http://gondrano.blogspot.com - Fernando_Vianello è stato un economista e accademico italiano.
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«Intelligente
pragmatismo» è un’espressione che, forse con scarso scrupolo
filologico, ho estratto da un saggio di Federico Caffè (1) per
impiegarla come definizione generale di un atteggiamento
intellettuale che gli era proprio: l’atteggiamento di chi pensa,
con Keynes, che «la teoria economica non fornisca un insieme di
conclusioni definitive immediatamente applicabili alla politica
economica», ma rappresenti una «tecnica di pensiero» (2)
suscettibile di essere applicata di volta in volta alla soluzione di
problemi concreti e di suggerire linee d’azione diverse in diversi
momenti e contesti. E’ questo un aspetto della posizione di Keynes
cui Caffè si rifà espressamente, sottolineando, in particolare,
come dalla teoria keynesiana discendano indicazioni di politica
economica «adattabili nel tempo e che Keynes stesso modificò al
delinearsi della seconda guerra mondiale» (3), quando il problema
non era più la deficienza, ma l’imminente eccesso di domanda (4).
L’intelligente
pragmatismo è in realtà, credo di poter dire, il «keynesismo di
Keynes»: un keynesismo che non si affida a regole automatiche, ma
considera ciascuna situazione nella sua specificità, sceglie caso
per caso i rimedi più adatti e li applica in modo flessibile.
Sapendo che vi sono di solito più vie per raggiungere un obiettivo,
e che la scelta fra esse è una questione non tanto di principio
quanto di opportunità (5). E sapendo altresì che ogni intervento,
nel risolvere certi problemi, è suscettibile di crearne altri, che
vanno a loro volta affrontati e risolti con opportuni interventi (6).
2.
La piena occupazione e il vincolo dei conti con l’estero.
Una tipica applicazione dell’intelligente pragmatismo degli economisti che Caffè si scelse come maestri - e di altri che ebbe per compagni, come Giorgio Fuà e Sergio Steve (7) - è rappresentata dal modo di trattare il vincolo dei conti con l’estero. Tale vincolo - imposto dalla necessità, o dall’opportunità, di non superare un certo disavanzo di parte corrente - è spesso assimilato a quello della piena occupazione: se il vincolo dei conti con l’estero non viene spontaneamente rispettato, si argomenta, bisogna intervenire con misure deflazionistiche. Ragionare in questo modo significa rinunciare a chiedersi che cosa faccia sì che, nella concreta situazione in esame, il vincolo dei conti con l’estero si incontri prima che venga raggiunta la piena occupazione, e dunque che cosa possa essere fatto per allentare il vincolo stesso.
Se
la difficoltà sorge dall’insufficienza della capacità produttiva
disponibile - che si traduce in un innalzamento della propensione a
importare quando venga superato un certo livello di attività
produttiva - è a tale insufficienza che va posto rimedio attraverso
un’appropriata politica dell’offerta. Un compito,
questo, che risulta fortemente facilitato dal fatto che
l’insufficienza della capacità produttiva non si manifesta
simultaneamente in tutta l’economia, ma assume la forma
di strozzature produttive, aggredibili con interventi
settoriali. Complementare, e non alternativo, al compito suddetto è
quello di accrescere la capacità di esportazione.
Degli
ostacoli che le strozzature frappongono alle politiche di piena
occupazione erano ben consapevoli quelli che Steve ha chiamato i
«keynesiani della prima generazione» (8), fra i quali vanno
compresi Michał Kalecki e gli altri autori del libro L’economia
della piena occupazione, del 1944, tradotto in italiano nel 1979
con un’introduzione di Caffè (9). «Se non esistono riserve di
capacità o queste sono insufficienti - scrive Kalecki in questo
libro - il tentativo di assicurare la piena occupazione nel breve
periodo può facilmente causare delle tendenze inflazionistiche in
vasti settori dell’economia, poiché la struttura della capacità
produttiva non è necessariamente adeguata alla struttura della
domanda [...]. In un’economia nella quale l’attrezzatura
produttiva è scarsa è quindi necessario un periodo di
industrializzazione o ricostruzione […]. In tale periodo può
essere necessario impiegare controlli non dissimili da quelli
impiegati in tempo di guerra.» (10). Un’affermazione come questa
basta da sola a mostrare tutta l’inconsistenza e la superficialità
dell’identificazione, che tanto spesso si è voluta fare, fra
keynesismo e politiche keynesiane, basate esclusivamente sul sostegno
della domanda aggregata.
