mercoledì 3 febbraio 2016

Parole (usi impropri, anglicismi, acronimi)* - Gianfranco Pala

Da:    http://www.gianfrancopala.tk/     (http://www.contraddizione.it/quiproquo.htm)
L’OMBRA DI MARX - estratti da “piccolo dizionario marxista” contro l’uso ideologico delle parole  

  “Nominibus mollire licet mala”, recita un proverbio latino che in italiano ora, morta quella lingua, si può semplicemente dire “al nome è consentito addolcire il male”. Già, perché – nonostante la ricchezza di alcune lingue (e, vivendo ancora qui, si può dire di quella italiana in particolare), e forse proprio per codesta ricchezza la quale designa una profonda storia contenutistica di concetti che l’ideo­logia dominante vuol far presto dimenticare – il linguaggio si sta impoverendo e imbastardendo sempre più. Undici anni fa, l’inaugura­zione di questa rubrica fu dedicata proprio a una breve considerazione di Engels e Marx sul “linguaggio”. Ci sembra perciò significativo, in questa occasione particolare, tornare sulla “critica del senso comune nell’uso ideologico delle parole”, che è quasi sempre un uso improprio delle “parole” stesse.

 E neppure parliamo qui di grammatica e sintassi, congiuntivo e condizionale, costruzione delle frasi, ecc. Inutile insistere neppure su fastidiose imprecisioni relative all’italiano moderno, come “fila” che al plurale, dal neutro latino, sta per fili e non va confuso con “file” che è il plurale corretto del singolare femminile fila. Così, a es., non esiste più la possibilità, ancorché su quasi tutta la stampa o nei cartelli e toponomastica ufficiale se ne faccia uno sconsiderato uso, di scindere preposizioni articolate – come “nel” o “del” – nei termini “ne il” o “de il”, giacché “ne” o “de” han­no ben altri significati [cfr. anche il poi citato Lepri]. Scrivere oggi “ne "la Contraddizione"” o “de "Il capitale"” è improprio e sbagliato. Chi si esprimerebbe con frasi tipo “de la medesima hora” o “ne lo tuo inferno”, se non un saggista medievale? Attualmente più nessuno. Quelle particelle infatti non designano più preposizioni semplici, bensì pronomi o forme avverbiali (e possono essere ancora usati solo se con l’apostrofo di elisione di una “i” finale, come de’ o ne’, per “dei” o “nei”). Ma lasciamo queste piccinerie, insieme a tante altre.

 Ci riferiamo, invece, all’invadenza di anglicismi (a quell’abitudine niente affatto necessaria, cioè, che non sia legata al progresso storico effettivo, e non certo al normale impiego di termini evidentemente anglofoni da parte di persone di madrelingua inglese), fatto soltanto in ossequio al balbettìo dei padroni imperanti, o pure all’ec­cesso sconsiderato di acronimi (molti, per giunta, anglofoni) di cui nemmeno i proni utilizzatori spesso conoscono il significato, o ancora allo stravolgimento italiota di termini nati con ben altri significati (si pensi per tutti a “rivoluzione”) o alla quasi sparizione di alcuni altri (come “imperialismo” o “lotta di classe”). L’uni­co termine, forse, che qui per ora si salva è “contraddizione”, il quale è probabilmente trascurato e quasi ignorato dal sistema (anche sul piano brutalmente commerciale, e ne abbiamo avuto una riprova empirica su internet), poiché è il concetto stesso di contraddizione ciò di cui il pensiero e la società dominante non sanno che vuol dire e che farsene.

