Giovanna Vertova, Università di Bergamo, Dipartimento di Scienze Aziendali, Economiche e Metodi Quantitativi. -
Riccardo Bellofiore, Università di Bergamo, Professore ordinario di Economia politica. -
Leggi anche: Ai confini della docenza. Per la critica dell’Università - Alessandra Ciattini
Negli ultimi anni una serie di riforme ha portato l’università italiana a una profonda crisi.
La sfida odierna è
quella di restituirle il suo ruolo di luogo di formazione culturale
ed educazione al pensiero critico.
Di critiche
dell’Università se ne sprecano. Ne abbiamo scritta una pure noi,
dal titolo ambiguo quant’altrimai: Ai confini della docenza,
sottotitolo Per una critica dell’Università. Il volume lo abbiamo
voluto scaricabile gratuitamente dal sito della Accademia University
Press. (https://www.aaccademia.it/scheda-libro?aaref=1223)
Ambiguo perché il titolo potrebbe essere scambiato per una
lamentela giocata sull’assonanza docenza/decenza; e il sottotitolo
potrebbe parimenti apparire al lettore distratto un’aggiunta alla
sempre più lunga lista di cahiers de doléances contro l’istruzione
superiore. Le cose non stanno proprio così. Il titolo rimanda a una
serie televisiva famosa, in originale The Twilight Zone, che uno dei
curatori non propriaente giovane vide nella sua prima stagione,
introdotta così:
C’è una quinta
dimensione oltre quelle che l’uomo già conosce; è senza limiti
come l’infinito e senza tempo come l’eternità. È la regione
intermedia tra la luce e l’oscurità, tra la scienza e la
superstizione, tra l’oscuro baratro dell’ignoto e le vette
luminose del sapere. È la regione dell’immaginazione, una regione
che potrebbe trovarsi ai confini della realtà.
Il sottotitolo gioca
sul significato che Marx dà al termine ‘critica’: non limitarsi
a rilevare errori, ma individuarne le condizioni di
possibilità, e dunque la necessità e i modi di un cambiamento.
L’alleggerimento
dei programmi e la compressione degli apprendimenti
L’università è
in stato di grave crisi, pure la coscienza di quanto sia grave questa
crisi manca. Manca in primo luogo al suo interno, dove invece
abbondano le strategie difensive, del tipo ‘ha da passare la
nottata’. La serie di riforme dai primi anni duemila in poi si è
succeduta ininterrotta, in una logica autodistruttiva anche dal punto
di vista di chi quelle riforme ha pensato. Ogni risultato è stato
cancellato dalla furia dissolvente di una riforma successiva. La
logica iniziale è stata quella di sostituire alla conoscenza le
competenze, e di accelerare un apprendimento reso sempre più
scheletrico. I problemi cui intendeva rispondere la riforma
Berlinguer erano ben reali. Gli studenti italiani si laureavano
tardi, e trovavano impiego in occupazioni non corrispondenti agli
studi. Il primo triennio avrebbe dovuto fornire tanto le conoscenze
di base quanto una prima professionalizzazione, affinché si potesse
entrare prima nel mercato del lavoro.
La riforma
dell’università veniva affiancata a una riforma della scuola
secondaria che, nell’obiettivo dichiarato di non perdere per strada
nessuno, distruggeva il liceo classico e scientifico che avevamo
ereditato. Si voleva programmare l’offerta formativa in modo da
ridurre la distanza tra formazione universitaria e mercato del
lavoro. All’ ‘autonomia’ didattica degli atenei dobbiamo il
dilagare di un’offerta didattica sempre più vasta e vuota. I
limiti di questo impianto erano evidenti da subito, prima della sua
messa in opera, e sono ancora con noi. Non ci voleva molto a capire
che la formazione di base generalista e di taglio critico,
interessata non solo al ‘come’ delle cose, ma anche al loro
‘perché’, sarebbe scomparsa dal triennio, per non riemergere da
nessuna parte. È assurdo sperare che l’università possa fornire
laureati con competenze e saperi pronti all’uso in un mondo del
lavoro soggetto a un continuo e irreversibile cambiamento
morfologico. Sarebbe proprio un triennio costruito su una larga base
comune che dilatasse al massimo i tempi della formazione generale e
critica ciò che meglio preparerebbe i nuovi laureati a quella
mobilità orizzontale che gli verrà richiesta come necessaria dai
nuovi processi produttivi. Lo studente si trova di fronte programmi
alleggeriti sino alla trasparenza assoluta, invece i moduli e i corsi
che scandiscono la sua carriera universitaria crescono a dismisura:
con essi, si moltiplicano gli esami, e il tempo dell’apprendimento
si comprime. La libertà di costruirsi percorsi individuali è
ridotta. Rimane allo studente un po’ ingenuo la soddisfazione di
sapersi ‘cliente’ della nuova università, e dunque anche il suo
‘sovrano’, almeno se è disposto a credere alla mitologia secondo
cui la soddisfazione del consumatore è il fine ultimo del mercato:
peraltro, nella nuova università questa è l’unica teoria
economica che il malcapitato incontrerà.
