In un’estesa intervista l’ex ministro greco delle finanze
Yanis Varoufakis sostiene che lo Stato-nazione è morto e che la democrazia
nell’UE è stata sostituita da una tossica depoliticizzazione algoritmica che,
se non contrastata, condurrà alla depressione, alla disintegrazione e forse
alla guerra in Europa. Varoufakis sollecita il lancio di un movimento
paneuropeo per democratizzare l’Europa, per salvarla prima che sia troppo
tardi. Intervista di Nick Buxton per il Transnational Institute
(TNI).
Quali consideri le maggiori minacce alla democrazia oggi?
La minaccia alla democrazia è sempre stata il disprezzo che
il sistema prova per essa. La democrazia, per sua stessa natura, è molto
fragile e l’antipatia nei suoi confronti da parte del sistema è sempre
estremamente pronunciata. Il sistema ha sempre cercato di svuotarla.
Questa storia risale all’antica Atene, ai primi tentativi di
dar vita ad una democrazia. L’idea che i poveri, che erano la maggioranza,
potessero controllare il governo era sempre contestata. Platone scrisse La
Repubblica come trattato contro la democrazia, argomentando a favore
di un governo degli esperti.
Analogamente nel caso della democrazia statunitense, se si
guarda ai documenti federalisti e ad Alexander Hamilton, si vedrà che c’era un
tentativo di contenere la democrazia, non di rafforzarla. L’idea che stava
dietro alla democrazia rappresentativa era che i mercanti rappresentassero il
resto della popolazione perché la plebe non era considerata all’altezza del
compito di decidere su importanti questioni di Stato.
Gli esempi sono innumerevoli. Si consideri soltanto quello
che è successo con il governo Mossadeq in Iran negli anni ’50 o con il governo
Allende in Cile. Ogni volta che le urne producono un risultato che non piace al
sistema, il processo democratico è rovesciato oppure è minacciato di essere
rovesciato.
Dunque, se mi chiedi chi sono e sono sempre stati i nemici
della democrazia, la risposta è: i grandi poteri economici.
Quest’anno pare che la democrazia sia sotto attacco più
che mai da parte di un potere radicato. La tua percezione è questa?
Questo è un anno speciale a tale riguardo poiché abbiamo
avuto l’esperienza della Grecia, dove nelle elezioni la maggioranza dei greci
ha deciso di sostenere un partito anti-establishment, SYRIZA, che è salito al
potere “dicendo la verità al potere” e sfidando l’ordine costituito in Europa.
Quando la democrazia produce ciò che il sistema ama sentire,
allora la democrazia non è una minaccia, ma quando produce forze anti-sistema e
rivendicazioni, è allora che la democrazia diventa una minaccia. Siamo stati
eletti per sfidare la troika dei creditori ed è stato a quel punto che la
troika ha affermato con assoluta chiarezza che alla democrazia non può essere
consentito di cambiare nulla.
Sulla base del tuo periodo da ministro greco delle
finanze, che cosa ti ha rivelato l’esperienza a proposito della natura della democrazia
e del potere? Quali sono le cose che ti hanno sorpreso?
Ci sono andato con gli occhi bene aperti. Non avevo
illusioni. Ho sempre saputo che le istituzioni dell’Unione europea a Bruxelles
– la Banca centrale europea e altre – erano state create progettualmente come
zone aliene alla democrazia. Non è che un deficit di democrazia si è
improvvisamente insinuato nell’UE; essa è stata creata principalmente come un
cartello dell’industria pesante, che ha finito poi per cooptare anche gli
agricoltori, principalmente gli agricoltori francesi. Ed è sempre stata
amministrata come un cartello; non è mai stata intesa come l’inizio di una
repubblica o di una democrazia in cui “noi, il popolo” dettiamo legge.
Riguardo alla tua domanda, mi hanno colpito un paio di cose.
La prima è la sfacciataggine con cui mi è stato chiarito che la democrazia era
considerata irrilevante. Nella primissima riunione dell’Eurogruppo a cui ho
partecipato, quando ho cercato di fare un’affermazione che non pensavo sarebbe
stata contestata – cioè che rappresentavo un governo neo-eletto il cui mandato
andava rispettato in una certa misura, che questo avrebbe dovuto alimentare un
dibattito su quali politiche economiche dovessero essere applicate alla Grecia,
ecc. – sono rimasto attonito nel sentire il ministro delle finanze tedesco
dirmi, alla lettera, che alle elezioni non può essere consentito di cambiare
una politica economica stabilita. In altri termini, che la democrazia va bene
fintanto che non minaccia di cambiare nulla! Anche se mi aspettavo che la
musica fosse quella, non ero preparato a sentirmela suonare così brutalmente.
