Il cortometraggio "1943-1997" di Ettore Scola proiettato al Palazzo del Quirinale in occasione della celebrazione della "Giornata della memoria" -
- “Vi hanno detto che sono stato un mostro per non farvi sapere che ho combattuto contro i veri mostri che oggi vi governano dominando il mondo”
Questa
è la pietra dell’ultimo scandalo in ordine di tempo scoppiato nel
nostro Paese perché oggetto di un tweet messo in linea giorni fa da
Emanuele Castrucci, docente ordinario di filosofia del diritto
all’università di Siena, una delle più prestigiose. Il fatto che
questo messaggio fosse corredato da una fotografia che ritrae Adolf
Hitler mentre rimira un paesaggio montuoso in compagnia di un cane,
ha tratto molti nell’inganno di credere che quell’affermazione
mostruosa fosse da addebitare al Fuhrer. Ma leggendola bene emerge
qualcosa di più grave: quello è un pensiero “hitlerizzato” del
Castrucci medesimo. Perché quelle cose Hitler non può averle
dette, a meno che non le abbia pronunciate alla fine della guerra,
magari nel bunker di Berlino poco prima di suicidarsi. Ma ciò è
ben poco credibile, mentre è assai più credibile che Castrucci,
nel tentativo di non incorrere in sanzioni disciplinari, abbia
espresso il suo pensiero e affiancandolo a quell’immagine abbia
voluto riferirsi agli ebrei e ai migranti.
Questo
non diminuisce, ma al contrario aggrava tutta la faccenda. In
maniera subdola, ma altrettanto efficace questo docente ribadisce
vecchi stereotipi antisemiti, razzisti e xenofobi che nel nostro
Paese sono tutto fuorché estranei.
D’altronde,
lo stesso “caso Castrucci” è solo la punta di un iceberg di cui
non vogliamo riconoscere le reali dimensioni e che vanno dal
razzismo quotidiano contro i neri e i migranti fino
all’antisemitismo di stampo classico come dimostrano i diversi
episodi di cui è stata vittima la senatrice Liliana Segre, a cui è
stato necessario dare una scorta perché evidentemente è in
pericolo la sua stessa incolumità fisica.
Walter
Barberis, docente di Storia Moderna all’università di Torino, in
un recente libro dal titolo assai significativo Storia senza
perdono, giustamente sostiene:
Se
[…] riteniamo […] che quella storia, per quanto eccezionale, sia
ancora pericolosamente aperta, allora dobbiamo fare in modo che le
testimonianze di quel tempo rimangano in una modalità «attiva»;
concorrano, cioè, a rifornirci di una conoscenza e di una
razionalità che ci consentano di mantenere vive le ragioni della
democrazia contro ogni tentazione autoritaria, intollerante e
razzista. Perché il punto è questo, e Levi lo diceva con
chiarezza: la storia ci insegna che il nazionalismo e il razzismo,
al fondo della loro pratica estrema, hanno avuto e hanno (corsivo
mio, C.N.) il Lager, sempre e ovunque. (1)
Questa
riflessione di Walter Barberis indica anche quanto poco nel nostro
Paese ci siamo posti il problema di far restare quella memoria in
“modalità ‘attiva’”. La questione del revisionismo storico
e politico non è nuova, in Italia come altrove, infatti nel
tentativo di arrivare ad una possibile pace sociale, si è cercato
fin dagli anni ’90 del secolo scorso di edulcorare le
contrapposizioni che avevano caratterizzato tutta la vicenda del
secondo conflitto mondiale e prima di questo dell’ascesa del
fascismo e del nazismo. Uno dei mezzi prescelti per cristallizzare
quella memoria e quella esperienza tragica, esattamente in direzione
opposta al necessario, è stato quello di “istituzionalizzare”
quelle memorie, togliendo a queste ultime quella vitalità
indispensabile perché diventassero e restassero materia viva.
Un
altro strumento è stata la cosiddetta e presunta “memoria
condivisa”, che come molto giustamente ha osservato Alessandro
Barbero, è una sciocchezza colossale, perché la memoria e la
storia sono cose diverse. Certo sono intrecciate, ma è assai
pericoloso pensare, o far in modo, che la seconda sia dipendente
dalla prima. Tutt’altra cosa è ricostruire gli eventi anche
attraverso i racconti di coloro che li hanno vissuti. Questo è
l’annoso e antico problema dell’uso delle fonti orali, che in un
conflitto per definizione non possono essere coincidenti, ma non per
questo non sono credibili, anche se sono inevitabilmente parziali,
cioè hanno una prospettiva individuale. (2)
La
riabilitazione delle pulsioni antidemocratiche si è valsa di uno
strumento di eccezionale efficacia: la banalizzazione del dibattito
storico e politico, che oggi semplicemente non esiste più, a nessun
livello. Questo metodo è in parte stato voluto deliberatamente: con
le diverse e sempre dannose riforme della scuola superiore e
dell’università che le hanno di fatto svuotate del loro ruolo di
ricerca e confronto; con la resa incondizionata della stampa e
dell’editoria alla presunta orizzontalità della “rete”;
l’imposizione dei tempi tipici della cosiddetta “rete” che in
parole povere significano l’affastellarsi rapidissimo di notizie e
presunte analisi, che vivono per un tempo brevissimo, ecc. Tutto
questo ha fatto sì che gli “episodi” eclatanti (quelli che
fanno notizia) vengano “gridati” separatamente, come fossero
unici, facendo perdere la prospettiva delle cause che li collegano.
