“Il lavoratore non è una macchina acquistata dal padrone”, così Giuseppe Di Vittorio propose lo Statuto
Il 26 novembre 1952 inizia a Napoli il III Congresso nazionale della Cgil che terminerà i lavori il 3 dicembre.
Giuseppe Di Vittorio lancia a livello confederale l’idea di uno Statuto dei diritti dei lavoratori.
Prendendo la parola nel corso dei lavori del Congresso del Sindacato dei chimici dell’ottobre precedente Di Vittorio formulava, un mese prima, una proposta destinata ad assumere una grandissima importanza nella storia del Paese affermando:
“I
lavoratori sono uomini e liberi cittadini della Repubblica italiana
anche nelle fabbriche, anche quando lavorano […] – scrive il
segretario su l’Unità dell’11 ottobre 1952 –
Nell’interesse nostro, nell’interesse vostro dei padroni,
nell’interesse della patria, rinunciate all’idea di rendere
schiavi i lavoratori italiani, di ripristinare il fascismo nelle
fabbriche […] Io voglio proporre a questo Congresso una idea che
avevo deciso di presentare al prossimo Congresso della Cgil […]
facciamo lo Statuto dei diritti dei lavoratori all’interno
dell’azienda. Formulato in pochi articoli chiari e precisi, lo
Statuto può costituire norma generale per i lavoratori e per i
padroni all’interno dell’azienda […]”.
“La proposta di uno Statuto che precisi e ribadisca i diritti
democratici dei lavoratori anche nell’interno dell’azienda –
preciserà qualche giorno più tardi il segretario all’Inso
(Agenzia «Informazioni Sociali») – , è stata resa necessaria dal
fatto che numerosi datori di lavoro (non tutti, in verità) giungono
addirittura a pretendere che i lavoratori appartengano a una
piuttosto che a un’altra organizzazione sindacale o politica; a
proibire ai lavoratori di leggere, o di offrire ai propri colleghi,
giornali invisi al datore di lavoro anche nelle ore della mensa o
comunque fuori dell’orario di lavoro […] La Costituzione della
Repubblica garantisce a tutti i cittadini, anche all’interno dei
luoghi di lavoro, la libertà di pensiero e di espressione, la
libertà di associazione e di organizzazione, la libertà di
propaganda e stampa, ecc. ecc. La nostra proposta tende a richiamare
i datori di lavoro al rispetto di questi principi fondamentali della
nostra società nazionale […]”.
“La proposta da me annunciata al recente Congresso dei sindacati chimici di precisare in uno Statuto i diritti democratici dei lavoratori all’interno delle aziende – scriverà su «Lavoro» del 25 ottobre 1952 il segretario generale – ha suscitato un enorme interesse fra le masse lavoratrici d’ogni categoria. Il Congresso della Camera del lavoro di Mantova, per esempio, ha chiesto che lo Statuto stesso venga esteso anche alle aziende agricole. E qui è bene precisare che la nostra proposta, quantunque miri sopratutto a risolvere la situazione intollerabile che si è determinata nella maggior parte delle fabbriche, si riferisce, naturalmente, a tutti i settori di lavoro, senza nessuna eccezione […] La Costituzione della Repubblica garantisce a tutti i cittadini, lavoratori compresi, una serie di diritti che nessun padrone ha il potere di sopprimere o di sospendere, nei confronti di lavoratori. Non c’è e non ci può essere nessuna legge la quale stabilisca che i diritti democratici garantiti dalla Costituzione siano validi per i lavoratori soltanto fuori dall’azienda. È vero che le fabbriche sono di proprietà privata (non è qui il caso di discutere questo concetto), ma non per questo i lavoratori divengono anch’essi proprietà privata del padrone all’interno dell’azienda. Il lavoratore, anche sul luogo del lavoro, non diventa una cosa, una macchina acquistata o affittata dal padrone, e di cui questo possa disporre a proprio compiacimento. Anche sul luogo del lavoro, l’operaio conserva intatta la sua dignità umana, con tutti i diritti acquisiti dai cittadini della Repubblica italiana. Se i datori di lavoro avessero tenuto nel dovuto conto questa realtà, chiara e irrevocabile – e agissero in conseguenza – la necessità della mia proposta non sarebbe sorta; non avrebbe dovuto sorgere. Il fatto