La seconda cosa per la quale dovrei dire che non ero
preparato, per parafrasare la famosa espressione di Hannah Arendt sulla
banalità del male, era la banalità della burocrazia. Mi aspettavo che i
burocrati di Bruxelles fossero molto sprezzanti della democrazia, ma mi
aspettavo che fossero garbati e tecnicamente competenti. Invece sono rimasto
sorpreso nel constatare quanto erano banali e, da un punto di vista tecnocratico,
quanto erano scadenti.
Come funziona dunque il potere nell’Unione europea?
La cosa principale da osservare riguardo all’UE è che
l’intera attività di Bruxelles è basata su un processo di depoliticizzazione
della politica che consiste ne prendere quelle che sono essenzialmente
decisioni profondamente e irrevocabilmente politiche e forzarle nel regno di
una tecnocrazia dominata dalle regole, un approccio algoritmico. È la pretesa
che le decisioni riguardo alle economie in Europa siano semplicemente problemi
tecnici che hanno bisogno di soluzioni tecniche decise da burocrati che seguono
regole prestabilite, proprio come un algoritmo.
Così, quando si cerca di politicizzare il processo, si
finisce con un genere particolarmente tossico di politica. Per farti solo un
esempio, nell’Eurogruppo stavamo discutendo la politica economica relativa alla
Grecia. Il programma che avevo ereditato come ministro delle finanze fissava un
obiettivo di avanzo primario del 4,5 per cento del PIL, che consideravo
esageratamente elevato. E lo stavo contestando su basi puramente tecniche, di
teoria macroeconomica.
Così mi è stato immediatamente chiesto quale avrei preferito
fosse l’avanzo primario. Ho cercato di fornire una risposta onesta, affermando
che doveva essere considerato alla luce di tre fattori e dati chiave: gli
investimenti in rapporto ai risparmi, le scadenze del rimborso del debito e il
deficit o avanzo di partita corrente. Ho cercato di spiegare che se volevamo
far funzionare il programma greco dopo cinque anni di fallimento catastrofico
che avevano condotto alla perdita di quasi un terzo del reddito nazionale
avremmo dovuto considerare queste tre variabili insieme.
Ma mi è stato detto che le norme affermano che dovevamo
considerare un unico numero. Così ho replicato: «E allora? Se c’è una norma
sbagliata dovremmo cambiarla». La risposta è stata: «Una norma è una norma!». E
io ho rimbeccato affermando: «Sì, questa è una norma, ma perché dovrebbe essere
una norma?». A quel punto ho ricevuto una risposta tautologica: «Perché è la
norma». Questo è quel succede quando si abbandona un processo politico a favore
di un processo dominato da norme: finiamo con un processo di depoliticizzazione
che porta a politiche tossiche e ad una cattiva economia.
Un altro esempio che vorrei farti è che, a un certo punto,
stavamo discutendo del programma greco e dibattendo la formulazione di un
comunicato che doveva uscire riguardo a quella riunione dell’Eurogruppo. Io ho
detto: «D’accordo, citiamo la stabilità finanziaria, la sostenibilità fiscale –
tutte cose che la troika e altri volevano fossero dette – ma parliamo anche
della crisi umanitaria e del fatto che ci stiamo occupando di cose come una
fame diffusa». La risposta che ho ricevuto è stata che ciò sarebbe stato
“troppo politico”. Che non possiamo avere simili “espressioni politiche” nel
comunicato. Così i dati sulla stabilità finanziaria e sull’avanzo di bilancio
andavano bene, ma dati sulla fame e sul numero di famiglie senza accesso
all’elettricità e al riscaldamento in inverno non andavano bene perché erano
“troppo politici”.
Ma tutto questo sforzo di depoliticizzazione in realtà è
profondamente politico, visto che il neoliberismo e un processo politico.
Ma loro non la pensano così. Si sono convinti che esistono
certe regole che riguardano variabili ed equazioni naturali e che tutto il
resto non c’entra. E così che la pensano.
È sempre stata condannata al fallimento o ci sono stati
dei processi o degli eventi particolari che hanno minato la democrazia in
Europa, come il Trattato di Maastricht?
Quello che sto per condividere è più o meno il tema del mio
libro, che uscirà ad aprile ed è intitolatoAnd the weak suffer what they
must? Europe’s crisis, America’s economic future (‘E il debole subisca
quel che deve subire? La crisi dell’Europa, il futuro economico degli Stati
Uniti’). Il titolo deriva dall’antico greco Tucidide e dal dibattito da lui
riportato tra i generali ateniesi e i melii, che furono infine sconfitti dai
generali.