In questo modo si spiega la moltiplicazione indecente di false
notizie che spesso tengono banco per giorni, mentre in pochi ci si
chiede come mai nell’era ipertecnologica ciò sia possibile.
Infatti, logica vorrebbe che più si affinano gli strumenti di
verifica e meno questo dovrebbe essere possibile. Mentre avviene il
contrario per il buon motivo che ormai riflettere su ciò che si
legge e ancor meno su ciò che si pensa, si scrive e si dice è un
esercizio molto poco diffuso. Anzi, chi cerca di praticarlo è
generalmente additato come un ostacolo al normale vortice folle
della nostra vita quotidiana.
Il
“caso Castrucci”, in definitiva è il risultato di tutto questo.
Ma vi si deve aggiungere anche un ultimo elemento che non è un
dettaglio: il disinteresse ormai ultradecennale e generalizzato per
ciò che avviene fuori dai confini nazionali. Fino agli anni
settanta e ottanta del secolo scorso, per fare un solo esempio, i
direttori dei grandi giornali venivano scelti prevalentemente tra i
giornalisti che avevano accumulato una buona esperienza come
corrispondenti all’estero. Questo offriva la possibilità ai
giornali di avere uno sguardo complessivo. Altrettanto, anche se
ovviamente in termini diversi e con le caratteristiche proprie, è
avvenuto in altri ambiti importanti: nell’editoria, nella
formazione del pensiero e nella politica.
In
quest’ultimo caso la cosa scandalosa è che, grazie
all’impoverimento culturale generalizzato, l’attuale classe
politica e dirigente può permettersi qualsiasi giravolta perché
ormai la memoria delle persone non riesce a ritenere che gli episodi
recenti, senza per altro riuscire a collegarli. Per questo motivo
basilare, come ha segnalato l’ultimo rapporto del CENSIS, “il
suicidio della politica”, come giustamente viene definito, porta a
pulsioni antidemocratiche e all’allarmante dato che il 48% degli
italiani vorrebbe un uomo forte al potere, senza legacci
parlamentaristici e democratici. (3) Appunto che quel “mondo
dominato dai mostri” evocato da Castrucci, che un nuovo Hitler
potrebbe liberare…
In
questo senso, temiamo che l’esortazione di Walter Barberis di far
sì che le testimonianze su quello che fu il risultato
dell’esistenza degli “uomini forti” tra gli anni ’20 e ’30
del secolo scorso, non saranno vitali se non accompagnate
necessariamente dal loro inserimento all’interno di un contesto.
Solo questo può portare ad identificare analogie e differenze tra i
diversi periodi storici.
Come
spesso accade, lo diceva anche Edward W. Said a proposito del
conflitto israeliano-palestinese, solo i grandi artisti, letterati,
registi, sono in grado di sintetizzare i grandi nodi storici. È il
caso di un cortometraggio di Ettore Scola, uno dei più grandi
registi e intellettuali italiani del secondo dopoguerra, dal
titolo 1943-1997 (4) , in cui il grande regista in
soli 8 minuti racconta la storia di un piccolo bambino ebreo che si
salva dal rastrellamento nazista del ghetto di Roma del 16 ottobre
1943 e riesce, dopo una fuga rocambolesca, inseguito dai soldati
nazisti, a trovare rifugio in un cinema. L’ultima scena, mostra
quel bambino salvato ormai anziano in un cinema che alla fine di
quelle immagini che lo riguardano, commosso si volta e vede entrare
un ragazzo adolescente, nero, che ansante dopo una lunga corsa si
siede sperando che nessuno denunzi la sua presenza. La stessa
speranza che lui ebbe quel giorno che si rifugiò nel cinema. Queste
due vite che si ricollegano sono il fondo di tutto. Perché i metodi
della persecuzione sono più o meno sempre simili a se stessi. Ma il
punto fondamentale è che oggi assistiamo ad un fenomeno di
de-alfabetizzazione culturale e politica che consente al razzismo di
affermarsi anche in ambienti che tradizionalmente invece hanno
rappresentato per molto tempo, seppure con le loro contraddizioni,
il vero apparato degli anticorpi verso le pulsioni antidemocratiche.
La
frattura tra mondo culturale, quello politico e il corpo sociale si
è prodotta, senza che nessuno se ne accorgesse, sia in senso
orizzontale che in senso verticale. Per cui oggi chi pensa perde
tempo, chi fa politica guarda al pensare come ad una malattia
pericolosissima e potenzialmente infettiva, chi lavora restringe
sempre più i propri orizzonti. Tutto questo produce una percezione
falsata delle inevitabili trasformazioni del mondo, anzi spesso
queste vengono negate se non rientrano in canoni di preservazione di
interessi specifici. Per tentare di sanare quella frattura, che oggi
si impone come un compito prioritario, sarebbe necessario
reinventare dei canali di comunicazione tra quei mondi. Un tempo
questo ruolo lo svolgevano, bene o male, i partiti di massa, le
organizzazioni sindacali e le associazioni culturali.