è, invece, che numerosi padroni si comportano nei confronti dei propri dipendenti come se la Costituzione non esistesse. Si direbbe che la parte più retriva e reazionaria del padronato (la quale non ha mai approvato la Costituzione, ma l’ha subita, a suo tempo, solo per timore del «peggio»), mentre trama per sopprimerla, l’abolisce, intanto, all’interno delle aziende. L’opinione pubblica ignora, forse, che in numerose fabbriche s’è istaurato un regime d’intimidazione e di terrore di tipo fascista che umilia e offende i lavoratori. I padroni e i loro agenti sono giunti al punto d’impedire ai lavoratori di leggere il giornale di propria scelta e di esprimere una propria opinione ai compagni di lavoro, nelle ore di riposo, sotto pena di licenziamento in tronco. Si è giunti ad impedire ai collettori sindacali di raccogliere i contributi o distribuire le tessere sindacali, durante il pasto o prima e dopo l’orario di lavoro. Se durante la sospensione del lavoro, l’operaio legge un giornale non gradito al padrone, o l’offre a un collega, rischia di essere licenziato. Si è osato licenziare in tronco un membro di Commissione Interna perché durante la colazione aveva fatto una comunicazione alle maestranze. Si pretende persino che la Commissione Interna sottoponga alla censura preventiva del padrone il testo delle comunicazioni da fare ai lavoratori. Peggio ancora: si è giunti all’infamia di perquisire gli operai all’entrata della fabbrica, per assicurarsi che non portino giornali o altri stampati invisi al padrone. Tutto questo è intollerabile. E tutto questo non è fatto a caso, né per semplice cattiveria. Tutto questo è fatto per calcolo; è fatto per affermare e ribadire a ogni istante, in ogni modo, l’assolutismo padronale onde piegare il lavoratore a uno sforzo sempre più intenso, a un ritmo di lavoro sempre più infernale, alla fatica più massacrante, sotto la minaccia costante del licenziamento. E tutti sono in grado di misurare la gravità di questa minaccia, in un Paese di disoccupazione vasta e pertinente come il nostro. È un fatto che l’instaurazione di questo assolutismo padronale nelle fabbriche è accompagnata da un aumento crescente del ritmo del lavoro. Il supersfruttamento dei lavoratori è giunto a un tale punto da determinare un aumento impressionante degli infortuni sul lavoro (anche mortali) e delle malattie professionali, come abbiamo ripetutamente documentato. Soltanto nelle aziende della Montecatini abbiamo avuto 35 morti per infortuni in un anno! Questa situazione non è tollerabile. Bisogna ripristinare i diritti democratici dei lavoratori all’interno delle aziende e porre un limite a queste forme micidiali di supersfruttamento […] Dalle fabbriche e da altri luoghi di lavoro si leva una protesta unanime, accorata, come sorgente da un bisogno di respirare, di sentirsi liberi, anche all’interno delle aziende. La nostra proposta tende a risolvere la questione in modo pacifico e normale, mediante l’adozione d’uno Statuto che, ribadendo i diritti imprescrittibili dei lavoratori, non dia luogo né agli abusi lamentati, né alle agitazioni che ne conseguono. E poiché si tratta d’un interesse vitale e generale di tutti i lavoratori, senza distinzioni di correnti, riteniamo perfettamente possibile un accordo con le altre organizzazioni sindacali, sia nella formulazione dello Statuto che propugniamo, sia nell’azione da svolgere per ottenerne l’adozione”.
Recita a distanza di un mese la risoluzione generale del Congresso
della CGIL del 1952 (Napoli, 26 novembre – 3 dicembre), Per
uno Statuto dei diritti del cittadino-lavoratore nell’azienda:
“Il III Congresso della CGIL chiama i lavoratori italiani di tutte
le professioni a lottare per la più energica difesa dei propri
diritti costituzionali che debbono essere riconosciuti ai lavoratori
anche nell’ambito delle aziende e degli uffici. Il Congresso decide
pertanto di proporre alle altre organizzazioni sindacali un progetto
di Statuto dei diritti dei lavoratori nelle aziende, al fine di
svolgere l’azione comune e necessaria per ottenerne
l’applicazione”.
