Claudio Napoleoni può essere annoverato tra i più importanti economisti
italiani del dopoguerra. Viene definito “marxiano” in quanto non approdò mai in
maniera netta alla scuola marxista in senso proprio; si possono
anzi rilevare nello sviluppo della sua formazione scientifica varie fasi
teoriche: da quella smithiana a quella marxiano-schumpeteriana, passando anche
per una fase ricardiana. Fu anche parlamentare: eletto come indipendente nelle
liste del PCI nel 1976 divenne poi senatore nel 1983. Scomparve nel 1988
all’età di 64 anni.
Il saggio Smith, Ricardo e Marx – Considerazioni sulla storia del pensiero economico fu pubblicato per la prima volta nel 1970 da Boringhieri. Lo stesso testo ebbe una rivisitazione nel 1973 per via dell’evoluzione del pensiero di Napoleoni in merito alla teoria marxiana.
L’autore svolge delle riflessioni sul pensiero economico partendo dai fisiocratici.
Napoleoni infatti ritiene si possa parlare di economia politica, come scienza
sociale, soltanto dopo il 1.700: e proprio i fisiocratici sono i primi a
fornire una rappresentazione sufficientemente compiuta del processo
capitalistico. Secondo Napoleoni la linea di distinguo tra economie
precapitalistiche e capitalistiche sta nella diversa natura del sovrappiù.
Viene definito sovrappiù quella parte del prodotto sociale che
eccede la ricostituzione dei mezzi di produzione, inclusi i mezzi di
sussistenza necessari a sopravvivere per coloro - i lavoratori - che hanno
portato con il loro lavoro alla determinazione del prodotto sociale stesso.
Nelle economie precapitalistiche il sovrappiù era destinato al consumo delle
classi più ricche. Successivamente, con la nascita del capitalismo, questo
sovrappiù in parte viene utilizzato per il consumo dei proprietari dei mezzi di
produzione, in parte viene reinvestito, ovvero utilizzato nel processo di
accumulazione.
Il punto di forza della fisiocrazia fu proprio l’importanza accordata al
sovrappiù, che questi pensatori chiamano “prodotto netto”.
Il limite di questa scuola stava nell’analizzare tale prodotto netto in termini fisici,
fuori da una teoria del valore e solo per singoli settori. Sraffa dimostrò
tuttavia che la rappresentazione in termini fisici è possibile, a patto però
che ci si riferisca al sistema nel suo complesso e non ai singoli settori, come
invece avviene con i fisiocratici.
Altro limite stava nel considerare la produttività del lavoro non tanto legata
al lavoro stesso, quanto alla capacità di mettere capo ad una produzione
fisica nel settore dell’agricoltura, considerato unico settore generatore di
sovrappiù.
Smith sviluppa una
teoria del valore basata sul lavoro, diversamente dai predecessori fisiocratici.
Un secondo elemento messo in evidenza da Napoleoni è l‘attenzione che Smith
pone all’accumulazione capitalistica attraverso l’allargamento sistematico
dell’occupazione, elemento che caratterizza anche storicamente il capitalismo.
Con Ricardo si ha una formulazione più rigorosa della
teoria del valore. Secondo l’economista inglese per la determinazione del
valore di scambio non sono rilevanti “le quantità di lavoro con cui le merci
si scambiano come in Smith, ma le quantità di lavoro complessivamente
(direttamente o indirettamente) contenute nelle merci stesse”.
La critica di Marx agli autori precedenti si basa sul
fatto che “il lavoro, di cui l’economia politica parla, lungi dall’essere
una manifestazione dell’essenza dell’uomo, è viceversa, rispetto a questa
essenza, attività alienata” (pag. 16). Quindi l’economia politica non
ha fatto altro che formulare leggi di lavoro alienato. Nel Capitale Marx
si assume pertanto un triplice compito: 1. Dimostrazione della realtà dello
sfruttamento del lavoro, mediante la teoria del valore; 2. Dimostrazione del
destino di crisi di questo assetto economico, mediante la teoria
dell’accumulazione; 3. Dimostrazione delle possibilità date dal superamento dei
limiti della proprietà privata.
Dopo aver introdotto queste quattro scuole di pensiero, Napoleoni
dedica notevole spazio al pensiero di Smith e a quello di Ricardo. Su Marx si
diffonde invece soprattutto nella prima edizione, che è del 1970, laddove nel
1973 preferirà affrontare Marx solo en passant per precisare
alcuni concetti non ancora maturati ai tempi della prima edizione.
