L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo
dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole
“Nominibus mollire licet mala”, recita un proverbio latino che in italiano ora, morta quella lingua, si può semplicemente dire “al nome è consentito addolcire il male”. Già, perché – nonostante la ricchezza di alcune lingue (e, vivendo ancora qui, si può dire di quella italiana in particolare), e forse proprio per codesta ricchezza la quale designa una profonda storia contenutistica di concetti che l’ideologia dominante vuol far presto dimenticare – il linguaggio si sta impoverendo e imbastardendo sempre più. Undici anni fa, l’inaugurazione di questa rubrica fu dedicata proprio a una breve considerazione di Engels e Marx sul “linguaggio”. Ci sembra perciò significativo, in questa occasione particolare, tornare sulla “critica del senso comune nell’uso ideologico delle parole”, che è quasi sempre un uso improprio delle “parole” stesse.
E neppure parliamo qui di grammatica e sintassi, congiuntivo
e condizionale, costruzione delle frasi, ecc. Inutile insistere neppure su
fastidiose imprecisioni relative all’italiano moderno, come “fila” che al
plurale, dal neutro latino, sta per fili e non va confuso con “file” che è il
plurale corretto del singolare femminile fila. Così, a es., non esiste più la
possibilità, ancorché su quasi tutta la stampa o nei cartelli e toponomastica
ufficiale se ne faccia uno sconsiderato uso, di scindere preposizioni
articolate – come “nel” o “del” – nei termini “ne il” o “de il”, giacché “ne” o
“de” hanno ben altri significati [cfr. anche il poi citato Lepri].
Scrivere oggi “ne "la Contraddizione"” o “de "Il capitale"”
è improprio e sbagliato. Chi si esprimerebbe con frasi tipo “de la medesima
hora” o “ne lo tuo inferno”, se non un saggista medievale? Attualmente più
nessuno. Quelle particelle infatti non designano più preposizioni semplici,
bensì pronomi o forme avverbiali (e possono essere ancora usati solo se con
l’apostrofo di elisione di una “i” finale, come de’ o ne’, per
“dei” o “nei”). Ma lasciamo queste piccinerie, insieme a tante altre.
Ci riferiamo, invece,
all’invadenza di anglicismi (a quell’abitudine niente affatto necessaria, cioè,
che non sia legata al progresso storico effettivo, e non certo al normale
impiego di termini evidentemente anglofoni da parte di persone di madrelingua
inglese), fatto soltanto in ossequio al balbettìo dei padroni imperanti, o pure
all’eccesso sconsiderato di acronimi (molti, per giunta, anglofoni) di cui
nemmeno i proni utilizzatori spesso conoscono il significato, o ancora allo
stravolgimento italiota di termini nati con ben altri significati (si pensi per
tutti a “rivoluzione”) o alla quasi sparizione di alcuni altri (come “imperialismo”
o “lotta di classe”). L’unico termine, forse, che qui per ora si salva
è “contraddizione”, il quale è probabilmente trascurato e quasi ignorato dal
sistema (anche sul piano brutalmente commerciale, e ne abbiamo avuto una
riprova empirica su internet), poiché è il concetto stesso di contraddizione
ciò di cui il pensiero e la società dominante non sanno che vuol dire e che
farsene.
Ma “è dove mancano i concetti, che la parola soccorre a
tempo giusto” – fa dire J.W. Gœthe al sarcasticamente ciarliero Mefistofele. E
mette sulle sue labbra anche queste constatazioni: “con le parole si discute
sempre bene, con le parole si preparano i sistemi, sulle parole si fonda nel
modo migliore la fede e, quando la parola è data, non c’è più da cavarne
neppure un iota”. E la stretta connessione tra concetto e linguaggio
è un cardine intorno al quale ruota l’intero grande ragionamento di G.W.F.
Hegel, da lui così esposto nella prefazione alla seconda edizione della Logica.
