AFFOSSAMENTO USA DEL TRATTATO INF E COMPLICITA’ EUROPEE - Manlio Dinucci
Manlio Dinucci
Le
origini
Gli
eventi che preparano la nascita della NATO iniziano con la Seconda
guerra mondiale. Nel giugno 1941 la Germania nazista invade l’URSS
con 5,5 milioni di soldati, 3.500 carrarmati e 5.000 aerei,
concentrando in territorio sovietico 201 divisioni, equivalenti al
75% di tutte le sue truppe, cui si aggiungono 37 divisioni dei
satelliti tra cui l’Italia. L’URSS chiede ripetutamente agli
Alleati di aprire un secondo fronte in Europa, ma Stati Uniti e Gran
Bretagna lo ritardano, mirando a scaricare la potenza nazista
sull’URSS per indebolirla e avere così una posizione dominante al
termine della guerra. Il secondo fronte viene aperto con lo sbarco
anglo-statunitense in Normandia nel giugno 1944, quando ormai
l’Armata Rossa e i partigiani sovietici hanno sconfitto le truppe
tedesche assestando il colpo decisivo alla Germania nazista.
Il
prezzo pagato dall’Unione Sovietica è altissimo: circa 27 milioni
di morti, per oltre la metà civili, corrispondenti al 15% della
popolazione, in rapporto allo 0,3% degli USA in tutta la Seconda
guerra mondiale; circa 5 milioni di deportati in Germania; oltre
1.700 città e grossi abitati, 70mila piccoli villaggi, 30 mila
fabbriche distrutte.
La
guerra fredda, che divide di nuovo l’Europa subito dopo la Seconda
guerra mondiale, non viene provocata da un atteggiamento aggressivo
dell’URSS, uscita in gran parte distrutta dalla guerra, ma dal
piano di Washington di imporre il dominio statunitense nel
dopoguerra. Anche qui parlano i fatti storici. Il bombardamento
atomico di Hiroshima e Nagasaki viene effettuato dagli Stati Uniti
nell’agosto 1945 non tanto per sconfiggere il Giappone, ormai allo
stremo, quanto per uscire dalla Seconda guerra mondiale con il
massimo vantaggio possibile soprattutto sull’Unione Sovietica. Ciò
è reso possibile dal fatto che, in quel momento, gli Stati Uniti
sono gli unici a possedere l’arma nucleare.
Appena
un mese dopo il bombardamento nucleare di Hiroshima e Nagasaki, nel
settembre 1945, al Pentagono già calcolano che occorrono oltre 200
bombe nucleari per attaccare l’URSS. Nel 1946, quando il discorso
di Churchill sulla «cortina di ferro» apre ufficialmente la guerra
fredda, gli USA hanno 11 bombe nucleari, che nel 1949 salgono a 235,
mentre l’URSS ancora non ne possiede. Ma in quell’anno l’URSS
effettua la prima esplosione sperimentale, cominciando a costruire il
proprio arsenale nucleare. In quello stesso anno, il 4 aprile 1949,
gli Stati Uniti creano la NATO.
L’Alleanza
sotto comando USA comprende durante la guerra fredda 16 paesi: Stati
Uniti, Canada, Belgio, Danimarca, Francia, Repubblica Federale
Tedesca, Gran Bretagna, Grecia, Islanda, Italia, Lussemburgo,
Norvegia, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna, Turchia. Sei anni dopo la
NATO, il 14 maggio 1955, nasce il Patto di Varsavia, comprendente
Unione Sovietica, Bulgaria, Cecoslovacchia, Polonia, Repubblica
Democratica Tedesca, Romania, Ungheria, Albania (questa dal 1955 al
1968).
Il
confronto nucleare
Mentre
inizia il confronto nucleare tra USA e URSS, Gran Bretagna e Francia,
entrambe membri della NATO, si muovono per dotarsi anch’esse di
armi nucleari. La prima a riuscirvi è la Gran Bretagna, che nel 1952
effettua in Australia una esplosione sperimentale. Il vantaggio della
NATO aumenta ulteriormente quando, il 1° novembre dello stesso anno,
gli Stati Uniti fanno esplodere la loro prima bomba H (all’idrogeno).
Nel 1960 i paesi NATO in possesso di armi nucleari salgono a tre,
quando la Francia fa esplodere in febbraio, nel Sahara, la sua prima
bomba nucleare.
Di
pari passo con la crescita del proprio arsenale, il Pentagono mette a
punto dettagliati piani operativi di guerra nucleare contro l’URSS
e la Cina. Un dossier di 800 pagine – reso pubblico nel 2015
dall’archivio del governo USA – contiene una lista (fino a quel
momento top
secret)
di migliaia di obiettivi in URSS, Europa Orientale e Cina che gli USA
si preparavano a distruggere con armi nucleari durante la guerra
fredda. Quale avvertimento della sua capacità di risposta, l’URSS
fa esplodere, in un test condotto nel 1961, la più potente bomba
all’idrogeno mai sperimentata, la «Zar» da 58 megaton,
equivalente a quasi 4.500 bombe di Hiroshima.
Mentre
è in pieno svolgimento la corsa agli armamenti nucleari, scoppia
nell’ottobre 1962 la crisi dei missili a Cuba: dopo la fallita
invasione armata dell’isola nell’aprile 1961 ad opera di
fuoriusciti sostenuti dalla CIA statunitense, l’URSS decide di
fornire a Cuba missili balistici a gittata media e intermedia. Gli
Stati Uniti effettuano il blocco navale dell’isola e mettono in
allerta le forze nucleari. Gli Stati Uniti dispongono in quel momento
di oltre 25.500 armi nucleari, cui se ne aggiungono circa 210
britanniche, mentre l’URSS ne possiede circa 3.350. La crisi, che
porta il mondo sulla soglia della guerra nucleare, viene disinnescata
dalla decisione sovietica di non installare i missili, in cambio
dell’impegno statunitense a togliere il blocco e rispettare
l’indipendenza di Cuba.
È
in questa fase che l’Europa viene trasformata in prima linea nel
confronto nucleare tra le due superpotenze. Tra il 1976 e il 1980
l’URSS schiera sul proprio territorio missili balistici di gittata
intermedia. Sulla base del fatto che dal territorio sovietico essi
possono colpire l’Europa occidentale, la NATO decide di schierare
in Europa, a partire dal 1983, missili nucleari statunitensi a
gittata intermedia: 108 missili balistici Pershing 2 in Germania e
464 missili da crociera (Cruise) lanciati da terra, distribuiti tra
Gran Bretagna, Italia, Germania occidentale, Belgio e Paesi Bassi.
In
Italia, alla metà degli Anni Ottanta, oltre a 112 testate nucleari
sui missili da crociera schierati a Comiso, vi sono altre armi
nucleari statunitensi per un totale stimato in circa 700. Esse sono
costituite per la maggior parte da mine da demolizione atomica,
proiettili nucleari di artiglieria e missili nucleari a corto raggio,
destinati ad essere usati sul territorio italiano. Ciò indica che
l’Italia è considerata dal Pentagono una semplice pedina da
sacrificare, un terreno di battaglia nucleare da trasformare in
deserto radioattivo.
