Tratto da Il capitale monopolistico. Baran, Paul A. – Sweezy, Paul M., 1978, Einaudi pp. 167-173 -
Quali sono i meccanismi economico-militari che caratterizzano l’imperialismo contemporaneo, cioè l’imperialismo per come si è sviluppato dal secondo dopoguerra a oggi?
La
loro genesi è ben descritta da Paul Baran e Paul Sweezy, due
eminenti marxisti statunitensi, nella loro opera “Il capitale
monopolistico” del 1966. Da allora, l’unica differenza è che i
monopoli dominanti non sono più quelli industriali bensì quelli
finanziarizzati – i “mercati” in linguaggio corrente, con
un avvilupparsi sempre più stretto tra industria e finanza in cui
l’elemento finanziario tende a prendere saldamente il controllo (1)
– sorti a partire dagli anni ’80 sulla base delle multinazionali
oggetto di studio dei due autori. Tuttavia, la politica dei gruppi monopolistici resta sostanzialmente la stessa.
Vi proponiamo dunque questo passaggio del libro in cui, attraverso l’esempio di Cuba – ancor valido vista l’attualità delle recenti misure USA atte a rafforzare l’embargo e lo strangolamento dell’isola – gli autori illustrano il funzionamento e le ragioni profonde e strutturali di questo sistema mondiale di sfruttamento che affligge le classi lavoratrici e le nazioni oppresse del pianeta.
Vi proponiamo dunque questo passaggio del libro in cui, attraverso l’esempio di Cuba – ancor valido vista l’attualità delle recenti misure USA atte a rafforzare l’embargo e lo strangolamento dell’isola – gli autori illustrano il funzionamento e le ragioni profonde e strutturali di questo sistema mondiale di sfruttamento che affligge le classi lavoratrici e le nazioni oppresse del pianeta.
“la
storia recente della Standard Oil of New Jersey ci offr[e] un esempio
classico del perché le società per azioni multinazionali sono
profondamente ostili al diffondersi del socialismo. Prima della
rivoluzione cubana, la Standard era impegnata a Cuba in diverse
attività. Era proprietaria di raffinerie nell’isola e di un’ampia
rete di distribuzione […]. Per di più, le affiliate cubane della
Standard acquistavano il greggio dalla Creole Petroleum, affiliata
venezuelana della Standard, a prezzi che il cartello internazionale
del petrolio manteneva elevati.
La società pertanto mieteva profitti in due paesi diversi e in tre attività diverse: vendita del greggio, raffinazione del greggio e vendita del prodotto finito. Per effetto della rivoluzione cubana le proprietà della società a Cuba furono nazionalizzate senza risarcimento e la Creole perdette il mercato cubano. Un patrimonio di oltre 60 milioni di dollari e tutte e tre le fonti di profitto corrente furono perdute con un colpo solo e senza minimamente comportare esportazioni o importazioni con gli Stati Uniti.
Si
potrebbe sostenere che se la Standard e il governo degli Stati Uniti
avessero seguito politiche diverse nei confronti di Cuba, il regime
rivoluzionario sarebbe stato lieto di continuare ad acquistare il
greggio dal Venezuela che, dopo tutto, costituisce la fonte di
rifornimento più vicina e più razionale. Questo è senza dubbio
vero, ma con una importante precisazione. Il regime rivoluzionario
sarebbe stato lieto di continuare a comprare petrolio dal Venezuela,
ma non avrebbe gradito continuare a pagare i prezzi e accettare le
condizioni di pagamento imposte dalla Standard Oil. E poiché poteva
rivolgersi all’Unione Sovietica come fonte alternativa di
rifornimento, esso non era più costretto a sottostare alle
condizioni del cartello. Pertanto, per rimanere nel mercato cubano,
la Standard avrebbe come minimo dovuto ridurre i prezzi e offrire
condizioni migliori. Questo non soltanto avrebbe comportato minori
profitti nelle vendite a Cuba, ma avrebbe minacciato l’intera
struttura dei prezzi del cartello. La Standard e Washington decisero
invece di combattere la rivoluzione cubana.
