Leggi anche: Marxismo e cambiamento climatico - Carla Filosa
Trattare le questioni ambientali separatamente dal processo storico che le ha determinate impedisce l’individuazione delle azioni positive o contromisure da intraprendere.
Nella
misura in cui l’interessamento
generale ai problemi ambientali è diventato di moda, non si può
fare a meno di affrontare l’argomento mentre si è stupiti,
eufemisticamente, per le variegate forme ideologiche in cui questo
viene isolato da ogni altro condizionamento storico, sociale,
politico, economico, ecc.
Per privilegiare gli aspetti di fondo del cambiamento climatico, e
cosa si deve intendere per ambiente, si è costretti a dare per
scontato, almeno parzialmente, l’innumerevole elenco delle modalità
e degli effetti registrati ormai da tempo da questi scienziati di
tutto il mondo. Non solo loro, infatti, in antitesi agli interessi
dei negazionisti alla Trump o alla Bolsonaro, si preoccupano per
l’equilibrio del pianeta a causa del riscaldamento climatico e
lanciano un allarme ai paesi e alle classi più povere del pianeta,
da sempre più esposti a disastri ambientali di ogni tipo
(innalzamento dei mari, uragani, tsunami, ecc.).
In questo breve excursus si dà credito quindi
alle numerose analisi e relazioni degli scienziati del clima e
dell’ambiente in generale, non tralasciando denunce di autorevoli
politici o magistrati sui danni localizzati determinati da interessi
oggettivamente criminali, mentre nel contempo si verifica che
l’analisi scientifica marxiana è ancora la sola in grado di
individuare le cause reali e
complesse del degrado crescente degli assetti sociali e territoriali,
estesi ormai a livello globale. La mistificante “autonomia” delle
devastazioni presenti e future relative all’“ambiente”, da
parte di un dominio economico che al contrario ne determina un
progressivo accadimento in forme per lo più irreversibili,
dev’essere pienamente smentita unitamente a tutte le legittimazioni
e palliativi ideologici, escogitati per far fronte agli effetti senza
intaccarne le cause, libere così di continuare a
distruggere risorse naturali e esseri umani, inquinare aria, acqua e
terreni.
In un’ottica di contrasto a tali manipolazioni, va innanzi tutto
riaffermato che storicamente il cambiamento naturale si
sviluppa unitamente a quello umano, la cui
esistenza e riproduzione è possibile attraverso un intervento attivo
su tutto ciò che lo circonda, in base ai propri fini.
Da sempre l’operosità o successivamente il lavoro umano,
indipendentemente da ogni specifica forma della sua organizzazione,
ha tratto dalla natura i materiali necessari ai bisogni sociali del
suo tempo. In tal senso si può anche dire che si è posto
come soggetto (naturale, come lo è il
genere umano proprio nelle sue forze attive) di fronte
alla materialità della stessa natura. Ciò
significa che la forza produttiva umana, nell’uso progressivo dei
materiali e delle energie naturali, ha inevitabilmente modificato
assetti naturali originari andando a costituire quello che poi
generalmente consideriamo come ambiente.
Non si può quindi prescindere da questo percorso storico in
cui per ambiente deve considerarsi la trasformazione, attuata,
di una natura in funzione di fini umani determinati da identificare,
la cui omissione costituirebbe mistificazione rispetto ad un’analisi
seria dei problemi, su cui tutti siamo chiamati ad informarci e ad
intervenire nei modi possibili e opportuni. Trattare pertanto le
questioni ambientali separatamente dal processo
storico che le ha determinate, cioè indipendentemente dai mutamenti
specifici delle finalità umane, non solo è deviante rispetto alla
lettura degli effetti rilevabili, ma impedisce soprattutto
l’individuazione delle azioni positive o contromisure da
intraprendere, per il ripristino, se
si è ancora in tempo, di una naturalità planetaria oggi
considerata come altamente compromessa. La conoscenza della
peculiarità del modo di produzione attuale diventa allora
l’unica via di approccio corretto alla pluralità degli elementi da
tenere presenti nell’analisi dei cosiddetti problemi
ambientali.
