giovedì 11 febbraio 2016

Classe, lotta di classe e prostituzione - Gianfranco Pala

*Da:   http://www.gianfrancopala.tk/    (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole 


Classe

È di moda, soprattutto nei tempi di indebolimento del pensiero, predicare la fine delle classi e, a fortiori, della lotta di classe. Che ciò sia fatto dall’ideolo­gia dominante è ovvio; che tale predica venga assimilata e ripetuta acritica­mente dagli esponenti dell’“asinistra” è conseguenza necessaria proprio di quello stesso dominio di classe “solido e pericoloso” che costoro vorrebbero far credere di esorciz­zare. E la faccenda non è recente, se già Marx si sentì in dovere di precisare, nel poscritto alla seconda edizione del primo libro del Capitale, che “l’econo­mia politica, in quanto concepisce l’ordinamento capitalistico come forma as­soluta e definitiva della produzione sociale, può rimanere scienza soltanto finché la lotta delle classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati. Dal momento in cui la lotta fra le classi raggiunse, tanto in pratica che in teoria, forme via via più pronunciate e minacciose, per la scienza economi­ca borghese quella lotta suonò la campana a morte. Ora non si trattava più di vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se era utile o dannoso, co­modo o scomodo al capitale, se era accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono pugilatori a pagamento, all’indagine scientifica spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia intenzione dell’apologetica”. Del resto, che la lotta di classe appaia spenta agli occhi dei proletari è inevitabile in momenti in cui la parte attiva di codesta lotta venga perseguita dalla borghesia trionfante, ancorché in crisi, e non sia più svolta se non marginalmente dal proletariato stesso. Tutto ciò non esime dal riconosce­re le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, il persistere della lotta delle classi che lo costituiscono e, anzitutto, l’esistenza e la riproduzione delle classi stesse.

In prima istanza, dal punto di vista della base economica del modo di produ­zione capitalistico, la definizione di classe sociale può essere immediatamen­te circoscritta all’omogeneità di funzione svolta dai diversi soggetti nel pro­cesso di produzione. L’identità funzionale individua l’appartenenza all’una o all’altra classe in sé, oggettivamente identificata. Tale appartenenza, pertanto, non pertiene alla sfera empirica del tipo di attività svolta, né dell’ammontare di reddito percepito, né tantomeno può corrispondere biunivocamente con i singoli individui empirici. Essa è, per l’appunto, oggettiva e trascende il sog­getto individuale in quanto un medesimo soggetto può svolgere più di una funzione nel processo di produzione, con diverse mansioni e livelli di reddito, per cui la sua appartenenza a quella o quell’altra classe dipende da quale sua figura prevalga sulle altre, da quella che ne determina in prima istanza il ruolo e la funzione sociale. Dunque, nel modo di produzione capitalistico che sta a fondamento delle for­mazioni economiche sociali moderne a dominanza borghese, la prima e prin­cipale divisione funzionale al processo di produzione medesimo mette: da un lato, la classe di coloro che sono proprietari delle condizioni oggettive della produzione, in quanto non produttori, ossia tali che per definire la loro fun­zione peculiare non è necessario che essi partecipino attivamente alla produ­zione stessa; dall’altro, la classe di coloro che sono effettivamente i produtto­ri della ricchezza sociale nella forma storica data, in quanto non proprietari di quelle condizioni della produzione, pur se accidentalmente e parzialmente possano esserlo.

La predominanza dell’una o dell’altra funzione fa sì che i soggetti sociali siano identificabili, nel primo caso, con la classe dei capitali­sti (in senso lato) e, nel secondo, con la classe dei proletari (o lavoratori sala­riati, in senso lato). È altresì ovvio che una siffatta definizione funzionale di classe, come insieme omogeneo di soggetti per riguardo al processo di produ­zione, sia adeguata anche ai modi di produzione che hanno preceduto quello capitalistico, tenendo tuttavia presente che nelle epoche passate diverse erano le classi costitutive delle varie formazioni sociali poiché diversa era la finalità del processo di produzione e che, proprio in ragione di ciò, solo nella forma capitalistica le classi si presentano come tali, nella loro elementarità, senza trasmutarsi e cristallizzarsi nella parvenza di “ordini” o “caste” in forza di su­perfetazioni metaeconomiche. Solo sulla base di una tale divisione nelle due classi principali della società moderna si può costruire una successiva, e necessaria, articolazione che sia ancora economica, ma anche sociologica e culturale o perfino comportamen­tale.

Innanzitutto, come accennato, nulla vieta che un medesimo individuo sia al contempo “proprietario” e “produttore”, come potrebbe essere l’artigiano, il coltivatore diretto, o anche il capitalista che lavora nella propria impresa o il salariato (operaio, bracciante o impiegato) che possiede qualche mezzo di produzione. Ma la sovrapposizione casuale di più funzioni non impedisce di comprendere sia che nella generalità dei casi ciò non caratterizza il modo di produzione capitalistico, ma solo le sue diverse forme empiriche di esistenza economica sociale, sia di individuare nel caso di una simile sovrapposizione, accidentale transitoria o residuale, quale funzione debba essere ritenuta quella qualificante e determinante. In secondo luogo, perciò, è facile trovare una gran varietà di forme di passaggio, intermedie tra le due classi principali della società moderna, tali da rappresentare altre classi, sottoclassi, ceti o gruppi in cui praticamente si articola questa formazione sociale. Ma, in terzo luogo, in­fine, nessuno può dubitare che ancora oggi e per tutta la vigenza in forma dominante del modo di produzione capitalistico si riproduca in maniera sem­pre più polarizzata la divisione tra “proprietari non produttori” (capitalisti in­dustriali, percettori di profitto e interesse, nella cui classe vanno generalmente ricomprese anche le forme moderne assunte dai capitalisti monetari e dai ca­pitalisti commerciali, e proprietari fondiari, percettori di rendita) e “produtto­ri non proprietari” (lavoratori salariati o proletari, percettori appunto di sala­rio, in qualsiasi forma esso sia travestito). Nessuno può disconoscere tuttora l’esistenza di tali classi, su scala mondiale, e le contraddizioni e gli antagoni­smi che esse mettono in movimento. È bene che la specificazione del concet­to di classe e della sua formazione storica, così come l’analisi delle classi realmente esistenti e la loro composizione, siano lasciate alle parole stesse di Marx e dei marxisti. 