Lo svilimento
dell’università tra riforme “coerenti” e “razionali”
La riforma Moratti e
poi quella Gelmini hanno reso coerente e razionalizzato la nuova
università, nel segno di una precarizzazione della docenza non
(ancora) strutturata così rispondendo all’esplosione patologica
dei corsi di laurea, di una fittizia personalizzazione degli
insegnamenti, di un prolungamento invece che di una riduzione del
periodo di studio, della sostanziale svendita della laurea (tanto
triennale quanto magistrale), di una sostanziale assenza del vaglio
di merito da parte ministeriale delle scelte delle singole
università, e così via.
Lo svilimento prima
e lo smantellamento poi dell’istituzione universitaria pubblica ne
sono stati l’esito inevitabile. Vista ex post, e tenendo conto
anche della continuità della burocrazia ministeriale, si comprende
la tesi che esista una continuità lineare tra ‘centro-destra’ e
‘centro-sinistra’ sul terreno della riforma dell’università.
Bisognerebbe, certo,
ricordare anche la triste vicenda della ‘valutazione’ della
ricerca: ridotta a poco più che esercizio bibliometrico, messa al
servizio di una conformistica riproduzione del sapere dato, e delle
conseguenze sui concorsi per la docenza. Come scrive Guglielmo Forges
Davanzati: “è come se una ragazza con i capelli biondi
partecipasse a un concorso di bellezza nel quale si è già deciso
che possono vincere solo ragazze con i capelli neri”. La
valutazione e i concorsi continuano a essere presenti nella
discussione, quasi fossero l’unico problema. A noi pare piuttosto
che le due questioni vadano viste come un lato soltanto del dramma
che sta andando in scena: la rinascita ancora più feroce e fuori da
ogni controllo del ‘baronato’, l’arbitrarietà della
governance, l’aggiramento di norme e consuetudini di una antica
civiltà universitaria che si vuole trasformare oggi in ‘comunità’
che deve sentirsi ‘solidale’ e in ‘competizione’ con le altre
sedi. Basterà una occhiata ai codici etici di cui gli atenei si sono
dotati per averne conferma.
Gli effetti deleteri
di un’università allineata agli interessi dell’imprenditorialità
Il punto è, come
ricorda ancora Forges Davanzati, che le imprese italiane, scarsamente
innovative e di piccole dimensioni, non hanno bisogno di ricerca di
base o di forza-lavoro altamente qualificata. Rendere l’istruzione
universitaria funzionale all’impresa così com’è riesce
contemporaneamente nel miracolo di privare i cittadini del diritto
agli studi avanzati indipendentemente dalla funzione produttiva e di
togliere alle imprese lo stimolo (che non può non essere promosso
dal pubblico) a un miglioramento qualitativo: formare una classe
dirigente allineata agli interessi della nostra imprenditoria è
proprio ciò di cui il nostro sistema delle imprese non ha bisogno.
Ed è invece questa
la realtà performativamente prodotta da quella retorica
dell’occupabilità smontata con rigore nelle pagine di Michele Dal
Lago. A tutto ciò si accompagna la sempre più netta divisione tra
atenei di serie A e di serie B e il sottofinanziamento di quelli
meridionali. Come anche non va sottovalutato l’aumento del tempo di
lavoro della docenza, sempre più colonizzato da compiti burocratici,
a fronte della riduzione del salario percepito internamente
all’istituzione, la sua sempre minore trasparenza, l’introduzione
di criteri mercantili in cicli di formazione come master, tirocini e
corsi di formazione.
Il “lavoro” in
Università tra “aziendalizzazione” e “dipendenza locale”
Quando si osserva
l’Università come ‘luogo di lavoro’ al pari di una fabbrica o
di un ufficio emergono i problemi tipici degli altri luoghi di
lavoro: la crescente precarietà scambiata per flessibilità, i
rapporti di potere su base gerarchica (ma non solo) sempre più
violenti, i sottofinanziamenti e i bassi salari. Anche per questo
abbiamo ritenuto importante che nel volume fosse presente la
registrazione di una ricerca svolta nella nostra sede sul lavoro in
università. Si faccia l’esercizio di immaginare di entrare in una
sede qualsiasi.
Si incontrerà, per esempio, la portineria: gli
addetti, più propriamente quasi tutti di genere femminile, sono in
condizioni di lavoro di fatto precarie; simile il destino di chi
effettua il lavoro delle pulizie. Si incontreranno poi tecnici
informatici, seduti magari alle stesse scrivanie, alcuni dipendenti
dell’università, altri da società esterne: si chiama
decentramento intra-moenia.