ADAM SMITH
La linea di pensiero cui appartiene lo scozzese Adam Smith (1723-1790)
nasce dalla reazione di pensatori come John Locke (1632-1704) e David Hume
(1711-1776) al cosiddetto “selfish system” dell’inglese Thomas Hobbes
(1588-1679).
Nel pensiero di Hobbes lo stato di natura dell’uomo è di
“guerra” tra gli individui ed il comportamento umano si configura di necessità
come teso all’autoconservazione. Locke contestò tale visione di una natura
“malvagia”.
Per Locke lo stato di natura è improntato alla
benevolenza, ma è pur vero che esistono dei contrasti tra gli uomini a causa
delle limitatezza delle risorse naturali, e di conseguenza
all’impossibilità di una diffusa proprietà privata e quindi all’impossibilità
di possedere qualunque cosa grazie al proprio lavoro. Di qui l’inevitabilità
della concorrenza tra uomini, che si strappano a vicenda le disponibilità
naturali. Ecco perché lo Stato non è fonte della società
civile (come voleva Hobbes) bensì garante di una convivenza
ordinata e quindi utile ad evitare la minaccia che potrebbe essere mossa alla
proprietà privata. Non c’è quindi, contrariamente a quanto pensava Hobbes,
nessuna rinuncia di libertà da parte dei singoli; il ruolo dello Stato è anzi
quello di garantire la piena libertà proteggendola da qualunque assalto e
ingerenza possibili. Nella società pensata da Locke dunque esistono le
disuguaglianze dovute alle minori capacità di qualcuno di conquistarsi delle
proprietà attraverso il lavoro; ma lo “stato di natura” è dominato da una
razionalità, (contrariamente alla società della guerra irrazionale hobbesiana)
che talvolta Locke fa risalire a Dio stesso.
In Hume si ha una critica di tipo empiristico all’idea
di “stato di natura”, affermando invece l’esistenza di una struttura
psicologica del sentimento degli uomini, spinti a ricercare piacere e utilità
tanto a livello individuale che sociale. Pertanto, mentre nella filosofia
dell’egoismo ogni uomo cerca di massimizzare un vantaggio per se stesso, nella
filosofia di Hume vale il concetto di benevolenza o “simpatia”, talché ogni
uomo è in grado di comprendere e vivere non solo la propria ma
anche l’altrui utilità.
Per arrivare a Smith occorreva dunque la critica
dell’egoismo hobbesiano svolta da Locke, depurandola però dal “residuo
metafisico” (Napoleoni) dello stato di natura, e abbracciando invece il senso
morale di Hume, ovvero l’egoismo socialmente positivo. L’aspetto
centrale nella Teoria dei sentimenti morali di Smith è dunque
l’idea che l’egoismo non è elemento disgregatore della società ma anzi può
essere caratteristica di sviluppo, a condizione però che nel sostenere il
proprio interesse egoistico non vengano limitati gli interessi altrui e perciò
non via sia prevaricazione.
In questo senso la Ricchezza delle nazioni rappresenta la
trasposizione dei suddetti concetti nella sfera economica: il libero
dispiegarsi delle forze individuali e il famoso interesse personale che non
intralcia quello altrui rispettando il principio della “simpatia” guidano la
nazione lungo il cammino dello sviluppo economico.
Nello Smith delle Lezioni di Glasgow già
si intravede il focus dell’autore scozzese sulla divisione del lavoro quale
elemento determinante per la produttività e quindi per la ricchezza. In primo
luogo la divisione del lavoro implica che ci si possa dedicare ad un numero
infinito di piccole operazioni. In secondo luogo tanto minore è il numero di
operazioni tanto minore è la perdita di tempo per svolgerle.
Ciò che distingue Smith dai fisiocratici è principalmente la forma della realizzazione
del prodotto netto. Mentre per i fisiocratici il prodotto netto è
realizzato grazie alla produttività della terra nel settore agricolo, per Smith
è invece il lavoro che genera il prodotto netto, a prescindere
da quale settore si stia trattando. La società di Smith è quindi una società in
cui il prodotto netto è il risultato della produttività dei
lavoratori i quali ricevono un salario che reintegra le forze
dei lavoratori stessi, laddove il sovrappiù, o prodotto netto come
lo chiamavano i fisiocratici, serve a remunerare la rendita e il profitto.
