Un confronto a tutto campo sui temi teorici e politici del
nostro tempo, per mettere alla prova l’attualità del metodo di analisi
marxista. Ma anche un’occasione per commentare le posizioni assunte da alcuni
studiosi annoverabili nella “foto di famiglia” del marxismo, tra cui Negri,
Fusaro e Losurdo. Conversazione con l’autore del saggio “Anti-Blanchard”,
appena uscito in edizione aggiornata, dedicato a una critica del modello
macroeconomico prevalente insegnato dall’ex capo economista del FMI.
Era il 2003 quando Robert Lucas, esponente di punta del
pensiero economico ortodosso nonché premio Nobel, dichiarò trionfante che «il
problema centrale della prevenzione delle recessioni è stato risolto». Da
allora non è passato molto tempo, eppure quell’ottimismo sembra appartenere a
un’epoca lontana. L'emergere di quella che il Fondo Monetario Internazionale ha
definito la “grande recessione” ha riportato alla ribalta una visione
alternativa, tipica delle scuole di pensiero critico, secondo cui il
capitalismo tende strutturalmente a entrare in crisi. Tuttavia, anche tra i
critici dell’ortodossia le valutazioni sulle cause del disastro attuale non
sono univoche. Ne discutiamo con Emiliano Brancaccio, docente di Economia
politica presso l’Università del Sannio, autore di vari saggi dedicati al tema
marxiano della “centralizzazione del capitale” pubblicati sul Cambridge Journal
of Economics e su altre riviste internazionali. Brancaccio è anche autore della
nuova edizione aggiornata dell’Anti-Blanchard, un saggio critico verso il
modello macroeconomico insegnato dall’ex capo economista del Fondo Monetario
Internazionale Olivier Blanchard e dagli altri esponenti della teoria
dominante.
Il Sole 24 Ore qualche anno fa ti ha definito uno
studioso “di impostazione marxista ma aperto alle innovazioni ispirate dai
contributi di Keynes e Sraffa”. Ti riconosci in questa etichetta?
Dovremmo innanzitutto chiarire cosa si intende per
“impostazione marxista”. Il marxismo novecentesco è stato attraversato da varie
correnti di pensiero, spesso confliggenti tra loro. Nel pensiero di alcuni
studiosi che si definiscono marxisti confesso che faticherei a riconoscermi.
Personalmente mi sento vicino alla tesi centrale di Althusser: pur con tutti i
limiti tipici dei pionieri, Marx ha aperto alla ricerca scientifica un nuovo
continente, quello della Storia. E’ bene chiarire che questa tesi althusseriana
è antitetica a quella corrente marxista che va sotto il nome di storicismo. Per
Althusser, nel nucleo dell’analisi marxiana non c’è nulla di teleologico, non
si intravede nessun destino già scritto della storia umana. Stando a questa
interpretazione, il nocciolo dell’analisi di Marx, rigorosamente circoscritto,
ha per oggetto il meccanismo di funzionamento del modo di produzione
capitalistico, in particolare le sue condizioni di riproduzione, di crisi e di
trasformazione. Io studio tali condizioni avvalendomi di un metodo di analisi
che rifiuta le banalizzazioni tipiche del vecchio individualismo metodologico e
che parte invece dal riconoscimento della divisione in classi della società: si
tratta di un metodo estremamente moderno, che prende le mosse
dall’epistemologia di Marx ma che oggi trova nuovi riscontri negli sviluppi delle
neuroscienze e della psicologia sociale. Ovviamente, una volta scelto il
paradigma epistemologico marxiano come riferimento, è possibile trarre
indicazioni anche da altri percorsi di ricerca. L’esplorazione delle condizioni
di riproduzione e di crisi del capitalismo è un’impresa titanica, collettiva
come tutte le imprese scientifiche, e procede anche grazie all’apporto di
protagonisti del pensiero economico novecentesco come Keynes, Sraffa ed altri,
non tutti necessariamente di matrice marxista […].
Vorrei che ci soffermassimo su alcune interpretazioni
eterodosse della “grande recessione”, in varia misura collegabili al dibattito
marxista sul tema. Una posizione piuttosto diffusa, appoggiata ad esempio dai
teorici della rivista “Monthly Review”, è quella che attribuisce la crisi del
nostro tempo al seguente meccanismo: la controrivoluzione neoliberista ha
portato ad un abbassamento della quota salari; per sostenere la domanda privata
è stata quindi necessaria un'enorme estensione del credito e lo scoppio della
bolla nel 2007 ha interrotto il meccanismo. Altri pensatori, come il marxista
americano Andrew Kliman, ritengono che le cause della crisi non si possano
trovare nella distribuzione dei redditi e che la depressione sia spiegabile in
base alla tesi della caduta tendenziale del saggio di profitto. Una visione
tutta improntata sulla produzione. Tu cosa ne pensi?
