Leggi anche: http://gondrano.blogspot.it/2014/11/federico-caffe-e-lintelligente_16.html con, in appendice, l'intervista concessa da F. Caffè a "Sinistra 77"
https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgpkK1Dc9Yfc_r_Nce412W1UR5Ha-9DoCeZ76TZilCdTaRk7zROlNT4nKdaG-vgCtqPKW2hd05q3i5pIPBGiD1fXhE7F-hLLl-typ7JAgV399VcDbuVIp1sYECQEPs4FGVJHFzhBp7yABk/s1600/amo.png
Federico Caffè: riformista
solitario e sempre combattivo, ma forse anche uomo per cui i dolori privati e
l’infelicità pubblica avevano superato la soglia della sopportabilità. Non è
facile parlarne in modo misurato. Come recita il titolo di un libro di qualche
decennio fa, sopprimere la distanza uccide. Forte la tentazione di sovrapporre
le proprie preferenze e i propri giudizi su una figura che ha sempre brillato
per equilibrio dottrinale nella passione conoscitiva, per volontà determinata
nella battaglia riformista, per approfondimento concettuale nella costante
tensione all’intervento. Un economista che non ha mai voluto farsi profeta, e
che ha però saputo essere un maestro.
L’attenzione alla distribuzione si conferma nelle pagine di
Caffè sulla costruzione europea. La dinamica spontanea della Comunità europea
la conduce verso sperequazioni e sprechi crescenti, che si legano a enormi
divari nel salario e a un allargamento crescente della diseguaglianza: «lo
sperpero dell’Europa consiste, appunto, nella dissipazione delle risorse per
consentire un’esistenza stentata e parassitaria ai settori ritardatari, anziché
indirizzare mezzi ed energie al loro ammodernamento o per la creazione di
idonee attività sostitutive» (Esp, 82). La riduzione delle disuguaglianze è «la
condizione per trarre l’Europa dalla via dello sperpero su quella di un
costruttivo sviluppo» (Esp, 83). Non è chi non veda il contrasto con le
politiche europee di oggi, da Bruxelles a Francoforte, da Berlino a Roma; come
anche la distanza dalla facile via d’uscita della dissoluzione della moneta
unica all’insegna di nazionalismi e protezionismi malamente
nascosti (l’apertura dei mercati, direbbe Caffè, non va di per sé scoraggiata,
ma va intesa come opzione storicamente adattabile). D’altro canto, il nostro
autore, nel diverso contesto di allora, ha sempre favorito un uso accorto della
politica del cambio, come anche l’impiego di ragionevoli, circoscritti,
selettivi controlli diretti. Il punto, che Caffè applica anche all’Italia e al
suo sviluppo contrastato è che un processo di integrazione fra disuguali non
può evitare crisi e avvitamenti senza che si dia una programmazione, ma
quest’ultima è inerme se la si vuole intrappolare nei meccanismi della
imprenditorialità e del mercato, per di più da applicare nello stesso settore
pubblico, stravolgendo la natura di quest’ultimo (come chiarisce nei suoi
commenti a partire da Hotelling). I temi della diseguaglianza e della lotta
contro la povertà sono un’altra costante di Caffè, e lo conducono a posizioni
dure contro il pessimismo ecologico. È giusta, afferma, la preoccupazione per
l’ambiente ma può «distrarre dai reali problemi dell’umanità, che sono ancora
problemi di povertà e di inadeguatezza delle condizioni elementari di vita di larga
parte dell’umanità stessa» (ESP, 67): «trascurare le capacità di adattamento
dei sistemi economici, le possibilità di sostituzione, gli apporti della
tecnologia significa effettuare calcoli di banale estrapolazione e non
razionale valutazione economica» (ESP, 66).