“Le forme del pensiero umano sono anzitutto esposte e
consegnate nel linguaggio umano. Ai nostri giorni non si può mai
ricordare abbastanza spesso che quello per cui l’uomo si distingue dall’animale
è il pensiero. Quello di cui l’uomo fa linguaggio e che egli estrinseca nel
linguaggio contiene, in una forma più inviluppata e meno pura, oppure
all’incontro elaborata, una categoria. Il vantaggio di una lingua sta
nell’esser ricca di espressioni logiche, proprie cioè e separate, per le
determinazioni stesse del pensiero. La lingua tedesca si trova in questo senso
molto avvantaggiata in confronto alle altre lingue moderne. Molte sue parole
possiedono anzi anche la proprietà di avere significati non solo diversi, ma
opposti, cosicché anche in questo non si può non riconoscere un certo spirito
speculativo della lingua. Per il pensiero può ben essere una gioia imbattersi
in codeste parole, e riscontrare già in una maniera ingenua, lessicalmente, in
una sola parola di opposti significati, quella unione di opposti che è un
risultato della speculazione, benché sia contraddittoria per l’intelletto”.
E nella maniera seguente Hegel precisa anche il rapporto tra
lo sviluppo dei concetti e quello della lingua. “Il progredire della cultura in
generale, e in particolare delle scienze, perfino delle scienze empiriche,
mette a poco a poco in luce anche rapporti di pensiero più elevati, e dà
loro per lo meno una maggiore universalità, così da attirar su di sé un più
alto grado di attenzione”. E Engels ripeteva che “ogni concezione nuova di una
scienza racchiude una rivoluzione nelle espressioni tecniche di questa
scienza”. Ma, precisava Hegel, la speculazione concettuale “non ha bisogno in
generale di alcuna speciale terminologia”. È per questi motivi che,
necessariamente, l’uso di “alcune parole prese in prestito da lingue straniere,
ha già procurato il diritto di cittadinanza nella lingua, mentre un’affettazione
di purismo sarebbe addirittura fuori di luogo, là ove non si deve assolutamente
guardare che alla cosa”.
Senonché, qualora la riflessione speculativa sulla “cosa”
non proceda dal “progredire della cultura in generale”, ma anzi piuttosto dal
suo rabbassamento privo di concettualità, più d’una parola “un po’ troppo, a
torto o a ragione, introdotta un po’ dappertutto” serve solo a nascondere il
vuoto di “rapporti tali che hanno per base il pensiero”. Scriveva Marx in
sèguito, che è il carattere dei rapporti con gli altri, attraverso l’appartenenza
dell’individuo a una comunità, con la sua attività lavorativa, a determinarne
il linguaggio. Ed è proprio il vuoto oggi imperante che ha imposto l’uso di
parole effimere e malmesse. Hegel dice che “la determinazione di una differenza
nella quale i differenti sono legati insieme inseparabilmente” è tipica
di una lingua “ricca di espressioni logiche”, circostanza che è affatto
ignorata in lingue povere di contenuto.
Nella prefazione all’edizione inglese del Capitale,
Engels indica l’inevitabile difficoltà consistente nell’“uso di certi termini
con un significato diverso non solo dall’uso della lingua di ogni giorno, ma
anche da quello dell’economia politica comune. L’economia politica si è accontentata,
in generale, di prendere i termini della vita commerciale e industriale così
com’erano, e di operare con essi, non avvedendosi affatto che in tal modo si
limitava alla ristretta cerchia delle idee espresse in quelle parole”. E “non è
mai andata al di là delle nozioni comunemente accettate di profitto e di
rendita”, e, peggio ancora, di salario.
Già nella terza edizione (in tedesco) Engels seguì il
principio marxiano di evitare “quello strano pasticcio linguistico” del “gergo
corrente” in cui, a es., “colui il quale si fa dare del lavoro da altri contro
pagamento in contanti, si chiama "datore" di lavoro, e
"prenditore" di lavoro si chiama colui al quale viene preso il
proprio lavoro contro il pagamento di un salario”. Nella vita di tutti i giorni
– annota ancora – “lavoro” viene utilizzato al posto di “occupazione” (così
come sono invertite, nel gergo comune, le definizioni di “domanda” e “offerta”
di lavoro). “Ma è ovvio che una teoria la quale consideri la produzione
capitalistica moderna come un puro e semplice stadio transeunte della storia
economica dell’umanità, deve usare termini diversi da quelli abitualmente usati
da scrittori che considerano imperitura e definitiva tale forma di produzione”.
È ovvio? Con l’aria di passività pratica e di ignoranza teorica che tira
sull’asinistra odierna, tale “ovvietà” cade insieme all’uso di categorie e
termini diversi da quelli dominanti.