 Ma “è dove mancano i concetti, che la parola soccorre a tempo giusto” – fa dire J.W. Gœthe al sarcasticamente ciarliero Mefistofele. E mette sulle sue labbra anche queste constatazioni: “con le parole si discute sempre bene, con le parole si preparano i sistemi, sulle parole si fonda nel modo migliore la fede e, quando la parola è data, non c’è più da cavarne neppure un iota”. E la stretta connessione tra concetto e linguaggio è un cardine intorno al quale ruota l’intero grande ragionamento di G.W.F. Hegel, da lui così esposto nella prefazione alla seconda edizione della Logica.
“Le forme del pensiero umano sono anzitutto esposte e consegnate nel lin­guaggio umano. Ai nostri giorni non si può mai ricordare abbastanza spesso che quello per cui l’uomo si distingue dall’animale è il pensiero. Quello di cui l’uomo fa linguaggio e che egli estrinseca nel linguaggio contiene, in una forma più inviluppata e meno pura, oppure all’incontro elaborata, una categoria. Il vantaggio di una lingua sta nell’esser ricca di espressioni logiche, proprie cioè e separate, per le determinazioni stesse del pensiero. La lingua tedesca si trova in questo senso molto avvantaggiata in confronto alle altre lingue moderne. Molte sue parole possiedono anzi anche la proprietà di avere significati non solo diversi, ma opposti, cosicché anche in questo non si può non riconoscere un certo spirito speculativo della lingua. Per il pensiero può ben essere una gioia imbattersi in codeste parole, e riscontrare già in una maniera ingenua, lessicalmente, in una sola parola di opposti significati, quella unione di opposti che è un risultato della speculazione, benché sia contraddittoria per l’in­tel­letto”.

 E nella maniera seguente Hegel precisa anche il rapporto tra lo sviluppo dei concetti e quello della lingua. “Il progredire della cultura in generale, e in particolare delle scienze, perfino delle scienze empiriche, mette a poco a poco in luce anche rapporti di pensiero più elevati, e dà loro per lo meno una maggiore universalità, così da attirar su di sé un più alto grado di attenzione”. E Engels ripeteva che “ogni concezione nuova di una scienza racchiude una rivoluzione nelle espressioni tecniche di questa scienza”. Ma, precisava Hegel, la speculazione concettuale “non ha bisogno in generale di alcuna speciale terminologia”. È per questi motivi che, necessariamente, l’uso di “alcune parole prese in prestito da lingue straniere, ha già procurato il diritto di cittadinanza nella lingua, mentre un’affetta­zione di purismo sarebbe addirittura fuori di luogo, là ove non si deve assolutamente guardare che alla cosa”.

 Senonché, qualora la riflessione speculativa sulla “cosa” non proceda dal “progredire della cultura in generale”, ma anzi piuttosto dal suo rabbassamento privo di concettualità, più d’una parola “un po’ troppo, a torto o a ragione, introdotta un po’ dappertutto” serve solo a nascondere il vuoto di “rapporti tali che hanno per base il pensiero”. Scriveva Marx in sèguito, che è il carattere dei rapporti con gli altri, attraverso l’appar­tenenza del­l’individuo a una comunità, con la sua attività lavorativa, a determinarne il linguaggio. Ed è proprio il vuoto oggi imperante che ha imposto l’uso di parole effimere e malmesse. Hegel dice che “la determinazione di una differenza nella quale i differenti sono legati insieme inseparabilmente” è tipica di una lingua “ricca di espressioni logiche”, circostanza che è affatto ignorata in lingue povere di contenuto.

 Nella prefazione all’edizione inglese del Capitale, Engels indica l’inevi­tabile difficoltà consistente nel­l’“uso di certi termini con un significato diverso non solo dall’uso della lingua di ogni giorno, ma anche da quello del­l’economia politica comune. L’eco­nomia politica si è accontentata, in ge­nerale, di prendere i termini della vita commerciale e industriale così com’e­rano, e di operare con essi, non avvedendosi affatto che in tal modo si limitava alla ristretta cerchia delle idee espresse in quelle parole”. E “non è mai andata al di là delle nozioni comunemente accettate di profitto e di rendita”, e, peggio ancora, di salario.

 Già nella terza edizione (in tedesco) Engels seguì il principio marxiano di evitare “quello strano pasticcio linguistico” del “gergo corrente” in cui, a es., “colui il quale si fa dare del lavoro da altri contro pagamento in contanti, si chiama "datore" di lavoro, e "prenditore" di lavoro si chiama colui al quale viene preso il proprio lavoro contro il pagamento di un salario”. Nella vita di tutti i giorni – annota ancora – “lavoro” viene utilizzato al posto di “occupazione” (così come sono invertite, nel gergo comune, le definizioni di “domanda” e “offerta” di lavoro). “Ma è ovvio che una teoria la quale consideri la produzione capitalistica moderna come un puro e semplice stadio transeunte della storia economica dell’umanità, deve usare termini diversi da quelli abitualmente usati da scrittori che considerano imperitura e definitiva tale forma di produzione”. È ovvio? Con l’aria di passività pratica e di ignoranza teorica che tira sull’asini­stra odierna, tale “ovvietà” cade insieme all’uso di categorie e termini diversi da quelli dominanti.