...si tratta di ciò: di contrapporre, a chi reintroduce le
dimensioni storiche e istituzionali dentro un’analisi che inizia da un quadro
dell’economia come grande baratto di
fatto atemporale, un’analisi che all’opposto si voglia, dalle fondamenta,
monetaria e attenta alla successione delle fasi capitalistiche come
all’evoluzione del tempo storico. Dunque, una teoria della moneta (e, per chi
scrive, una teoria del valore) che non si riducano alla dimensione
dell’equilibrio, ma che incorporino al proprio interno, come dimensione
altrettanto ineliminabile, l’antagonismo sociale e la crisi. Il valore come
categoria che si definisce dentro il processo capitalistico come sequenza
essenzialmente monetaria; una sequenza dove la moneta “conta” anche fuori
dall’equilibrio, per il suo legame con la produzione. Non si parte da zero,
come ben sapeva Caffè. Il paradigma dominante non è in realtà riuscito a
digerire tutto. La teoria monetaria della produzione che da Wicksell,
attraverso Schumpeter, giunge al Keynes del Trattato
sulla moneta, rimane inaccettabile, proprio perché parte da grandezze
“macro-sociali” e da flussi immediatamente monetari, che governano la
produzione e l’allocazione dei beni. Analogamente, e ancor più ovviamente,
incomprensibile risulta all’economia di oggi la centralità del conflitto di
classe nella produzione come sorgente ultima delle trasformazioni tecnologiche
e organizzative del capitalismo nell’ottica marxiana. È indubitabile che
dall’inizio degli anni Ottanta queste due sono state le gambe su cui si è mossa
la dinamica capitalistica e lo stesso intervento di politica economica: la
politica monetaria come strumento della redistribuzione del reddito e della
gestione politica della domanda; e la metamorfosi dell’impresa nelle nuove condizioni
del mercato, che ha finito con il ridefinire la natura e la qualità del lavoro.
Ascesa e collasso del
neoliberalismo, e la terza crisi della teoria economica
... Le interpretazioni eterodosse spesso resuscitano gli
aspetti più obsoleti del keynesismo, del ricardismo e del marxismo. La lettura
probabilmente più diffusa della crisi la riconduce a una versione del
sottoconsumismo (quando Marx, Keynes e la stessa Luxemburg sono, come Minsky,
teorici del sotto-investimento come forza determinante la recessione e depressione,
e certo non teorici di una crisi da bassi salari). In ambito marxista ortodosso
si resuscita la caduta tendenziale del saggio del profitto. Nel primo caso, si
riconduce la crisi di oggi agli anni Ottanta, nel secondo (almeno) agli anni
Sessanta. Tutto ciò non può spiegare in un colpo solo la bassa crescita dopo la
controrivoluzione neoconservatrice di Thatcher e Reagan, il “nuovo” capitalismo
dei Novanta, il ritorno della instabilità finanziaria nel centro capitalistico
dell’ultimo decennio, la crisi sistemica di oggi. E certo non tiene conto di
quello che è stato nei fatti il neoliberismo. Occorre invece mobilitare
un’analisi che parta non dal sottoconsumo e dalla distribuzione ma dalla
finanza e dalla produzione (non solo nella loro contraddittorietà ma nella
reciproca funzionalità). Un’interpretazione unitaria che sia in grado di dar
conto tanto della ascesa quanto del crollo del “nuovo” capitalismo: qualcosa
che sia in continuità con le osservazioni di Caffè su Minsky. E, che sia pure
incompiutamente e limitatamente, il nostro economista seppe cogliere: «La forza
contaminante del denaro e del potere non crea meramente problemi di
“imperfezioni” del mercato, ma ne influenza l’intero funzionamento» (Problemi controversi sull’intervento
pubblico nell’economia, in «Note Economiche», n. 6, 1979).
...All’inizio degli anni Ottanta, reagendo alla Grande
Stagflazione degli anni Settanta, era stata attuata una svolta ad U della
politica economica, con l’avvento delle politiche “monetariste”. Controllando
rigidamente l’offerta di moneta, e facendo schizzare verso l’alto i tassi di
interesse nominali e reali (cioè depurati dal tasso d’inflazione), si pensava
di porre un freno all’aumento dei prezzi. Il risultato venne in effetti
ottenuto, ma l’alto costo del denaro fece sì che crollassero gli investimenti
privati. Intanto, la spesa pubblica, soprattutto sociale, veniva compressa, le
condizioni del lavoro peggioravano, cadevano salari e domanda di consumi.
Tornava lo spettro di una grande crisi per insufficienza di domanda effettiva,
come negli anni Trenta. Con il paradosso che intanto gli alti tassi di
interesse iniziavano a far esplodere l’indebitamento pubblico, visto che i
governi erano costretti a trovare i fondi per la propria spesa in disavanzo
emettendo titoli sul mercato.