La teoria di Kliman è suggestiva ma risulta viziata da
alcune incongruenze teoriche, che sono state messe bene in luce da Gary
Mongiovi e altri. Tra coloro che sostengono la tesi della caduta tendenziale
del saggio di profitto, reputo più convincenti le ricerche di altri studiosi,
come ad esempio Gerard Duménil e Dominique Levy. Anche in Italia sono stati
realizzati alcuni lavori interessanti sul tema, ad esempio da Stefano Perri.
Dal punto di vista empirico, tuttavia, l’idea più circoscritta, secondo cui la
“grande recessione” di questi anni sarebbe stata indotta da una tendenziale
caduta del saggio di profitto, si scontra con il fatto che negli Stati Uniti e
nell’Occidente capitalistico prima del 2008 il saggio di profitto ha fatto
registrare un andamento quanto meno non decrescente. Riguardo invece all’altra
teoria della crisi, quella che fa capo alla caduta della quota salari, in
effetti la sua formulazione è meno controversa sul piano teorico e gode anche
di evidenze empiriche più favorevoli. Anch’essa però incontra ostacoli
insormontabili se si pretende di considerarla esaustiva: basti notare che
l’impatto dei cambiamenti nella distribuzione dei redditi sulla dinamica
economica di lungo periodo non risulta così ampio da giustificare da solo il
tracollo iniziato nel 2008.
A tuo avviso, dunque, un’unica spiegazione esaustiva
della crisi non esiste?
Le crisi di riproducibilità del modo di produzione
capitalistico sono fenomeni complessi. Alcuni epigoni di Marx insistono nel
ricercare una causa unica, lineare, di facile lettura, ma questa loro ambizione
è frutto di un pensiero ingenuo, oserei dire magico, che è rimasto sempre ai
margini della ricerca di frontiera. Del resto, il Capitale non avvalora affatto
letture univoche del fenomeno della crisi. Basti notare che Marx lascia aperta
la questione del rapporto contraddittorio tra la tendenza alla caduta del
saggio di profitto e le rispettive controtendenze. Quanto alla famigerata frase
del terzo libro, secondo cui «la causa ultima di tutte le crisi reali rimane
sempre la povertà e il consumo ristretto delle masse, di fronte alla tendenza
della produzione capitalistica a sviluppare le forze produttive come se
solamente il potere di consumo in termini assoluti dell’intera società dovesse
essere il loro limite», essa è stata talvolta interpretata come una conferma
del primato assoluto che Marx avrebbe attribuito al problema della caduta della
quota salari e al conseguente sottoconsumo dei lavoratori. Ma come gli
esponenti della Monthly Review sapevano, in realtà quella frase svolge una
funzione più limitata, che tra l’altro può esser compresa solo tenendo conto
del fatto che lì si parla di causa «ultima», ossia situata a valle di un intero
e ben più articolato processo.
In molti tuoi lavori, però, anche tu sembri ricercare dei
meccanismi prevalenti, delle “leggi di tendenza” del capitalismo verso la
crisi.
Certo. Riconoscere la complessità del capitalismo non
significa rassegnarsi a una sua presunta indeterminatezza. Se io critico le
idee di “destino umano” che sono implicite nello storicismo ed anche in certe
versioni semplificate della legge di caduta tendenziale del saggio di profitto,
è proprio per liberare l’analisi marxiana da alcune sue banalizzazioni e per
mettere in evidenza il suo enorme potenziale scientifico. Insomma, dobbiamo
ricercare le “leggi di tendenza” del capitale senza cadere in una banale
teleologia storicista: questo mi sembra tuttora un buon programma di ricerca,
che potremmo sintetizzare nel vecchio proposito, sempre promettente ma un po’
dimenticato, di rileggere Marx dopo Althusser.
A proposito di ricerca delle “leggi di tendenza del
capitale”, mi vengono in mente i tuoi studi sulla “centralizzazione”, vale a
dire la tendenza del capitale a concentrarsi in sempre meno mani, a seguito di
bancarotte, liquidazioni e acquisizioni dei soggetti più deboli ad opera dei
più forti. Di questa tendenza discuti in molti tuoi lavori accademici, sul
Cambridge Journal of Economics e altrove, e ne tratti persino
nell’Anti-Blanchard, un saggio eminentemente didattico destinato soprattutto
agli studenti.
