Calabresi, Pinelli: ancora?
Ancora, e ricominciando daccapo. Intanto comincerò da una cronaca. Roma, un’aula della Sapienza, mercoledì 4 dicembre. Non c’ero, ma come se ci fossi. Ne ho ascoltato la registrazione nella notte tra il 10 e l’11, a Radio Radicale. Teneva svegli. Il giorno dopo ho riascoltato e guardato il filmato. Era una “Giornata di studi sulla strage di piazza Fontana”, titolo: “Noi sappiamo, e abbiamo le prove”, organizzata dall’Archivio Flamigni e dall’Università. Il titolo calcato su Pasolini, con quel di più di certezza, segnava la differenza fra l’intellettuale e poeta – io so, ma non ho le prove – e le storiche e gli storici convenuti, insieme a magistrati, giornalisti e testimoni.
Oggetto della mia cronaca è un episodio occorso alla fine della mattina, dopo le relazioni di Paolo Morando, sul tema del suo libro, “Prima di Piazza Fontana. La prova generale” (Laterza), di Benedetta Tobagi, sui processi tra Roma, Milano e Catanzaro (il suo libro, “Piazza Fontana. Il processo impossibile”, Einaudi), e Francesco Lisanti, sul processo a Ordine Nuovo (sua “La storia di piazza Fontana nei documenti processuali”, La Vita Felice). A questo punto una voce dal pubblico – in radio si sentiva meno, lontana dal microfono – ha chiesto compitamente di fare una domanda. L’ha fatta. Vorrei sapere, ha detto, come fate a sostenere che Calabresi era uscito dalla stanza. C’è stata una breve consultazione fra la coordinatrice, Ilaria Moroni, e Benedetta Tobagi, mentre l’interlocutore ripeteva la sua questione e, interrotto, aggiungeva: “Vorrei sapere se posso parlare, se non posso parlare sto zitto”. Tobagi gli ha detto che poteva, certo, e ha chiesto: “Lei chi è, scusi?” “Sono Valitutti”.
Pasquale “Lello” Valitutti ha 70 anni, è stato spesso prediletto dalle cronache perché, “anarchico in carrozzina”, prende il suo posto avanzato nelle manifestazioni di strada anche quando dimostranti e polizia si scontrano. Valitutti è anche l’anarchico ventenne che aspettò il suo turno seduto accanto a Pino Pinelli nel salone comune al quarto piano della questura milanese, quando già tutti gli altri fermati erano stati mandati a casa. Ed era seduto nel salone comune ad aspettare che Pinelli uscisse dalla stanza del commissario Calabresi, la notte che Pinelli ne uscì dalla finestra.
Valitutti è quel genere di persona di cui gli oratori di un convegno non possono fare a meno di dirsi: “Eccolo, questo rompicoglioni!” Dunque, ha potuto parlare. Ha detto quello che dice da sempre, e qualcos’altro. Dice che dal suo posto “vedeva perfettamente la porta dell’ufficio del dottor Allegra, capo della sezione politica della questura, e la porta dell’ufficio del dottor Calabresi”. Che “circa 15-20 minuti prima della mezzanotte il silenzio venne rotto da rumori nell’ufficio di Calabresi, come di trambusto, di una rissa, di mobili smossi ed esclamazioni soffocate. Poi un incredibile silenzio”. Che nei minuti precedenti “nessuno era uscito dall’ufficio e tantomeno entrato in quello di Allegra”. Che a mezzanotte udì “un tonfo, che non ho più dimenticato e che spesso mi rimbomba”. Che “un attimo dopo ho sentito uno smuoversi di sedie e passi precipitosi”. Che “due sbirri si sono precipitati da me e mi hanno messo con la faccia al muro”. Che subito dopo è arrivato Calabresi e gli ha detto: “Stavamo parlando tranquillamente, non capisco perché si è buttato”. Che la mattina dopo l’hanno rilasciato. Che ha ripetuto la sua testimonianza al processo Calabresi-Lotta Continua e che il difensore di Calabresi non l’ha neppure controinterrogato. Che durante il sopraluogo del tribunale nella questura ha mostrato al giudice Biotti i segni sulla parete che dimostravano come una macchina distributrice fosse stata spostata nel frattempo per far credere che ostruisse la sua vista la notte che Pinelli. Che il giudice D’Ambrosio non lo chiamò mai a testimoniare, benché fosse l’unico testimone civile presente quella sera. Che Calabresi e gli altri presenti nella stanza, “tutti assassini di Pinelli”, avevano tutti mentito, e che la beatificazione di Calabresi è inconcepibile, eccetera.