Il punto che sto sostenendo è il seguente: diversamente
dagli Stati statunitense, tedesco o britannico che sono emersi da secoli di
evoluzione, attraverso i quali lo Stato si è evoluto come strumento funzionale
per risolvere diversi generi di conflitti sociali, l’UE ha seguito una strada
diversa. Ad esempio, se si prende lo Stato britannico, la gloriosa rivoluzione
del 1688 è stata incentrata sul porre limiti al potere della monarchia in
conseguenza degli scontri tra i baroni e il re; le riforme successive sono
state il risultato di conflitti tra gli aristocratici ed i mercanti, poi tra i
mercanti e la classe operaia. È così che si evolve uno Stato normale ed è così
che nascono le democrazie liberali.
Ma l’UE non si è affatto evoluta così. La sua formazione,
come dicevo prima, si è avuta nel 1950 con la Comunità europea del carbone e
dell’acciaio (CECA), che era fondamentalmente un cartello come l’OPEC. E
Bruxelles era il quartier generale di tale cartello. Era qualcosa di molto
diverso da uno Stato. Non aveva a che fare con la mitigazione di scontri tra
classi e gruppi sociali. L’intera ragion d’essere di un cartello consiste nello
stabilizzare i prezzi e limitare la concorrenza tra i propri membri.
La sfida per Bruxelles consisteva inizialmente nello
stabilizzare i prezzi del carbone e dell’acciaio e poi quelli di altre materie
prime e merci, in un cartello che copriva diversi regimi monetari e perciò sei
rapporti di cambio. Senza rapporti stabili di cambio tra le monete di tale
unione sarebbe stato impossibile stabilizzare i prezzi di un cartello di
portata europea nei suoi sei membri iniziali. Finché c’era il sistema di
Bretton Woods (che legava i rapporti di cambio al dollaro, il cui valore era
fissato a 35 dollari l’oncia), mantenere allineate le monete europee era
automatico. Ma quando quel sistema saltato per mano del segretario al Tesoro
statunitense John Connally e di altri, nel 1971, i rapporti di cambio dei
diversi paesi europei sono impazziti. Il marco della Germania ha cominciato a
salire, la lira italiana ha cominciato a scendere, mentre il franco francese
lottava per evitare lo stesso destino della lira. Ciò ha generato enormi forze
che potevano fare a pezzi l’UE. Bruxelles non era più in grado di stabilizzare
il suo cartello. Ed è qui che è emersa la necessità di una moneta comune.
Dai primi anni ’70 ci sono stati vari tentativi falliti di
sostituire il sistema dei cambi fissi, che gli statunitensi avevano gestito
sino ad allora, con un sistema europeo. Il primo fu il “serpente monetario
europeo” nel 1972; negli anni ’90 abbiamo avuto ovviamente il Sistema monetario
europeo e poi, infine, tra il 1992 ed il 1993, è stato introdotto l’euro con il
Trattato di Maastricht, che ha legato monetariamente vari Stati europei sotto
una singola valuta, una sola moneta.
Ma nel momento in cui hanno fatto ciò (senza disporre di
alcun modo per gestire politicamente questa area monetaria), improvvisamente il
processo di depoliticizzazione della politica (che era sempre stato parte
integrante dell’Unione europea) è divenuto estremamente potente e ha cominciato
a distruggere la sovranità politica.
Una delle poche persone che aveva capito bene questo non era
di sinistra, bensì di destra. È stata Margaret Thatcher che ha guidato
l’opposizione alla moneta unica e ne ha di fatto espresso molto chiaramente i
pericoli. Io mi sono opposto alla Thatcher su tutto il resto, ma su questo
aveva ragione lei. Diceva che chi controlla la moneta, la politica monetaria ed
i tassi d’interesse, controlla la politica dell’economia sociale. La moneta è
politica e può soltanto essere politica e qualsiasi tentativo di depoliticizzarla
e di trasferirla ad un branco di burocrati irresponsabili di Francoforte (dove
ha sede la Banca centrale europea) costituisce, in effetti, un’abdicazione
della democrazia.
Perché la Thatcher è stata la sola voce d’opposizione
considerato che ciò proteggeva gli interessi neoliberisti di cui lei era una
forte sostenitrice?