Tutte queste sono le ragioni per cui Marx si lamentava della
lingua inglese (ma in parte anche del francese) in occasione delle traduzioni
del Capitale. Codeste ragioni Marx rese precisamente rintracciabili,
come rammenta Engels, “in una serie di istruzioni manoscritte per la traduzione
inglese”, dove è indicato in quale luogo “eliminare espressioni tecniche inglesi
e altri anglicismi”. L’inglese esprime una tradizione schematica ed
estremamente classificatoria, del tutto mancante proprio di quella contraddizione
“nella quale i differenti sono legati insieme inseparbilmente”. La mancanza di
legàmi, anzi, è un principio che caratterizza quasi tutte le parole usate in
quella lingua. “È maledettamente difficile render chiaro agli inglesi il metodo
dialettico – scriveva a Engels nel 1868 – e non puoi davvero pensare di parlare
a questa plebaglia”.
Lungi dall’anticipare la speculazione, per cercare di dover
comprendere i diversi significati in cui una parola può essere usata, l’unicità
di un termine per diversi concetti è invece proprio l’opposto di ciò che si
vorrebbe, poiché piuttosto esso è monocorde e conduce a un’indicibile
confusione tra tali concetti. Marx fa l’esempio dell’esistenza in inglese della
sola parola “money” per dire sia “moneta” che “denaro”; e se ne può
avere un riscontro evidente nella rivisitazione che egli fa degli studi,
peraltro pionieristici, di James Steuart, ma anche di David Hume. Sicché è
pressoché impossibile, in simili casi (tranne rare eccezioni, perlopiù presenti
solo nell’inglese sette-ottocentesco) rendere correttamente la differenza tra
le “cose” che in altre lingue sono rappresentate da termini diversi, o
viceversa in forma dialettica. La ristrettezza “commerciale” della lingua
anglofona (particolarmente nella versione usamericana), nella sua struttura
logica formale, non lo consente, e occorre pertanto ricorrere spesso a giri di
parole.
Non è il caso, e neppure è possibile tentare, di fare un
qualche elenco oggi esauriente di parole (per lo più anglofone, imposte
dall’egemonia Usa nel mondo). Ciò che ha rilevanza è vedere quali parole
rispondano a concetti nuovi dovuti a effettivi progressi della cultura, e quali
al contrario – preesistendo anzi abbondantemente in altre lingue (a es., nel
caso presente, in italiano) – siano state introdotte come neologismi al posto
di quelle. Il più delle volte ciò rispecchia una stolida piaggeria, di subordinazione
che (se i tempi fossero diversi) potrebbe dirsi quasi di adulante sudditanza
“neocoloniale”, nei confronti del potere dominante; ma oramai, sempre meno di
rado, una simile attitudine non fa altro che rivelare un’ignoranza che,
a imitazione del potere, si è sempre più venuta cumulando negli anni.
Che l’inglese rispecchi coerentemente la sua matrice
empiristica, si è detto; in codesta loro peculiarità, quindi, le lingue
anglofone in generale, e il vocabolario usamericano in particolare, non sono in
grado di presentare quell’elasticità dialettica consentita a lingue come il
tedesco o l’italiano. Perciò, allorché si addivenga a un trito scimmiottamento
di una lingua concettualmente più povera, la lingua più ricca ed
espressiva è destinata a decadere. Anzi, l’uso rabbassato che i “sudditi”
stranieri fanno dell’inglese diviene così la causa ultima di simile
pedestre imitazione, giacché la povertà delle parole male usate non può che
riflettere quella di concetti andati inesorabilmente perduti. Accedere a simili
insulse mode designa unicamente una subalternità ideologica che non può non
essere combattuta al pari di quella condotta sulla diversità di contenuti.