Smith ha dunque il pregio di introdurre una teoria del valore, che è in
effetti una teoria del valore-lavoro, da lui definito col concetto
di labour commanded: in uno stadio primitivo della società
il valore di scambio della merce è uguale alla quantità di lavoro contenuto in
essa. Quando però si passa ad uno stadio più evoluto, con profitto e rendita,
la quantità di lavoro che una merce può comandare è maggiore, in equilibrio,
della quantità di lavoro in essa contenuta, poiché alla quantità di lavoro
acquistata da quella parte del valore della merce corrispondente ai salari sarà
aggiunta anche la quantità di lavoro acquistata da quella parte del valore
della merce che corrisponde a profitto e rendita. I saggi naturali (ovvero
prezzi di equilibrio) di profitto, rendita e salario sono essi stessi dei
valori, per i quali occorrerebbe precisare da dove derivino. A. Smith non riesce
quindi a formulare una teoria del valore di scambio che “soddisfi quel
requisito formale essenziale che consiste nel determinare i valori a partire da
elementi che non dipendono essi stessi dai valori.” (pag. 71). L’errore
metodologico sta quindi nel considerare nel prezzo naturale della merce quei
salari, profitti e rendite pagati in quell’istante come se nel processo di
produzione non entrassero altre risorse le quali hanno già pagato in precedenza
e in precedenti fasi del processo produttivo altri salari, profitti e rendite.
Il libro quarto della Ricchezza delle Nazioni tratta
dei vantaggi derivanti dalla concorrenza economica. Nessuna politica economica
è più efficace di quella tesa a favorire l’azione della “mano invisibile”
ovvero la convenienza privata dei singoli che, senza saperlo, promuovono anche
l’interesse generale. Smith ovviamente non pensa, quale erede del pensiero
liberale inglese, che lo Stato debba essere completamente eliminato: il suo
ruolo deve essere quello di garantire il libero concorrere degli individui e la
spesa pubblica deve limitarsi a settori importanti quali difesa, giustizia,
opere pubbliche e pubbliche istituzioni.
RICARDO
Laddove Smith aveva definito quella economica come la scienza che si occupa
della “ricchezza delle nazioni”, per Ricardo l’economia è invece la scienza che
si occupa della distribuzione del prodotto sociale tra le classi (rentiers,
capitalisti e lavoratori).
Con Ricardo poi è netta la visione di un’economia capitalistica,
ovvero la presenza di una classe di proprietari dei mezzi di produzione.
Nell’analisi di Smith non si ha una sensazione altrettanto netta. Anzi in
diverse occasioni Smith non descrive altro che una società caratterizzata da
liberi imprenditori in una economia mercantile di liberi produttori che si
incontrano nel mercato.
L’oggetto teorico principale dell’analisi del processo distributivo compiuta da
Ricardo è il valore; obiettivo dell’analisi è la
determinazione del saggio di profitto, soprattutto nella sua relazione con il
saggio di salario. Quindi non si tratta solamente di determinare la quota di
profitto e salari, ma per l’appunto di studiare il rapporto tra i due saggi in
un’economia capitalistica. Ovviamente in una economia di tal tipo è il saggio
di profitto la grandezza determinante del processo capitalistico, dal
quale dipende lo stesso destino storico di tale processo.
Ricardo parte dall’analisi del saggio del profitto nell’agricoltura -
considerato determinante - che influisce sul saggio generale del profitto. In
agricoltura il saggio di profitto tende a cadere per effetto della concorrenza
e soprattutto per un problema di rendita differenziale via via
calante perché man mano che aumenta la popolazione dovranno essere messe a
coltura terre sempre più lontane dal centro produttivo e meno fertili. Pertanto
dovrà essere anticipato un capitale progressivamente maggiore a fronte di un
profitto calante. Inoltre il prezzo del grano (merce-tipo nell’analisi
ricardiana) sarà vieppiù alto data la difficoltà a produrlo rispetto ad altre
merci. Dunque tale aumento del prezzo del grano, sotto forma di aumento del
capitale anticipato in salari, non viene compensato con l’aumento del prezzo
del prodotto finito industriale.