Se,
anziché con la politica dell’offerta, il miglioramento dei conti
con l’estero viene perseguito per mezzo della deflazione, il freno
che ne deriva alla formazione di capacità produttiva tenderà ad
aggravare ulteriormente la situazione. «E’ un affare molto serio -
ha scritto un altro keynesiano della prima generazione, Richard Kahn
- se l’attività produttiva deve essere ridotta perché la
produzione a pieno regime comporta un livello di importazioni che il
paese non può permettersi. Ed è un affare particolarmente serio se
la riduzione in esame prende largamente la forma di una riduzione
degli investimenti, inclusi gli investimenti volti alla formazione
della capacità produttiva capace di farci esportare più beni a
prezzi più concorrenziali e di diminuire la nostra dipendenza dalle
importazioni.» (11). Se proprio occorre ridurre gli investimenti,
afferma ancora Kahn, tale riduzione deve essere «altamente
discriminatoria»: bisogna, cioè, tentare di «stimolare gli
investimenti nelle industrie esportatrici e in quelle capaci di
sostituire le importazioni, particolarmente nei settori in cui è
l’attrezzatura produttiva a rappresentare la strozzatura, e di
scoraggiarli in tutti gli altri settori. Le restrizioni monetarie
possono, tuttavia, essere caricate di un contenuto discriminatorio
solo con difficoltà ed entro limiti piuttosto ristretti. Vi sono
qui, per eccellenza, forti ragioni per ricorrere a metodi alternativi
di scoraggiare gli investimenti, e particolarmente a quei metodi che
operano attraverso controlli diretti» (12).
Dal
fatto che la sostituzione delle importazioni e il potenziamento della
capacità di esportazione sono obiettivi di medio o lungo termine,
mentre la deflazione va evitata fin dall’inizio (anche per non
pregiudicare il raggiungimento degli obiettivi suddetti) può
discendere la necessità di imporre controlli amministrativi sulle
importazioni di particolari merci, e dunque sulla loro distribuzione
all’interno del paese. A proposito delle critiche frequentemente
rivolte all’impiego di questi strumenti, uno degli autori del
volume L’economia della piena occupazione, Burchardt,
ha osservato che «non esistono ragioni a priori per le quali le
discriminazioni operate dal mercato contro coloro che hanno meno
capacità di pagare debbano considerarsi ispirate a un criterio più
obiettivo di quelle consapevolmente adottate dalla collettività
contro certi usi o utenti» (13).
3.
«E’ consentito discutere di protezionismo economico?».
Se
mi sono dilungato sulle idee dei «keynesiani della prima
generazione» è per ricordare le radici di una posizione cui Caffè
restò fedele per tutta la vita. «Nel mio giudizio - egli affermava
nel 1977 - gran parte dei mali economici del presente è da
attribuire al mancato impiego di ragionevoli, circoscritti e
selettivi controlli diretti; il che porta ad affidare soltanto ai
“prezzi di mercato” una funzione di razionamento, resa spesso
iniqua da una distribuzione del reddito e della ricchezza
accentuatamente sperequata» (14).
Caffè
non si nascondeva l’impopolarità di simili misure. Ma riteneva che
la si dovesse combattere attraverso un’opera di persuasione volta a
chiarire quali fossero gli obiettivi dei controlli e quali, ben più
dolorosi, inconvenienti si sarebbero potuti evitare grazie a essi.