Dal
1945 al 1991 vengono fabbricate circa 125.000 testate nucleari: di
queste, oltre il 53% (più di 66.500) dagli Stati Uniti, il 44%
(55.000) dall’Unione Sovietica. Ciascuna delle due superpotenze si
dota, in tal modo, di un arsenale nucleare che le dà la capacità di
distruggere l’altra: è la strategia della «mutua distruzione
assicurata» (nell’acronimo inglese, «mad», «pazza»). Circa
3.500 armi nucleari vengono fabbricate complessivamente da Francia,
Gran Bretagna, Cina, Pakistan, India, Israele e Sudafrica.
Quest’ultimo Paese è l’unico che, quando Nelson Mandela assume
la presidenza, rinuncia alle armi nucleari.
Successivamente anche la
Corea del Nord si dota di alcune bombe nucleari.
Durante
la guerra fredda, dal 1945 al 1991, si accumula nel mondo un arsenale
nucleare che, negli anni Ottanta, raggiunge probabilmente i 15.000
megaton, equivalenti a oltre un milione di bombe di Hiroshima. È
come se ogni abitante del pianeta fosse seduto su 3 tonnellate di
tritolo. Si crea, per la prima volta nella storia, una forza
distruttiva che può cancellare dalla faccia della Terra, non una ma
più volte, la specie umana e quasi ogni altra forma di vita.
Il
dopo-guerra fredda
Nella
seconda metà degli anni Ottanta il clima della guerra fredda
comincia a cambiare. Il primo segnale di disgelo è firmato a
Washington. L’8 dicembre 1987 i presidenti Gorbaciov e Reagan
firmano il Trattato sulle forze nucleari intermedie (INF), che
elimina tutti i missili di tale categoria. Questo importante
risultato è dovuto sostanzialmente all’«offensiva del disarmo»
lanciata dall’Unione Sovietica di Gorbaciov: il 15 gennaio 1986,
essa propone non solo di eliminare i missili sovietici e statunitensi
a gittata intermedia, ma di attuare un programma complessivo per la
messa al bando delle armi nucleari entro il 2000. A Washington sanno
che Gorbaciov vuole davvero la completa eliminazione di tali armi, ma
sanno anche che nel Patto di Varsavia e nella stessa Unione Sovietica
è in atto un processo di disgregazione, processo che gli Stati Uniti
e i loro alleati favoriscono con tutti i mezzi possibili.
Dopo
il crollo del Muro di Berlino nel novembre 1989, nel luglio 1991 si
dissolve il Patto di Varsavia: i sei Paesi dell’Europa
centro-orientale che ne facevano parte non sono ora più alleati
dell’URSS. Nel dicembre 1991 si dissolve la stessa Unione
Sovietica: al posto di un unico Stato se ne formano quindici.
La
scomparsa dell’URSS e del suo blocco di alleanze crea, nella
regione europea e centro-asiatica, una situazione geopolitica
interamente nuova.
Contemporaneamente,
la disgregazione dell’URSS e la profonda crisi politica ed
economica che investe la Federazione Russa segnano la fine della
superpotenza in grado di rivaleggiare con quella statunitense.
Gli
Stati Uniti approfittano immediatamente della «distensione» in
Europa per concentrare le loro forze nell’area strategica del Golfo
Persico dove, con un’abile manovra, preparano le condizioni per
scatenare quello che il Pentagono definisce «il primo conflitto del
dopo guerra fredda, un evento determinante nella leadership globale
degli Stati Uniti». La NATO, pur non partecipando in quanto tale
alla guerra del Golfo, fornisce l’appoggio di tutta la sua
infrastruttura alle forze della coalizione.
La
nuova strategia viene ufficialmente enunciata, sei mesi dopo la fine
della guerra del Golfo, nella nell’agosto 1991. Concetto centrale è che «gli
Stati Uniti rimangono il solo Stato con una forza, una portata e
un’influenza in ogni dimensione – politica, economica e militare
– realmente globali: non esiste alcun sostituto alla leadership
americana. La nostra responsabilità, anche nella nuova era, è di
importanza cardinale e ineludibile». Un documento del Pentagono,
redatto nel febbraio 1992, chiarisce che «il nostro obiettivo
primario è impedire il riemergere di un nuovo rivale, o sul
territorio dell’ex Unione Sovietica o altrove, che ponga una
minaccia nell’ordine di quella posta precedentemente dall’Unione
Sovietica».
«Una
questione chiave – sottolinea la Casa Bianca nella National
Security Strategy 1991 –
è come il ruolo dell’America di leader dell’Alleanza, e in
effetti le nostre stesse alleanze, saranno influenzati, specialmente
in Europa, dalla riduzione della minaccia sovietica». In altre
parole: gli alleati europei potrebbero fare scelte divergenti da
quelle degli Stati Uniti, mettendo in discussione la leadership
statunitense o addirittura uscendo dalla NATO, ormai superata dalla
nuova situazione geopolitica. È quindi della massima urgenza per gli
Stati Uniti ridefinire non solo la strategia, ma il ruolo stesso
della NATO.
Il
7 novembre 1991, i capi di Stato e di governo dei sedici Paesi della
NATO, riuniti a Roma nel Consiglio atlantico, varano «il nuovo
concetto strategico dell’Alleanza». Anche se da un lato «è
scomparsa la monolitica, massiccia minaccia che è stata la
principale preoccupazione dell’Alleanza nei suoi primi
quarant’anni, – afferma il documento – i rischi che permangono
per la sicurezza dell’Alleanza sono di natura multiforme e
multidirezionali. La dimensione militare della nostra Alleanza resta
perciò un fattore essenziale, ma il fatto nuovo è che sarà più
che mai al servizio di un concetto ampio di sicurezza». In tal modo
l’Alleanza Atlantica ridefinisce il suo ruolo, fondamentalmente
lungo le linee tracciate dagli USA.
La
guerra contro la Jugoslavia
Il
«nuovo concetto strategico» della NATO viene messo in pratica nei
Balcani, dove la crisi della Federazione Jugoslava, dovuta ai
contrasti tra i gruppi di potere e alle spinte centrifughe delle
repubbliche, ha raggiunto il punto di rottura. Nel novembre 1990, il
Congresso degli Stati Uniti approva il finanziamento diretto di tutte
le nuove formazioni «democratiche» della Jugoslavia, incoraggiando
così le tendenze secessioniste. Lo stesso fa l’Europa dei 12, in
particolare la Germania. Inizia contemporaneamente l’intervento
NATO. Nel febbraio 1994, aerei NATO abbattono aerei serbo-bosniaci
che volano sulla Bosnia. È la prima azione di guerra dalla
fondazione dell’Alleanza. Con essa la NATO viola l’art. 5 della
sua stessa carta costitutiva, poiché l’azione bellica non è
motivata dall’attacco a un membro dell’Alleanza ed è effettuata
fuori dalla sua area geografica.