Tobagi si è trovata in una situazione non invidiabile, e insieme esemplare: non succede spesso che il rapporto, e il contrasto, fra l’attore e testimonio dei fatti, e i loro storici, si trovino l’uno di fronte agli altri, invocando l’uno la propria verità vissuta e gli altri la verità probabile di fonti e documenti.
Tobagi ha detto: qui nessuno ha santificato Calabresi, abbiamo invitato Morando proprio per illustrare la macchinazione venuta da lontano, e fino ai livelli più alti, e la responsabilità della squadra politica diretta da Calabresi. Ha anche detto – lasciandomi qui interdetto – che la presenza degli uomini degli Affari Riservati nella questura milanese, che è la più rilevante acquisizione ultima dell’indagine e della ricerca, può confermare che Calabresi fosse uscito dalla sua stanza, per andare non da Allegra ma da Russomanno e dagli uomini degli Affari Riservati. “Ma Calabresi ha detto che è uscito per andare da Allegra, e ha mentito”, ha ovviamente replicato Valitutti. Tobagi: ma abbiamo detto che Calabresi ha mentito, su Pinelli tutti hanno mentito.
Poiché le mie citazioni non sono testuali, invito caldamente a vedere e ascoltare la registrazione sul sito di Radio Radicale, dibattiti, 4 dicembre (https://www.radioradicale.it/scheda/592132/giornata-di-studi-sulla-strage-di-piazza-fontana-intitolata-noi-sappiamo-e-abbiamo-le?). E a procurarsi, se credono, un opuscolo, “a distribuzione gratuita”, curato da Valitutti, dal quale ho testualmente attinto: “A 50 anni da piazza Fontana. Gli anarchici non dimenticano e non perdonano”.
Lasciamo per ora l’episodio, che non doveva passare inosservato, e veniamo all’eventualità che si ricominci daccapo. Tobagi ha ragione: di tutti gli sviluppi della ricerca attorno al 12 dicembre della strage degli innocenti e al 15 dicembre della defenestrazione di Pinelli, il più importante, e sbalorditivo, è la notizia (una vera “ultima notizia”, di quarant’anni dopo) dell’arrivo da Roma alla questura milanese di un manipolo di funzionari dell’Ufficio Affari Riservati” – “fra i 10 e i 15” – guidati dal vice di Federico Umberto D’Amato, Silvano Russomanno. Costoro presero da subito il comando pieno dell’indagine, direttamente sopra il capo dell’Ufficio politico, Antonino Allegra, e il giovane commissario dell’ufficio politico addetto all’estrema sinistra e agli anarchici, Luigi Calabresi.
Questa dirompente notizia è diventata pubblica per la prima volta nel 2013, quando l’anarchico Enrico Maltini, fondatore della Croce Nera, che dal 15 dicembre del 1969 non aveva mai smesso di dedicarsi a Pinelli (è morto nel marzo del 2016) e Gabriele Fuga, avvocato penalista, pubblicarono un libretto intitolato “E a finestra c’è la morti” (Zero in condotta), ripubblicato poi, rivisto e arricchito di nuovi documenti, nel 2016, col titolo “Pinelli. La finestra è ancora aperta” (ed.Colibrì). Così esordivano gli autori: “Nel 1996 dagli archivi di via Appia si scopre che almeno altre 14 persone facenti capo al ministero dell’interno e mai sentite dai magistrati si aggiravano in quel quarto piano della questura di Milano la notte in cui Pinelli morì”.