Parole anglofone direttamente inserite nella lingua italiana
sono attualmente di gran moda, nella corsa a chi arriva prima a soddisfare il
“padrone amerikano”. Del resto, che cosa ci si può aspettare da coloro che si
fanno rappresentare da chi propugna “tre i”, da intendere per impresa,
informatica, inglese? Da costoro, infatti, l’italiano è ignorato,
tragicamente massacrato in sintassi e semantica. Non è un caso, come già accennato a proposito
di quanto notò Engels nell’epoca del dominio britannico, che la maggior parte
delle parole straniere (anglofone) provengano da questioni di economia, “scienza”
empirica principe nel sistema di potere dell’imperialismo capitalistico, in
una staffetta che ha visto il succedersi del secolo della Gran Bretagna con
quello Usa. Il detto “time is money” – il tempo è denaro, che però per
loro, come detto sopra, sarebbe più rozzamente il tempo è ... moneta – ben
esprime questa misera condizione.
Un po’ diverso è il caso di parole entrate nell’uso, a es.,
per i problemi dell’informatica, poiché qui in gran parte si può trattare
effettivamente di concetti nuovi che hanno richiesto corrispondenti termini
nuovi [a parte questioni meramente “tecniche” tipografiche, ancorché buffe,
come il recupero, con attribuzione di altro significato, della @ – ossia
la “a” commerciale – che già da secoli figurava, al pari della &
(“e” commerciale, che mantiene il suo significato connesso al riferimento ai
soci di un’impresa), nei libri contabili dei ragionieri italiani per denotare
partite di debito e credito]. Sarebbe assai difficile, e un purismo fuori
luogo, cambiare termini come pc (personal computer), che lo
chauvinismo francese ha fatto ribattezzare “ordinateur” (come il net
del tennis, da loro rinominato filet – per fortuna, e per ovvi
motivi di storia politica, senza chiamare “pallacorda” il tennis); parole ormai
invalse nell’uso corrente, come hardware e software, sarebbe
disdicevole tradurre letteralmente come “oggetto duro” e “oggetto moscio”!
Tuttavia, anche in questo settore innovativo, è opportuno
stare attenti. Dire di un programmatore informatico che è un softwarista
è abbastanza squallido; in questo senso, anche i due termini di base suddetti,
da non cambiare, possono tuttavia, qualora le circostanze lo consentano, essere
agevolmente espressi con sinonimi adeguati quali “macchine” e “programmi”.
Sicché, a es., chiamare “trojans” quella varietà dei cosiddetti “virus
informatici” che si intrufolano nascostamente nelle macchine è frutto solo
dell’ignoranza omerica degli usamericani e dei loro imitatori: il cavallo di
Troia (sarebbe “trojan horse” in inglese, per completezza) ha invece
reso i “troiani” non vittime ma, come parrebbe dal termine usato, sabotatori (i
quali al contrario sarebbero semmai gli “achei”, ossia “achæi” per
intendersi). In effetti, molte parole, sull’onda della novità complessiva dell’intero
settore di ricerca, sono rimaste passivamente scritte e (mal) lette nel loro
anglicismo, quando già esistevano da tempo equivalenti italiani. Dire una “mail”
non serve a niente, quando c’è “lettera”, “messaggio” o “posta”, a seconda dei
casi. Oppure “dot” ha sempre voluto dire semplicemente “punto”. E così
via.
Ma basta sfogliare qualche rapporto – anzi, scusate, “report”!
– ufficiale, o un banale compitino scritto da semplici subalterni, lavoratori o
studenti, per trovare simili testi pieni zeppi di siffatte nefandezze. Perché
definire paper un articolo, una relazione, una comunicazione scritta; o
restringere a budget la quantità di significati che vanno dalle varie
forme di bilancio (preventivo, di cassa, consuntivo, ecc.) a finanziamento o
stanziamento; o denotare con return quello che da immemore tempo in
italiano si dice rendimento, lasciando quel termine inglese al suo più comune
significato di ritorno o restituzione. È il vezzo di usare parole straniere
laddove ci sono parole italiane in tutto e per tutto corrispondenti. Non c’è
che da sbizzarrirsi [un’autorevole fonte si può trovare in Sergio Lepri, Dizionario
della comunicazione, Le Monnier, Firenze].
Una lista assai parziale dell’inutile uso di tali
parole straniere (di cui neppure è il caso di dare qui sempre l’equivalente in
italiano) è sufficiente per farsi una pallida idea della barbarie che avanza.
