*Da: http://www.gianfrancopala.tk/ (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
È di moda, soprattutto nei tempi di indebolimento del
pensiero, predicare la fine delle classi e, a fortiori, della lotta
di classe. Che ciò sia fatto dall’ideologia dominante è ovvio; che tale
predica venga assimilata e ripetuta acriticamente dagli esponenti dell’“asinistra”
è conseguenza necessaria proprio di quello stesso dominio di classe “solido e
pericoloso” che costoro vorrebbero far credere di esorcizzare. E la faccenda
non è recente, se già Marx si sentì in dovere di precisare, nel poscritto
alla seconda edizione del primo libro del Capitale, che “l’economia
politica, in quanto concepisce l’ordinamento capitalistico come forma assoluta
e definitiva della produzione sociale, può rimanere scienza soltanto finché la
lotta delle classi rimane latente o si manifesta soltanto in fenomeni isolati.
Dal momento in cui la lotta fra le classi raggiunse, tanto in pratica che in
teoria, forme via via più pronunciate e minacciose, per la scienza economica
borghese quella lotta suonò la campana a morte. Ora non si trattava più di
vedere se questo o quel teorema era vero o no, ma se era utile o dannoso, comodo
o scomodo al capitale, se era accetto o meno alla polizia. Ai ricercatori
disinteressati subentrarono pugilatori a pagamento, all’indagine scientifica
spregiudicata subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia intenzione
dell’apologetica”. Del resto, che la lotta di classe appaia spenta agli occhi
dei proletari è inevitabile in momenti in cui la parte attiva di codesta lotta
venga perseguita dalla borghesia trionfante, ancorché in crisi, e non sia più
svolta se non marginalmente dal proletariato stesso. Tutto ciò non esime dal
riconoscere le contraddizioni del modo di produzione capitalistico, il
persistere della lotta delle classi che lo costituiscono e, anzitutto,
l’esistenza e la riproduzione delle classi stesse.
In prima istanza, dal punto di vista della base economica
del modo di produzione capitalistico, la definizione di classe sociale
può essere immediatamente circoscritta all’omogeneità di funzione svolta dai
diversi soggetti nel processo di produzione. L’identità funzionale
individua l’appartenenza all’una o all’altra classe in sé,
oggettivamente identificata. Tale appartenenza, pertanto, non pertiene alla
sfera empirica del tipo di attività svolta, né dell’ammontare di reddito
percepito, né tantomeno può corrispondere biunivocamente con i singoli
individui empirici. Essa è, per l’appunto, oggettiva e trascende il soggetto
individuale in quanto un medesimo soggetto può svolgere più di una funzione nel
processo di produzione, con diverse mansioni e livelli di reddito, per cui la
sua appartenenza a quella o quell’altra classe dipende da quale sua figura
prevalga sulle altre, da quella che ne determina in prima istanza il
ruolo e la funzione sociale. Dunque, nel modo di produzione capitalistico che
sta a fondamento delle formazioni economiche sociali moderne a dominanza
borghese, la prima e principale divisione funzionale al processo di produzione
medesimo mette: da un lato, la classe di coloro che sono proprietari
delle condizioni oggettive della produzione, in quanto non produttori,
ossia tali che per definire la loro funzione peculiare non è necessario che
essi partecipino attivamente alla produzione stessa; dall’altro, la classe
di coloro che sono effettivamente i produttori della ricchezza sociale
nella forma storica data, in quanto non proprietari di quelle condizioni
della produzione, pur se accidentalmente e parzialmente possano esserlo.
La predominanza dell’una o dell’altra funzione fa sì che i
soggetti sociali siano identificabili, nel primo caso, con la classe dei
capitalisti (in senso lato) e, nel secondo, con la classe dei proletari
(o lavoratori salariati, in senso lato). È altresì ovvio che una siffatta
definizione funzionale di classe, come insieme omogeneo di soggetti per
riguardo al processo di produzione, sia adeguata anche ai modi di produzione
che hanno preceduto quello capitalistico, tenendo tuttavia presente che nelle
epoche passate diverse erano le classi costitutive delle varie formazioni
sociali poiché diversa era la finalità del processo di produzione e che,
proprio in ragione di ciò, solo nella forma capitalistica le classi si
presentano come tali, nella loro elementarità, senza trasmutarsi e
cristallizzarsi nella parvenza di “ordini” o “caste” in forza di superfetazioni
metaeconomiche. Solo sulla base di una tale divisione nelle due classi
principali della società moderna si può costruire una successiva, e necessaria,
articolazione che sia ancora economica, ma anche sociologica e culturale o
perfino comportamentale.
Innanzitutto, come accennato, nulla vieta che un medesimo
individuo sia al contempo “proprietario” e “produttore”, come potrebbe essere
l’artigiano, il coltivatore diretto, o anche il capitalista che lavora nella
propria impresa o il salariato (operaio, bracciante o impiegato) che possiede
qualche mezzo di produzione. Ma la sovrapposizione casuale di più funzioni
non impedisce di comprendere sia che nella generalità dei casi ciò non
caratterizza il modo di produzione capitalistico, ma solo le sue diverse forme
empiriche di esistenza economica sociale, sia di individuare nel caso di una
simile sovrapposizione, accidentale transitoria o residuale, quale funzione
debba essere ritenuta quella qualificante e determinante. In secondo luogo,
perciò, è facile trovare una gran varietà di forme di passaggio, intermedie tra
le due classi principali della società moderna, tali da rappresentare
altre classi, sottoclassi, ceti o gruppi in cui praticamente si articola questa
formazione sociale. Ma, in terzo luogo, infine, nessuno può dubitare che
ancora oggi e per tutta la vigenza in forma dominante del modo di produzione
capitalistico si riproduca in maniera sempre più polarizzata la divisione tra
“proprietari non produttori” (capitalisti industriali, percettori di
profitto e interesse, nella cui classe vanno generalmente ricomprese anche le
forme moderne assunte dai capitalisti monetari e dai capitalisti commerciali,
e proprietari fondiari, percettori di rendita) e “produttori non
proprietari” (lavoratori salariati o proletari, percettori appunto di
salario, in qualsiasi forma esso sia travestito). Nessuno può disconoscere
tuttora l’esistenza di tali classi, su scala mondiale, e le contraddizioni e
gli antagonismi che esse mettono in movimento. È bene che la specificazione
del concetto di classe e della sua formazione storica, così come l’analisi
delle classi realmente esistenti e la loro composizione, siano lasciate alle
parole stesse di Marx e dei marxisti.