La
Jugoslavia prima della dissoluzione (da
https://lospiegone.com/2017/10/05/jugoslavia-nascita-e-dissoluzione/)
Spento
l’incendio in Bosnia (dove il fuoco resta sotto la cenere della
divisione in Stati etnici), la NATO getta benzina sul focolaio del
Kosovo, dove è in corso da anni una rivendicazione di indipendenza
da parte della maggioranza albanese. Attraverso canali sotterranei in
gran parte gestiti dalla CIA, un fiume di armi e finanziamenti, tra
la fine del 1998 e l’inizio del 1999, va ad alimentare l’UCK,
braccio armato del movimento separatista kosovaro-albanese. Mentre
gli scontri tra le forze jugoslave e quelle dell’UCK provocano
vittime da ambo le parti, una potente campagna politico-mediatica
prepara l’opinione pubblica internazionale all’intervento della
NATO, presentato come l’unico modo per fermare la «pulizia etnica»
serba in Kosovo.
La
guerra, denominata «Operazione Forza Alleata», inizia
il 24 marzo 1999. Determinante è il ruolo dell’Italia, che mette
il proprio territorio, in particolare gli aeroporti, a disposizione
delle forze armate degli Stati Uniti e di altri membri della NATO.
Per 78 giorni, decollando soprattutto dalle basi italiane, 1.100
aerei effettuano 38mila sortite, sganciando 23 mila bombe e missili.
Il 75 per cento degli aerei e il 90 per cento delle bombe e dei
missili vengono forniti dagli Stati Uniti. Statunitense è anche la
rete di comunicazione, comando, controllo e intelligence attraverso
cui vengono scelti gli obiettivi. Vengono distrutte le strutture e
infrastrutture della Serbia, compresi impianti chimici, provocando
vittime soprattutto tra i civili. I danni che ne derivano per la
salute e l’ambiente sono inquantificabili.
Ai
bombardamenti partecipano anche 54 aerei italiani, che attaccano gli
obiettivi indicati dal comando statunitense. L’Italia –
partecipando alla guerra contro la Jugoslavia, Paese che non aveva
compiuto alcuna azione aggressiva né contro l’Italia né contro
altri membri della NATO – conferma di aver adottato una nuova
politica militare e, contestualmente, una nuova politica estera.
Questa, usando come strumento la forza militare, viola il principio
costituzionale, affermato dall’Articolo 11, che «l’Italia
ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri
popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie
internazionali».
L’espansione
della NATO ad Est
Mentre
è in corso la guerra contro la Jugoslavia, viene convocato a
Washington, il 23-25 aprile 1999, il vertice che ufficializza la
trasformazione della NATO. Da alleanza che, in base all’articolo 5
del Trattato del 4 aprile 1949, impegna i Paesi membri ad assistere
anche con la forza armata il Paese membro che sia attaccato nell’area
nord-atlantica, essa viene trasformata in alleanza che, in base al
«nuovo concetto strategico», impegna i Paesi membri anche a
«condurre operazioni di risposta alle crisi non previste
dall’Articolo 5, al di fuori del territorio dell’Alleanza». In
altre parole, la NATO si prepara a proiettare la propria forza
militare al di fuori dei propri confini non solo in Europa, ma anche
in altre regioni del mondo.
Ciò
che non cambia, nella mutazione della NATO, è la gerarchia al suo
interno. È sempre il Presidente degli Stati Uniti a nominare il
Comandante Supremo Alleato in Europa, che è sempre un generale
statunitense, mentre gli alleati si limitano a ratificare la scelta.
Lo stesso avviene per gli altri comandi chiave.
Il
documento che impegna i Paesi membri a operare al di fuori del
territorio dell’Alleanza, sottoscritto dai leader europei il 24
aprile 1999 a Washington, ribadisce che la NATO «sostiene pienamente
lo sviluppo dell’identità europea della difesa, all’interno
dell’Alleanza». Il concetto è chiaro: l’Europa occidentale può
avere una sua «identità della difesa», ma essa deve restare
all’interno dell’Alleanza, ossia sotto comando Usa. Viene così
confermata e consolidata la subordinazione dell’Unione Europea alla
NATO. Subordinazione stabilita dal Trattato di Maastricht del 1992,
che riconosce il diritto degli Stati UE di far parte della NATO,
definita fondamento della difesa dell’Unione Europea.
Nel
1990, alla vigilia dello scioglimento del Patto di Varsavia, il
Segretario di stato USA James Baker assicura il Presidente
dell’URSS Mikhail
Gorbaciov che «la
NATO non si estenderà di un solo pollice ad Est». Ma
in vent’anni, dopo aver demolito la Federazione Jugoslava, la NATO
si estende da 16 a 29 Paesi (30 se ingloba la Macedonia),
espandendosi verso la Russia.
Nel
1999 ingloba i primi tre Paesi dell’ex Patto di Varsavia: Polonia,
Repubblica Ceca e Ungheria. Nel 2004, si estende ad altri sette:
Estonia, Lettonia, Lituania (già parte dell’Urss); Bulgaria,
Romania, Slovacchia (già parte del Patto di Varsavia); Slovenia (già
parte della Federazione Jugoslava). Nel 2009 ingloba l’Albania (un
tempo membro del Patto di Varsavia) e la Croazia (già parte della
Federazione Jugoslava) e, nel 2017, il Montenegro; nel 2019 firma il
protocollo di adesione della Macedonia del Nord quale 30° membro.
Altri tre Paesi – Bosnia Erzegovina (già parte della Federazione
Jugoslava), Georgia e Ucraina (già parte dell’Urss) – sono
candidati a entrare nella NATO.
L’invasione
dell’Afghanistan e dell’Iraq
Gli
Stati Uniti attaccano e invadono l’Afghanistan, nel 2001, con la
motivazione ufficiale di dare la caccia a Osama bin Laden, indicato
come mandante degli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001
(sulla cui versione ufficiale vi sono fondati dubbi). Osama bin Laden
è una figura ben nota a Washington: appartenente a una ricca
famiglia saudita, aveva collaborato attivamente con la CIA quando,
dal 1979 al 1989, essa aveva addestrato e armato oltre 100 mila
mujaidin per la guerra contro le truppe sovietiche cadute nella
«trappola afghana» (come la definirà successivamente Zbigniew
Brzezinski, precisando che l’addestramento dei mujaidin era
iniziato in Pakistan nel luglio 1979, cinque mesi prima
dell’invasione sovietica dell’Afghanistan).