Si, la “centralizzazione” è la massima espressione di un
conflitto interno alla classe capitalista, che vede i piccoli proprietari
impegnati contro un movimento oggettivo che tende ad annientarli o a
fagocitarli nelle strutture del grande capitale. Ho battuto molto su questa
fondamentale “legge di tendenza”, anche in ambito didattico, perché ho scoperto,
con un po’ di sorpresa, che pur essendo una delle parti più robuste e feconde
dell’analisi marxiana, è anche una delle più trascurate. In una rassegna
realizzata con Orsola Costantini e Stefano Lucarelli, abbiamo evidenziato che
sono davvero pochi gli studi dedicati espressamente alla centralizzazione del
capitale e ai suoi legami con il fenomeno della crisi. Naturalmente non mancano
riflessioni interessanti sull’argomento, anche da parte di italiani: penso ad
esempio al concetto di “centralizzazione senza concentrazione” proposto da
Riccardo Bellofiore e altri [Joseph Halevi, NdR]. In generale, però, credo che
si avverta la mancanza di un lavoro collettivo organico sulla centralizzazione,
un argomento cruciale per comprendere le attuali dinamiche del capitale, a
livello europeo e mondiale.
Quali dovrebbero essere gli obiettivi di un’opera
collettiva dedicata alla centralizzazione capitalistica?
Penso che bisognerebbe riprendere le riflessioni di Marx su
una delle contraddizioni principali alimentate dai processi di
centralizzazione: quella tra l’originaria struttura decentrata del mercato
capitalistico e il progressivo accentramento dei poteri finanziari che operano
in esso. Questo contrasto irriducibile, insito nel meccanismo di
centralizzazione, è la forgia da cui scaturisce il capitalismo finanziario del
nostro tempo, segnato più che mai dalla fragilità del suo processo di
accumulazione e dalla sconcertante irrazionalità dei suoi meccanismi di
formazione dei prezzi, che generano inefficienze decine di volte più rilevanti
dei cosiddetti sprechi del settore pubblico, sui quali gli apparati ideologici
della comunicazione ci martellano ogni giorno.
Nella centralizzazione, insomma, ritroviamo alcune cause
di fondo della crisi capitalistica. In essa troviamo anche, come riteneva Marx,
i prodromi di un nuovo modo di produzione?
Direi di sì, a condizione che non si cada nella
banalizzazione teleologica di Hilferding, secondo il quale la centralizzazione
capitalistica ci condurrà meccanicamente verso la pianificazione socialista.
Questa sarebbe ancora una volta un’idea di destino, oltretutto di tipo
evoluzionistico, ancor più ingenua dello storicismo. Quel che possiamo
realisticamente affermare è che la centralizzazione contribuisce ad accrescere
le contraddizioni tra forze produttive e rapporti di produzione, a restringere
le condizioni di riproducibilità del capitale e a moltiplicare gli inneschi
della crisi. Dove poi questa tendenza possa condurci, magari verso una moderna
e civile logica di piano o piuttosto verso la barbarie, è una questione che
resta drammaticamente aperta. Il fatto che la pianificazione sia tuttora
considerata un tabù politico, e che ad esempio non si sappia pressoché nulla
dei lavori più avanzati in materia, come ad esempio quelli del premio Nobel
Wassily Leontief, al momento non depone a favore della prima
opzione…
Altrove hai pure affermato che la mancanza di una riflessione comune sulla centralizzazione dei capitali è una delle cause dello stallo in cui oggi versa il dibattito “eterodosso” sulla globalizzazione e sulla crisi dell’unificazione europea.
Altrove hai pure affermato che la mancanza di una riflessione comune sulla centralizzazione dei capitali è una delle cause dello stallo in cui oggi versa il dibattito “eterodosso” sulla globalizzazione e sulla crisi dell’unificazione europea.