Si può cominciare a sciorinare qualcosa (in prevalente ordine alfabetico o
logico): assets (attività, patrimonio), audience, auditing
(verifica contabile), authority (organismo di vigilanza), broker,
brunch (segno del cattivo gusto alimentare importato dagli Usa al
seguito delle loro schifose cibarie, insieme a fast food), business
(da intendersi come affare), capital gains, cash flow,
consumer, convention, dépliant, éclatante (che è
francese, quando c’è “clamoroso”), executive (dirigente, come pure manager,
o vice director che neppure sta a significare, anglofonicamente, il
ruolo di “vice”, il quale, in quanto facente funzione di direttore o
presidente, si dice deputy), expertise (ancora francese, non
inglese, per perizia), factoring (recupero crediti), fan, feedback,
feeling, fixing, future (contratto borsistico futuro), gag,
gap (divario), information (technology), insider trading
(volgarmente aggiotaggio), joint venture (società congiunta), killer,
leader (guida, capo, cui si associano gli altrettanto inutili premier
e first lady), leasing (locazione con riscatto), link
(collegamento), media (che sta per mezzi di comunicazione e semmai è
latino, non inglese, e quindi pure doppiamente fuori luogo anche nel
pronunciare “mìdia”; così come, tra la massima indifferenza, è invalsa
l’abitudine di dire “caraibi” anziché “caribe”, il che equivarrebbe a
pronunciare ... “paitsa” anziché “pizza”), merchant bank (banca
d’affari), merger (fusione), network (rete; recentemente alla tv
italiana si è sentito dire che la dizione “catena di sant’antonio” è vecchia:
ora si dice ... communication network), new economics, offshore
(nel senso di paradisi fiscali), option (opzione, con call per
acquisto e put per vendita), performance (semplicemente
prestazione, risultato), question time (per interrogazione), rate,
ratio, recital, revival, securities (titoli), sponsor
(patrocinio), standby (linea di credito), supply, survey
(banalmente rassegna, insieme a abstract che è estratto o riassunto di
un ... paper), swap (negoziazione a scadenza), take over
(presa di controllo), target, turnover (ricambio), week end (da
abbinare con shopping) ... e chi ne ha più ne metta!
Poi si possono anche indicare anglicismi inimmaginabili
(come customizzare) o ancora fidelizzare, e traduzioni di parole
inglesi con assonanze italiane che avrebbero tutt’altro significato: come
“globale”, “globalizzazione” e simili che, se non riferiti al pianeta terra, in
italiano indicano solo genericamente qualcosa di sferico o di totale,
complessivo; oppure suggestione (da suggestion) che in italiano ha ben
altro senso che non suggerimento; o supportare, verbo che c’è in francese e
inglese (rispettivamente, supporter e to support), ma che in
italiano non esiste, essendoci invece solo il sostantivo “supporto”, che si usa
però per denotare piuttosto un qualcosa di utensileria: come se, invece, i
sostenitori di una squadra sportiva fossero detti in italiano i “supportatori”!
C’è pure stage, che è parola squisitamente francese nel significato di
tirocinio, formazione o aggiornamento professionale, e che in francese va
inesorabilmente pronunciata; mentre l’equivalente scrittura inglese, che in
quest’altra lingua si legge più o meno “steig(e)”, ha tutt’altro significato,
ossia palcoscenico (roba di teatro o cinema, ecc.), o semmai stadio inteso
come fase epocale di sviluppo; invece quasi tutti, anche gli “eruditi” dicono
all’inglese la parola francese, e sbagliano completamente senso (proponendo, a
es., a un neodottore di andare a fare esperienza all’estero su un ...
palcoscenico).
L’uso di abbreviazioni estremamente stenografiche (pure
troppo!) può anche aver un’origine “commerciale”, da nuove tecnologie
informatiche, per ridurre i costi, come, a es., la lunghezza dei cosiddetti
“messaggini” (sms ecc., appunto!) che rende conveniente digitare “cmq”
(per “comunque”, e non per centimetri quadrati, come una volta) oppure “x” (al
posto di “per”) e “+” (al posto di “più”). Senonché la moda va oltre, e
sull’esempio Usa si mettono cifre o lettere al posto di preposizioni o parole
quasi omofone, sicché “2” sta per “to” o “too” a seconda
dei casi, “4” per “for” e “U” per “you”: col bel
risultato di trovarsi di fronte a scritte iniziatiche quali “2U” o “U2”,
rispettivamente per “to you” (“a te”) o “you too” (“anche tu”), “4U”
per “for you” (per te) ovvero “P2P” che anziché rappresentare un
codice criptato da logge occulte esprime semplicemente l’operazione di scambio
musicale informatico “alla pari” comunemente detto in inglese “peer to peer”!