Scopo
reale dell’intervento militare USA in Afghanistan è l’occupazione
di quest’area di primaria importanza strategica. L’Afghanistan è
al crocevia tra Medio Oriente, Asia centrale, meridionale e
orientale. In quest’area (nel Golfo e nel Caspio) ci sono grandi
riserve petrolifere. Vi si trovano tre grandi potenze – Cina,
Russia e India – la cui forza sta crescendo e influendo sugli
assetti globali. Come aveva avvertito il Pentagono nel rapporto del
30 settembre 2001, «esiste la possibilità che emerga in Asia un
rivale militare con una formidabile base di risorse».
La
guerra inizia nell’ottobre 2001 con il bombardamento effettuato
dall’aviazione statunitense e britannica. A questo punto il
Consiglio di sicurezza dell’ONU autorizza la costituzione dell’ISAF
(Forza internazionale di assistenza alla sicurezza). Ma
improvvisamente, nell’agosto 2003, la NATO annuncia di aver
«assunto la leadership dell’ISAF». La missione viene in tal modo
inserita nella catena di comando del Pentagono.
Dopo
l’Afghanistan è il turno dell’Iraq, Paese sottoposto dal 1991 a
un ferreo embargo che ha provocato in dieci anni un milione e mezzo
di morti, di cui circa mezzo milione tra i bambini. Il presidente
Bush mette l’Iraq, nel 2002, al primo posto tra i Paesi facenti
parte dell’«asse del male». Il segretario di Stato Colin Powell
presenta al Consiglio di sicurezza dell’ONU una serie di «prove»
raccolte dalla CIA, che successivamente risulteranno false, sulla
presunta esistenza di un grosso arsenale di armi chimiche e
batteriologiche in possesso dell’Iraq. La guerra inizia nel marzo
2003 con il bombardamento aereo di Baghdad e altri centri da parte
dell’aviazione statunitense e britannica e con l’attacco
terrestre effettuato dai marines entrati in Iraq dal Kuwait. In
aprile truppe USA occupano Baghdad.
L’operazione,
denominata «Iraqi Freedom», viene presentata come «guerra
preventiva» ed «esportazione della democrazia». Le forze di
occupazione statunitensi e alleate – comprese quelle italiane
impegnate nell’operazione «Antica Babilonia» – incontrano una
resistenza che non si aspettavano di trovare. Per stroncarla, l’Iraq
viene messo a ferro e fuoco da oltre un milione e mezzo di soldati,
che il Pentagono vi disloca a rotazione insieme a centinaia di
migliaia di contractor militari,
usando ogni mezzo: dalle bombe al fosforo contro la popolazione di
Falluja alle torture nella prigione di Abu Ghraib.
La
guerra contro la Libia
Molteplici
fattori rendono la Libia importante agli occhi degli Stati Uniti e
delle potenze europee della NATO. Essa possiede le maggiori riserve
petrolifere dell’Africa, preziose per l’alta qualità e il basso
costo di estrazione, e grosse riserve di gas naturale. Su queste lo
Stato libico mantiene prima della guerra un forte controllo,
lasciando alle compagnie statunitensi ed europee limitati margini di
profitto. Oltre all’oro nero, la Libia possiede l’oro bianco:
l’immensa riserva di acqua fossile della falda nubiana. Rilevanti
sono i fondi sovrani, i capitali che lo Stato libico ha investito
all’estero, in particolare per dotare Africa di propri organismi
finanziari e di una propria moneta.
Alla
vigilia della guerra del 2011, gli Stati Uniti e le potenze europee
«congelano», ossia sequestrano, i fondi sovrani libici, assestando
un colpo mortale all’intero progetto. Le mail di
Hillary Clinton (segretaria di Stato dell’amministrazione Obama nel
2011), venute alla luce successivamente, confermano quale fosse il
vero scopo della guerra: bloccare il piano di Gheddafi di usare i
fondi sovrani libici per creare organismi finanziari autonomi
dell’Unione Africana e una moneta africana in alternativa al
dollaro e al franco CFA (la moneta che sono costretti a usare 14
Paesi africani, ex-colonie francesi). È la Clinton – documenterà
in seguito il New
York Times –
a far firmare al presidente Obama «un documento che autorizza una
operazione coperta in Libia e la fornitura di armi ai ribelli».
Vengono
finanziati e armati i settori tribali ostili al governo di Tripoli e
gruppi islamici fino a pochi mesi prima definiti terroristi. Vengono
allo stesso tempo infiltrate in Libia forze speciali, tra cui
migliaia di commandos qatariani
facilmente camuffabili. L’intera operazione viene diretta dagli
Stati Uniti, prima tramite il Comando Africa, quindi tramite la NATO
sotto comando USA.
Il
19 marzo 2011 inizia il bombardamento aeronavale della Libia. In
sette mesi l’aviazione USA/NATO effettua 30mila missioni, di cui
10mila di attacco con impiego di oltre 40mila bombe e missili. A
questa guerra partecipa l’Italia con le sue basi e forze militari,
stracciando il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione tra
i due Paesi. Con la guerra USA/NATO del 2011, viene demolito lo Stato
libico che, sulla sponda sud del Mediterraneo di fronte all’Italia,
manteneva «alti livelli di crescita economica» (come documentava
nel 2010 la stessa Banca Mondiale), registrando «alti indicatori di
sviluppo umano» tra cui l’accesso universale all’istruzione
primaria e secondaria e, per il 46%, a quella di livello
universitario. Nonostante le disparità, il tenore di vita della
popolazione libica era notevolmente più alto di quello degli altri
Paesi africani. Lo testimoniava il fatto che trovavano lavoro in
Libia oltre due milioni di immigrati, per lo più africani.
Vengono
colpiti dalla guerra anche gli immigrati dall’Africa subsahariana
che, perseguitati con l’accusa di aver collaborato con Gheddafi,
sono imprigionati o costretti a fuggire. Molti, spinti dalla
disperazione, tentano la traversata del Mediterraneo verso l’Europa.
Quelli che vi perdono la vita sono anch’essi vittime della guerra
con cui la NATO ha demolito lo Stato libico.
L’attacco
alla Siria
Dopo
aver demolito lo Stato libico inizia, nello stesso anno 2011,
l’operazione USA/NATO per demolire lo Stato siriano. Una delle
ragioni è il fatto che Siria, Iran e Iraq firmano nel luglio 2011 un
accordo per un gasdotto che dovrebbe collegare il giacimento iraniano
di South Pars, il maggiore del mondo, alla Siria e quindi al
Mediterraneo. La Siria, dove è stato scoperto un altro grosso
giacimento presso Homs, potrebbe divenire in tal modo un hub di
corridoi energetici alternativi a quelli attraverso la Turchia e
altri percorsi, controllati dalle compagnie statunitensi ed europee.
La
guerra coperta inizia con una serie di attentati terroristici,
effettuati soprattutto a Damasco ed Aleppo. Eloquenti sono le
immagini degli edifici devastati con potentissimi esplosivi: opera
non di semplici ribelli, ma di professionisti della guerra
infiltrati. Centinata di specialisti delle forze d’élite
britanniche Sas e Sbs – riporta il Daily
Star –
operano in Siria, insieme a unità statunitensi e francesi.