Si capisce che cosa voglia dire: nel paesaggio, per decenni studiato metro per metro, di quel quarto piano della questura, di quella stanza di Calabresi che, svelata dal sopraluogo agli occhi del giudice Biotti (“Cristo! Non credevo che fosse così piccola!”), d’improvviso bisogna collocare 14 – o 10, o 15, non importa – nuovi personaggi, ingombrantissimi, perché sono i padroni del gioco, e quali padroni.
Russomanno, per esempio, il giovane repubblichino, il volontario combattente nell’antiaerea nazista, il sovrintendente del terrorismo sudtirolese e altoatesino – un’altra “prova” di frontiera del terrorismo che avrebbe attraversato il resto d’Italia. Sono gli uomini che hanno guidato da lontano, dalla primavera, la macchinazione contro gli anarchici e personalmente contro Valpreda e Pinelli.
Il lavoro di Maltini e Fuga solleva qualche attenzione, non abbastanza. Gli specialisti di questi studi seguono ciascuno il proprio filone, per lo più distratti. I lettori comuni sono distrattissimi, perfino i più sensibili al tema, quelli che “c’erano”, che hanno visto la propria vita toccata intimamente da quell’antico dicembre; ne hanno abbastanza. Occorrerà il rumore di un cinquantenario per riaccendere tutte le luci, e mancavano ancora anni. Ora, finalmente, l’effetto di quella scoperta si fa sentire in alcune delle migliori pubblicazioni, di giovani storici e storiche, e di anziani militanti di allora, come Enrico Deaglio, “La bomba. Cinquant’anni di piazza Fontana” (Feltrinelli), e Paolo Brogi, “Pinelli. L’innocente che cadde giù” (Castelvecchi). Il libro di Brogi enuncia la sua fonte fin dal sottotitolo: “Dalle carte sugli Affari Riservati nuova luce su depistaggi e montature”.
Gli “archivi di via Appia” sono una discarica di più meno 150 mila fascicoli non catalogati, un “archivio parallelo” degli Affari riservati, che contengono informazioni e reperti sull’operato dei servizi segreti italiani. Li rinvenne e cominciò a studiarli Aldo Giannuli nell’ottobre 1996, poco dopo la morte del gran capo della malavita spionistica italiana Federico Umberto D’Amato. (Giannuli lavorava allora come consulente del giudice Salvini). Oggi – solo oggi – tutti quei documenti sono consultabili, così come l’archivio di Russomanno (e presto, vedremo quanto spolverate, le carte di Allegra).
Una caratteristica peculiare è l’assenza dei documenti dal 12 al 16 dicembre. Nelle stesse carte del “Club di Berna”, minuziosissime nella registrazione di qualunque attentato, piazza Fontana è assente. (Queste assenze ricorrono puntuali: manca la parte di registrazione della microspia a casa di Allegra nel punto in cui parla con Russomanno, suo ospite, di Calabresi. Mancano, sullo stesso argomento, i fogli cari a Guido Salvini della “fonte Como”, un informatore infiltrato in una sezione milanese di Lotta Continua).