Che la posta in gioco nel conflitto tra gli Stati Uniti e Cuba non sia il commercio tra i due paesi è confermato dalle relazioni di Cuba con altri paesi capitalistici. Molto tempo dopo la socializzazione dell’economia cubana, vediamo il governo dell’Avana promuovere vigorosamente il commercio con la Gran Bretagna, la Francia, la Spagna, il Canada e il Giappone: in breve con tutti i paesi disposti a commerciare con Cuba e in condizioni di farlo. È vero, naturalmente, che le possibilità cubane di esportare e importare erano state seriamente ridotte dalla disorganizzazione e dalle altre difficoltà dei primi anni della transizione al socialismo, ma sembra che non vi sia ragione di dubitare dell’affermazione di Cuba secondo cui entro pochi anni l’isola sarà un contraente molto migliore che all’epoca del vecchio regime neocolonialista. Né vi è ragione di dubitare del fatto che gli Stati Uniti sarebbero in grado di far la parte del leone nel commercio cubano se si togliesse il blocco e si ristabilissero normali relazioni tra i due paesi.
Ma
non è questo che interessa alle società per azioni multinazionali
giganti che dominano la politica americana. Esse vogliono il
controllo monopolistico delle fonti estere di rifornimento e dei
mercati esteri in modo da essere in grado di comprare e vendere a
condizioni particolarmente favorevoli, di passare ordinazioni da una
società affiliata all’altra, di favorire questo o quel paese che
ha le politiche più vantaggiose in materia di imposte, di lavoro e
di altro: in una parola, essi vogliono fare affari dove vogliono e
come vogliono. E per questo essi non hanno bisogno di soci, ma di
«alleati» e di clienti disposti ad adeguare le loro leggi e le loro
politiche alle esigenze delle grandi società americane.
Su
questo sfondo, è possibile vedere che il delitto di Cuba fu quello
di affermare, con i fatti e con le parole, il suo diritto sovrano di
disporre delle proprie risorse nell’interesse del proprio popolo.
Questo comportò la riduzione e, nella lotta che ne seguì, anche
l’abrogazione dei diritti e dei privilegi che le società per
azioni multinazionali giganti avevano precedentemente goduto nel suo
territorio. Per questo e non per la perdita del commercio e tanto
meno per timori o pregiudizi irrazionali le società e il loro
governo a Washington reagirono con tanta violenza alla rivoluzione
cubana.
Si
potrebbe forse pensare che essendo Cuba un piccolo paese, la violenza
della reazione sia stata assolutamente sproporzionata al danno
sofferto. Ma questo significherebbe non cogliere il punto
fondamentale. L’importanza di Cuba sta proprio nel fatto di essere
cosi piccola e cosi vicina agli Stati Uniti. Se Cuba può abbandonare
impunemente il «mondo libero» e unirsi al campo socialista, allora
qualunque paese può fare lo stesso. E se Cuba progredisce nella
nuova situazione, tutti gli altri paesi sottosviluppati e sfruttati
del mondo saranno tentati di seguirne l’esempio. La posta a Cuba,
quindi, non è soltanto lo sfruttamento di un piccolo paese, ma la
stessa esistenza del «mondo libero», vale a dire dell’intero
sistema di sfruttamento.
Questo
è il fatto che ha dettato la politica cubana degli Stati Uniti. Tale
politica ha mirato a danneggiare e paralizzare l’economia cubana in
ogni modo possibile, con un triplice obiettivo. Primo, nella speranza
che il popolo cubano presto o tardi si stanchi del suo nuovo assetto
rivoluzionario, ponendo cosi le basi per il successo di una
controrivoluzione. Secondo, allo scopo di insegnare ai popoli dei
paesi sottosviluppati che la rivoluzione non rende. Terzo, allo scopo
di gettare sul campo socialista, e specialmente sull’Unione
Sovietica, che ne è il paese piu sviluppato, tutto il peso
necessario per sostenere l’economia cubana, in modo da indurre gli
altri paesi socialisti a impiegare la loro influenza per impedire
nuove rivoluzioni che potrebbero gettare ulteriori oneri sulle loro
economie già sovraccariche.
Naturalmente questo non è l’unico modo in cui il «mondo libero» si difende. Gli Stati Uniti sono riusciti a comprendere la natura della rivoluzione che rovesciò il regime di Batista a Cuba solo quando era troppo tardi per impedire ai rivoluzionari di consolidare il loro potere. Ora stanno prendendo ogni precauzione per evitare di ripetere ancora lo stesso errore. Tutti i rivoluzionari sono automaticamente sospetti: nessun regime è troppo reazionario per non meritare l’appoggio incondizionato degli Stati Uniti.
Tale
appoggio assume in parte la forma del cosiddetto aiuto economico (in
realtà si tratta di rifornimenti per corrompere le oligarchie locali
incaricate di assicurare la loro fedeltà a Washington più che agli
interessi dei propri paesi) e in parte la forma dell’aiuto
militare, che è prevalentemente di due specie.