Lotta di classe

“La lotta di classe è roba d’altri tempi – Sarà meglio avvisare l’Agnelli che non continui all’oscuro di tutto” [Francesco Tullio Altan, Cipputi]. Sarà me­glio avvisare anche gli altri capitalisti che continuano imperterriti a stroncare il proletariato. Sarà meglio avvisare anche tanti, troppi, “intellettuali sconvol­ti”, Tui di ieri e di oggi, che la considerano, insieme alle classi che la fanno, una cosa obsoleta e grossière; tanto che i maîtres-à-penser francesi delicata­mente si accomodano a parlare di “frattura sociale”. E sarà meglio, soprattut­to, avvisare molti lavoratori salariati che, convinti da anni di ideologia da so­cialismo edificante, continuano a pensare che sia lotta di classe solo quella agìta dal proletariato all’attacco, e non anche quella subìta dal proletariato e scatenata dalla borghesia. Anzi, sia chiaro: per il novanta per cento del tempo del capitale (nelle fasi di accumulazione, in quelle di crisi e in quelle di ripre­sa) è proprio la borghesia a esserne protagonista e il proletariato a subirla. So­lo nei brevi periodi di saturazione del ciclo di accumulazione del capitale e nei prodromi della crisi il proletariato passa all’attacco nella lotta. Altrimenti, se è in grado di lottare, perlopiù resiste e si difende. Che vada fatto anche questo, e in certi casi soprattutto questo, è della massima importanza asserirlo e soste­nerlo: ma basta saperlo, sapere che di questo e di nient’altro si tratta. 

Prostituzione (sfruttamento del lavoro)

“Fare mercimonio di cosa che sia strettamente legata alla libertà e alla dignità di uomo; avvilire; fare mercimonio di se stessi, della propria persona, vender­si – dal latino prostituere, mettere in vendita, composto di pro-, davanti, e sta­tuere, porre”. Questo è il significato di prostituzione che dà il Dizionario Garzanti della lingua italiana. Non diverso il più antico Nuovissimo Palazzi che aggiunge un chiaro “ridurre a bassezza venale; abbassarsi vergognosa­mente, avvilire il proprio ingegno, il proprio carattere”. Appare evidente co­me, dallo stesso etimo latino, sia ben posto in evidenza il carattere di merce e di vendita che implica l’azione in questione, chiamando in causa semmai li­bertà e dignità, ingegno e carattere, della persona coinvolta. Non vi si trova alcun riferimento necessario al corpo della persona, o a sue specifiche parti, come oggetto della com­pravendita. Qualsiasi generico mercimonio di se stes­si è ugualmente definito da questa parola. Se con tale definizione si coniuga quella di sfruttamento, le idee in proposito saranno più chiare. Sempre i medesimi dizionari, ne estendono il senso, partendo materialmente dalla “terra”, per “far che renda maggior frutto di quello che potrebbe renderne normalmente, a scapito del suo mantenimento; esaurirne il vigore”, alla figu­razione, di “trarre il maggior profitto dal lavoro altrui senza ricompensarlo adeguatamente, senza offrire un’adeguata remunerazione”. Così riconducono correttamente questo concetto all’uso vantaggioso per l’acquirente di quella particolare merce offerta in uno con la propria persona da coloro che la ven­dono: ossia, scientificamente parlando, la forza-lavoro.

In effetti, nulla può dirsi di più preciso – e “avvilente” – che “prostituzione” e “sfruttamento della prostituzione” in riferimento al lavoro salariato, qualsiasi genere di lavoro salariato, dall’operaio di fabbrica al bracciante, dall’impiega­to di banca al commesso, fino a travet e piccoli funzionari di grado medio basso. Senonché, così non la pensano preti ed economisti, moralisti e magistrati, po­liziotti e sindaci, che si sbracciano per circoscrivere l’uso di quei due termini – il cui significato italiano è invece chiarissimo – al solo traffico di sesso. Sicché recentemente sindaci del nord (di polo e ulivo senza distinzioni) hanno voluto colpire non solo le donne venditrici – le immigrate povere, non certo le “accompa­gnatrici” d’alto bordo degli “uomini d’affa­ri” – ma pure gli acquirenti consumatori di tale merce, accusandoli anche di favoreggiamento, alla stregua dei protettori, nel momento in cui riaccom­pagnano le suddette donne sul “posto di lavoro”. Perché, allora, non incriminare i capitalisti che acquistano forza-lavoro e i conduttori di autobus e treni che ogni giorno ac­compagnano i lavoratori sui marciapiedi di fabbriche e uffici dove sono co­stretti ad “avvilire il proprio ingegno”? 


Nessun commento:

Posta un commento