Si
badi bene, questa non è un’invocazione nostalgica del passato, ma
cercare una via d’uscita a situazioni che in questi primi
vent’anni del XXI secolo hanno già creato dei mostri, che vengano
dal passato oppure di “nuovo conio”, che stanno mietendo in
molte parti del mondo milioni di sfollati, centinaia di migliaia di
morti, la distruzione letterale di interi Paesi.
Oggi,
seppure comprensibile quando viene invocato dai sopravvissuti al
massacro degli anni ’40 come Liliana Segre, appare insufficiente,
se non controproducente per alcuni versi, tutto l’agitarsi che si
fa nel nostro Paese intorno alla questione dell’“odio in
politica”. Occorre rimettere dei punti cardini che non possono
essere superati, ma per far questo e non ricadere nella trappola
delle sedicenti “memorie condivise” o delle “parole
condivise”, è vitale uscire dalla genericità delle affermazioni
e delle azioni.
Un
esempio di questi giorni. Matteo Salvini ha osato dire in occasione
della scomparsa di Piero Terracina, uno degli ultimi scampati ai
campi di sterminio nazisti da dove fu l’unico a tornare della sua
famiglia dopo il rastrellamento del 16 ottobre 1943 del ghetto di
Roma, che la testimonianza di quell’uomo è stata fondamentale
perché quegli orrori non si ripetessero. A nessun giornalista, tra
quelli assiepati ad ascoltare questa enormità, è venuto in mente
di dire che a un uomo come Matteo Salvini dovrebbe essere
semplicemente impedito di parlare di queste cose perché è
responsabile dei morti nel Mediterraneo, di essersi paragonato a
Liliana Segre perché anche lui riceve minacce e insulti sui suoi
profili sulla rete web, perché il suo partito politico e il suo
bagaglio culturale, per quanto miserrimo, ha prodotto in questi anni
un clima sociale e culturale che poi è sfociato nella tentata
strage di Macerata, perché i decreti sicurezza che portano la sua
firma sono di fatto delle leggi razziali e molto altro ancora. Ma
per impedire a quest’uomo indegno e volgare di dire tali
sconcezze, facendo sentire i suoi seguaci e accoliti legittimati,
non c’è bisogno di una commissione parlamentare o di una legge
che imponga la gentilezza, ma di tornare alla consapevolezza che
come disse Carlo Levi “le parole sono pietre”, anche quando sono
utilizzate ipocritamente; occorrerebbe una presa di coscienza
generalizzata che facesse rivoltare noi tutti verso chi osa di
giorno usare ipocritamente parole e prese di posizione “condivise”
e di notte usare Anne Frank come un insulto verso l’avversario.
Questo
è un compito tanto necessario, quanto immane perché passa
attraverso la rimessa in discussione di pratiche politiche e
culturali che inseguono questi avversari al ribasso ed
esclusivamente sul loro terreno.
Ancora
più esplicitamente: quando la destra e l’estrema destra vengono
messe nelle condizioni di smascherarsi non aderendo ai cori generali
di indignazione verso certi episodi (come è accaduto con i
distinguo sulla commissione Segre in parlamento), questo è un passo
avanti e non viceversa. Se Matteo Salvini, Giorgia Meloni e compari
dicono che non potranno far parte di quella commissione, si è fatta
chiarezza.
Oggi
è molto di moda indicare la chiarezza come “divisiva”, perché
alla fine si tende comunque a cercare un presunto “terreno comune”
in nome dei “comuni valori nazionali”. Questo è l’equivoco:
chi ha un progetto di società giusta, equa e sostenibile non può
avere un terreno comune con chi predica e pratica il razzismo, il
colonialismo, invoca e mette in atto aggressioni militari (spesso
mascherate da “missioni di pace”). Questo non significa aspirare
ad una guerra civile permanente, ma, al contrario, comprendere fino
in fondo che la confusione e la generica “inclusione” è oggi il
mare torbido in cui pesca abbondantemente la destra e l’estrema
destra.
19/12/2019
NOTE
1)
Walter Barberis, Storia senza perdono, Einaudi, Torino, 2019, p. 37
2) Alessandro
Barbero: https://www.youtube.com/watch?v=3g2Ej0QO5jE
3)
Rapporto CENSIS 2019, cap. Il suicidio della politica italiana e le
pulsioni antidemocratiche: http://www.censis.it/rapporto-annuale/il-furore-di-vivere-degli-italiani
4) Ettore Scola,1943-1997: https://www.youtube.com/watch?v=ks8gqngvF_A
4) Ettore Scola,1943-1997: https://www.youtube.com/watch?v=ks8gqngvF_A
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