C’è poi il
personale amministrativo, in parte anch’esso precario, in
competizione con la docenza per i punti organico: soggetto a una
continua pressione che li vuole snodo meccanico di un processo di
lavoro il più fluido possibile, finalizzato soprattutto a rispettare
le esigenze dell’organizzazione più che norme e regolamenti.
Nel solco della
tradizione delle inchieste sui luoghi di lavoro, la ricerca è
partita da un quesito rivolto a lavoratori e a lavoratrici: se e in
che modo tutti i lavoratori riescano a svolgere le loro mansioni per
raggiungere i compiti che all’Università sono affidati dalla
legge. Forse per la prima volta l’Università viene considerata
luogo di lavoro in senso stretto, non soltanto alta formazione – la
seconda non esisterebbe senza il primo.
La discussione si è
svolta in gruppi collettivi misti di docenti e personale
amministrativo, e in parte per interviste. La ricerca, un’assoluta
novità nel panorama italiano, è stata sostenuta finanziariamente
dalla FLC provinciale e nazionale; ed è stata condotta da Francesco
Garibaldo ed Emilio Rebecchi, non nuovi a inchieste del genere.
Se si legge
l’università come un luogo di lavoro ‘come tutti gli altri’ si
scopre come sia stata investita da processi che hanno interessato il
lavoro ovunque: decentramento, flessibilizzazione, burocratizzazione,
misurazione ossessiva dei risultati al fine di integrazioni salariali
o di finanziamenti ministeriali. I risultati della ricerca
sottolineano come i ‘peggiori’ nemici delle lavoratrici e dei
lavoratori – che si sentono orgogliosi di far parte di
un’istituzione pubblica, e rivendicano la cooperazione spontanea
come strumento per far funzionare davvero l’università – siano
le due caratteristiche principali, introdotte fin dalle prime
riforme: l’aziendalizzazione (cioè la gestione della
organizzazione del lavoro in università come se fosse una azienda) e
la dipendenza da una domanda di lavoro territoriale, idiosincratica,
incapace di guardare lontano. Sempre più in difficoltà l’idea,
che in fondo rimanda alla nostra Costituzione, che l’Università
debba formare cittadini istruiti, non solo lavoratori.
La questione del
“pluralismo”
Nel volume si
discute anche, nel caso particolare ma significativo dell’economia,
la questione del ‘pluralismo’. Non saremo certo noi a contestare
l’opportunità del pluralismo, né a negare che essa oggi manchi
gravemente nell’insegnamento universitario, che pretende di
trasmettere un sapere codificato e pronto all’uso. La questione ci
pare però più seria e grave che il semplice dar spazio a un qualche
insegnamento. La questione è semmai quella di riconoscere, nelle
scienze sociali e umane, l’esistenza di diversi ‘stili di
ragionamento scientifico’ che si incarnano in teorie in conflitto,
e che devono avere pari dignità nell’insegnamento, anche di base.
Una pluralità che deve estendersi anche a una pari dignità
garantita alla ricerca e a una selezione che non discrimini le voci
critiche.
Abbiamo avuto la
fortuna di far parte di un Dipartimento di scienze economiche che
prendeva il suo nome da Hyman P. Minsky, che visse anche a Bergamo.
Ecco quale era l’università in cui studiò Minsky, e il modello di
studio dell’economia che proponeva, come ne scrisse in Anni di
formazione nella Chicago d’un tempo. Si badi, si tratta di una sede
che era già allora famosa per il suo orientamento liberale, e spesso
liberista, l’Università di Chicago:
“Lo studio
dell’economia era, del tutto correttamente, parte del programma di
scienze sociali. Quando penso a come introdurre gli studenti alla
scienza economica, mi sembra che il programma di Chicago, dove
l’economia era inizialmente presentata
agli studenti come
parte dello studio della società – in cui la storia economica, la
scienza politica, la sociologia, l’antropologia e l’economia
erano elementi di un insieme di discipline integrate, finalizzato
alla comprensione della società moderna –, fosse di gran lunga
superiore alla pratica consueta di insegnare l’economia
isolatamente, nell’ambito di un corso specializzato. Se potessi,
eliminerei il corso standard americano di economia, e inserirei lo
studio dell’economia nel contesto della storia e delle scienze
sociali.
Oggi il modo di
insegnare economia negli Stati Uniti produce economisti tecnicamente
attrezzati nel loro campo, ma con una formazione culturale povera.”
(Moneta e Credito, vol. 39, n. 153, marzo 1982, pp. 3-14; traduzione
leggermente modificata, corsivi nostri).
Questa è la sfida
che abbiamo di fronte. Credere che un’università del genere sia
declinata al passato e non possa essere riproposta, sia pure in forme
nuove, è oggi nient’altro che una forma di ‘tradimento dei
chierici’. La risposta al declino, ormai così evidente, della
nostra economia e della nostra società richiede di restituire
all’università il suo ruolo di formazione culturale ed educazione
al pensiero critico.
Riccardo Bellofiore,
Giovanna Vertova
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