Fino a Maltini e Fuga, dunque per 44 anni, si è discusso, denunciato, giudicato e condannato di una questura di Milano spigionata di quei “10 o 15” signori dagli Affari Riservati, Russomanno, Catenacci, Alduzzi e la sua “squadra 54”… Farò un esempio risentito: nel 2009 scrissi un libro cui tenevo molto, “La notte che Pinelli” (Sellerio). Studiai con tutto lo scrupolo di cui ero capace le carte dei processi che avevano riguardato Pinelli, e specialmente quelle che avevano preteso di mettere la parola fine al “caso” della sua morte, firmate da Gerardo D’Ambrosio. Argomentai, al di là della inaccettabile tesi che passò sotto il nome di “malore attivo”, errori documentabili del giudice, che aveva per esempio frainteso il racconto dell’ultimo giorno che costituiva l’alibi di Pinelli. Era il 1975, a D’Ambrosio premeva liberare la memoria di Pinelli dalle accuse mostruose che l’avevano colpito, e insieme liberare quella di Calabresi: lo fece consacrando la versione secondo cui Calabresi era uscito dalla stanza per andare dal suo capo, Allegra, e che in quella sua assenza Pinelli, col quale erano rimasti altri quattro poliziotti e un ufficiale carabiniere, era precipitato. Nel mio libro, tenni certo conto della testimonianza, così precisa (e mai smentita, quanto alle circostanze e alle parole dette a lui da Calabresi), di Valitutti. Scrissi che doveva “almeno” essere considerata quanto quella di ogni altro testimone. Tuttavia io stesso mi volli persuadere che nel tempo non breve dell’interrogatorio di Pinelli l’attenzione di Valitutti avesse potuto attenuarsi e impedirgli di notare il passaggio di Calabresi da un ufficio all’altro. Nell’ultima riga risposi alla domanda su che cosa fosse successo quella notte nella questura di Milano: Non lo so. Mi costò quella risposta. Il giudice, poi parlamentare, D’Ambrosio, commentando il mio libro, si lasciò sfuggire un lapsus impressionante. A confermare che Calabresi uscì dalla stanza, disse, c’è anche la testimonianza oculare del giovane anarchico Valitutti. La sua memoria aveva benevolmente rovesciato la cosa. Mi colpì allora e mi colpisce di più oggi.
Mi servì, scrivere quel libro. Oltretutto, la lettura attenta delle carte di indagini e processi mi permise, in un libro supplementare, necessario come un pronto intervento, di ridicolizzare le invenzioni sulla doppia bomba il doppio attentatore il doppio taxi il doppio tutto, formulate nell’incredibile ignoranza di quelle carte: un segno dei tempi. E’ sempre stato un guaio il rapporto fra l’attore-testimone e lo storico: la longevità contemporanea l’ha aggravato a dismisura. Gli storici devono pur fare il loro mestiere, ma sono circondati dagli attori e dai testimoni, duri a morire e a rassegnarsi allo specchio deformante della storia. La storia contemporanea stenta sempre di più ad avvalersi della posterità. Basta saper aspettare, del resto.
Torniamo al quarto piano, alle sue porte, alle sue finestre – una sola era illuminata, quella notte. Ci sono gli uomini di Roma. Qualcuno forse è in albergo, Russomanno forse a casa di Allegra, qualcuno starà sbrigando pratiche al piano di sotto, chissà. Qualcuno magari è nella stanza con Pinelli. Dunque tutto quello che avevamo pensato e detto, io nel mio libro, e tutti gli altri, nelle istruttorie, nelle sentenze, in altri libri, era tutto campato per aria. Erano sì e no due piccoli indiani, e gli altri otto grandi e grossi a spadroneggiare non visti. E tutti, tutti, mentivano. Perché tacere, come un sol uomo, perinde ac cadaver, la presenza di quei capi degli Affari Riservati, non è un’innocua omissione: è una menzogna.
Qui però c’è un altro vero problema, e piuttosto ignorato. Perché qualcuno, prima dell’anarchico Maltini e dell’avvocato libertario Fuga, era venuto a conoscenza di quel dettaglio, l’esproprio della questura milanese e dell’indagine da parte degli Affari Riservati. Precisamente, due magistrati (almeno, e i loro superiori): Grazia Pradella, giovane sostituto della Procura di Milano che condusse dal 1995 fino al 1998 una nuova inchiesta su piazza Fontana, col collega Massimo Meroni.