Lo stesso Reagan, nel secondo mandato della sua presidenza,
provvide a bloccare questa deriva fornendo domanda all’interno grazie a un
balzo verso l’alto della spesa militare, il che produsse un aumento del
disavanzo dello Stato. Intanto, la bilancia commerciale degli Stati andava in
passivo nei confronti del resto del mondo, fornendo così domanda a quei paesi
neomercantilisti che – come Giappone, Est Asia, Germania e Nord Europa –
ottenevano profitti grazie a esportazioni di merci in eccesso rispetto alle
importazioni (a questi paesi si è oggi aggiunta la Cina). Il monetarismo duro
dei primi tempi si andava mutando in una sorta di paradossale “keynesismo
militarizzato”. Pochi anni dopo, dal 1987, quando Greenspan sostituisce Volcker
alla testa della Fed, le cose cambiano ancora. Sui mercati finanziari inizia
una lunga corsa verso l’alto dei prezzi delle attività finanziarie. Le famiglie
venivano incluse in modo subordinato nei mercati finanziari, i loro risparmi
venivano affidati a dei gestori dei “soldi degli altri”, che imponevano alle
imprese rendimenti elevati nel breve termine, e dunque una ristrutturazione
continua. Le condizioni del lavoro peggioravano (si costituiva la figura del
“lavoratore traumatizzato”) e la grande impresa verticalmente integrata veniva
sostituita da unità produttive connesse in rete. I risparmiatori vedevano
crescere, apparentemente senza limiti, il valore della loro ricchezza. Questa
fase “maniacale” del risparmiatore consentiva alle famiglie di indebitarsi con
le banche: la figura del “consumatore indebitato” spiega molto della crescita
del capitalismo degli anni Novanta e degli anni Duemila.
Parte dell’Europa (in cui potremmo includere alcune regioni
italiane) procedeva secondo un diverso modello. La Germania e i suoi
“satelliti” (essenzialmente, Olanda, Belgio, Austria, Svizzera, Finlandia)
godevano di esportazioni nette, in gran parte verso il Sud Europa. Negli anni
recenti questa dinamica si è rinforzata, e ha consentito di superare un
disavanzo strutturale nei confronti della Cina e il ridursi degli sbocchi negli
Stati Uniti. Ciò ha richiesto che gli altri paesi europei fossero “legati” o da
un accordo di cambio che impedisse svalutazioni competitive (il Sistema
Monetario Europeo) o la partecipazione alla moneta unica. Le aree del
Sud-Europa hanno visto aumentare i disavanzi pubblici per sostenere il reddito
e l’occupazione. La crescita trainata dalle bolle finanziarie si è rivelata
insostenibile. Una prima grave crisi è scoppiata nel 2000 quando si è sgonfiata
la internet economy. Nel 2007 veniva
a termine la bolla del mercato immobiliare americano. Dalla metà del 2007 alla
metà del 2008 la crisi globale è finanziaria, mentre la crisi reale colpisce
solo alcuni paesi. Ma la crisi reale rapidamente diviene universale nel corso
del 2008: crolla l’attività produttiva, dagli Stati Uniti alla Cina, dalla
Germania all’Italia, e così via. Lo spettro del Grande Crollo degli anni Trenta
spinge dapprima a politiche “keynesiane”, sia pure in un senso limitato e
meccanico: le banche centrali inondano le economie di liquidità, quasi ovunque
i bilanci dello Stato vanno sempre più in rosso, spesso in forza degli
stabilizzatori automatici.
Questa fase “keynesiana” termina a metà 2009, quando si
intravedono “germogli di ripresa”. La priorità diviene ora la stretta fiscale.
È una scelta suicida. Quando la crisi scoppia, il risparmiatore passa dalla
fase “maniacale” a quella “depressiva”, deve spendere meno per uscire dal
debito. Lo stesso fanno le imprese, che si sono trovate all’improvviso
anch’esse indebitate. È la deflazione da debiti, di cui già discorreva Irving Fisher:
nessuno spende, dunque i redditi cadono, e l’atteso risparmio non si
materializza. Lo Stato potrebbe evitare questo destino, ma invece di stimolare
l’economia con disavanzi “buoni” che producono valori d’uso per la collettività
e aumento dei salari, contribuisce alla depressione con l’austerità. È una
crisi che investe con violenza il mondo del lavoro, e prelude a un attacco
particolarmente violento all’occupazione e alle condizioni di lavoro nel
settore pubblico. Ma ha anche una chiara dimensione di genere: benché la crisi
abbia dato l’impressione di favorire le donne (i settori più colpiti erano
all’inizio a occupazione prevalentemente maschile), è sempre più chiaro che gli
impieghi che si aprono sono poco qualificati, precari o part-time. Sulle donne
si scaricheranno anche i costi della riduzione del welfare e della
ristrutturazione del pubblico impiego.