La Thatcher era una conservatrice, una Tory. Pur essendo una
pioniera del neoliberismo, credeva anche nella sovranità parlamentare e nel
controllo del processo politico. Per lei il neoliberismo era un processo
politico in cui credeva, ma per lei era ancora importante che il parlamento
britannico controllasse la politica del neoliberismo. Non c’era alcun
parlamento nell’eurozona; l’area euro non ha alcun parlamento. Il Parlamento
europeo è una barzelletta; non opera da vero parlamento. È, al meglio, una
simulazione di un parlamento, non un parlamento reale, perciò a una
conservatrice inglese, per la quale la legittimazione della democrazia deriva
dalla legittimazione del potere sovrano, dal parlamento, l’euro appariva come
un’aria monetaria destinata ad avvizzire e morire.
Curiosamente uno dei miei maggiori sostenitori quando ero
ministro delle finanze greco è stato un ministro della Thatcher e già
cancelliere dello scacchiere, Norman Lamont. Siamo addirittura diventati amici.
Quello che abbiamo in comune è una dedizione alla democrazia. Abbiamo idee
molto diverse su quali politiche andrebbero messe in atto come parte della
politica democratica, ma è rimasto scioccato anche lui per il modo in cui un
branco dirigenti non eletti ha gestito le politiche fiscali e monetarie della
Grecia e per come hanno raso al suolo la sua economia.
Dunque, visto che il Regno Unito è rimasto fuori
dall’euro, è influenzato dalle politiche dell’eurozona?
Beh, come sappiamo la Gran Bretagna sta attraversando la
prima fase di una campagna per un referendum sull’adesione all’UE. È un
confronto molto emotivo. Io ritengo che sia stato magnifico per i britannici
stare fuori dall’euro, un colpo di fortuna. Ma, detto questo, la loro economia
è completamente determinata dalla prigione dell’eurozona e dunque l’idea che
possano sottrarsi alla sua influenza votando per l’uscita dall’UE è
eccessivamente ottimistica. Non possono uscire. Ora, i conservatori britannici
che appoggiano l’uscita dall’UE sostengono di non avere bisogno dell’Unione
europea; che possono avere il mercato unico senza la camicia di forza di
Bruxelles. Ma questa è una tesi fortemente dubbia, poiché il mercato unico non
può essere immaginato senza una protezione comune dei lavoratori, degli
strumenti comuni per prevenire lo sfruttamento dei lavoratori o dei parametri
comuni sull’ambiente o l’industria. Dunque l’idea che si possa avere il mercato
unico senza unione politica si scontra con la realtà politica che il solo modo
per avere il libero scambio di questi tempi è avere leggi comuni sui brevetti,
sui parametri industriali, sulla disciplina della concorrenza, ecc. E come si
possono avere leggi simili se non c’è il controllo di qualche genere di istituzione
o di processo democratico che si applichi a ogni giurisdizione? Dunque, se si
rifiuta la possibilità di un’Unione europea democratizzata, si rifiuta la
possibilità di un parlamento britannico sovrano e si finisce per avere degli
accordi commerciali atroci, come il TTIP.
Dove risiede, allora, il potere in Europa?
Questa è una domanda interessante. A prima vista le sole
persone potenti in Europa sono Mario Draghi, capo della Banca centrale europea,
e Angela Merkel, la cancelliera tedesca. Ma, detto questo, neppure loro sono
poi tanto potenti. Ho visto Mario Draghi apparire estremamente frustrato nelle
riunioni dell’Eurogruppo per ciò che veniva detto, per la sua stessa impotenza,
perché doveva fare delle cose che pensava fossero orribili per l’Europa. Al
tempo stesso, Angela Merkel si sente chiaramente accerchiata dalle richieste
del suo stesso parlamento, del suo partito, circa la necessità di mantenere un
tipo di modus vivendi con i francesi su cui lei non è d’accordo.
Dunque, la risposta alla tua domanda è che siamo riusciti a
costruire un mostro in Europa, dove l’eurozona è supremamente potente come
entità, ma in nessuno ha veramente il controllo. Le istituzioni e le regole che
sono state poste in essere al fine di conservare l’equilibrio politico che ha
avviato l’intero progetto dell’euro paralizzano qualunque attore che ha
qualcosa a che fare con la legittimazione democratica.
Ma questo processo non ha dato grande potere ai mercati
finanziari?
I mercati finanziari non hanno più potere in Europa di quanto
ne abbiano negli Stati Uniti o altrove.
Torniamo al 2008. In quell’anno, dopo anni di sperperi del
settore finanziario e di creazione criminale di credito da parte sua, le
istituzioni finanziarie sono implose ed i capitani della finanza si sono rivolti
ai governi e hanno detto loro: «Salvateci». E l’abbiamo fatto, trasferendo
enormi somme dai contribuenti alle banche. Questo è successo negli USA ed in
Europa; non ci sono state differenze al riguardo.