«E’ bensì vero - scriveva a questo riguardo - che gli
atteggiamenti sociali sono tutt’altro che favorevoli a interventi
del genere. Ma la responsabilità degli economisti come professione
non consiste nel prendere atto passivamente di tali atteggiamenti, ma
[nel] chiedersi sia quanto essi possano aver contribuito ad
alimentarli (drammatizzando i costi che sono inevitabili in ogni
azione dei pubblici poteri in campo economico); sia quanto possa
essere fatto per modificare gli atteggiamenti stessi con opera di
chiarificazione e convincimento. Pure, era stato esattamente previsto
che l’alternativa ai controlli, ove essi risultino necessari, “non
è qualche situazione ideale di pieno impiego senza controlli, ma la
disoccupazione con il succedersi di fluttuazioni economiche» (15).
La citazione che chiude il brano è tratta dall’ultimo capitolo
dell’Economia della piena occupazione (16).
L’accoglienza
riservata a proposte anche solo blandamente protezionistiche era
tuttavia tale da indurre Caffè a chiedersi, nel titolo di un suo
articolo, E’ consentito discutere di protezionismo economico?
Certo, non era consentito discuterne pacatamente, la reazione degli
avversari consistendo spesso nel rifiuto aprioristico e nella sleale
(o stupida) deformazione delle proposte, quando non nell’accusa di
volere l’«autarchia» (con quanto di evocativo dell’esperienza
fascista questo termine inevitabilmente comportava). Per parte sua,
Caffè non smise di fare appello alla ragione. «L’accorto dosaggio
tra le misure intese ad accrescere le esportazioni, mantenendole
competitive, e quelle rivolte a favorire l’incremento delle
produzioni sostitutive delle importazioni - leggiamo nell’articolo
appena ricordato – andrebbe cercato su un piano di mutua
comprensione e di reciproco rispetto. Colpire ogni voce di dissenso
con l’addebito di tendenza all’autarchia è mera espressione di
arroganza intellettuale ben poco lodevole. E’ auspicabile che a un
inesistente monopolio della verità si sostituisca il proposito di
tener conto delle ragioni degli altri. E ve ne sono in abbondanza»
(17).
4.
Contro la libertà di movimento dei capitali.
Un
discorso a parte merita la necessità, su cui Caffè ha sempre
insistito, di limitare la libertà di movimento dei capitali,
particolarmente in un sistema di cambi come quello di Bretton Woods o
come il Sistema monetario europeo, cioè in un sistema di cambi
modificabili di tempo in tempo con determinate procedure, ma fissi, o
pressoché fissi, fra una modifica e l’altra. La necessità
suddetta nasce da due diverse considerazioni. La prima è che, se i
capitali sono liberi di spostarsi da una valuta all’altra, la
difesa del tasso di cambio grava interamente sulla politica
monetaria, impedendo a quest’ultima di tenere adeguatamente conto
della situazione economica interna (o costringendola addirittura a
muovere nella direzione opposta a quella che tale situazione
richiederebbe). La seconda considerazione è che la manovra dei tassi
di interesse è comunque di limitata efficacia di fronte a un attacco
speculativo in atto; quando infatti la svalutazione di una moneta è
attesa a brevissima scadenza, può risultare attraente speculare
contro di essa anche in presenza di tassi d’interesse iperbolici,
quali l’economia non potrebbe sopportare per più di poche
settimane.
Caffè
lodava spesso la saggezza dei costruttori del sistema di Bretton
Woods, i quali avevano previsto la possibilità di imporre controlli
sui movimenti di capitale. E ricordava con particolare approvazione
quella clausola dello statuto del Fondo monetario internazionale
(rimasta di fatto in vigore solo fino al 1961) che escludeva che un
paese membro potesse ricorrere all’assistenza del Fondo allo scopo
di fronteggiare un’ingente e prolungata fuga di capitali, e
prevedeva inoltre che il paese membro potesse essere invitato ad
adottare opportuni controlli, atti a impedire un tale uso dei mezzi
valutari concessi (18). Egli non ha potuto assistere al tentativo
europeo di far convivere cambi fissi e totale libertà di movimento
dei capitali: due termini che l’esperienza e la riflessione
facevano ritenere antitetici, e che tali si sono rivelati. E non ha
neppure potuto assistere al trionfo di una concezione della politica
economica che rappresenta l’esatto contrario dell’intelligente
pragmatismo: la concezione che suggerisce di fissare il tasso di
cambio, asservire a esso la politica monetaria e attendere che
l’intera realtà sociale, nella sua infinita complessità, si
riassesti - non importa a quali costi - intorno a questo punto fermo.