Finché il processo produttivo umano ha usato la materia naturale
per il proprio fabbisogno, anche in quantità eccedente,
il ricambio organico con la
riproduzione naturale non è stato intaccato in modo disastroso o
irreversibile per le leggi del suo funzionamento, nonostante la
mancanza di conoscenze o di mezzi per il procacciamento del cibo
abbia potuto determinare, nel lontano passato, l’uso di terreni o
bestiame in forma localmente distruttiva. Con il modo di
produzione soggetto al dominio del capitale, invece,
il processo lavorativo umano viene a
coincidere con il processo di valorizzazione,
ovvero con la finalità umana volta non più al bisogno sociale –
se non in forma strumentale – bensì all’aumento quanto più
possibile di un valore lavorativo da appropriare
privatamente.
La prevalente esclusione sociale dalla ricchezza, quantunque
socialmente prodotta, a favore della sua accumulazione sempre
più concentrata in poche mani, comporta quindi una diversa
valutazione della natura, concepita ora come cava inesauribile di
risorse da utilizzare al massimo possibile per l’incremento di
profitti privati, quale forma predatoria dominante e
necessaria al sistema. La mercificazione della forza-lavoro umana,
interna all’essenziale formazione di detti profitti, deve così
tendere a una capacità produttiva sempre maggiore, analogamente
all’appropriazione illimitata di risorse naturali ovunque
localizzate per l’ampliamento intensificato del loro uso, quale
progressiva compressione dei costi di produzione.
La condizione soggettiva di fornitori
di pluslavoro, in quanto salariati nella
fase produttiva, si unisce quindi alla base materiale della
natura per la produzione di valori d’uso. Pur
essendo questi però realtà ineliminabile e permanente, sono
considerati solo come veicolo di valore (tempo di lavoro socialmente necessario per
la trasformazione lavorativa) e plusvalore (quota
di lavoro gratuito appropriato).
Lo sviluppo storico di questo sistema ha ulteriormente portato
alla monopolizzazione delle forze naturali, sulla base di un
diritto consuetudinario avocato a sé dai detentori della proprietà
privata. Tale diritto ha inavvertitamente determinato poi
la separazione tra le condizioni naturali
inorganiche del ricambio materiale essere umano-natura, per la
gestione e controllo comunitario delle popolazioni, demandando per lo
più a forme statali e/o sovranazionali l’amministrazione degli
interessi proprietari dietro cui opportunamente restare celati.
Lo stesso diritto, quindi, che porta all’accumulazione
privata ha fatto sì che questa non apparisse più nella realtà
scaturita dal lavoro sociale ma, separata da
questo, fosse considerata come autonoma condizione
proprietaria, cui spettassero le materie prime, gli strumenti di
lavoro e i mezzi di sussistenza per mantenere i lavoratori durante la
produzione, prima che fosse compiuta. Solo nel capitalismo dunque la
natura non è più considerata come forza per sé, nel cui uso era
compreso rispetto, ripristino od anche timore. Diventa
un oggetto utile da subordinare ai
bisogni umani asserviti da dilatare poi illimitatamente per
incrementarne il consumo, che a sua volta si rovescia sul
potenziamento continuo dello sviluppo delle forze produttive per
realizzare valori d’uso per altri, valori d’uso
sociali. Nel loro interno deve celarsi sempre
più valore e plusvalore quale
scopo dominante, riducendo di conseguenza la materialità naturale a
mero strumento indiscriminatamente modificabile. La subalternità
oggettivata dei rapporti sociali di produzione in cui si inscrive
la diseguaglianza di classe,
come pure la tutela dell’ambiente estranea a tali fini, realizza
così il divario tra diritto proprietario e giustizia sociale,
nonostante il tentativo ideologico di riaffermarne l’unità nei
tribunali o nei dibattiti politici.