In Europa la crisi è venuta dall’esterno. Il debito privato
si è trasformato in debito pubblico. Lo stato della finanza pubblica europea
non è certo più preoccupante di quella statunitense, inglese o giapponese.
L’unico paese che avesse dei seri problemi di finanza pubblica prima della
crisi era la Grecia. Negli anni della bolla immobiliare, Irlanda e Spagna erano
modelli di finanza “sana”. Sono state le politiche europee, i vincoli arbitrari
di Maastricht e la resistenza (sinora) della Banca Centrale Europea ad agire
pienamente e senza condizionalità quale prestatore di ultima istanza dei
governi a impedire di bloccare la spirale depressiva. Trattare la propria
moneta come se fosse una valuta straniera, regolata da poteri esterni, o
pretendere che tra le regioni di una medesima area monetaria (dove gli
squilibri non possono che essere la norma) non vi siano trasferimenti
compensativi, non può che preludere al disastro. L’esistenza della moneta unica
è in dubbio, e la sua sopravvivenza rischia di essere conquistata nel segno di
una stagnazione permanente.
L’Italia dentro la
crisi
Se volgiamo lo sguardo al nostro paese, sappiamo bene che
l’Italia è spesso, e con molte ragioni, raffigurata come il malato d’Europa. Le
ragioni principali che vengono addotte riguardano quattro dimensioni. La prima
è la finanza pubblica. La seconda è l’andamento del reddito pro-capite e della
produttività per addetto. Il terzo è il declino produttivo. Il quarto la
perdita di competitività e il rosso nei conti con l’estero.
...I veri problemi italiani stanno nella bassa crescita, più
che nella finanza pubblica. Semmai, le politiche per abbattere il debito
pubblico si rivelano controproducenti. Negli ultimi due anni la crisi italiana
si presenta di particolare gravità nel contesto europeo perché è l’Italia il
paese che – con l’ultimissima fase del governo Berlusconi, prima, e il governo
di Mario Monti, poi – ha fatto uno sforzo di restrizione fiscale tra i più
drastici in Europa, frenando la domanda interna, e affidandosi esclusivamente
(nel bel mezzo di una crisi generale) al contributo della domanda estera netta.
Se guardiamo al primo decennio degli anni Duemila, vediamo che la dinamica del
PIL italiano è stata praticamente nulla, a fronte di una bassa crescita francese
tedesca (salvo negli ultimissimi anni,
prima di una ricaduta della stessa Germania nella recessione), e di una
crescita ben più sostenuta della periferia prima della crisi. La crescita
italiana aveva iniziato a essere più bassa della media europea già dagli anni
Novanta; media europea che a sua volta era sopravanzata nettamente dalla
velocità di sviluppo degli Stati Uniti (per non dire della Cina e di gran parte
dei paesi asiatici). Un destino di stagnazione che accomuna l’Italia al
Giappone. Ancora peggio vanno le cose per quel che riguarda la produttività per
addetto, che sempre nel primo decennio del nuovo millennio è stata addirittura
negativa.
I fattori che hanno condotto a questo esito sono noti.
L’Italia ha vissuto una tendenza di lungo periodo alla riduzione
dell’occupazione nell’industria manifatturiera, con un crollo in particolare
nelle imprese di grandi dimensioni. La grande industria è quasi scomparsa, a
parte la Fiat, in crisi sul mercato interno ed europeo. Ciò ha significato
l’abbandono, o la marginalizzazione, di numerosi settori (elettronica,
telecomunicazioni, chimica e petrolchimica, farmaceutica, macchine per uffici,
mezzi di trasporto). L’ondata di privatizzazioni ha trasformato molte
concentrazioni pubbliche in imprese private collettrici di rendite. Predomina
la dimensione piccola e piccolissima delle unità produttive, il cosiddetto
“nanismo”. I distretti industriali, una volta fiorenti, sono in molte zone in
crisi. La specializzazione dei produttori italiani è per lo più in settori
tradizionali. Basso è l’impegno nella ricerca e sviluppo o nell’innovazione di
prodotto. Gli investimenti sono stati adattivi, e la domanda di nuovi beni
capitali si traduce sovente nell’importazione di macchinari dall’estero.