Il problema è che l’architettura dell’UE, e in particolare
dell’euro, era così scadente che questo massiccio trasferimento di denaro dai
contribuenti, e specialmente dai settori più deboli della società, alle banche
non è stato sufficiente a stabilizzare il sistema finanziario.
Lascia che ti faccia un esempio. Paragoniamo il Nevada con
l’Irlanda. Il loro clima può essere molto diverso, ma sono entrambi di
dimensioni uguali in termini di popolazione e hanno economie simili. Entrambe
le economie sono basate sulle proprietà immobiliari, sul settore finanziario,
sull’attirare imprese in base a bassissime imposte sugli utili. Dopo il 2008
entrambe le economie sono cadute in una profonda recessione, che ha colpito
principalmente il settore immobiliare e l’industria delle costruzioni.
La differenza sta nel modo in cui sono stati in grado di
reagire. Immagina che le zone del dollaro USA fossero state costruite allo
stesso modo dell’eurozona. Allora lo Stato del Nevada avrebbe dovuto trovare
fondi per salvare le banche e anche per pagare le indennità di disoccupazione dei
lavoratori dell’edilizia, e senza l’aiuto della Federal Reserve. In altre
parole il Nevada sarebbe dovuto andare col cappello in mano a chiedere prestiti
al settore finanziario. Considerato che gli investitori avrebbero saputo che il
governo del Nevada non aveva una banca centrale a sostenerlo, o non gli
avrebbero concesso prestiti oppure non lo avrebbero finanziato a tassi
d’interesse ragionevoli. Così il Nevada sarebbe finito in bancarotta e lo
stesso sarebbe successo alle sue banche e la gente del Nevada avrebbe perso le
indennità di disoccupazione o i servizi sanitari o dell’istruzione. Dunque
immagina, allora, che lo Stato si fosse recato col cappello in mano dalla
Federal Reserve a chiedere aiuto. E immagina che la Federal Reserve gli avesse
detto: «Vi concederemo il salvataggio e vi presteremo fondi a condizione che
riduciate i salari, le pensioni e le indennità di disoccupazione del 20 per
cento». Ciò avrebbe consentito allo Stato del Nevada di onorare i pagamenti a
breve, ma l’austerità e la riduzione dei redditi e delle pensioni, ecc.
avrebbero ridotto le entrate del Nevada e aumentato il suo debito relativo ai
prestiti di salvataggio in misura tale che il Nevada sarebbe imploso. Se ciò
fosse successo nel Nevada, sarebbe successo in Missouri, in Arizona, ecc.,
avviando un effetto domino in tutti gli Stati Uniti.
Dunque è questo che sto dicendo. Non c’è alcuna differenza
in termini dell’importanza del settore finanziario e della sua tirannide sulla
democrazia tra gli Stati Uniti e l’Europa, ma la differenza è che negli USA c’è
un insieme di istituzioni che sono meglio capaci di gestire crisi come queste e
di evitare che si trasformino in una crisi umanitaria. Gli statunitensi hanno
appreso le loro lezioni negli anni ’30. Il New Deal mise in atto istituzioni
che agirono come ammortizzatori, mentre in Europa siamo ancora dove eravamo nel
1929. Stiamo permettendo che questa austerità competitiva distrugga un paese
dopo l’altro fino a quando l’Unione europea non si rivolgerà contro sé stessa.
Dunque è ora di sostenere un’uscita dall’euro? Ritornare
a una moneta nazionale non darà almeno una migliore opportunità di
accountability democratica?
Questa naturalmente è una battaglia che ho in corso con i
miei compagni in Grecia. Sono cresciuto in un’economia capitalistica periferica
piuttosto isolata, con una nostra moneta, la dracma, e un’economia con quote e
dazi che impediva il libero flusso di merci e capitali. E posso garantirti che
era una Grecia parecchio tetra; non era di certo un paradiso socialista. Dunque
l’idea tornare allo Stato-nazione per creare una società migliore per me è
sciocca e implausibile.
Ora, io vorrei che non avessimo creato l’euro, vorrei che
avessimo conservato le nostre monete nazionali. È vero che l’euro è stato un
disastro. Ha creato un’unione monetaria progettata per fallire e che ha
assicurato sofferenze indicibili ai popoli dell’Europa. Ma, detto questo, c’è
differenza tra dire che non avremmo dovuto creare l’euro e dire che ora
dovremmo uscirne. A causa di quella che in matematica chiamiamo isteresi. In
altre parole uscire non ci riporterà a dove eravamo prima o a dove saremmo
stati se non fossimo entrati.