È poi con la monopolizzazione delle forze naturali che
il capitale riesce ad ottenere preziosi plusprofitti,
incorporando sia una qualunque forza naturale (ad esempio una cascata
d’acqua), sia la forza-lavoro destinata
a trasformarla. La forza naturale costituisce un conveniente
risparmio di costi e un vantaggio concorrenziale rispetto ai capitali
che non riescono a disporne, ma “non ha un valore, in quanto non
rappresenta un lavoro oggettivato in essa e quindi nemmeno un prezzo
che non è altro che una rendita capitalizzata.”
(Gianfranco Pala, L’ombra senza corpo, La Città del
Sole, Napoli). Tale proprietà consente perciò di impadronirsi di un
profitto individuale maggiore del profitto medio, da capitalizzare
ogni anno, e che appare quale prezzo della forza
naturale stessa.
Risulta evidente poi che siffatta proprietà, che non sia toccata
in sorte da un destino favorevole, può essere conquistata con la
forza militare, mediante corruzione, ricatto creditizio o politico,
debito pubblico, ecc., determinando così la disgregazione sociale,
politica e ambientale di paesi o territori che invece ne siano
casualmente dotati. Tale ricchezza terriera, idrica o mineraria
diventa perciò come una maledizione per la popolazione autoctona, se
il paese in questione si trova nella geografia già stabilizzata
della dipendenza gerarchica dalle multinazionali o catene
monopolistiche transnazionali. È il caso, ad esempio, del coltan
(columbo-tantalite), che si trova solo in Australia e in Congo, ora
sembra anche in Amazzonia, ed è utilizzato per piccoli condensatori,
cellulari, high tech, ecc. La sua estrazione in Congo è costata, nel
1998, un numero di vite umane contate in 4 o 11 milioni di morti (a
seconda dei rapporti internazionali), per la sua rarità e quindi per
la contesa relativa alla sua appropriazione conflittuale con Ruanda,
Uganda e Burundi. Le conseguenze di danni ambientali in riserve e
parchi nazionali sono dovute alla privatizzazione delle concessioni –
si fanno i nomi di Nokia, Ericsson, Sony –, che hanno praticamente
distrutto anche la coesione sociale, introducendo di fatto la
coercizione allo scavo per fame della popolazione anche infantile,
definita “schiavitù volontaria”. Questa è l’interpretazione
pertinente e più attuale del concetto di lavoratore “libero” che
il capitale ai suoi inizi aveva giuridicamente e apparentemente
creato secoli fa.
Se la natura è quindi dominabile sul piano del suo uso, o
ricambio organico o metabolismo per la sussistenza
umana, non per questo le sue risorse sono illimitate o possono essere
ottenute con mezzi distruttivi degli ecosistemi. Lo sviluppo
scientifico che il capitale ha promosso, con maggiore rapidità
e universalità rispetto ad ogni altra epoca storica, è un lato del
progresso umano che sicuramente trascende la limitatezza di questo
modo di produzione, pur restando sempre bruta necessità di
rivoluzionare costantemente le sue forze produttive nel superamento
della conflittualità interna al suo essere pluralità e unità
contraddittoria. In altri termini è proprio in questo sviluppo
antitetico senza quartiere che si generano le crisi da
sovrapproduzione, da cui la brama di innovazione
tecnologica e contemporaneamente speculativa, se non anche le guerre
per l’appropriazione energetica, di materiali necessari
all’industria bellica più avanzata, di sostegno alle valute
dominanti di riferimento, di controllo strategico di territori, ecc.