Tutto ciò non stupisce. Non stupisce perché (come si è
ricordato) la bassa produttività è la naturale conseguenza, innanzi tutto, di
una massiccia ondata di privatizzazioni. Non stupisce, poi, perché alla carenza
di innovazione e politiche industriali si è sopperito con una continua
deregolamentazione del mercato del lavoro, quale che fosse il colore dei
governi, che pretendendo di aumentare la flessibilità del lavoro ne produceva
invece una vistosa precarizzazione. Non stupisce, infine, perché quanto precede
si traduceva in una dinamica ridotta dei salari unitari (anche se il costo del
lavoro unitario poteva nondimeno aumentare, vista appunto la bassa produttività
per lavoratore). Diveniva quindi possibile ottenere profitti o sopravvivere sui
mercati senza rinnovare gli impianti, ma sfruttando di più la forza-lavoro,
lungo la via bassa di una più intensa e lunga durata del tempo di lavoro. Sono
i bassi salari e la precarizzazione del lavoro a dare conto di un dato che
altrimenti potrebbe stupire: che questa realtà produttiva declinante si sia
accompagnata per molto tempo a una significativa riduzione della
disoccupazione.
A questo punto pare trovare spiegazione il crescente
disavanzo della bilancia di conto corrente. In un contesto di investimenti non
particolarmente dinamici, di bassi salari, di disavanzi pubblici tenuti sotto
controllo, la spinta a trovare domanda nei mercati esteri si è scontrata con il
problema della ridotta competitività (dovuta alla bassa innovazione, alla
precarietà, alla dimensione d’impresa, alla specializzazione settoriale). Ciò
si è accoppiato al fatto che nell’UME l’Italia ha subito il cambio ormai
irrevocabilmente fisso: la sua inflazione più elevata e la sua produttività
azzerata hanno determinato l’ascesa relativa del costo del lavoro per unità di
prodotto. Dentro l’area dell’euro, la possibilità della svalutazione
competitiva è stata cancellata, e si è rimasti disarmati rispetto alla
deflazione competitiva. Le difficoltà sempre più gravi nella bilancia delle
partite correnti si riflettevano in un forte indebitamento con l’estero, e in
una crescente quota del capitale straniero nel rifinanziamento del debito
pubblico – quest’ultima circostanza, se all’inizio ne riduceva i costi, nel
lungo periodo accresceva la vulnerabilità dell’Italia alle fughe dei fondi e
agli attacchi della speculazione.
Il quadro negativo sulla produttività e sulla bilancia
commerciale va peraltro qualificato. Qui ancora una volta si conferma la
correttezza dell’atteggiamento di Caffè: che non ha mai tessuto lodi di
presunti “miracoli” italiani («non ho mai condiviso l’abbaglio del “miracolo
economico” proprio per la costatazione quotidiana delle carenze che si venivano
determinando in uno sviluppo trainato unicamente dal “mercato” e per l’assenza
di una coerente politica dell’occupazione», in ESP, 113), ma si è altrettanto
guardato dal levare alti lai su un ineluttabile declino («non ritengo d’altra
parte che colgano nel segno le visioni pessimistiche sul futuro del paese», in
ESP, 113), semmai sottolineando gli aspetti di adattamento e di vitalità.
Per quanto riguarda la produttività, il suo basso livello è
dovuto, oltre che alle carenze strutturali che ho ricordato, alla bassa
produzione legata alla bassa domanda. Prima della crisi, l’Italia cresceva sì
poco, ma più della Germania; e le aree che crescevano di più lo facevano sulla
spinta del debito privato, che si è rivelato insostenibile. Per quanto riguarda
la bilancia commerciale, basti segnalare che l’Italia è pur sempre il secondo esportatore manifatturiero
d’Europa, e che il suo passivo scompare se si escludono le importazioni legate
alla dipendenza energetica. In particolare, si riscontra un surplus
manifatturiero in settori come l’abbigliamento, la moda, il vino, l’automazione
e la meccanica non elettronica: ovvero il made
in Italy di qualità, e la subfornitura dell’apparato produttivo del
centro-Europa.