La
forza d’urto è costituita da una raccogliticcia armata di gruppi
islamici (fino a poco prima bollati da Washington come terroristi)
provenienti da Afghanistan, Bosnia, Cecenia, Libia e altri Paesi. Nel
gruppo di Abu Omar al-Chechen – riferisce l’inviato
del Guardian ad
Aleppo – gli ordini vengono dati in arabo, ma devono essere
tradotti in ceceno, tagico, turco, dialetto saudita, urdu, francese e
altre lingue. Forniti di passaporti falsi (specialità CIA), i
combattenti affluiscono nelle province turche di Adana e Hatai,
confinanti con la Siria, dove la CIA ha aperto centri di formazione
militare. Le armi arrivano soprattutto via Arabia Saudita e Qatar
che, come in Libia, fornisce anche forze speciali.
Da
appositi centri operativi, agenti della CIA provvedono all’acquisto
delle armi con grossi finanziamenti concessi da Arabia Saudita, Qatar
e altre monarchie del Golfo. Organizzano il trasporto delle armi in
Turchia e Giordania attraverso un ponte aereo, le fanno infine
arrivare attraverso la frontiera ai gruppi in Siria, già addestrati
in appositi campi allestiti in territorio turco e giordano.
Un
documento ufficiale del Pentagono, datato 12 agosto 2012 (desecretato
il 18 maggio 2015 per iniziativa del gruppo Judicial Watch), afferma
che c’è «la possibilità di stabilire un principato salafita
nella Siria orientale, e ciò è esattamente ciò che vogliono le
potenze che sostengono l’opposizione, per isolare il regime
siriano, retrovia strategica dell’espansione sciita (Iraq e Iran)».
È
in tale contesto che nel 2013 si forma l’ISIS (o DAESH), che si
autoproclama «Stato del califfato islamico». Nel maggio 2013, un
mese dopo aver fondato l’ISIS, Ibrahim al-Badri – il «califfo»
noto col nome di battaglia di Abu Bakr al-Baghdadi – incontra in
Siria il senatore statunitense John McCain, capofila dei repubblicani
incaricato dal democratico Obama di svolgere operazioni segrete per
conto del governo. L’incontro è documentato fotograficamente.
L’ISIS riceve finanziamenti, armi e vie di transito dai più
stretti alleati degli Stati Uniti: Arabia Saudita, Qatar, Kuwait,
Turchia, Giordania, in base a un piano sicuramente coordinato dalla
CIA. L’ISIS svolge di fatto un ruolo funzionale alla strategia
USA/NATO di demolizione degli Stati.
La
campagna militare «Inherent Resolve», formalmente diretta contro
l’ISIS, viene lanciata in Iraq e Siria nell’agosto 2014 dagli USA
e i loro alleati. Se Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna usassero i
loro cacciabombardieri come avevano fatto contro la Libia nel 2011,
le forze dell’ISIS, muovendosi in spazi aperti, sarebbero facile
bersaglio. Esse possono invece avanzare indisturbate con colonne di
autoblindo cariche di uomini ed esplosivi. Se l’ISIS avanza in
Siria e Iraq, è perché a Washington vogliono proprio questo. Lo
scopo strategico di Washington è la demolizione della Siria e la
rioccupazione dell’Iraq.
L’intervento
militare russo in Siria nel 2015, a sostegno delle forze governative,
rovescia le sorti del conflitto. Gli Stati Uniti, spiazzati, giocano
la carta della frammentazione della Siria, sostenendo gli
indipendentisti curdi e altri.
Il
colpo di stato in Ucraina
Dopo
la disgregazione del Patto di Varsavia, l’Ucraina – il cui
territorio fa da cuscinetto tra NATO e Russia ed è attraversato dai
corridoi energetici tra Russia e UE – non entra direttamente nella
NATO. Entra però a far parte, nel quadro della NATO, della
«Partnership per la pace». Ma, nel 2010 il neoeletto presidente
Yanukovych annuncia che, pur continuando la cooperazione, l’adesione
alla NATO non è nell’agenda del suo governo. Nel frattempo
però, fin dal 1991, la NATO ha tessuto una rete di legami
all’interno delle forze armate ucraine. Alti ufficiali partecipano
per anni a corsi del NATO Defense College a Roma e a Oberammergau
(Germania) a «operazioni congiunte per la pace» a guida NATO.
Attraverso
la CIA e altri servizi segreti vengono per anni reclutati,
finanziati, addestrati e armati militanti neonazisti. Una
documentazione fotografica mostra giovani militanti neonazisti
ucraini di UNO-UNSO addestrati nel 2006 in Estonia da istruttori
NATO, che insegnano loro tecniche di combattimento urbano ed uso di
esplosivi per sabotaggi e attentati. Lo stesso metodo usato dalla
NATO, durante la guerra fredda, per formare la struttura paramilitare
segreta «Gladio», attiva anche in Italia dove, a Camp Darby e in
altre basi, venivano addestrati gruppi neofascisti preparandoli ad
attentati e a un eventuale colpo di stato.
La
struttura paramilitare dei gruppi neonazisti ucraini entra in azione
nel 2014, in piazza Maidan a Kiev. Una manifestazione
anti-governativa, con giuste rivendicazioni contro la dilagante
corruzione e il peggioramento delle condizioni di vita, viene
rapidamente trasformata in un vero e proprio campo di battaglia:
mentre gruppi armati danno l’assalto ai palazzi di governo,
cecchini (fatti venire appositamente a Kiev dalla Georgia) sparano
con gli stessi fucili di precisione sia sui dimostranti che sui
poliziotti. Il 20 febbraio 2014 il segretario generale della NATO si
rivolge, con tono di comando, alle forze armate ucraine, avvertendole
di «restare neutrali», pena «gravi conseguenze negative per le
nostre relazioni».
Il putsch di
Piazza Maidan è accompagnato da una campagna persecutoria, diretta
in particolare contro il Partito comunista e i sindacati, analoga a
quelle che segnarono l’avvento del fascismo in Italia e del nazismo
in Germania. Sedi di partito distrutte, dirigenti linciati,
giornalisti seviziati e assassinati; attivisti bruciati vivi nella
Camera del Lavoro di Odessa; inermi abitanti dell’Ucraina orientale
di origine russa massacrati a Mariupol, bombardati col fosforo bianco
a Slaviansk, Lugansk, Donetsk.