La distruzione di capitali necessaria alla soluzione delle crisi
strutturali, ricorrenti, cicliche di questo sistema comporta anche la
distruzione umana e di risorse propria delle forme belliche, mentre
in tempo di pace si avrà disoccupazione o blocco produttivo,
inflazione, pauperizzazione delle fasce più deboli della
popolazione, emarginazione, ecc. La correlazione tra distruttività
sociale e naturale risulta pertanto strettamente saldata nel
funzionamento di riproduzione delle condizioni di ripresa
dell’accumulazione di plusvalore di questo sistema, strutturalmente
nell’impossibilità di fuoriuscire dalle intrinseche
contraddizioni: “Il capitale è esso stesso la contraddizione in
processo… si manifesta sempre più come una potenza
sociale…estranea, indipendente che si contrappone alla società.. è
la contraddizione costante tra questo suo compito storico e i
rapporti di produzione sociali che gli corrispondono… quando è
raggiunto un certo grado di maturità, la forma storica determinata
viene lasciata cadere e cede il posto ad un’altra più elevata”
(K. Marx, Il Capitale).
La coscienza
ecologica nasce per lo più al di fuori della consapevolezza
di tale processo. In passato sono stati ipotizzati processi economici
da un punto di vista termodinamico (Podolinskij, 1880), entropico
(Georgescu-Roegen), della decrescita
più o meno felice ed altre utopie che qui si tralasciano,
per dare conto solo di qualche denuncia degli ultimi tempi innestata
sulla paura dei “mutamenti” climatici
potenzialmente catastrofici. Piccoli stati insulari dell’America
Latina, oltre ad altri continentali che soffrono il dominio
statunitense quasi fosse una calamità naturale, ne denunciano la
mancata volontà di frenare il riscaldamento globale in termini
di ecoterrorismo. La voce che accusa di terrorismo ambientale è
quella di Edgar Isch Lopez, ex ministro dell’ambiente in Ecuador,
secondo cui “chi non salvaguarda l’ambiente come patrimonio di
tutti in tempo di pace, lo salvaguarda molto meno in tempo di
guerra”. Tra gli “atti deliberati per garantire il proprio
vantaggio a detrimento di quello degli altri” si può forse
includere allora il recente incendio appiccato, per conto del
presidente brasiliano Bolsonaro, pupillo usamericano, alla foresta
amazzonica apertamente dichiarata di sua proprietà.
Il terrorismo ambientale – di cui parla
ancora Lopez – quale strumento addizionale alla guerra ingaggiata
contro i paesi riluttanti al dominio Usa, ovvero alle sue imprese o
strutture finanziarie, prende corpo con la devastazione perpetrata
dalla Texaco nella regione ecuadoriana di Sucumbios, per l’estrazione
petrolifera. Più in generale si tratta di una nuova strategia di
dominio in cui i disastri naturali sarebbero come un’arma atta a
determinare danni superiori a quelli dei conflitti a bassa intensità,
per l’uso di tecnologie di ultima generazione.
Nel 1974 il Pentagono ha rivelato gli sforzi per indurre piogge
impreviste su Vietnam e Cambogia, per rendere impossibili gli
spostamenti alle truppe di liberazione. Nel 1978 il Progetto
Satellite a energia solare (SPSP) utilizza dei laser per fini
militari. Il Progetto di Ricerca Aurora Attiva Alta Frequenza (HAARP)
a Gokoma (Alaska) con lo sfruttamento della ionosfera altera regimi
meteorologici, intercetta comunicazioni e radar nemici. Michael
Chossudovsky della Global Research (Canada) dichiara alla Commissione
Europea di non avere giurisdizione per intervenire nei “vincoli tra
ambiente e difesa”. I cosiddetti “danni collaterali”, che
ovviamente non riguardano la morte di esseri umani – per sua natura
irreversibile – ma per distruzioni di edifici, fabbriche, ecc.
diventano profitti da incamerare per la ricostruzione già accordata
dalla preminenza bellica. Alla desertificazione da napalm, diossina,
diserbante arancione, ecc. in Vietnam, e all’inquinamento da
fosforo bianco, uranio impoverito, ecc. in Iraq, è seguito il
Progetto di Bonifica ONU (PNUMA) di circa 40 milioni di dollari –
essendo il dollaro ancora moneta di riferimento internazionale. Le
leggi, ovunque, non possono essere di impedimento agli interessi.