 Tutte queste sono le ragioni per cui Marx si lamentava della lingua inglese (ma in parte anche del francese) in occasione delle traduzioni del Capitale. Codeste ragioni Marx rese precisamente rintracciabili, come rammenta Engels, “in una serie di istruzioni manoscritte per la traduzione inglese”, dove è indicato in quale luogo “eliminare espressioni tecniche inglesi e altri anglicismi”. L’inglese esprime una tradizione schematica ed estremamente classificatoria, del tutto mancante proprio di quella contraddizione “nella quale i differenti sono legati insieme inseparbilmente”. La mancanza di legàmi, anzi, è un principio che caratterizza quasi tutte le parole usate in quella lingua. “È maledettamente difficile render chiaro agli inglesi il metodo dialettico – scriveva a Engels nel 1868 – e non puoi davvero pensare di parlare a questa plebaglia”.

 Lungi dall’anticipare la speculazione, per cercare di dover comprendere i diversi significati in cui una parola può essere usata, l’unicità di un termine per diversi concetti è invece proprio l’opposto di ciò che si vorrebbe, poiché piuttosto esso è monocorde e conduce a un’indicibile confusione tra tali concetti. Marx fa l’esempio dell’esistenza in inglese della sola parola “money” per dire sia “moneta” che “denaro”; e se ne può avere un riscontro evidente nella rivisitazione che egli fa degli studi, peraltro pionieristici, di James Steuart, ma anche di David Hume. Sicché è pressoché impossibile, in simili casi (tranne rare eccezioni, perlopiù presenti solo nell’inglese sette-ottocente­sco) rendere correttamente la differenza tra le “cose” che in altre lingue sono rappresentate da termini diversi, o viceversa in forma dialettica. La ristrettezza “commerciale” della lingua anglofona (particolarmente nella versione usamericana), nella sua struttura logica formale, non lo consente, e occorre pertanto ricorrere spesso a giri di parole.

 Non è il caso, e neppure è possibile tentare, di fare un qualche elenco oggi esauriente di parole (per lo più anglofone, imposte dall’egemonia Usa nel mondo). Ciò che ha rilevanza è vedere quali parole rispondano a concetti nuovi dovuti a effettivi progressi della cultura, e quali al contrario – preesistendo anzi abbondantemente in altre lingue (a es., nel caso presente, in italiano) – siano state introdotte come neologismi al posto di quelle. Il più delle volte ciò rispecchia una stolida piaggeria, di subordinazione che (se i tempi fossero diversi) potrebbe dirsi quasi di adulante sudditanza “neocoloniale”, nei confronti del potere dominante; ma oramai, sempre meno di rado, una simile attitudine non fa altro che rivelare un’ignoranza che, a imitazione del potere, si è sempre più venuta cumulando negli anni.

 Che l’inglese rispecchi coerentemente la sua matrice empiristica, si è detto; in codesta loro peculiarità, quindi, le lingue anglofone in generale, e il vocabolario usamericano in particolare, non sono in grado di presentare quell’elasticità dialettica consentita a lingue come il tedesco o l’i­taliano. Perciò, allorché si addivenga a un trito scimmiottamento di una lin­gua concettualmente più povera, la lingua più ricca ed espressiva è destinata a decadere. Anzi, l’uso rabbassato che i “sudditi” stranieri fanno del­l’inglese diviene così la causa ultima di simile pedestre imitazione, giacché la povertà delle parole male usate non può che riflettere quella di concetti andati inesorabilmente perduti. Accedere a simili insulse mode designa unicamente una subalternità ideologica che non può non essere combattuta al pari di quella condotta sulla diversità di contenuti.