Ci sono poi parole inglesi il cui uso è paradossalmente invalso
più al di fuori dei paesi anglosassoni che al loro interno, poiché il significato
di quei termini nella loro patria d’origine, ammesso e niente affatto concesso
che ne esista uno, è quanto meno desueto o avente altro significato: footing
vuol indicare solamente la ricerca di un equilibrio sul piede, e non jogging;
autostop non è inglese (dove quell’azione si dice hitch-hiking),
come flipper (che è detto pinball), o smoking, qui poco
... elegantemente usato al posto di dinner jacket (inglese) o tuxedo
(usamericano); edit (con tutti i suoi derivati) sta per redigere ed è
sbagliato riferire quei termini all’editore (sì che editor in italiano
è il curatore e perciò neppure va detto “editoriale” per un articolo di fondo);
spot, che vuol dire posto o macchia, ha poco o niente a che vedere con
la pubblicità; perfino scoop, di cui purtuttavia è invalso l’uso come
metafora per esclusiva giornalistica, sta originariamente per raccogliere
l’acqua. Anche le parole cric e crac, se usate, vanno scritte
senza “k” finale.
È bene anzitutto precisare che [cfr. Lepri] in
italiano le sigle è ormai meglio scriverle tutte minuscole (senza
interpunzione) quando sono usate come nomi comuni (a es., iva, pil, spa, ecc.,
come pure roe, ceo, ecc.); la stessa regola vale per parole particolari, come
“stato”, “chiesa”, ecc., allorché siano usate in maniera generica. In tali casi
la lingua italiana non vuole affatto l’iniziale maiuscola – da riservare
unicamente all’uso specifico di tali nomi o sigle (a es., si veda dopo, Nato,
Onu, ecc.) – che viceversa è impropriamente spesso scritta a imitazione del
tedesco che, a sua volta, è ripetuto nell’inglese arcaico.
Anche per acronimi e
sigle anglofone, scopiazzate in italiano, non c’è che l’imbarazzo della scelta,
per la quantità che se ne ha e si inventa: roe e roi (che stanno
per return on equity e return on investment), mentre poi c’è rol
(che invece è italiano per “riduzione dell’orario di lavoro”, ma che quasi
quasi per i padroni sarebbe forse meglio fraintendere per ... return on
labor!); ceo (ovvero chief executive officer, con diverse
varianti nelle iniziali incluse nell’abbreviazione, a seconda dell’attività
svolta dal “dirigente” – di ciò si tratta – in questione). Le
comunicazioni senza fili sono cripticamente sintetizzate in wifi (per
non dire di cordless), e via siglando.
Ancora altri acronimi sono ottenuti per riduzione enigmatica
a sigle di iniziali (che se un lettore si è dimenticato, o non si è avveduto,
di che cosa si stia parlando deve sempre tornare a reperire nel testo, il quale
acquisisce così, almeno in letteratura italiana, anche una veste più brutta:
valga come esempio la scrittura di “c.d.” per “cosiddetto”, che non è un “compact
disc”). Soprattutto in francese (per volontà del formalismo strutturalista)
tali acronimi, che conservano spesso la loro scrittura anche in italiano per la
comune base neolatina, si applicano anche a concetti sociali quali mpc, rs,
fp (ossia “modo di produzione capitalistico”, “forze produttive”,
“rapporti sociali”), ecc. In italiano si ha anche a che fare con
l’amministratore delegato ad (che non è l’“anno domini”) e cose
simili. A proposito di forme derivate dal latino è anzitutto erroneo l’uso
(americano?) invalso di mettere un trattino di congiunzione dove assolutamente
non va, come a es. in ex-ante, pro-capite, ex-Urss, ecc.
Poi, è meglio non dire del recupero di termini neolatini via Usa, come deficit
più usato di “disavanzo”, sicché non si dà il corrispettivo positivo di
“avanzo”; né di termini complementari quali junior o senior,
pronunciati “giunior” e “sinior” (quanto a pronuncia, tra le infinite altre
scorrettezze segno di palesi eccessi anglici, oltre ai già citati “mìdia” ecc.,
un caso tipico è il ricordato abuso di management, e derivati, dove
l’accento è messo quasi sempre male, diventando “manàgement”).