Un
vero e proprio colpo di stato sotto regia USA/NATO, col fine
strategico di provocare in Europa una nuova guerra fredda per colpire
e isolare la Russia e rafforzare allo stesso tempo l’influenza e la
presenza militare degli Stati Uniti in Europa. Di fronte al colpo di
stato e all’offensiva contro i russi di Ucraina, il Consiglio
supremo della Repubblica autonoma di Crimea – territorio russo
passato all’Ucraina in periodo sovietico nel 1954 – vota la
secessione da Kiev e la richiesta di riannessione alla Federazione
Russa, decisione che viene confermata con il 97% dei voti favorevoli
da un referendum popolare. In questo momento critico, quando si teme
un attacco di Kiev contro i russi di Crimea, le sue infrastrutture
vengono presidiate da militari senza insegna probabilmente inviati
dalla Russia. Il 18 marzo 2014 il presidente Putin firma il trattato
di adesione della Crimea alla Federazione Russa con lo status di
repubblica autonoma. A questo punto la Russia viene accusata dalla
NATO e dalla UE di aver annesso illegalmente la Crimea e sottoposta a
sanzioni. La Russia risponde con controsanzioni che colpiscono
soprattutto le economie della UE, compresa quella italiana.
In
tale quadro l’Ucraina è divenuta il “vivaio” del rinascente
nazismo in Europa. Emblematica la storia del battaglione Azov. Esso è
stato fondato nel 2014 da Andriy Biletsky, noto come il «Führer
bianco», in quanto sostenitore della «purezza razziale della
nazione ucraina, impedendo che i suoi geni si mischino con quelli di
razze inferiori»». Per il battaglione Azov Biletsky ha reclutato
militanti neonazisti già sotto il suo comando quale capo delle
operazioni speciali di Pravy Sektor (“Settore Destro”,
organizzazione politico-militare ucraina di ispirazione neonazista).
L’Azov si è distinto subito per la sua ferocia negli attacchi alle
popolazioni russe di Ucraina, in particolare a Mariupol.
Nell’ottobre
2014 il battaglione è stato inquadrato nella Guardia Nazionale,
dipendente dal Ministero degli Interni, e Biletsky è stato promosso
a colonnello e insignito dell’«Ordine per il coraggio». L’Azov
è stato trasformato in reggimento di forze speciali, dotato dei
carrarmati e dell’artiglieria della 30a Brigata meccanizzata. Ciò
che ha conservato in tale trasformazione è l’emblema, ricalcato da
quello delle SS Das Reich, e la formazione ideologica delle reclute
modellata su quella nazista. Quale unità della Guardia Nazionale, il
reggimento Azov è stato addestrato da istruttori USA e da altri
della NATO.
L’Azov
è non solo una unità militare, ma un movimento ideologico e
politico. Biletsky – che ha creato nell’ottobre 2016 un proprio
partito, «Corpo nazionale» – resta il capo carismatico in
particolare per l’organizzazione giovanile che viene educata, col
suo libro «Le parole del Führer bianco», all’odio contro i russi
e addestrata militarmente.
Contemporaneamente,
Azov, Pravy Sektor e altre organizzazioni ucraine reclutano
neonazisti da tutta Europa (Italia compresa) e dagli USA. Dopo essere
stati addestrati e messi alla prova in azioni militari contro i russi
del Donbass, vengono fatti rientrare nei loro Paesi, mantenendo
evidentemente legami con i centri di reclutamento e addestramento. Da
una indagine, sfociata nel 2018 in alcuni arresti, risulta inoltre
che esponenti italiani della destra ultrà si siano arruolati come
mercenari per combattere dalla parte dei russi del Donbass, in una
operazione dai contorni non chiari. Ciò avviene nel quadro di una
guerra scatenata nel cuore dell’Europa, in Ucraina, partner della
NATO, di fatto già suo membro sotto comando USA.
L’escalation
USA/NATO in Europa
La
«nuova missione» della NATO viene ufficializzata dal Summit del
settembre 2014 nel Galles, varando il «Readiness Action Plan» il
cui scopo ufficiale è quello di «rispondere rapidamente e
fermamente alle nuove sfide alla sicurezza», attribuite alla
«aggressione militare della Russia contro l’Ucraina». Il Piano
viene definito dal segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg,
«il più grosso rafforzamento della nostra difesa collettiva dalla
fine della guerra fredda».
In
appena tre mesi la NATO quadruplica i cacciabombardieri, a duplice
capacità convenzionale e nucleare, schierati nella regione baltica
(un tempo parte dell’URSS); invia aerei radar AWACS sull’Europa
orientale e accresce il numero di navi da guerra nel Mar Baltico, Mar
Nero e Mediterraneo; dispiega in Polonia, Estonia, Lettonia e
Lituania forze terrestri statunitensi, britanniche e tedesche;
intensifica le esercitazioni congiunte in Polonia e nei Paesi
baltici, portandole nel corso dell’anno a oltre 200.
In
quattro anni, dal 2014 al 2018, gli Stati Uniti spendono 10 miliardi
di dollari per la «Iniziativa di rassicurazione dell’Europa»
(ERI), il cui scopo ufficiale è «accrescere la nostra capacità di
difendere l’Europa contro l’aggressione russa». Viene trasferita
in Polonia dagli USA, nel 2017, la 3a Brigata corazzata composta da
3.500 uomini, 87 carrarmati, 18 obici semoventi e altri mezzi. Essa
viene successivamente rimpiazzata da un’altra unità, così che
forze corazzate statunitensi siano permanentemente dislocate in
territorio polacco. Nelle basi di Ämari (Estonia) e Graf Ignatievo
(Bulgaria), vengono dislocati cacciabombardieri USA e NATO, compresi
Eurofighter italiani, per il «pattugliamento aereo» del Baltico.
L’operazione prevede inoltre «una persistente presenza nel Mar
Nero», con la base aerea di Kogalniceanu (Romania) e quella
addestrativa di Novo Selo (Bulgaria). Il generale Curtis Scaparrotti,
capo del Comando Europeo degli Stati Uniti e allo stesso tempo
Comandante Supremo Alleato in Europa, assicura che «le nostre forze
sono pronte e posizionate per contrastare l’aggressione russa».
Il
piano è chiaro. Dopo aver provocato col putsch di
Piazza Maidan un nuovo confronto con la Russia, Washington
(nonostante il cambio di amministrazione dal presidente Obama al
presidente Trump) persegue la stessa strategia: trasformare l’Europa
in prima linea di una nuova guerra fredda, a vantaggio degli
interessi degli Stati Uniti e dei loro rapporti di forza con le
maggiori potenze europee.
La
portaerei Italia sul fronte di guerra
Le
Forze armate statunitensi posseggono in Italia (secondo il rapporto
ufficiale del Pentagono Base
Structure Report)
più di 1.500 edifici, con una superficie complessiva di oltre 1
milione di metri quadri, e hanno in affitto o concessione altri 800
edifici, con una superficie di circa 900mila m2. Si tratta, in
totale, di oltre 2300 edifici con una superficie di circa 2 milioni
di metri quadri, sparsi in una cinquantina di siti. Ma questa è solo
una parte della presenza militare statunitense in Italia.