La signora Pradella ottenne dai suoi interrogati informazioni clamorose. Lo stesso Russomanno, interrogato lungamente e rigorosamente, dichiarò di essere stato a Milano “quando morì Pinelli”. E il commissario Pagnozzi, della questura di Milano (che quel 15 dicembre era in trasferta a Roma per accompagnare Valpreda), spiegò tranquillamente che Russomanno si era insediato nella stanza di Allegra, cui era stata aggiunta un’altra scrivania e un’altra sedia. Mi auguro che abbiate fatto un salto sulla vostra, di sedia. Io ho domande irresistibili, e non polemiche, salva la prova contraria. Pradella si occupava della strage e non di Pinelli (cose difficilmente scindibili, del resto). Non le è sembrato necessario, o almeno opportuno, chiedere a Russomanno: “Ma lei dov’era durante l’interrogatorio di Pinelli?” Perché allo stato dei fatti, Russomanno poteva essere al cinema, o alla scrivania di emergenza nella stanza di Allegra (dove Calabresi si sarebbe recato), o nella stanza stessa di Calabresi. E tutte queste ipotesi hanno esattamente lo stesso valore. Cosicché resta, a far pendere la bilancia, la testimonianza di Lello Valitutti.
Se non fraintendo, queste risposte la sostituta Pradella le riceve nel 1996, a ridosso del ritrovamento dell’archivio-discarica dell’Appia. Nel 1997 il suo collega a Venezia, Carlo Mastelloni, che indaga ad amplissimo raggio sulla caduta dell’Argo 16, abbattimento o incidente, trova a sua volta argomenti che rimandano agli Affari Riservati, e interroga un altro alto dirigente, Guglielmo Carlucci, che menziona anche lui la presenza milanese dell’Ufficio, definendolo “padrone delle indagini”. E spiega che nell’Italia del 1969 gli uffici politici delle questure dipendono direttamente dall’Ufficio degli Affari Riservati! (Mastelloni e Pradella forse hanno condotto interrogatori comuni, mi scuso di non saperlo verificare).
Dal 1996-97 al 2013, quando per la prima volta il pubblico, “gli Italiani”, come si dice infaustamente oggi, ricevono la notizia sugli Affari Riservati nella Milano che impacchetta Valpreda e defenestra Pinelli, sono passati almeno sedici anni. Per sedici anni, “gli Italiani”, quelli che hanno interesse alla cosa, hanno rimisurato metro per metro, passo per passo di poliziotti e anarchici, il quarto piano di via Fatebenefratelli senza urtare i 10 o 15 pezzi grossi. C’è una spiegazione? Erano forse tenuti, i magistrati che avevano raccolto quella notizia sconvolgente, al segreto? E D’Ambrosio, superiore di Pradella e corresponsabile dell’inchiesta e antico firmatario di una indagine e una sentenza su Pinelli che questa notizia inficia da capo a fondo, non ne è stato informato? E quando D’Ambrosio e Pradella vengono ascoltati a Roma dalla “Commissione sul terrorismo in Italia e sulle cause della mancata individuazione dei responsabili delle stragi”, presieduta da Giovanni Pellegrino, il 16 gennaio 1997, e non ne parlano nemmeno lì (salvo che io mi sbagli), a che cosa è dovuto il loro silenzio? E’ l’udienza in cui i due magistrati denunciano duramente l’operato di Guido Salvini: capitolo, questo delle spasmodiche rivalità fra magistrati, che non so e non voglio nemmeno sfiorare qui. Una parte ingente del libro ultimo di Salvini e Sceresini (“La maledizione di Piazza Fontana”, Chiarelettere) ne offre un quadro raccapricciante. Si tratta nientemeno che delle mutue attribuzioni di colpe nell’aver impedito il raggiungimento della verità giudiziaria e la punizione degli autori della strage!
Esiste dunque un segreto di Stato, e poi dei segreti di cui non si riesce a immaginare l’origine e il movente. La distrazione, forse. “Ah, ci eravamo dimenticati di dirvi che il 12 dicembre, e il 13 e il 14 e il 15, nella Questura di Milano c’erano gli Affari Riservati”.
Perciò faceva caldo.
La replica di Benedetta Tobagi e la risposta di Adriano Sofri: https://www.ilfoglio.it/cronache/2019/12/17/news/benedetta-tobagi-replica-a-sofri-sulla-riapertura-del-caso-pinelli-292892/?
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