Le sigle di organismi vari sono quelle che sono (come già
spiegato – cfr. Lepri – è più corretto scrivere anche queste senza
interpunzione e solo con l’iniziale maiuscola seguìta da tutte minuscole).
Senonché, spesso ormai qualsiasi organizzazione occupa una sigla, talché càpita
che sigle uguali si riferiscano a organizzazioni diverse, procurando una poco
encomiabile confusione; per giunta varie volte si usano le loro iniziali
secondo le differenti lingue che le designano. Così Ocse, Oecd, Oced
sono la stessa cosa; o Imf e Fmi, come Wb o Bm che
sarebbe Ibrd; o Bis nota anche come Bri, ecc., con
l’aggravante che spesso su uno stesso documento si scrive una sigla a volte
secondo le iniziali di una lingua e altre in base a una lingua diversa. Non
parliamo poi di sigle di iniziative specifiche, come Hipc per i paesi
poveri fortemente indebitati, o Prsp al fine di indicare il documento
per la strategia della riduzione della povertà o Gopac “semplicemente”
per denotare l’organizzazione mondiale governativa contro la corruzione: la
cattiva infinità di sigle e termini può continuare.
Si è avuta occasione di osservare, qua e là, che quanto
all’imbarbarimento anche della lingua italiana non c’è da scherzare: più tempo
passa con l’abuso di anglicismi e peggio è. Per parole italiane “passate a
miglior vita”, basti pensare solo per un attimo alla “rivoluzione” attribuita
pubblicitariamente a deodoranti o cibi precotti, così come la “flessibilità” è
pure diventata un felice pregio degli assorbenti. In linea con le vecchie
osservazioni di Engels circa il gergo corrente dell’economia anche parole quali
classi, imperialismo, mercato, produttività, salario,
ecc. sono stravolte nel loro stesso àmbito. Le “classi” – e precipuamente la
loro inevitabile lotta – è meglio neppure nominare; si fa capire che esse non
esistono più, ammesso che se ne sia mai supposta l’esistenza, ignorando,
facendo ignorare e fingendo di ignorare, quale sia il loro nesso economico con
i “rapporti di proprietà” (così come l’ideologia dominante usa parole a
vanvera mascherate d’asinistra quali “fine del lavoro” o “fine della storia”). Di
“imperialismo” si è detto prima per cenni: basterà ricordare adesso solo la sua
rimozione a opera del pensiero storico liberale, che pure con Hobson aveva per
primo coniato quella parola. Il “mercato” di cui normalmente si sente parlare
va dall’immagine familiare della bancarella rionale all’anonimato
assolutamente impersonale dei “mercati” (quasi che fosse il fato divino a
configurarlo), purché si resti rigidamente vincolati alla “distribuzione del
reddito” e non si traggano le giuste conclusioni sul mercato di capitali. La
parola “produttività” (sociale del lavoro, o del lavoro sociale, precisa
Marx) che si riferisce all’ottenimento di differenti risultati a parità di
lavoro, viene invece ripetutamente confusa con altre quattro o cinque
accezioni che implicano viceversa un diverso uso della forza-lavoro,
sia estensivamente (durata) che intensivamente (ritmi di lavoro).
Ma una parola determinate, qualificante per la comprensione
concettuale dell’intero modo di produzione capitalistico [ops!, mpc], è
“salario”. Il suo uso improprio risale ai precursori ottocenteschi del
cosiddetto “marginalismo” della teoria economica. Qualsiasi persona di buon
senso sa perfettamente che chi vive di salario lavora alle “dipendenze”
di qualcun altro – il padrone capitalista, proprietario di tutte le condizioni
della produzione, oggettive e pure quelle soggettive della forza-lavoro, dato
che è l’unico a poterle comprare – e, dopo la vendita ad altri
(alienazione, in preciso senso etimologico) della sua unica merce, la forza-lavoro,
lavora e percepisce reddito non solo per se stesso ma per l’intera classe
proletaria affatto priva di proprietà. Dunque il salario, propriamente detto, è
originariamente quella parte di capitale (variabile) con cui il padrone
borghese può comandare la forza-lavoro acquistata e disporre del suo uso.