“Abbiamo il dovere di difendere le libertà democratiche e i
diritti sindacali che sono legati alla questione del pane e del
lavoro – dirà nella sua relazione Giuseppe Di Vittorio – ;
abbiamo il dovere di difendere i diritti democratici dei cittadini e
dei lavoratori italiani, anche all’interno delle fabbriche. In
realtà oggi i lavoratori cessano di essere cittadini della
Repubblica italiana quando entrano nella fabbrica […] Il lavoratore
è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua
idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa e vuole che
questi suoi diritti vengano rispettati da tutti e in primo luogo dal
padrone. È per questo che noi pensiamo che i lavoratori debbono
condurre una grande lotta per rivendicare il diritto di essere
considerati uomini nella fabbrica e perciò sottoponiamo al congresso
un progetto di “Statuto” che intendiamo proporre, non come testo
definitivo, alle altre organizzazioni sindacali (perché questa
esigenza l’ho sentita esprimere recentemente anche da dirigenti di
altre organizzazioni sindacali), per poter discutere con esse ed
elaborare un testo definitivo da presentare ai padroni e lottare per
ottenerne l’accoglimento e il riconoscimento solenne” […].
Diciassette anni dopo, l’11 dicembre 1969 il disegno
di legge del governo sullo Statuto sarà approvato in prima lettura
dal Senato.
Voteranno a favore i partiti di centro-sinistra e i liberali, si
asterranno – con opposte motivazioni – Msi da una parte, Pci,
Psiup e Sinistra Indipendente dall’altra.
Il giorno dopo, 12 dicembre, esplode la bomba alla Banca della
Agricoltura a Milano: è la strage di Piazza Fontana.
Il 14 maggio 1970 la Camera dei deputati, con 217 voti
favorevoli, 10 contrari e 125 astenuti, approva definitivamente la
legge nel testo del Senato dopo che, su richiesta del ministro Donat
Cattin tutti gli emendamenti (tranne quelli del Pli) sono stati
ritirati.
Il 20 maggio il testo è pubblicato sulla Gazzetta ufficiale e
la Legge 20 maggio 1970, n. 300 – Norme sulla
tutela della libertà e dignità dei lavoratori, della libertà
sindacale e delle attività sindacali nei luoghi di lavoro e norme
sul collocamento – entra in vigore.
Più o meno quaranta anni dopo, nel dicembre del 2015, il Comitato
direttivo della Cgil voterà pressoché all’unanimità la bozza
della Carta dei diritti universali del lavoro, ovvero il nuovo
Statuto dei lavoratori, ma questa è un’altra storia che stiamo
ancora scrivendo…
Tanta strada abbiamo percorso, tanta ne rimane da fare.
Ma “Quando la causa è così alta, merita di essere servita,
anche a costo di enormi sacrifici”.
“Questa causa val bene un impegno, val bene un rischio, val bene
una vita”.
Non intendo tanto entrare nel merito dello "Statuto dei Lavoratori" ma bensì evidenziare proprio il significato politico ideologico del termine in sé. E sia chiaro Pci e Cgil sono perfettamente uniti nel pensiero espresso da G. Di Vittorio “Il lavoratore non è una macchina acquistata dal padrone”. Cosa intendo, e cosa per me significa, molto semplicemente che i diritti sono (a difesa) del lavoratore come SOLO dipendente, lavoratore "sfruttato" ma con criterio, lavoratore "sfruttato" ma non è uno schiavo. In concreto, la dirigenza del Pci e della Cgil, non sono mai andati oltre "la dipendenza", mai che avessero avanzato proposte articolate che il "lavoratore dipendente" possa "aspirare e lottare" per la COGESTIONE. La COGESTIONE sicuramente era parola Tabù per la dirigenza guidata dal "migliore". Basta leggersi quanto dice in sede di Convegno Economico del Pci del 1945, i lavoratori devono partecipare alla ricostruzione, solo questo. Certo dopo ci sarà, tra l'altro, la battaglia per la scala mobile. Ma Togliatti è attentissimo a non allarmare il "ceto produttivo". Non a caso il "nuovo Pci" è un partito popolare e non "operaio" e il piano del lavoro lo stilerà la Cgil che difende i lavoratori "dipendenti". Così muoiono i "Consigli di Gestione". E ovviamente dopo che la Dc ha riacquistato tutto il potere, il nuovo Pci "avrà" la via italiana al socialismo, una totale aberrazione teorica essendo in epoca di imperialismo, e le vie nazionali sono un suicidio. E la Cgil seguendo il Partito "dara" lo Statuto ai lavoratori (dipendenti).
RispondiElimina