Questi le invocano solo in quanto garantiscono loro la “sicurezza
giuridica” per mantenere l’esercizio del loro arbitrio.
Il Protocollo di Kyoto (11.12,1997) cui aderirono più di 180
Paesi, nel quadro della Convenzione delle Nazioni Unite sul
cambiamento climatico (UNFCCC) entrò in vigore solo il 16.02.2005
con la ratifica della Russia. Nel 2013 i Paesi aderenti erano
diventati 192. Siccome l’accordo di ridurre le emissioni di gas al
7% risultò troppo costoso per le industrie Usa, le cui emissioni
erano di circa il 14% ridotte di poco nel 2002, il loro governo non
lo firmò. Il 40% delle imprese europee si comportarono un po’
diversamente, ma sostanzialmente in modo analogo. In un rapporto di
Greenpeace viene dimostrato che il 98% dei finanziamenti della Banca
Mondiale sono destinati a progetti industriali che incrementano il
riscaldamento del pianeta. La riduzione, infatti, potrebbe
automaticamente determinare il trasferimento delle industrie
inquinanti da alcuni Paesi negli altri che al contrario si mantengono
come “paradisi” delle emissioni. Continuamente avvengono le
cosiddette “delocalizzazioni” (ignorando così il significato del
termine che indica una dismissione dell’attività, un non-luogo
definitivo, al posto di “dislocazioni” che invece lascia
intendere il solo mutamento di luogo) perseguite o per vantaggi
fiscali, o per dumping lavorativo, o per “libertà”
d’inquinamento o per un ottimale mix di tutti questi fattori, in
piena sicurezza d’impunità giuridica eventuale.
L’alterazione del clima “non è un problema di ambiente ma
di sviluppo, che comporta un aumento di povertà, fame, malattie,
incrina la sicurezza nazionale, regionale e internazionale”. A
dirlo è un esperto Usa, Robert Watson che non teme di affermare che
i principali responsabili delle emissioni di gas a effetto serra (CO2
in primo luogo) sono i Paesi più industrializzati mentre quelli “in
via di sviluppo” – o dominati – sono i più colpiti. “Sviluppo”
non è sinonimo di “crescita economica”, ma di lucro privato.
Ogni anno sparisce l’1% delle foreste tropicali e il riscaldamento
globale promuove il commercio illegale di specie, mentre diminuisce
il 2% delle differenze genetiche nelle coltivazioni per l’imposizione
del transgenico quale convenienza delle imprese transnazionali. A
causa della pesca eccessiva – ad esempio – sono in pericolo le
specie ittiche del Mediterraneo, del Mare del Nord, delle Galapagos e
altri.
Un altro genere di degrado ambientale proviene dalla necessità di
ottenere gas e petrolio, per un vantaggioso ribasso dei costi,
mediante la “fratturazione idraulica” delle rocce di scisto. Si
attua una perforazione del terreno a 3.000 metri di profondità
rivestendo poi il canale di cemento dentro cui si fanno passare
cariche esplosive, da cui si producono fori che lasciano passare gas
o liquidi; in una seconda fase si pompano fino a 16.000 litri di
liquidi sotto pressione, più agenti chimici, sabbia, ghiaia o terra.
Dalla frattura delle rocce si libera il gas che risale lungo il
canale di cemento, che poi viene raccolto e portato alle
raffinerie. L’hydrofracking viene praticato per
lo più in Usa e Canada, ma anche in Polonia, Germania, ecc. Oltre
l’enorme spreco di acqua, le sostanze chimiche iniettate nel
terreno, che per il 20% circa rimane sotto, possono contaminare falde
acquifere con benzene, piombo, diesel, formaldeide, acido solforico,
ecc. potenzialmente cancerogeni, oppure con isotopi radioattivi di
antimonio, cobalto, zirconio, krypton, e altri. In seguito a questo
trattamento sono state rilevate anche scosse telluriche (in Oklahoma
nel 2011), sebbene di scarsa entità.
