una cultura
di ampio respiro, non solo politica, ma anche letteraria, teatrale,
musicale.
Come si vede, Vadell è perfettamente consapevole – come lo era
Fidel – che costruire il socialismo è una questione complessa e
non si limita alla trasformazione della sfera economica, ma implica
anche l’acquisizione di una profonda sensibilità culturale ed
etica. A queste riflessioni sul socialismo Fidel aggiungeva anche che
bisognava procedere per esperimenti, tenendo conto del contesto
storico, giacché nessuno aveva ed ha la ricetta preconfezionata di
questa nuova forma di società.
Importante è sottolineare questa capacità di analizzare
criticamente i risultati del processo bolivariano, perché essa
mostra la lucidità dei suoi dirigenti, ai quali va riconosciuto il
coraggio, la coerenza e la costanza nel perseguire i loro obiettivi
in una situazione come quella latinoamericana che si fa sempre più
grave. Trovo questa lucidità in un’analisi sviluppata da Chávez,
che risale al 1993, nella quale respinge l’idea della “convergenza
delle volontà di tutti i settori nazionali”, avanzata da un
numero consistente di accademici, dato che questa gli sembra
impraticabile. Infatti, la classe dominante, non rappresentata
esclusivamente dai politici veri e propri, non è certo disposta a
lasciare spazio alle forze trasformatrici, né a rinunciare
all’impiego della violenza per ostacolarne l’avanzata. Lo
statista venezuelano respinge l’idea di essere divenuto un mito,
dal momento che – come scrive – il sostegno che ha ricevuto dalle
classi popolari venezuelane è fondato su basi razionali e sulla
convinzione che una profonda trasformazione sociale è necessaria per
dare una risposta concreta alle loro domande.
Note
[1] I quali, attraverso la voce affranta di Giovanna
Botteri, preferiscono occuparsi delle manifestazioni di Hong Kong.
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