Alle
basi militari USA si aggiungono quelle della NATO sotto comando USA e
quelle italiane a disposizione delle forze USA/NATO. Si stima che, in
totale, siano oltre cento. L’intera rete di basi militari in Italia
è, direttamente o indirettamente, agli ordini del Pentagono. Essa
rientra nell’«area di responsabilità» dello United States
European Command (EUCOM), il Comando Europeo degli Stati Uniti, con a
capo un generale statunitense che ricopre allo stesso tempo la carica
di Comandante Supremo Alleato in Europa. L’«area di
responsabilità» dell’EUCOM, uno dei sei «comandi combattenti
unificati» con cui gli USA ricoprono il globo, comprende l’intera
regione europea e tutta la Russia (compresa la parte asiatica), più
alcuni Paesi dell’Asia Occidentale e Centrale: Turchia, Israele,
Georgia, Armenia e Azerbaigian.
Nella
base aerea di Aviano (Pordenone) è schierata la 31st
Fighter Wing,
la squadriglia USA pronta all’attacco con circa 50 bombe nucleari
B61 (numero stimato dalla FAS, la Federazione degli Scienziati
Americani). Nella base aerea di Ghedi (Brescia) è schierato il 6°
Stormo dell’Aeronautica italiana, pronto all’attacco sotto
comando USA con circa 20 bombe nucleari B61 (sempre secondo le stime
della FAS). Alle armi nucleari USA dislocate sul territorio italiano,
il cui numero effettivo è segreto, si aggiungono quelle a bordo di
unità della Sesta Flotta la cui base principale è a Gaeta in Lazio.
La Sesta Flotta dipende dal Comando delle Forze Navali USA in Europa,
il cui quartier generale è a Napoli-Capodichino.
A
Vicenza ha base la 173a Brigata Aviotrasportata dell’Esercito USA,
che fornisce forze di rapido intervento al Comando Europeo, al
Comando Africa e al Comando Centrale (la cui «area di
responsabilità» comprende Medioriente e Asia Centrale). Forze della
173a Brigata, già impiegate in Iraq nel 2003, vengono inviate a
rotazione in Afghanistan, in Ucraina e altri Paesi dell’Europa
Orientale.
Nell’area
Pisa/Livorno c’è Camp Darby, il più grande arsenale USA nel mondo
fuori della madrepatria. È la base logistica dell’Esercito USA che
rifornisce le forze terrestri e aeree statunitensi e alleate in
Europa, Medioriente e Africa. Nella base vi è l’intero
equipaggiamento di due battaglioni corazzati e due di fanteria
meccanizzata, che può essere rapidamente inviato in zona di
operazioni attraverso l’aeroporto di Pisa (Hub aereo
militare nazionale) e il porto di Livorno (a cui possono attraccare
anche unità a propulsione nucleare). Qui fanno scalo mensilmente
enormi navi di compagnie private che trasportano armi per conto del
Pentagono, collegando i porti statunitensi a quelli mediterranei,
mediorientali e asiatici.
In
un’area di Camp Darby prima adibita ad attività ricreative,
formalmente restituita all’Italia, viene trasferito nel 2019 dalla
caserma Gamerra di Pisa il Comando delle forze speciali dell’Esercito
italiano (COMFOSE), che riunisce sotto comando unificato quattro
reggimenti. Ciò permette di integrare a tutti gli effetti le forze
speciali italiane con quelle statunitensi, impiegandole in operazioni
coperte sotto comando USA. Il tutto sotto la cappa del segreto
militare.
Non
può non venire a mente, a questo punto, la storia delle operazioni
segrete di Camp Darby: dalle inchieste dei giudici Casson e
Mastelloni è emerso che Camp Darby ha svolto sin dagli anni Sessanta
la funzione di base della rete golpista costituita dalla CIA e dal
SIFAR nel quadro del piano segreto Gladio. Le basi USA/NATO –
scriveva Ferdinando Imposimato, presidente onorario della Suprema
Corte di Cassazione – hanno fornito gli esplosivi per le stragi, da
Piazza Fontana a Capaci e Via d’Amelio. In queste basi «si
riunivano terroristi neri, ufficiali della NATO, mafiosi, uomini
politici italiani e massoni, alla vigilia di attentati»
(Ferdinando
Imposimato, La
Repubblica delle stragi impunite,
Newton Compton, 2012).
A
Lago Patria (Napoli) ha sede il Comando della Forza Congiunta Alleata
(JFC Naples). Il suo nuovo quartier generale, inaugurato nel 2012, ha
una superficie coperta di 85mila metri quadri, circondata da una
vasta area recintata predisposta per future espansioni. Il personale,
in aumento, è composto da oltre 2.500 militari e civili. Il JFC
Naples della NATO è agli ordini di un ammiraglio statunitense, che
comanda allo stesso tempo le Forze Navali USA in Europa (da cui
dipende la Sesta Flotta) e le Forze Navali USA per l’Africa. Ogni
due anni il JFC Naples assume il comando operativo della «Forza di
risposta NATO» (NRF), una forza congiunta «altamente flessibile e
capace» composta da 40mila uomini, che ha il compito di condurre
operazioni militari nell’«area di responsabilità del Comandante
Supremo Alleato in Europa e al di là di tale area». Nel quartier
generale di Lago Patria è in funzione, dal settembre 2017, l’«Hub
di Direzione Strategica NATO per il Sud», un centro di intelligence,
ossia di spionaggio, «concentrato sulle regioni meridionali
comprendenti Medioriente, Nordafrica e Sahel, Africa Subsahariana ed
aree adiacenti».
In
Sicilia, la Naval Air Station (NAS) Sigonella, con un personale di
circa 7.000 militari e civili, costituisce la maggiore base navale e
aerea USA e NATO della regione mediterranea. La NAS – si legge
nella presentazione ufficiale – «ospita aerei USA e NATO di tutti
i tipi». Tra questi droni-spia Global Hawk, che da Sigonella
effettuano missioni di ricognizione su Medioriente, Africa, Ucraina
orientale, Mar Nero ed altre zone. Per attacchi mirati (quasi sempre
segreti) decollano da Sigonella droni Predator, armati di missili e
bombe a guida laser e satellitare.
L’altra
maggiore installazione statunitense in Sicilia è la stazione MUOS di
Niscemi (Caltanissetta). Il MUOS (Mobile User Objective System) è un
sistema di comunicazioni satellitari militari ad altissima frequenza,
composto da quattro satelliti e quattro stazioni terrestri: due in
territorio statunitense, in Virginia e nelle Hawaii, una in Australia
e una in Sicilia, ciascuna dotata di tre grandi antenne paraboliche
di 18 metri di diametro. Tale sistema permette al Pentagono di
collegare a un’unica rete di comando e comunicazioni sottomarini e
navi da guerra, cacciabombardieri e droni, veicoli militari e reparti
terrestri, mentre sono in movimento in qualsiasi parte del mondo si
trovino.