Lotta di classe
“La lotta di classe è roba d’altri tempi – Sarà meglio
avvisare l’Agnelli che non continui all’oscuro di tutto” [Francesco Tullio
Altan, Cipputi]. Sarà meglio avvisare anche gli altri capitalisti che
continuano imperterriti a stroncare il proletariato. Sarà meglio avvisare anche
tanti, troppi, “intellettuali sconvolti”, Tui di ieri e di oggi, che la
considerano, insieme alle classi che la fanno, una cosa obsoleta e grossière;
tanto che i maîtres-à-penser francesi delicatamente si accomodano a
parlare di “frattura sociale”. E sarà meglio, soprattutto, avvisare molti
lavoratori salariati che, convinti da anni di ideologia da socialismo
edificante, continuano a pensare che sia lotta di classe solo quella agìta
dal proletariato all’attacco, e non anche quella subìta dal proletariato
e scatenata dalla borghesia. Anzi, sia chiaro: per il novanta per cento del
tempo del capitale (nelle fasi di accumulazione, in quelle di crisi e in quelle
di ripresa) è proprio la borghesia a esserne protagonista e il proletariato a
subirla. Solo nei brevi periodi di saturazione del ciclo di accumulazione del
capitale e nei prodromi della crisi il proletariato passa all’attacco nella
lotta. Altrimenti, se è in grado di lottare, perlopiù resiste e si difende. Che
vada fatto anche questo, e in certi casi soprattutto questo, è della
massima importanza asserirlo e sostenerlo: ma basta saperlo, sapere che di
questo e di nient’altro si tratta.
Prostituzione (sfruttamento del lavoro)
“Fare mercimonio di cosa che sia strettamente legata alla
libertà e alla dignità di uomo; avvilire; fare mercimonio di se stessi, della
propria persona, vendersi – dal latino prostituere, mettere in vendita,
composto di pro-, davanti, e statuere, porre”. Questo è il
significato di prostituzione che dà il Dizionario Garzanti della lingua
italiana. Non diverso il più antico Nuovissimo Palazzi che aggiunge
un chiaro “ridurre a bassezza venale; abbassarsi vergognosamente, avvilire il
proprio ingegno, il proprio carattere”. Appare evidente come, dallo stesso
etimo latino, sia ben posto in evidenza il carattere di merce e di
vendita che implica l’azione in questione, chiamando in causa semmai libertà
e dignità, ingegno e carattere, della persona coinvolta. Non vi si trova alcun
riferimento necessario al corpo della persona, o a sue specifiche parti, come
oggetto della compravendita. Qualsiasi generico mercimonio di se stessi è
ugualmente definito da questa parola. Se con tale definizione si coniuga quella
di sfruttamento, le idee in proposito saranno più chiare. Sempre i
medesimi dizionari, ne estendono il senso, partendo materialmente dalla
“terra”, per “far che renda maggior frutto di quello che potrebbe renderne
normalmente, a scapito del suo mantenimento; esaurirne il vigore”, alla figurazione,
di “trarre il maggior profitto dal lavoro altrui senza ricompensarlo
adeguatamente, senza offrire un’adeguata remunerazione”. Così riconducono
correttamente questo concetto all’uso vantaggioso per l’acquirente di
quella particolare merce offerta in uno con la propria persona da coloro
che la vendono: ossia, scientificamente parlando, la forza-lavoro.
In effetti, nulla può dirsi di più preciso – e “avvilente” –
che “prostituzione” e “sfruttamento della prostituzione” in riferimento al lavoro
salariato, qualsiasi genere di lavoro salariato, dall’operaio di fabbrica
al bracciante, dall’impiegato di banca al commesso, fino a travet e
piccoli funzionari di grado medio basso. Senonché, così non la pensano preti ed
economisti, moralisti e magistrati, poliziotti e sindaci, che si sbracciano
per circoscrivere l’uso di quei due termini – il cui significato italiano è
invece chiarissimo – al solo traffico di sesso. Sicché recentemente
sindaci del nord (di polo e ulivo senza distinzioni) hanno voluto colpire non
solo le donne venditrici – le immigrate povere, non certo le “accompagnatrici”
d’alto bordo degli “uomini d’affari” – ma pure gli acquirenti consumatori di
tale merce, accusandoli anche di favoreggiamento, alla stregua dei protettori,
nel momento in cui riaccompagnano le suddette donne sul “posto di lavoro”.
Perché, allora, non incriminare i capitalisti che acquistano forza-lavoro e i
conduttori di autobus e treni che ogni giorno accompagnano i lavoratori sui
marciapiedi di fabbriche e uffici dove sono costretti ad “avvilire il proprio
ingegno”?
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