Ciò non ha, né può avere, nulla a che vedere con la
ripartizione del prodotto fatto fare a quella forza-lavoro, la quale non
partecipa né alla proprietà né, pertanto, alla determinazione (decisione
programmatica) di quel prodotto. Viceversa, l’uso egemone della parola
“salario” – capace di farsi accettare anche dalla pronità dell’apparato
sedicente sindacale e politico dell’asinistra – implica e fa intendere che si
tratti soltanto di equità o meno della distribuzione (proporzionale alla
“produttività”) di quel prodotto netto dato per acquisito col contributo
presuntivamente “simmetrico” e paritetico di tutti i “fattori della produzione”
(lavoro, capitale e terra). Della “dipendenza” assoluta del lavoro salariato
non c’è più traccia, e dello “sfruttamento” è meglio neppure parlare (né
pensarlo: oggi all’asinistra piace solo dire dello “sfruttamento delle
risorse” o della ... prostituzione). Il supposto “salario” degli economisti non
è propriamente salario!
Insomma, “fin dall’inizio lo "spirito" porta in sé
la maledizione di essere "infetto" dalla materia, che si presenta
sotto forma di strati d’aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio”,
secondo la concezione marxengelsiana. “Il linguaggio è antico quanto la
coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica”, sì che le parole
debbano corrispondere a ben precisi concetti.
E se si lotta affinché questi concetti,
e le categorie che li determinano, possano alfine prevalere, ciò non si può
perseguire se le “parole” usate non li rispecchiano adeguatamente. È per questa
ragione che Marx – secondo le testimonianze di tanti che hanno colloquiato con
lui – attribuiva un’importanza straordinaria alla correttezza dell’espressione,
imprecando ripetutamente contro “questi miserabili licei, queste miserabili
università” dove non si impara niente, neppure la lingua. Odiava usare parole
straniere quando se ne poteva fare a meno, ma ripeteva volentieri la massima:
“una lingua straniera è un’arma nella lotta della vita”, perché sapeva
benissimo che ciò equivaleva a conoscenza e a coscienza. Ovviamente, tutto
questo vale per una corretta e compiuta esposizione dei temi trattati, e non
certo per appunti, sintesi di letture, lettere e manoscritti, da parte di chi
vive da anni e anni in un paese straniero, dove si parla e si deve assimilare
una lingua diversa dalla lingua madre (Marx ha risieduto a Londra per decenni).
Ma se, invece degli sviluppi della cultura reale e della vita quotidiana, ci si
accomodi – com’è il caso dell’anglofilia attuale – su una piatta acquiescenza
al potere imperante, quella lingua straniera rimarrebbe “straniera”, cioè
estranea.
Il capitale, come modo di produzione, è sì in grado – per
sua stessa destinazione – di rendersi universale; ma ciò può avvenire
soltanto se si procede, con i tempi della storia, a una socializzazione
effettiva, materiale e culturale; se la conoscenza che essa implica si
estende realmente alla grande massa della popolazione mondiale coinvolta alla
lunga in siffatta trasformazione sociale. Chiunque legga deve poter capire, sia
pure con un necessario sforzo mentale, anche grande, ciò che legge nella propria
lingua, sapendo che lo sviluppo della cultura è reciproco tra chi ascolta e chi
comunica. Sicché chi usa le parole – molte purtroppo cadute in disuso rispetto
ai concetti loro corrispondenti e “difficili”, come dice Brecht, purché non più
di quanto serva – non può trascurare di rispettare codesta corrispondenza
irrinunciabile tra lingua e concetti. Adesso si è appena all’inizio di una
trasformazione sociale di massa e una lingua che debba corrisponderle
ancora è lungi dall’esistere (anche se un’egemonia si può intravedere, parallelamente
alla dominanza economica). Una lingua non si può inventare (come nella
vana speranza dell’“esperanto”), e tanto meno si può imporre, come
pretenderebbe – con la violenza dell’ideologia, della comunicazione e delle
armi – l’angloamericano.
Saluti a “pugno chiuso”: perché – dice giustamente Lepri –
c’è un pugno che non sia chiuso?
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