Alcuni fanno l’esempio dell’Argentina, ma la Grecia non è
nella situazione in cui era l’Argentina nel 2002. Non abbiamo una moneta da
svalutare nei confronti dell’euro. Abbiamo l’euro! Uscire dall’euro
significherebbe una nuova moneta, il che richiede quasi un anno da introdurre,
per poi svalutarla. Ciò sarebbe lo stesso che se l’Argentina avesse annunciato
una svalutazione con dodici mesi di anticipo. Sarebbe catastrofico, perché se
si dà un simile preavviso agli investitori – o persino ai comuni cittadini –
questi liquiderebbero tutto, si porterebbero via i soldi nel periodo che gli si
è offerto in anticipo rispetto alla svalutazione, e nel paese non resterebbe
nulla.
Anche se potessimo tornare collettivamente alle nostre
monete nazionali in tutta l’eurozona, paesi come la Germania, la cui moneta è
stata cancellata in conseguenza dell’euro, vedrebbero salire alle stelle i loro
rapporti di cambio. Ciò significherebbe che la Germania, che al momento ha una
bassa disoccupazione ma un’elevata percentuale di lavoratori poveri, vedrebbe
tali lavoratori poveri diventare disoccupati poveri. E ciò si ripeterebbe
dovunque in Europa orientale e centrale: in Olanda, Austria, Finlandia, in
quelli che chiamo paesi in attivo. Mentre in luoghi come Italia, Portogallo e
Spagna, e anche in Francia, ci sarebbe contemporaneamente una fortissima caduta
dell’attività economica (a causa della crisi in paesi come la Germania) ed un
forte aumento dell’inflazione (perché le nuove monete in quei paesi dovrebbero
svalutare in misura molto considerevole, provocando il decollo dei prezzi
all’importazione di petrolio, energia e merci fondamentali).
Dunque, se torniamo nel bozzolo dello Stato-nazione, avremo
una linea di faglia lungo il fiume Reno e le Alpi. Tutte le economie ad est del
Reno ed a nord delle Alpi finirebbero in depressione ed il resto dell’Europa
sprofonderebbe in una stagflazione economica caratterizzata da elevata
disoccupazione e inflazione.
Potrebbe addirittura scoppiare una nuova guerra; magari non
si tratterebbe di una guerra vera e propria, ma le nazioni si scaglierebbero
l’una contro l’altra. In un modo o nell’altro, l’Europa farebbe ancora una
volta affondare l’economia mondiale. La Cina sarebbe devastata da questo e la
fiacca ripresa statunitense svanirebbe. Avremo condannato il mondo intero ad
almeno una generazione perduta. Eventi di questo tipo non vanno mai a vantaggio
della sinistra. Saranno sempre gli ultranazionalisti, i razzisti, i fanatici ed
i nazisti a trarne profitto.
L’euro o l’Unione Europea possono essere democratizzati?
Fondiamo entrambe le cose per il momento. L’Europa può
essere democratizzata? Sì, penso di sì. Lo sarà? Sospetto di no. Se mi chiedi
le mie previsioni, io sono molto pessimista. Penso che il processo di
democratizzazione abbia pochissime possibilità di successo. Nel qual caso
avremo una disintegrazione ed un futuro molto cupo. Ma la differenza, quando
parliamo della società o del tempo, è che al tempo non interessa un fico secco
delle nostre previsioni, dunque possiamo permetterci di rilassarci e guardare
il cielo e dire che pioverà perché una tale affermazione non influenza la
probabilità che piova. Ma quando si tratta di società e di politica abbiamo un
dovere morale e politico di essere ottimisti e di dire, d’accordo, di tutte le
scelte che ci sono disponibili, qual è quella che ha meno probabilità di
causerà una catastrofe? Per me si tratta del tentativo di democratizzare
l’Unione europea. Penso che riuscirà? Non lo so, ma se non spero che ci
riusciremo, non posso alzarmi dal letto al mattino.
Democratizzare l’Europa è una questione di rivendicare
principi fondamentali o di sviluppare una nuova idea di sovranità?
Entrambe le cose. Non c’è nulla di nuovo sotto il sole.
L’idea di sovranità non cambia, ma il modo in cui si applica ad aree multietniche
e multi-giurisdizionali come l’Europa va ripensata. È sempre stato frustrante
cercar di convincere i francesi ed i tedeschi che c’è una profonda differenza
tra un’Europa delle nazioni e un’Unione europea. I britannici lo capiscono
meglio, specialmente i conservatori, ironicamente. Sono sostenitori di Edmund
Burke, anti-costruttivisti che ritengono che debba esserci una mappatura uno a
uno tra nazione, parlamento e moneta: una nazione, un parlamento, una moneta.