Osserviamo adesso l’elaborazione della teoria del valore. Ricardo
prende le mosse dalla teoria del valore smithiana, per cui i valori di scambio
dipendono (pag. 108) dalle quantità di lavoro che le merci sono in grado di
mettere in movimento o comandare (labour commanded). Ricardo non poteva
integralmente approvare tale tesi, in quanto la determinazione della quantità
di lavoro che poteva essere mossa da ciascuna merce comporta la previa
determinazione del rapporto di scambio tra la merce stessa e il lavoro. Cosi
che il rapporto di scambio che si vuole determinare è presupposto stesso della
sua determinazione, creando un circolo chiuso.
A questo punto Napoleoni introduce la differenza fondamentale tra l’analisi di
Ricardo e quella di Marx: quest’ultimo distingue tra lavoro e forza-lavoro,
che è la merce effettivamente scambiata sul mercato. Il capitalista che compra
la forza-lavoro ne estrarrà il suo valore d’uso, ovvero la capacità di
plus-lavoro rispetto a ciò che è necessario alla sussistenza del lavoratore,
procedendo così all’estrazione del plusvalore. Il lavoratore dedica
pertanto una parte della giornata alla riproduzione di un valore pari al
proprio salario di sussistenza (lavoro necessario), laddove il valore
prodotto durante la parte della giornata lavorativa necessaria alla formazione
del profitto sarà chiamato per l’appunto plusvalore (pp. 111- 112).
Ritornando al problema della critica a Smith, Napoleoni nota come Ricardo
incontri delle difficoltà quando deve applicare la teoria del valore di scambio
quale rapporto di quantità contenute di lavoro in un mercato concorrenziale.
Uno dei problemi nella trattazione è la definizione di capitale fisso come
somma dei mezzi di produzione. Infatti, negli esempi forniti da Ricardo, i
mezzi di produzione sono come eterni, privi della caratteristica di trasmettere
una parte del loro valore al valore del prodotto annuo (ammortamento).
Ciò che secondo Napoleoni Ricardo non coglie con chiarezza è che se il saggio
di profitto è uguale in tutte le attività (a causa del processo concorrenziale) il
rapporto di scambio tra due merci non dipende soltanto dal rapporto tra le
quantità di lavoro contenute nelle due merci, ma anche dal diverso modo in cui
le quantità di lavoro contenute appartengono alle diverse epoche di
investimento. Ovvero nell’ambito della formazione di un saggio
generale del profitto nella determinazione dei valori relativi delle merci
hanno importanza non solo le quantità di lavoro contenute ma anche le strutture
temporali e dunque, se tali strutture sono diverse, i valori relativi non
corrispondono alle quantità di lavoro contenute.
La vera difficoltà di Ricardo sta nel fatto di utilizzare una unità di misura
ovvero una merce che contenga sempre la stessa quantità di lavoro. Tuttavia il
valore delle altre merci non ha con il valore di questa unità di misura dei
rapporti che rimangano inalterati in quanto muta già semplicemente la
distribuzione del prodotto netto. Quell’unità di misura non sarebbe quindi
perfetta. Cioè non riporterebbe i rapporti di scambio ai rapporti tra quantità
di lavoro contenute. Lo scopo di Ricardo infatti era quello di utilizzare la
misura invariabile del valore per determinare il saggio uniforme di profitto.
Ed è servendosi della merce media (nel suo caso il grano che egli paragona al
metro) che esprime in termini di lavoro il valore del totale di merci prodotte
da una nazione, indipendentemente dalla distribuzione del prodotto netto e
considerando le tecniche produttive come date.
In uno scritto successivo ai Principi, ritrovato e pubblicato da
Sraffa, sembra che Ricardo intenda riprendere il discorso per superare le
difficoltà parlando non più di valori di scambio, ma di valori assoluti che
non sono altro che i valori riferiti ad una unità di misura invariabile ovvero
una quantità di lavoro di merce-tipo che rapportata ad altre merci nello
scambio si riferirebbe alle altre quantità di lavoro contenute nelle altre
merci. “Poiché questa unità di misura è definita come una determinata
quantità di lavoro, e perciò i singoli valori di scambio rispetto a
quest’unità, cioè i valori assoluti, sono essi stessi delle quantità di lavoro,
risulta che tutto l’insieme dei valori di scambio deve essere considerato come
un insieme di grandezze assolute, cioè come un insieme di quantità di lavoro
misurate ponendo uguale all’unità di lavoro della merce unità di misura”
(pag. 120).