Già nella crisi del 2000-2003 l’Italia ha visto una sorta di
selezione forzata all’interno dell’universo delle piccole e medie industrie: da
un lato, vedendo andare in crisi o esternalizzare ad Est i segmenti più poveri;
e, dall’altro lato, vedendo ridurre le quantità prodotte ma crescere la qualità
e il valore aggiunto per quel che riguarda le imprese più dinamiche. In questa
parte dell’apparato industriale italiano la produttività oraria è significativa
(e certo i salari non ne tengono il passo). Il declino dei vecchi distretti
industriali si accompagna al parto di quello che viene chiamato il “quarto
capitalismo”: le c.d. multinazionali tascabili, forti nell’innovazione e nel marketing, capaci di penetrare i mercati
d’oltrefrontiera e di effettuare investimenti diretti all’estero. Il limite di
questo fenomeno, come già era stato nel caso dei distretti, è che non può
esaurirsi in queste imprese la presenza industriale di un paese avanzato come
l’Italia. È una configurazione fragile: le piccole e medie imprese sono
incapaci di raggiungere autonomamente una massa critica nella ricerca e
sviluppo; la crescita dipende dalle alterne vicende della domanda estera; non
si costruisce una coerenza e completezza della struttura intersettoriale
dell’economia. Ciò obbliga, per sopravvivere, a una ristrutturazione continua
e, in molti casi, a un peggioramento progressivo delle condizioni del lavoro,
quanto più migliora la qualità della concorrenza della Cina e dei paesi
emergenti.
Il caso italiano mantiene una sua eccezionalità esemplare,
anche dopo l’esaurirsi prima dello sviluppo economico dentro la c.d. golden age del secondo dopoguerra (gli
anni Cinquanta e primi Sessanta), poi la crisi capitalistica della fine dei
Sessanta e Settanta. Dagli anni Ottanta, il declino relativo dell’economia
italiana ha assunto caratteri contraddittori, presentandosi progressivamente
come il negativo fotografico della dinamica capitalistica mondiale nell’era del
neoliberismo, e come paradigmatico del possibile destino della stagnazione
europea esito del neomercantilismo. In Italia, come altrove, una possibile via
di uscita sarebbe possibile solo a condizione di procedere su vie radicalmente
nuove, che coniughino politiche attive dal lato della domanda ad una
ridefinizione strutturale dal lato dell’offerta.
La socializzazione
dell’economia, i disavanzi buoni, e il piano del lavoro
È qui che l’insegnamento di Caffè torna ad essere prezioso,
“inattuale” nel senso di Nietzsche – fonte fertile di una riflessione e di un
agire contro il tempo, e in tal modo sul tempo, a favore di un tempo venturo. È
un altro punto di convergenza con Minsky. Per approfondire questo punto, è bene
tornare ad alcuni saggi contenuti nei volumi Studium.
In un saggio di “reminiscenze” sul Piano del Lavoro della
CGIL, Caffè osserva che «all’epoca del Piano i giochi erano fatti in tutti i
sensi» (ESP, 94), economico e politico: la scelta irreversibile verso una
economia aperta non era capace di erodere le posizioni monopolistiche e
parassitarie, né conduceva a contrastare le esportazioni illegali di capitali;
l’emarginazione delle forze politiche progressiste frustrava la partecipazione
popolare e le potenzialità di rinnovamento. Ciò, peraltro, non significava che
non vi fosse un fondamentale insegnamento valido nel Piano del Lavoro: il
«collegare l’obiettivo dell’occupazione con un programma di “cose da fare”,
senza condizionare l’attesa drammatica del posto di lavoro all’aspettativa
inconcludente del crollo del sistema capitalistico» (ESP, 96). Caffè qualifica
questa prospettiva come «riformismo gradualistico», ma non si vede proprio cosa
vi sia di moderato in tutto ciò, tant’è che lui stesso rimanda a Gramsci che
scrive che si tratta di «proporre fini discreti, raggiungibili pur nell’intento
di approfondirli ed estenderli» (ESP, 97).