Quando chiedo ai miei amici Tory: «Ma e la Scozia? Gli
scozzesi non sono una nazione vera? E in tal caso non dovrebbero avere uno
Stato e una moneta separate?», la risposta che ottengo assume la forma
seguente: «Naturalmente ci sono una nazione scozzese, gallese e inglese e non
c’è una nazione britannica, ma c’è un’identità comune, forgiata come esito di
guerre di conquista, partecipazione all’impero e via di seguito». Se questo è
vero, e può esserlo, allora è possibile dire che nazionalità diverse possono
essere legate da un’identità comune in evoluzione. Dunque è così che mi
piacerebbe vederla. Non avremo mai una nazione europea, ma possiamo avere
un’identità europea che corrisponda ad un popolo europeo sovrano. Dunque
manteniamo il concetto vecchio stile di sovranità, ma lo colleghiamo ad un’identità
europea in sviluppo, cioè collegata da una sovranità e da un parlamento unici
che mantengono pesi e contrappesi sul potere esecutivo a livello europeo.
Al momento abbiamo l’ECOFIN, l’Eurogruppo ed il Consiglio
Europeo che prendono decisioni importanti per conto del popolo europeo, ma
questi organismi non rispondono ad alcun parlamento. Non è sufficiente dire che
i membri di queste istituzioni rispondono ai loro parlamenti nazionali perché i
membri di queste istituzioni, quando tornano in patria per presentarsi al
proprio parlamento nazionale, dicono: «Non guardate me. Io ero in disaccordo su
tutto a Bruxelles ma non ho avuto il potere di prendere una decisione, perciò
non sono responsabile delle decisioni dell’Eurogruppo o del Consiglio o
dell’ECOFIN». Fino a quando questi organismi istituzionali non potranno essere
censurati o licenziati come organismo da un parlamento comune non si avrà una
democrazia sovrana. Dunque dovrebbe essere questo l’obiettivo in Europa.
Alcuni sosterrebbero che questo rallenterebbe il processo
decisionale e lo renderebbe inefficiente.
No, penso che non rallenterebbe il processo decisionale, lo
rafforzerebbe! Al momento, poiché non c’è questo tipo di responsabilità, non
viene presa nessuna decisione fino a quando è impossibile non agire. Continuano
a rimandare, rimandare, negare un problema per anni e poi abborracciano un
risultato all’ultimo minuto. Questo è il sistema più inefficiente in assoluto.
Ora sei impegnato nel lancio di un movimento per la
democrazia in Europa. Parlacene.
Il lato positivo del modo in cui il nostro governo è stato
schiacciato l’estate scorsa è che milioni di europei sono stati allertati sul
modo in cui è gestita l’Europa. La gente è molto, molto arrabbiata, anche
persone che dissentono da me e da noi.
Da mesi sto girando l’Europa da un paese all’altro cercando
di promuovere la consapevolezza delle sfide comuni che abbiamo di fronte e
della tossicità che deriva dalla mancanza di democrazia. Questo è stato il
primo passo. Il secondo passo è consistito nel diffondere un manifesto, poiché
i manifesti sono importanti in quanto concentrano l’attenzione e possono
divenire punti focali per le persone arrabbiate e preoccupate e che vogliono
partecipare ad un processo di democratizzazione dell’Europa.
Così, nelle prossime settimane metteremo in scena un evento
importante a Berlino (il 9 febbraio), tenuto là per evidenti motivi simbolici,
per lanciare il manifesto e sollecitare gli europei di tutti e 28 gli Stati
membri ad unirsi a noi in un movimento che ha un unico semplice programma:
democratizzare l’UE o abolirla. Perché se permetteremo che le attuali
strutture e istituzioni burocratiche e non democratiche di Bruxelles,
Francoforte e Lussemburgo continuino a gestire le politiche per nostro conto,
finiremo nella distopia che ho descritto in precedenza.
Dopo l’evento di Berlino abbiamo in programma una serie di
eventi in tutta Europa che daranno al nostro movimento lo slancio necessario.
Non siamo una coalizione di partiti politici. L’idea è che ciascuno possa
aderire indipendentemente dall’affiliazione partitica e dall’ideologia perché
la democrazia può essere un tema unificante. Possono aderire persino i miei
amici Tory o liberali che sono in grado di capire che l’UE non è solo
insufficientemente democratica ma antidemocratica e, per tale motivo,
economicamente incompetente.