In altri termini Ricardo continua a considerare la quantità di lavoro
contenuto nella merce come l’elemento fondamentale del valore. Il problema
secondo Napoleoni non è tanto la determinazione del saggio di profitto in
termini fisici (merce-tipo grano), problema che può essere risolto per esempio
nell’ambito della letteratura sraffiana. Il problema è l’impostazione
iniziale, secondo la quale il saggio di profitto in agricoltura si porta dietro
il saggio di profitto degli altri settori. E la sua caduta tendenziale farebbe cadere
tendenzialmente anche il saggio generale del profitto. Quindi rispetto allo
scopo che Ricardo si propone la teoria del valore-lavoro risulta inutile perché
la dimostrazione della caduta del saggio di profitto presuppone che si “adottino
proprio quelle ipotesi che rendono calcolabile il saggio di profitto in termini
di grano, senza alcun bisogno di ricorrere ai valori” (pag. 123)
Va riconosciuto ad ogni modo come Ricardo abbia offerto un contributo
importantissimo alla conoscenza del capitalismo, tanto che successivamente Marx
riprenderà molto della teoria ricardiana. Il contributo principale di Ricardo
si può ricondurre soprattutto alla divisione in classi sociali ed al rapporto
tra capitalista e operaio nel lavoro comandato dal primo al secondo. L’aspetto
distributivo delle tre remunerazioni reddituali è quello che più ritroveremo
nel prosieguo della storia del pensiero economico.
MARX.
Per quanto riguarda Marx facciamo riferimento alla seconda edizione
del saggio di Napoleoni, pubblicata nel 1973; ed in particolare al solo
concetto di lavoro astratto, in merito al quale l’autore matura
riflessioni non presenti nella prima edizione del 1970. Napoleoni parte da
Smith: la ricchezza dipende dal grado di produttività del lavoro; il grado di
produttività dipende dalla divisione del lavoro; la divisione dipende
dall’ampiezza del mercato cioè dall’estensione dello scambio; la propensione
allo scambio sta alla base della società ed è insito nella natura umana. La
società mercantile è pertanto espressione della razionalità dell’Uomo e
compimento della sua natura (pag. 131).
Per Marx viceversa lo scambio, attraverso la mediazione delle
cose, stabilisce rapporti tra produttori reciprocamente indifferenti. Nel
lavoro i soggetti sono isolati gli uni dagli altri, il rapporto si stabilisce
solo dopo che il lavoro è stato svolto, nello scambio. Il nesso sociale si ha
non nella prestazione del lavoro vivo, ma si stabilisce allo stadio del lavoro
morto, ovvero oggettivato nella merce. Così la società mercantile è
l’universale dipendenza degli individui da un nesso sociale, lo scambio, che si
è reso indipendente dagli individui stessi (pag. 133).
Definendo la natura storicamente determinata dello scambio, Marx ricava il
concetto di lavoro astratto, inteso come lavoro che si contrappone
al capitale, come valore d’uso che si contrappone al denaro e “non questo o
quel lavoro” ma lavoro “puro e semplice, lavoro astratto, assolutamente
indifferente a una particolare determinatezza, ma capace di ogni determinatezza”
(pag 136). Marx nei Lineamentifondamentali usa l’esempio del
lavoro artigianale, corporativo, in cui il capitale ha ancora un’influenza
limitata e in questo caso il lavoro si presenta con una determinata sostanza e
non nella totalità e astrazione come invece il lavoro operaio che si
contrappone al capitale. L’operaio è quindi portatore di lavoro in quanto tale,
ossia come valore d’uso per il capitale e in opposizione a questo.
Lavoro astratto quindi inteso come attività scissa dalla soggettività dei
singoli, che si rapporta al capitale in forza di una contrapposizione e che non
ha altro prodotto possibile che il valore di scambio.
Ovviamente su Marx ci sarebbe da scrivere molto altro ancora; e risulta infatti
strano - misterioso per chi scrive - che nella seconda edizione del suo saggio
Napoleoni abbia voluto dedicare all’autore del Capitale solo
17 pagine, come a comunicare al lettore che il cuore del pensiero marxiano
risiede anche nella definizione del lavoro astratto.
Ci riserviamo in questo spazio che ci ospita di pubblicare in futuro altri
articoli sul pensiero di Marx (a breve infatti prepareremo la recensione di un
testo che tratta di teoria del valore-lavoro). Per ora, nell’affrontare il
testo di Napoleoni, ci premeva evidenziare come lo studio del pensiero della
cosiddetta scuola classica sia un passo importante per acquisire quegli
strumenti di interpretazione utili a capire le crisi economiche che ci
attanagliano.
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