Il “fascino discreto” di tanti teorici
dell’aggiustamento del sistema di capitale senza intaccarlo, in
alcuni casi chiamato anche “greeneconomy”
per la sua vocazione al “rispetto ambientale” dichiarato, non può
riguardare chi sceglie di guardare in faccia la realtà. Alcuni nomi:
Jean Paul Fitoussi, Francis Fukuyama, André Gorz, Serge Latouche,
Antonio Negri, Jeremy Rifkin e molti altri hanno in vario modo
alimentato l’interesse e le discussioni impegnate di tanti
intellettuali e politici anche “di-sinistra”,
nello sforzo di mantenere nell’ombra le strategie di sopravvivenza
del capitale. Nessuna nostalgia per la sinistra che
fu, e neppure ormai aspirazione a questa identità poco
attraente con cui essere erroneamente scambiati; o si inseguono le
trasformazioni di questo sistema nel suo permanere sostanziale, per
contrastarlo sul terreno delle sue contraddizioni individuate, o
meglio nuotare come sardine.
Gli ultimi tentativi di inquadrare i problemi ambientali si
ritrovano sotto un titolo apparentemente
cólto: Antropocene, moltopresente
nel dibattito internazionale. In questa parola si rintraccia
l’intento di caratterizzare l’epoca in cui si attua il predominio
dell’azione umana sul pianeta, assumendo l’umanità come totalità
omogenea. Per chi ha ancora di fronte l’aumento delle
“disuguaglianze sociali” lette in un’ottica di classe,
cioè funzioni di un sistema economico specifico,
tanta genericità inconsapevole, o proprio rozzezza teorica, non
riesce a convincere. Più interessante risulta invece Jason Moore che
risponde con un libro intitolato “Antropocene o Capitalocene.
Scenari di ecologia-mondo nella crisi planetaria”, per
riferirsi alle trasformazioni inscritte nei rapporti di potere
capitalistici. Il termine antropocene – scrive Moore – “diviene
problematico… se si impone, come è accaduto, come un significante
vuoto, una parola alla moda che nega ‘la disuguaglianza e la
violenza multi-specie del capitalismo’,... ponendo sullo stesso
piano sfruttati e sfruttatori, colonizzati e colonizzatori,
bombardati e bombardieri, subalterni e dominatori, espropriati ed
espropriatori”.
Senza poterci soffermare sulle articolazioni particolareggiate di
queste teorizzazioni, per ovvi motivi di spazio, si lascia agli
interessati la segnalazione dell’ultimo grido della battaglia delle
idee, con un ultimo sguardo alla cruda realtà emblematica di Taranto
sotto i nostri occhi. Ѐ un ultimo aspetto del degrado che riunisce
pertanto la natura agli umani nel loro comune squallido uso, non
all’attenzione come il riscaldamento climatico ma tuttavia efficace
nel mostrare il nesso che salda il lato distruttivo del progresso
capitalistico ai suoi miserabili fini. Produzione al massimo dello
sfruttamento lavorativo e risparmio dei costi proprietari,
massimizzazione dei profitti e inquinamento mortale allargato alla
popolazione inizialmente ignara del rischio. Tutta la zona è ormai
invasa dalle polveri sottili del “minerale” che entra nei polmoni
nella costrizione a dover continuare a morire per vivere un po’. La
violenza del profitto sembra invisibile quando non è armata con le
armi convenzionali, quando si maschera dietro l’indifferenza per la
morte altrui, dietro il silenzio del pericolo per l’altro, dietro
uno scudo legale, ecc. Anche se gli operai della ArcelorMittal non
conosceranno le teorie di bonifica di questo sistema, ora hanno ben
chiaro che la bonifica del loro habitat confligge
con gli scopi proprietari. Questi nomi sono sui loro muri.
Nessun commento:
Posta un commento