È questo lo stesso Caffè che poche pagine dopo, citando
Franco Fortini, pare intendere con trent’anni di anticipo il senso dell’ascesa
e del crollo del neoliberismo come si è davvero dato: è «la conferma che lo
sviluppo capitalistico, grazie alle sue crisi e ai suoi ritorni, drena sempre
nuovi strati sociali, produce anzi sempre nuovi colonizzati interni, almeno da
noi, da usare come deterrente nei confronti del lavoro comunque privilegiato»
(ESP, 115). L’alternativa è una economia di piena occupazione, ma questa
richiede una riforma fondamentale del contesto istituzionale, e richiede verosimilmente
«controlli sul commercio con l’estero, controlli sui prezzi, controlli sulla
localizzazione delle industrie, estensione dell’azione dello Stato anche ai
fini della regolamentazione complessi- postfazione 161 va dell’investimento
privato» (EC, 174). Una vera e propria «economia dei controlli» (EC, 176), o
ancora una «amministrazione globale della offerta» (EC, 185).
Siamo non lontani dal cuore della riflessione di Minsky, per
quel che riguarda la sua proposta di politica economica (e di politica tout court) negli stessi anni, nel John Maynard Keynes recensito da Caffè.
L’orizzonte è quello di una socializzazione industriale e della struttura
produttiva, una socializzazione della banca e della finanza, una
socializzazione dell’occupazione: di fatto, della rimessa in questione del che
cosa, quanto e come produrre. Un punto di vista che va ben oltre il keynesismo
che ora torna di moda, come dimostrano queste frasi dell’economista
statunitense: «Siamo quindi costretti a ritornare alla questione normativa di
fondo: per chi deve essere fissato il gioco e a che tipo di produzione dobbiamo
dar vita? Se il fine perseguito è il raggiungimento di uno stato vicino alla
piena occupazione, allora possiamo dire che, finora, il sistema della rincorsa
tra bisogni e sprechi si è dimostrato efficace. Grazie a investimenti che non
hanno apportato incremento alcuno (o quasi) a un capitale utile, grazie a
costanti preparativi bellici e grazie a un consumismo sfrenato si è riusciti a
mantenere la piena occupazione. Risolto così il problema della disoccupazione e
del ristagno, il risultato però non è stato un senso di miglioramento del
benessere degli individui. Ricchi e poveri si sentono al centro di un insensato
vortice inflazionistico, mentre tutt’intorno l’ambiente biologico e sociale si
inquina. Inoltre, siccome livelli elevati e sostenuti di investimenti e
profitti dipendono da, e favoriscono, la speculazione sulle strutture delle
passività, le fasi espansive diventano sempre più difficili da controllare;
l’unica alternativa sembra essere quella di far galoppare l’inflazione o
provocare un processo di deflazione da debiti che potrebbe concludersi in una
grave depressione economica» (Keynes e
l’instabilità del capitalismo, Bollati Boringhieri, Torino 2009, pp.
215-216, traduzione leggermente modificata).
Si potrebbe chiedere: dov’è la novità? Non era stato Keynes
stesso a parlare di socializzazione degli investimenti? Le cose stanno
diversamente, a chi abbia pazienza di leggere davvero le pagine di Minsky. La Teoria Generale è stato il prodotto
degli anni “rossi”, e Keynes ne sottolineava piuttosto le implicazioni
conservatrici, dove Minsky invece è alla ricerca di una virtuosa combinazione
di capitalismo e socialismo. Per il keynesismo “bastardo” (per impiegare il
termine reso famoso da Joan Robinson), una volta raggiunto il pieno impiego
grazie ad adeguate politiche di stimolo a un elevato investimento privato, non
vi sarebbe ragione di criticare l’allocazione di mercato delle risorse. Queste
tesi hanno, secondo Minsky, la loro radice nelle ambiguità dello stesso Keynes.