E’ vero. La discussione critica sulla globalizzazione e
sulla sua forma fenomenica locale, l’unificazione europea, sembra ormai ridotta
a una disputa sterile tra globalisti acritici da un lato e sostenitori di un
nazionalismo di sinistra approssimativo e alquanto frettoloso. Con i primi che
magari provano a difendere le loro posizioni rievocando qualche passo del
Discorso sul libero scambio del giovane Marx, e i secondi che cercano invece di
tirare acqua al loro mulino citando gli elogi dello stesso Marx alla lotta che
gli irlandesi conducevano contro l’oppressore britannico. Ovviamente si tratta,
in entrambi i casi, di citazioni decontestualizzate, che ossificano Marx e lo
rendono pressoché inservibile per l’analisi del contemporaneo.
Tra gli estimatori di Marx definibili “globalisti
acritici” chi citeresti?
Ce n’è per tutti i gusti, da Jacques Attali a Toni Negri,
con il primo oltretutto più consapevole del secondo dei reali meccanismi di
funzionamento del modo di produzione.
E tra i marxisti che propongono una sorta di nazionalismo
di sinistra chi vedi? Pensi ad esempio a Diego Fusaro?
Fusaro non si definirebbe di sinistra, dato che erroneamente
considera superate le categorie della destra e della sinistra. E poi non credo
che la sua filosofia sia realmente collegabile a Marx, di certo non al Marx
maturo del Capitale. No, se devo fare un nome in questo ambito, tra gli
italiani potrei citare Domenico Losurdo, uno studioso che ha realizzato opere
di notevole interesse tra le quali spicca La lotta di classe, un lavoro in cui
vengono evidenziate rilevanti connessioni storiche tra i processi di
emancipazione sociale e le lotte di liberazione nazionale. Il problema di
Losurdo, a mio avviso, è che egli insiste sul potenziale di emancipazione
insito nelle lotte di liberazione nazionale sulla base di un ragionamento che
risulta scarsamente connesso all’analisi economica marxiana, e in particolare
sembra estraneo alle riflessioni di Marx sulla tendenza alla centralizzazione
dei capitali. Eppure quella tendenza è fondamentale per comprendere non solo la
direzione dello sviluppo delle forze produttive ma anche il mutamento dei
rapporti di produzione sociale: penso al fatto che la centralizzazione dei
capitali mette in crisi le piccole borghesie proprietarie e accelera la
polarizzazione tra le classi sociali. Se si tralascia questo aspetto
dell’analisi marxiana si perdono pezzi importanti del problema, e oltretutto si
rischia il silenzio di fronte a una questione politica urgente del nostro
tempo…
Quale?
Una lotta di emancipazione dai vincoli internazionali che
venisse egemonizzata dalle sole rappresentanze di un piccolo capitalismo
frammentato e in affanno, assumerebbe pressoché inesorabilmente caratteri
reazionari, potenzialmente neofascisti. Questo tipo di lotta vede oggi in prima
linea coloro che magari fanno propaganda contro le libertà civili per strizzare
l’occhio al più retrivo cattolicesimo e che magari sono ansiosi di bloccare le
frontiere per impedire l’accesso ai migranti ma non si sognerebbero mai di dare
battaglia per il ben più rilevante controllo dei movimenti internazionali di
capitale. A questi pezzi di società arretrata e alle loro rappresentanze
politiche abbiamo lasciato il monopolio della critica dell’unificazione europea
e della globalizzazione indiscriminata, e oggi ne paghiamo le conseguenze…
A questo proposito, da tempo tu insisti sulla necessità
di costruire un autonomo punto di vista del lavoro sulle questioni
internazionali, che consenta non solo di sviluppare una critica all’ortodossia
globalista ed europeista che oggi è politicamente incarnata da Renzi e
Hollande, ma che permetta anche di contrastare l’onda montante del nazionalismo
xenofobo, attualmente rappresentato dalle forze guidate da Salvini e da Marine
Le Pen. Questo autonomo punto di vista del lavoro su quali basi teoriche
dovrebbe poggiare? E in che senso la legge di tendenza alla centralizzazione
dei capitali può contribuire alla costruzione di tali basi?
Penso che questo nodo decisivo debba essere esaminato da due
diverse angolazioni. Da un lato la centralizzazione dei capitali a livello
internazionale scatena una competizione su scala mondiale che ostacola
violentemente le possibilità di organizzazione delle lotte sociali e di
costruzione di un nuovo movimento operaio. Dall’altro lato la centralizzazione
dei capitali schiaccia i piccoli proprietari, ridimensiona i cosiddetti ceti
medi, sgombra il campo dai residui sociali del vecchio regime, accresce le
dimensioni complessive della classe lavoratrice e per questa via contribuisce a
ricreare condizioni favorevoli per una ripresa dell’antagonismo con il grande
capitale. Per l’analisi marxista dei processi politici il puzzle teorico da
risolvere è precisamente questo: occorre misurarsi continuamente con questa
contraddittorietà insita nella legge di tendenza alla centralizzazione dei
capitali, con i suoi aspetti regressivi e progressivi, e con il prevalere degli
uni o degli altri a seconda della concreta situazione sotto esame.