 Parole anglofone direttamente inserite nella lingua italiana sono attualmente di gran moda, nella corsa a chi arriva prima a soddisfare il “padrone amerikano”. Del resto, che cosa ci si può aspettare da coloro che si fanno rappresentare da chi propugna “tre i”, da intendere per impresa, informatica, inglese? Da costoro, infatti, l’ita­liano è ignorato, tragicamente massacrato in sintassi e semantica.  Non è un caso, come già accennato a proposito di quanto notò Engels nell’epoca del dominio britannico, che la maggior parte delle parole straniere (anglofone) provengano da questioni di economia, “scienza” empirica principe nel sistema di potere dell’imperia­lismo capitalistico, in una staffetta che ha visto il succedersi del secolo della Gran Bretagna con quello Usa. Il detto “time is money” – il tempo è denaro, che però per loro, come detto sopra, sarebbe più rozzamente il tempo è ... moneta – ben esprime questa misera condizione.

 Un po’ diverso è il caso di parole entrate nell’uso, a es., per i problemi dell’informatica, poiché qui in gran parte si può trattare effettivamente di concetti nuovi che hanno richiesto corrispondenti termini nuovi [a parte questioni meramente “tecniche” tipografiche, ancorché buffe, come il recupero, con attribuzione di altro significato, della @ – ossia la “a” com­merciale – che già da secoli figurava, al pari della & (“e” commerciale, che mantiene il suo significato connesso al riferimento ai soci di un’impresa), nei libri contabili dei ragionieri italiani per denotare partite di debito e credito]. Sarebbe assai difficile, e un purismo fuori luogo, cambiare termini come pc (personal computer), che lo chauvinismo francese ha fatto ribattezzare “ordinateur” (come il net del tennis, da loro rinominato filet – per fortuna, e per ovvi motivi di storia politica, senza chiamare “pallacorda” il tennis); parole ormai invalse nell’uso corrente, come hardware e software, sarebbe disdicevole tradurre letteralmente come “oggetto duro” e “oggetto moscio”!

 Tuttavia, anche in questo settore innovativo, è opportuno stare attenti. Dire di un programmatore informatico che è un softwarista è abbastanza squallido; in questo senso, anche i due termini di base suddetti, da non cambiare, possono tuttavia, qualora le circostanze lo consentano, essere agevolmente espressi con sinonimi adeguati quali “macchine” e “programmi”. Sicché, a es., chiamare “trojans” quella varietà dei cosiddetti “virus informatici” che si intrufolano nascostamente nelle macchine è frutto solo dell’ignoranza omerica degli usamericani e dei loro imitatori: il cavallo di Troia (sarebbe “trojan horse” in inglese, per completezza) ha invece reso i “troiani” non vittime ma, come parrebbe dal termine usato, sabotatori (i quali al contrario sarebbero semmai gli “achei”, ossia “achæi” per intendersi). In effetti, molte parole, sull’onda della novità complessiva del­l’intero settore di ricerca, sono rimaste passivamente scritte e (mal) lette nel loro anglicismo, quando già esistevano da tempo equivalenti italiani. Dire una “mail” non serve a niente, quando c’è “lettera”, “messaggio” o “posta”, a seconda dei casi. Oppure “dot” ha sempre voluto dire semplicemente “punto”. E così via.

 Ma basta sfogliare qualche rapporto – anzi, scusate, “report”! – ufficiale, o un banale compitino scritto da semplici subalterni, lavoratori o studenti, per trovare simili testi pieni zeppi di siffatte nefandezze. Perché definire paper un articolo, una relazione, una comunicazione scritta; o restringere a budget la quantità di significati che vanno dalle varie forme di bilancio (preventivo, di cassa, consuntivo, ecc.) a finanziamento o stanziamento; o denotare con return quello che da immemore tempo in italiano si dice rendimento, lasciando quel termine inglese al suo più comune significato di ritorno o restituzione. È il vezzo di usare parole straniere laddove ci sono parole italiane in tutto e per tutto corrispondenti. Non c’è che da sbizzarrirsi [un’autorevo­le fonte si può trovare in Sergio Lepri, Dizionario della comunicazione, Le Monnier, Firenze].