In
Sardegna vi sono i maggiori poligoni per l’addestramento delle
forze militari italiane e NATO: in particolare quelli di Salto di
Quirra, Capo Teulada, Capo Frasca e Capo San Lorenzo. Qui viene
usato, in esercitazioni a fuoco, circa l’80% delle bombe, delle
testate missilistiche e dei proiettili impiegati nelle manovre
militari che si svolgono in Italia, con gravi conseguenze per la
salute della popolazione.
L’Europa
in prima linea nel confronto nucleare
Il
20 settembre 2017 – il giorno stesso in cui alle Nazioni Unite
viene aperto alla firma il Trattato sulla proibizione delle armi
nucleari – la NATO lo boccia sonoramente. Il Trattato, votato
all’Assemblea Generale da una maggioranza di 122 Stati, impegna gli
Stati firmatari a non produrre né possedere armi nucleari, a non
usarle né a minacciare di usarle, a non trasferirle né a riceverle
direttamente o indirettamente, con l’obiettivo della loro totale
eliminazione. Il Consiglio Nord Atlantico esautora così i parlamenti
nazionali dei Paesi membri, privandoli della sovranità di decidere
autonomamente se aderire o no al Trattato ONU sull’abolizione delle
armi nucleari.
Il
Consiglio Nord Atlantico assicura però «il forte impegno della NATO
per la piena applicazione del Trattato di non-proliferazione nucleare
(TNP)». In realtà esso è violato proprio dalla NATO. Gli Stati
Uniti – violando l’Articolo 1 che proibisce agli Stati
militarmente nucleari di trasferire ad altri armi nucleari – hanno
schierato bombe nucleari B61 in cinque Paesi membri dell’Alleanza:
Italia, Germania, Belgio, Olanda e Turchia. Questi violano il TNP,
che all’Articolo 2 proibisce agli Stati militarmente non nucleari
di ricevere armi nucleari, né avere il controllo su tali armi
direttamente o indirettamente.
Una
nuova bomba nucleare USA, la B61-12, sostituirà tra breve la B61
oggi schierata in Italia ed altri paesi europei. La B61-12 ha una
testata nucleare con quattro opzioni di potenza selezionabili: al
momento del lancio, viene scelta la potenza dell’esplosione a
seconda dell’obiettivo da colpire. A differenza della B61
sganciata in verticale sull’obiettivo, la B61-12 viene lanciata a
distanza e guidata da un sistema satellitare. Ha inoltre la capacità
di penetrare nel sottosuolo, anche attraverso cemento armato,
esplodendo in profondità per distruggere i bunker dei centri di
comando e altre strutture sotterranee, così da «decapitare» il
Paese nemico in un first strike nucleare.
Il
2 luglio 2019 il segretario di stato Mike Pompeo annuncia, dopo sei
mesi di sospensione, il definitivo ritiro degli Stati uniti dal
Trattato sulle Forze nucleari intermedie (INF), accusando la Russia –
senza alcuna prova – di averlo «deliberatamente violato, mettendo
a rischio i supremi interessi Usa». Il Trattato INF, firmato
nel 1987 dai presidenti Gorbaciov e Reagan, aveva permesso di
eliminare tutti i missili nucleari a gittata corta e intermedia
(tra 500 e 5500 km) con base a terra, anzitutto i missili balistici
Pershing 2, schierati dagli Stati Uniti in Germania Occidentale, e
quelli da crociera lanciati da terra, schierati dagli Stati Uniti in
Gran Bretagna, Italia, Germania Occidentale, Belgio e Olanda, e allo
stesso tempo i missili balistici SS-20 schierati dall’Unione
Sovietica sul proprio territorio.
La
cancellazione del Trattato INF si inserisce in una nuova corsa agli
armamenti, basata non tanto sulla quantità ma sulla qualità delle
armi nucleari e dei loro vettori e sulla loro dislocazione. Fonti
militari informano che gli Stati Uniti stanno mettendo a punto nuovi
missili nucleari a raggio intermedio con base a terra, sia da
crociera che balistici (questi capaci di colpire gli obiettivi in
pochi minuti dal lancio), da schierare in Europa contro la Russia e
in Asia contro la Cina. La Russia ha avvertito che, se verranno
schierati in Europa, punterà i suoi missili nucleari sui territori
in cui saranno installati.
In
tale quadro va tenuto presente il fattore geografico: mentre un
missile nucleare USA a raggio intermedio schierato in Europa, può
colpire Mosca, un analogo missile schierato dalla Russia sul proprio
territorio può colpire le capitali europee, ma non Washington.
Rovesciando lo scenario, è come se la Russia schierasse missili
nucleari a raggio intermedio in Messico.
Nota
conclusiva
Nel
quadro della NATO, le Forze armate italiane sono impegnate in 35
operazioni in 22 Paesi, dall’Europa orientale ai Balcani,
dall’Africa al Medioriente e all’Asia. Sono le «missioni di
pace» effettuate soprattutto là dove la NATO sotto comando USA ha
scatenato, con l’attiva partecipazione dell’Italia, le guerre che
hanno demolito interi Stati e destabilizzato intere regioni.
L’adeguamento
delle nostre Forze armate e dei loro sistemi d’arma a tale
strategia richiede una crescente spesa militare. Nel 2018 la spesa
militare italiana è salita dal 13° all’11° posto mondiale,
arrivando a una media di circa 70 milioni di euro al giorno, ma USA e
NATO premono per un suo ulteriore aumento in funzione soprattutto
della escalation contro la Russia. Lo scorso giugno il governo Conte
I ha «sbloccato» 7,2 miliardi di euro da aggiungere alla spesa
militare. Lo scorso ottobre, nell’incontro del premier col
Segretario generale della Nato, il governo Conte II ha assicurato
l’impegno ad aumentare la spesa militare di circa 7 miliardi di
euro a partire dal 2020
(La
Stampa,
11 ottobre 2019). Si sta così per passare da una spesa militare di
circa 70 milioni di euro al giorno a una di circa 87 milioni di euro
al giorno.
Manlio
Dinucci, giornalista e saggista
Nota
sull’Autore:
Manlio
Dinucci, giornalista e saggista, autore di testi scolastici di
geografia umana e di libri su temi di geopolitica e geostrategia, è
collaboratore de il
manifesto e
membro del Comitato No Guerra No Nato. È ricercatore associato
di Global
Research / Centre for Research on Globalization,
diretto dal Prof, Michel Chossudovsky (Canada). Nel 2019, nel
Concorso internazionale di giornalismo indetto dal Club
de Periodistas de México (ordine
dei giornalisti del Messico), ha ricevuto il primo premio nel settore
dell’analisi geostrategica. È stato direttore esecutivo per
l’Italia della International
Physicians for the Prevention of Nuclear War,
associazione internazionale insignita nel 1985 del Premio Nobel per
la Pace per aver «fornito preziosi servigi all’umanità divulgando
informazioni autorevoli e diffondendo la consapevolezza sulle
catastrofiche conseguenze di un conflitto nucleare».
Nessun commento:
Posta un commento