Nell’attuale fase storica, a tuo avviso, quale dei due
aspetti della centralizzazione capitalistica tende a dominare sull’altro?
I dati indicano che oggi è il primo corno della
contraddizione a risultare prevalente, nel senso che i processi di
centralizzazione dei capitali alimentano una guerra internazionale tra
lavoratori che tende a soffocare ogni istanza rivendicativa. Ma rilevare che in
questa fase la centralizzazione svolge soprattutto una funzione regressiva non
significa dimenticare che sotto le ceneri che essa produce cova anche la sua forza
progressiva, quella che esalta il contrasto tra mercato decentrato e
accentramento del potere capitalistico e che in prospettiva potenzia ed eleva
il conflitto sociale. I programmi e le iniziative politiche dovrebbero di volta
in volta esser costruiti tenendo conto di questa fondamentale contraddizione.
Solo su queste basi, io credo, un “nuovo internazionalismo del lavoro” potrebbe
incunearsi nello scontro tra grandi e piccoli capitali, in Europa e nel mondo.
In caso contrario non si farà altro che scimmiottare ideologie avverse,
globaliste o nazionaliste che siano, in ogni caso opera di interessi
contrapposti a quelli della classe lavoratrice.
Di recente, alla conferenza di Parigi per la elaborazione
di un “Piano B” per l’Europa, hai proposto l’introduzione di controlli sui
movimenti di capitale e al limite anche di merci da e verso quei paesi che
accumulino surplus verso l’estero a colpi di competizione salariale e fiscale
al ribasso. Quali sono le basi concettuali di questa proposta?
L’idea non nasce dal nulla: tracce di essa si ritrovano nel
concetto di “labour standard” della Organizzazione Internazionale del Lavoro e
persino nello statuto del FMI. Potremmo definirla una proposta di
“international labour standard sulla moneta”, anche perché rilegge in chiave
critica una vecchia definizione di Guido Carli in materia. Naturalmente,
un’opzione del genere non è affatto esaustiva. Essa andrebbe intesa solo come
una cornice, atta a delineare le condizioni internazionali in cui sarebbe
possibile attuare una svolta più generale di politica economica
alternativa.
E’ questa, nel concreto, la strategia intorno alla quale
si potrebbero gettare le basi per un nuovo internazionalismo del lavoro?
La proposta di “international labour standard sulla moneta”
rappresenta un tentativo di tener conto di entrambe le facce della
centralizzazione capitalistica, e in un certo senso si propone come sintesi
contingente tra di esse. Per questo può essere intesa come una critica,
lavorista e internazionalista, alle opposte ideologie prevalenti del globalismo
e del nazionalismo. Ma da qui a parlare di basi per un nuovo movimento
internazionale del lavoro direi che ce ne passa, per usare un eufemismo… La
verità è che le idee dei singoli lasciano il tempo che trovano, di per sé non
contano assolutamente nulla. Anziché affidarsi ad esse, penso che bisognerebbe
avviare un lavoro comune di lunga lena, mettere all’opera un’intelligenza
collettiva che nel tempo contribuisca a una lettura scientifica del presente, a
una ferrea critica dell’ideologia prevalente e magari, in prospettiva, a un
coordinamento delle lotte di emancipazione sociale […].
Quando parli di intelligenza collettiva ti riferisci a un
partito… un partito marxista?
Io posso soltanto dire che Marx è scientifico, ed è quindi
politicamente moderno. Credo sia sintomatico che il Capitale sia oggi citato ed
elogiato nei circoli della grande finanza, mentre vari rappresentanti della
sinistra fanno tuttora a gara per dichiarare di non averlo mai letto e si
affannano a proporre altri riferimenti culturali, il più delle volte intrisi di
idealismo, per non dire di superstizione. E’ uno spettacolo penoso, un livello
di subalternità intellettuale che ricorda il Medioevo, quando alla plebe si
propinavano le icone del diavolo e dei santi mentre le élites tornavano a
leggere Platone e Aristotele. A queste condizioni, potremo al più condividere
una stupidità collettiva, non certo un’intelligenza.
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