 Una lista assai parziale dell’inutile uso di tali parole straniere (di cui neppure è il caso di dare qui sempre l’equivalente in italiano) è sufficiente per farsi una pallida idea della barbarie che avanza. Si può cominciare a sciorinare qualcosa (in prevalente ordine alfabetico o logico): assets (attività, patrimonio), audience, audi­t­ing (verifica contabile), authority (organismo di vigilanza), broker, brunch (segno del cattivo gusto alimentare importato dagli Usa al seguito delle loro schifose cibarie, insieme a fast food), business (da intendersi come affare), capital gains, cash flow, consumer, convention, dépliant, éclatante (che è francese, quando c’è “clamoroso”), executive (dirigente, come pure manager, o vice director che neppure sta a significare, anglofonicamente, il ruolo di “vice”, il quale, in quanto facente funzione di direttore o presidente, si dice deputy), expertise (ancora francese, non inglese, per perizia), factoring (recupero crediti), fan, feedback, feeling, fixing, future (contratto borsistico futuro), gag, gap (divario), information (technology), insider trading (volgarmente aggiotaggio), joint venture (società congiunta), killer, leader (guida, capo, cui si associano gli altrettanto inutili premier e first lady), leasing (locazione con riscatto), link (collegamento), media (che sta per mezzi di comunicazione e semmai è latino, non inglese, e quindi pure doppiamente fuori luogo anche nel pronunciare “mìdia”; così come, tra la massima indifferenza, è invalsa l’abitudine di dire “caraibi” anziché “caribe”, il che equivarrebbe a pronunciare ... “paitsa” anziché “pizza”), merchant bank (banca d’affari), merger (fusione), network (rete; recentemente alla tv italiana si è sentito dire che la dizione “catena di sant’antonio” è vecchia: ora si dice ... communication net­work), new economics, offshore (nel senso di paradisi fiscali), option (opzione, con call per acquisto e put per vendita), performance (semplicemente prestazione, risultato), question time (per interrogazione), rate, ratio, recital, revival, securities (titoli), sponsor (patrocinio), standby (linea di credito), supply, survey (banalmente rassegna, insieme a abstract che è estratto o riassunto di un ... paper), swap (negoziazione a scadenza), take over (presa di controllo), target, turn­over (ricambio), week end (da abbinare con shopping) ... e chi ne ha più ne metta!

 Poi si possono anche indicare anglicismi inimmaginabili (come customizzare) o ancora fidelizzare, e traduzioni di parole inglesi con assonanze italiane che avrebbero tutt’altro significato: come “globale”, “globalizzazione” e simili che, se non riferiti al pianeta terra, in italiano indicano solo genericamente qualcosa di sferico o di totale, complessivo; oppure suggestione (da suggestion) che in italiano ha ben altro senso che non suggerimento; o supportare, verbo che c’è in francese e inglese (rispettivamente, supporter e to support), ma che in italiano non esiste, essendoci invece solo il sostantivo “supporto”, che si usa però per denotare piuttosto un qualcosa di utensileria: come se, invece, i sostenitori di una squadra sportiva fossero detti in italiano i “supportatori”! C’è pure stage, che è parola squisitamente francese nel significato di tirocinio, formazione o aggiornamento professionale, e che in francese va inesorabilmente pronunciata; mentre l’equivalente scrittura inglese, che in quest’altra lingua si legge più o meno “steig(e)”, ha tut­t’altro significato, ossia palcoscenico (roba di teatro o cinema, ecc.), o sem­mai stadio inteso come fase epocale di sviluppo; invece quasi tutti, anche gli “eruditi” dicono all’inglese la parola francese, e sbagliano completamente senso (proponendo, a es., a un neodottore di andare a fare esperienza all’estero su un ... palcoscenico).

 L’uso di abbreviazioni estremamente stenografiche (pure troppo!) può anche aver un’origine “commerciale”, da nuove tecnologie informatiche, per ridurre i costi, come, a es., la lunghezza dei cosiddetti “messaggini” (sms ecc., appunto!) che rende conveniente digitare “cmq” (per “comunque”, e non per centimetri quadrati, come una volta) oppure “x” (al posto di “per”) e “+” (al posto di “più”). Senonché la moda va oltre, e sull’esempio Usa si mettono cifre o lettere al posto di preposizioni o parole quasi omofone, sicché “2” sta per “to” o “too” a seconda dei casi, “4” per “for” e “U” per “you”: col bel risultato di trovarsi di fronte a scritte iniziatiche quali “2U” o “U2”, rispettivamente per “to you” (“a te”) o “you too” (“anche tu”), “4U” per “for you” (per te) ovvero “P2P” che anziché rappresentare un codice criptato da logge occulte esprime semplicemente l’operazione di scambio musicale informatico “alla pari” comunemente detto in inglese “peer to peer”!   