In
primo luogo, vi è la presenza diretta delle forze armate degli Stati
Uniti sul territorio dello stato satellite (client):
stazionamento di truppe in basi controllate dagli Stati Uniti (come
abbiamo già visto vi sono 275 basi integrate importanti e 1400 basi
normali occupate pronte a essere occupate da truppe americane); […]
[oggi
gli USA contano almeno 700 basi integrate sparse per 75 paesi e una
presenza militare nel 75% delle nazioni del mondo, 149 paesi n.d.r]
(2)
In
secondo luogo, c’è il rifornimento di materiali e l’appoggio
finanziario per le forze armate degli stati vassalli. Anche se i
numerosissimi patti di assistenza militare che gli Stati Uniti hanno
firmato con i paesi sottosviluppati in tutto il mondo sono
apparentemente destinati a fronteggiare la «minaccia» di
aggressione da parte dell’Unione Sovietica e della Cina, nessuno
stratega militare serio crede che questo sia lo scopo reale. Tale
minaccia, se effettivamente esistesse, potrebbe essere respinta solo
dagli Stati Uniti, poiché il tentativo di coordinare la strategia
militare con un gran numero di alleati deboli sarebbe più una fonte
di debolezza che di forza. Il vero scopo di questo aiuto militare è
chiaramente enunciato dal Lieu Wen nel suo studio fondamentale sulla
funzione dei militari nell’America Latina:
Quelle politiche [militari]… non si propongono di fronteggiare la minaccia militare del comunismo, ma piuttosto di guadagnarsi l’amicizia dell’America Latina, ottenerne l’appoggio e la cooperazione alle Nazioni Unite e nell’organizzazione degli stati americani. L’alleanza di Rio, i patti di mutua assistenza, gli aiuti rimborsabili, l’opera della Commissione di difesa interamericana e delle missioni militari sono tutte cose che non hanno grande importanza militare. Esse si propongono soprattutto di avvicinare maggiormente agli Stati Uniti il corpo degli ufficiali latino-americani che esercitano grande influenza sulla scena politica della maggior parte di quelle repubbliche, nella speranza che essi respingano l’influenza sovietica, diano il loro appoggio agli Stati Uniti, conservino la stabilità politica, assicurino sempre l’accesso alle materie prime strategiche e concedano l’uso delle basi militari.
Per
dirla più schietta, l’aiuto militare degli Stati Uniti ai paesi
sottosviluppati si propone di mantenere tali paesi nell’impero
americano se essi ci sono già e di farceli entrare se ancora non ne
fanno parte; e in ogni caso di assicurarsi che non vi siano ulteriori
defezioni dal «mondo libero». Le conseguenze per i paesi che
ricevono tale aiuto sono tragiche. «La nostra azione – afferma lo
statista colombiano Eduardo Santos – sta creando eserciti che non
hanno alcun peso in campo internazionale, ma che sono cappe di piombo
per la vita interna di ciascun paese. Ogni paese è occupato dal
proprio esercito». La stessa tesi è enunciata e fortemente
sottolineata in un notevole studio sui rapporti tra Stati Uniti e
Pakistan pubblicato a Londra da un gruppo di studiosi pakistani:
A lunga scadenza, l’aspetto peggiore dell’aiuto militare sta nel cambiamento completo che esso produce nell’equilibrio delle forze sociali e politiche a favore della conservazione e degli interessi costituiti. I semi malefici dell’aiuto militare producono uno spaventoso raccolto di militari radicati negli strati più conservatori della nostra società, che s’impancano a giudici del nostro popolo. Si tratta di una forza schiacciante senza antagonisti capaci di controbilanciarla.
Questa
proliferazione su scala mondiale di piccoli apparati militari fedeli
a Washington non riduce in alcun modo il bisogno di un grande
apparato militare negli stessi Stati Uniti. Mentre sale la marea
della protesta rivoluzionaria nei paesi sfruttati del «mondo
libero», solo l’aumento diretto e massiccio dell’intervento
delle forze armate americane può ancora tenere insieme per qualche
tempo il vecchio ordine di cose.”
(1)
Sulla evoluzione del capitalismo monopolistico in capitalismo
monopolistico finanziarizzato, e quindi sulla dominazione attuale del
capitale finanziario (“i mercati finanziari”), leggere Finanza,
economia e politica articolo
di Tony Norfield tradotto da Giuseppe Sini su Traduzioni
marxiste.
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