Minsky (come probabilmente lo stesso Caffè) obietterebbe a un mero “ritorno” al
keynesismo, un approccio che a suo parere non è mai stato adeguato. Ha prodotto
una forma di capitalismo dove la tassazione e i trasferimenti governavano il
consumo privato, la politica monetaria regolava l’investimento privato, la
spesa pubblica portava con sé spreco e armamenti, le rendite di posizione
venivano favorite, la finanza tornava in posizione di comando. Una strategia
“alti profitti-alti investimenti” [privati], che portava con sé consumi
artificiali e metteva a rischio l’equilibrio ambientale e sociale. Per questo,
insiste Minsky, occorre tornare alla prima casella, al 1933: pensare per la
prima volta davvero un New Deal keynesiano che dia risposta alle domande
cruciali: per chi è condotto il gioco? che tipo di prodotto vogliamo, come
società?
Per Minsky, come per il Caffè di queste pagine, la struttura
reale del consumo va in fondo determinata dalla domanda dello Stato, e più in
generale del “pubblico”, in quanto spesa per investimenti (che può perciò
essere permanentemente in disavanzo). Una socializzazione dei settori guida
dell’economia (dei towering heights),
un consumo collettivo (communal), con
controlli di capitale, finanza regolata, banche come public utilities, lo Stato quale creatore diretto di occupazione, e
così via. Non è Lenin: è la tradizione di Paolo Sylos Labini, Ernesto Rossi, di
Alberto Breglia così amato da Caffè (cfr. ESP, 93). Trova qui spazio – come ci
ricorda Alain Parguez – una politica di disavanzi “buoni” dello Stato:
pianificati ex ante, per dar vita a, e ampliare costantemente, una quantità e
qualità crescente di risorse produttive utili al fine del benessere collettivo,
ovvero investimenti di lungo periodo in beni tangibili (infrastrutture,
trasporti, ambiente, etc.) e intangibili (salute, ricerca, educazione, etc.).
Residua evidentemente un problema, che noi abbiamo
squadernato davanti ai nostri occhi, ma che già percepiva Caffè. L’insegnamento
keynesiano non è apologetico del capitalismo, ma si colloca all’interno del
sistema capitalistico, di cui vuole solo correggere i difetti più evidenti; ma
l’attuazione «necessariamente gradualistica» (ESP, 117) delle riforme
correttive spetta alle persone poste in posizione di responsabilità. Possiamo
contarci? Nelle pagine dei due volumi Studium è evidente che Caffè sfugge a un
confronto in profondità con un autore che pure stima profondamente, e che al
tempo stesso lo inquieta: Michał Kalecki («uno studioso di straordinaria
levatura, ma la cui del tutto inappropriata strumentalizzazione finisce per dar
giustificazione persino alle pesanti annotazioni sul filo della memoria di
Harry G. Johnson», EC, 91).
In Kalecki abbiamo a che fare con un economista da cui per
molti versi si possono derivare conclusioni analitiche vicine al Keynes del Trattato sulla moneta e della Teoria Generale, ma in un’ottica
dichiaratamente di classe, e che (forse per questo?) è in grado di individuare
i limiti sociali e politici di Keynes e del keynesismo. Un autore che a
differenza di Caffè (che se la sbriga riducendo a «suggestive espressioni
letterarie» le proposizioni profetiche dell’economista polacco), e forse dello
stesso Minsky, non cade nella illusione di ritenere che il capitalismo sia
compatibile con una piena occupazione (con lavori e salari “decenti”) che sia
duratura.
Potrebbe non aver torto il Paul M. Sweezy citato dallo
stesso Caffè, che con tutta evidenza rispetta il marxista americano, ma che
chiaramente non condivide questa sua conclusione, che invece a me pare di
permanente attualità (ESP, 51): «parlare di riformare il capitalismo significa
peccare di ingenuità o di doppiezza. Ricchezza, privilegio, potere vanno insieme
ed appartengono ad una classe che combatterà sino in fondo per preservare il
loro monopolio, consentendo soltanto quelle riforme e quel margine di libertà
ai riformatori che rispondano ai loro interessi». D’altra parte, quella realtà
paradossale che è il capitalismo è tale che forse proprio soltanto se si è radicali,
e persino rivoluzionari, e in questo lontani dal “gradualismo” tanto caro a
Caffè, si è in grado di strappare quelle riforme che tornino al significato
originario del termini, che siano cioè avanzamenti significativi nel benessere
e nella civiltà, e non invece lo strumento di un loro drastico (e per certi
versi barbarico) ridimensionamento. Da che parte penderà la storia è un compito
lasciato alla nostra responsabilità.
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