 Ci sono poi parole inglesi il cui uso è paradossalmente invalso più al di fuori dei paesi anglosassoni che al loro interno, poiché il significato di quei termini nella loro patria d’origine, ammesso e niente affatto concesso che ne esista uno, è quanto meno desueto o avente altro significato: footing vuol indicare solamente la ricerca di un equilibrio sul piede, e non jogging; autostop non è inglese (dove quell’a­zione si dice hitch-hiking), come flipper (che è detto pinball), o smoking, qui poco ... elegantemente usato al posto di dinner jacket (inglese) o tuxedo (usamericano); edit (con tutti i suoi derivati) sta per redigere ed è sbagliato riferire quei termini all’edi­tore (sì che editor in italiano è il curatore e perciò neppure va detto “editoriale” per un articolo di fondo); spot, che vuol dire posto o macchia, ha poco o niente a che vedere con la pubblicità; perfino scoop, di cui purtuttavia è invalso l’uso come metafora per esclusiva giornalistica, sta originariamente per raccogliere l’acqua. Anche le parole cric e crac, se usate, vanno scritte senza “k” finale.

 È bene anzitutto precisare che [cfr. Lepri] in italiano le sigle è ormai meglio scriverle tutte minuscole (senza interpunzione) quando sono usate come nomi comuni (a es., iva, pil, spa, ecc., come pure roe, ceo, ecc.); la stessa regola vale per parole particolari, come “stato”, “chiesa”, ecc., allorché siano usate in maniera generica. In tali casi la lingua italiana non vuole affatto l’iniziale maiuscola – da riservare unicamente all’uso specifico di tali nomi o sigle (a es., si veda dopo, Nato, Onu, ecc.) – che viceversa è impropriamente spesso scritta a imitazione del tedesco che, a sua volta, è ripetuto nell’inglese arcaico. 

 Anche per acronimi e sigle anglofone, scopiazzate in italiano, non c’è che l’imbarazzo della scelta, per la quantità che se ne ha e si inventa: roe e roi (che stanno per return on equity e return on investment), mentre poi c’è rol (che invece è italiano per “riduzione dell’orario di lavoro”, ma che quasi quasi per i padroni sarebbe forse meglio fraintendere per ... return on labor!); ceo (ovvero chief execu­tive officer, con diverse varianti nelle iniziali incluse nell’abbreviazione, a seconda dell’attività svolta dal “dirigente” – di ciò si tratta – in questione). Le comunicazioni senza fili sono cripticamente sintetizzate in wifi (per non dire di cordless), e via siglando.

 Ancora altri acronimi sono ottenuti per riduzione enigmatica a sigle di iniziali (che se un lettore si è dimenticato, o non si è avveduto, di che cosa si stia parlando deve sempre tornare a reperire nel testo, il quale acquisisce così, almeno in letteratura italiana, anche una veste più brutta: valga come esempio la scrittura di “c.d.” per “cosiddetto”, che non è un “compact disc”). Soprattutto in francese (per volontà del formalismo strutturalista) tali acronimi, che conservano spesso la loro scrittura anche in italiano per la comune base neolatina, si applicano anche a concetti sociali quali mpc, rs, fp (ossia “modo di produzione capitalistico”, “forze produttive”, “rapporti sociali”), ecc. In italiano si ha anche a che fare con l’amministratore delegato ad (che non è l’“anno domini”) e cose simili. A proposito di forme derivate dal latino è anzitutto erroneo l’uso (americano?) invalso di mettere un trattino di congiunzione dove assolutamente non va, come a es. in ex-ante, pro-capite, ex-Urss, ecc. 