In termini pratici come immaginiamo il nostro intervento? Il
modello della politica in Europa si è basato su partiti politici specificamente
nazionali. Così, un partito politico cresce in un paese particolare, elabora un
manifesto che fa appello ai cittadini di quel paese e poi, solo una volta che
il partito si trova al governo, vengono compiuti dei tentativi di costruire
alleanze con partiti che la pensano allo stesso modo in Europa, nel Parlamento
europeo, a Bruxelles, ecc. Per quanto mi riguarda questo modello di politica è
finito. La sovranità dei parlamenti è stata dissolta dall’eurozona e
dall’Eurogruppo; la capacità di adempiere al proprio mandato al livello dello
Stato-nazione è stata sradicata e perciò qualsiasi manifesto rivolto ai
cittadini di un particolare Stato membro diventa un esercizio teorico. I
mandati elettorali sono ora per definizione impossibili da adempiere.
Così, invece di passare dal livello dello Stato-nazione a
quello europeo, abbiamo pensato che dovevamo fare l’inverso; che dovevamo
costruire un movimento paneuropeo transnazionale, tenere un confronto in quello
spazio per identificare politiche comuni per affrontare problemi comuni e, una
volta ottenuto il consenso su strategie comuni a livello europeo, tale consenso
potrà trovare espressione a livello di Stato-nazione, regionale e municipale.
Dunque stiamo rovesciando il processo, partendo dal livello europeo per tentare
di trovare consenso per poi scendere verso il basso. Questo sarà il nostro
modus operandi.
Quanto alla tempistica, abbiamo diviso il prossimo decennio
in diversi periodi, perché abbiamo al massimo un decennio per cambiare
l’Europa. Se arrivati al 2025 avremo fallito allora non penso ci sarà un’Unione
europea da salvare o persino di cui parlare. A quelli che vogliono sapere che
cosa vogliamo ora la risposta è: trasparenza! Come minimo stiamo chiedendo che
le riunioni del Consiglio europeo, dell’ECOFIN e dell’Eurogruppo siano messe in
rete in tempo reale, che i verbali della Banca centrale europea siano
pubblicati e che i documenti relativi ai negoziati sugli scambi, come il TTIP,
siano resi disponibili in rete. Nel breve-medio termine discuteremo il
ridispiegamento delle istituzioni UE esistenti nell’ambito dei trattati
esistenti (per quanto orribili), con l’ottica di stabilizzare la crisi in corso
nel campo del debito pubblico, della carenza d’investimenti, del settore
bancario e della crescente povertà. Infine, nel medio-lungo termine,
solleciteremo la convocazione di un’assemblea costituente dei popoli
dell’Europa, con il potere di decidere sulla costituzione democratica futura
che sostituirà tutti i trattati europei esistenti.
Sembra che stiamo
vivendo in un periodo sia difficile che di speranza. Assistiamo alla crescente
popolarità di partiti come Podemos in Spagna, della sinistra in Portogallo, di
Jeremy Corbyn nel Regno Unito e così via, ma al tempo stesso abbiamo
l’esperienza di SYRIZA schiacciata senza cerimonie della troika. Quale speranza
ricavi da questi rifiuti popolari delle politica di austerità, considerata
l’esperienza di SYRIZA?
Penso che l’ascesa di questi partiti e movimenti contrari
all’austerità dimostri chiaramente che i popoli europei, non solo in Spagna e
in Grecia, ne abbiano piene le scatole del vecchio genere di politica, delle
politiche incentrate sull’uniformità che hanno riprodotto la crisi e spinto
l’Europa su un percorso di disintegrazione. Non ci sono dubbi al riguardo.
La questione è: come possiamo guidare tale scontento? Nel
nostro caso, in Grecia, abbiamo fallito. C’è un grande distacco tra la
dirigenza del partito e le persone che l’hanno votato. È per questo che credo
che concentrarsi sullo Stato-nazione sia una cosa del passato. Se Podemos
entrerà nel governo lo farà nelle stesse condizioni estremamente limitanti
imposte dalla troika, proprio come il nuovo governo in formazione in
Portogallo. A meno che tali partiti progressisti siano sostenuti da un
movimento paneuropeo che eserciti una pressione progressista dovunque e contemporaneamente,
finiranno per frustrare i loro elettori, costretti ad accettare tutte le regole
che impediscono loro di adempiere ai loro mandati.
È per questo che pongo l’accento sulla costruzione di un
movimento paneuropeo. È perché il solo modo per cambiare l’Europa consiste nel
farlo attraverso un’onda che sorga in tutta Europa. Altrimenti i voti di
protesta che si manifestano in Grecia, Spagna, Regno Unito, Portogallo, ecc. se
non sono sincronizzati alla fine si dissolveranno, lasciando dietro di sé null’altro
che l’amarezza e l’insicurezza prodotta dalla frammentazione inarrestabile
dell’Europa.
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