 Poi, è meglio non dire del recupero di termini neolatini via Usa, come deficit più usato di “disavanzo”, sicché non si dà il corrispettivo positivo di “avanzo”; né di termini complementari quali junior o senior, pronunciati “giunior” e “sinior” (quanto a pronuncia, tra le infinite altre scorrettezze segno di palesi eccessi anglici, oltre ai già citati “mìdia” ecc., un caso tipico è il ricordato abuso di management, e derivati, dove l’accento è messo quasi sempre male, diventando “manàgement”).

 Le sigle di organismi vari sono quel­le che sono (come già spiegato – cfr. Lepri – è più corretto scrivere anche queste senza interpunzione e solo con l’iniziale maiuscola seguìta da tutte minuscole). Senonché, spesso ormai qualsiasi organizzazione occupa una sigla, talché càpita che sigle uguali si riferiscano a organizzazioni diverse, procurando una poco encomiabile confusione; per giunta varie volte si usano le loro iniziali secondo le differenti lingue che le designano. Così Ocse, Oecd, Oced sono la stessa cosa; o Imf e Fmi, come Wb o Bm che sarebbe Ibrd; o Bis nota anche come Bri, ecc., con l’aggravante che spesso su uno stesso documento si scrive una sigla a volte secondo le iniziali di una lingua e altre in base a una lingua diversa. Non parliamo poi di sigle di iniziative specifiche, come Hipc per i paesi poveri fortemente indebitati, o Prsp al fine di indicare il documento per la strategia della riduzione della povertà o Gopac “semplicemente” per denotare l’organizzazione mondiale governativa contro la corruzione: la cattiva infinità di sigle e termini può continuare.

 Si è avuta occasione di osservare, qua e là, che quanto all’imbarbari­mento anche della lingua italiana non c’è da scherzare: più tempo passa con l’abuso di anglicismi e peggio è. Per parole italiane “passate a miglior vita”, basti pensare solo per un attimo alla “rivoluzione” attribuita pubblicitariamente a deodoranti o cibi precotti, così come la “flessibilità” è pure diventata un felice pregio degli assorbenti. In linea con le vecchie osservazioni di Engels circa il gergo corrente dell’economia anche parole quali classi, imperialismo, mercato, produttività, salario, ecc. sono stravolte nel loro stesso àmbito. Le “classi” – e precipuamente la loro inevitabile lotta – è meglio neppure nominare; si fa capire che esse non esistono più, ammesso che se ne sia mai supposta l’esistenza, ignorando, facendo ignorare e fingendo di ignorare, quale sia il loro nesso economico con i “rapporti di proprietà” (così come l’i­deologia dominante usa parole a vanvera mascherate d’asinistra quali “fine del lavoro” o “fine della storia”). Di “imperialismo” si è detto prima per cenni: basterà ricordare adesso solo la sua rimozione a opera del pensiero storico liberale, che pure con Hobson aveva per primo coniato quella parola. Il “mercato” di cui normalmente si sente parlare va dall’immagine familiare della bancarella rionale all’ano­nimato assolutamente impersonale dei “mercati” (quasi che fosse il fato divino a configurarlo), purché si resti rigidamente vincolati alla “distribuzione del reddito” e non si traggano le giuste conclusioni sul mercato di capitali. La parola “produttività” (sociale del lavoro, o del lavoro sociale, precisa Marx) che si riferisce all’ottenimento di differenti risultati a parità di lavoro, viene invece ripetutamente confusa con altre quattro o cinque accezioni che implicano viceversa un diverso uso della forza-lavo­ro, sia estensivamente (durata) che intensivamente (ritmi di lavoro).

 Ma una parola determinate, qualificante per la comprensione concettuale dell’intero modo di produzione capitalistico [ops!, mpc], è “salario”. Il suo uso improprio risale ai precursori ottocenteschi del cosiddetto “marginalismo” della teoria economica. Qual­siasi persona di buon senso sa perfettamente che chi vive di salario lavora alle “dipendenze” di qualcun altro – il padrone capitalista, proprietario di tutte le condizioni della produzione, oggettive e pure quelle soggettive della forza-lavoro, dato che è l’unico a poterle comprare – e, dopo la vendita ad altri (alienazione, in preciso senso etimologico) della sua unica merce, la forza-lavoro, lavora e percepisce reddito non solo per se stesso ma per l’intera classe proletaria affatto priva di proprietà. Dunque il salario, propriamente detto, è originariamente quella parte di capitale (variabile) con cui il padrone borghese può comandare la forza-lavoro acquistata e disporre del suo uso.

 Ciò non ha, né può avere, nulla a che vedere con la ripartizione del prodotto fatto fare a quella forza-lavoro, la quale non partecipa né alla proprietà né, pertanto, alla determinazione (decisione programmatica) di quel prodotto. Viceversa, l’uso egemone della parola “salario” – capace di farsi accettare anche dalla pronità dell’apparato sedicente sindacale e politico dell’asinistra – implica e fa intendere che si tratti soltanto di equità o meno della distribuzione (proporzionale alla “produttività”) di quel prodotto netto dato per acquisito col contributo presuntivamente “simmetrico” e paritetico di tutti i “fattori della produzione” (lavoro, capitale e terra). Della “dipendenza” assoluta del lavoro salariato non c’è più traccia, e dello “sfruttamento” è meglio neppure parlare (né pensarlo: oggi all’asi­nistra piace solo dire dello “sfruttamento delle risorse” o della ... prostituzione). Il supposto “salario” degli economisti non è propriamente salario!

 Insomma, “fin dall’inizio lo "spirito" porta in sé la maledizione di essere "infetto" dalla materia, che si presenta sotto forma di strati d’aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio”, secondo la concezione marx­engelsiana. “Il linguaggio è antico quan­to la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica”, sì che le parole debbano corrispondere a ben precisi concetti. 

 E se si lotta affinché questi concetti, e le categorie che li determinano, possano alfine prevalere, ciò non si può perseguire se le “parole” usate non li rispecchiano adeguatamente. È per questa ragione che Marx – secondo le testimonianze di tanti che hanno colloquiato con lui – attribuiva un’importanza straordinaria alla correttezza dell’espressione, imprecando ripetutamente contro “questi miserabili licei, queste miserabili università” dove non si impara niente, neppure la lingua. Odiava usare parole straniere quando se ne poteva fare a meno, ma ripeteva volentieri la massima: “una lingua straniera è un’arma nella lotta della vita”, perché sapeva benissimo che ciò equivaleva a conoscenza e a coscienza. Ovviamente, tutto questo vale per una corretta e compiuta esposizione dei temi trattati, e non certo per appunti, sintesi di letture, lettere e manoscritti, da parte di chi vive da anni e anni in un paese straniero, dove si parla e si deve assimilare una lingua diversa dalla lingua madre (Marx ha risieduto a Londra per decenni). Ma se, invece degli sviluppi della cultura reale e della vita quotidiana, ci si accomodi – com’è il caso dell’an­glofilia attuale – su una piatta acquiescenza al potere imperante, quella lingua straniera rimarrebbe “straniera”, cioè estranea.

 Il capitale, come modo di produzione, è sì in grado – per sua stessa destinazione – di rendersi universale; ma ciò può avvenire soltanto se si procede, con i tempi della storia, a una socializzazione effettiva, materiale e culturale; se la conoscenza che essa implica si estende realmente alla grande massa della popolazione mondiale coinvolta alla lunga in siffatta trasformazione sociale. Chiunque legga deve poter capire, sia pure con un necessario sforzo mentale, anche grande, ciò che legge nella propria lingua, sapendo che lo sviluppo della cultura è reciproco tra chi ascolta e chi comunica. Sicché chi usa le parole – molte purtroppo cadute in disuso rispetto ai concetti loro corrispondenti e “difficili”, come dice Brecht, purché non più di quanto serva – non può trascurare di rispettare codesta corrispondenza irrinunciabile tra lingua e concetti. Adesso si è appena al­l’inizio di una trasformazione sociale di massa e una lingua che debba corrisponderle ancora è lungi dall’esi­stere (anche se un’egemonia si può intravedere, parallelamente alla dominanza economica). Una lingua non si può inventare (come nella vana speranza dell’“esperanto”), e tanto meno si può imporre, come pretenderebbe – con la violenza dell’i­deologia, della comunicazione e delle armi – l’angloamericano.

 Saluti a “pugno chiuso”: perché – dice giustamente Lepri – c’è un pugno che non sia chiuso
                       

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