Ma non è difficile immaginare cosa ne avrebbe pensato.
Mi
piace anche ricordare l’apprezzamento espresso da Caffè (19) per
l’imposta sugli acquisti di valuta proposta con insistenza da James
Tobin (20). Un’imposta del genere ridurrebbe il rendimento dei
titoli del paese A per chi dispone di moneta del paese B (propria o
presa a prestito), e con esso il divario che è necessario mantenere
fra i tassi di interesse del paese B e quelli del paese A quando
sulla moneta del primo gravano attese di svalutazione. La suddetta
riduzione del rendimento (annuo) dei capitali affluiti nel paese A
risulterebbe poi tanto più forte quanto minore è la durata
dell’operazione, attenuando così la già segnalata caratteristica
che l’operazione stessa presenta, di risultare tanto più attraente
quanto più vicina è la data alla quale ci si attende che la
svalutazione abbia luogo (anche se va subito aggiunto che ciò non
esime dall’apprestare una seconda, più robusta, linea di difesa
contro gli attacchi speculativi).
5.
Messaggi non ricevuti.
Fra
le manifestazioni della vocazione sobriamente protezionistica (e
accentuatamente anti-deflazionistica) di Caffè va ricordata la sua
opposizione alla partecipazione dell’Italia al Mercato comune
europeo nella seconda metà degli anni cinquanta (21). Non che fosse
l’unico ad avanzare dubbi e perplessità al riguardo: dubbi e
perplessità, com’egli stesso amava ricordare, erano anzi alquanto
diffusi fra gli economisti (22). Particolarmente degni di nota
appaiono tuttavia i due pericoli che Caffè segnalava: quello del
predominio economico della Germania e quello, conseguente al primo,
dell’affermarsi a livello europeo di orientamenti di politica
economica poco favorevoli al raggiungimento e al mantenimento nel
tempo della piena occupazione. Così come non è senza significato
che egli si dichiarasse favorevole alla Zona di libero scambio
(proposta allora in alternativa al Mercato comune), al cui interno il
peso economico della Germania avrebbe potuto essere controbilanciato
da quello dell’Inghilterra e l’inclinazione deflazionistica della
prima essere corretta dal prevalere nella seconda di correnti
d’opinione e impostazioni di politica economica di derivazione
keynesiana.
La
preoccupazione che l’Europa nascesse sotto un segno deflazionistico
ci rimanda alla preoccupazione per la nascita sotto lo stesso segno
dell’Italia repubblicana, manifestata da Caffè in un articolo
come Il mito della deflazione, pubblicato in forma
anonima sulla rivista «Cronache sociali» nel 1949 (23). Al grande
equivoco del dopoguerra – la riscoperta in nome dell’antifascismo
di un liberismo oltranzista – egli contrapponeva in questo
notevolissimo articolo una solida formazione keynesiana, un pacato
realismo e un’acuta consapevolezza che le occasioni di progresso
sociale, una volta perdute, difficilmente si ripresentano.
Da
allora Caffè non ha mai smesso di sfidare il conformismo imperante.
Né di ammonire che una cosa sono le difficoltà economiche del
paese, altra cosa la loro indebita drammatizzazione come strumento di
pressione sul movimento sindacale e sui partiti della sinistra, e
come pretestuosa giustificazione di politiche deflazionistiche: si
pensi a titoli quali La strategia dell’allarmismo
economico (24) o Dal falso miracolo alla falsa
agonia (25). (Personalmente schivo, e dimesso nello stile,
Caffè amava consegnare il proprio messaggio a titoli squillanti).
Del
fatto che queste denunce e questi ammonimenti cadessero
sistematicamente nel vuoto Caffè soffriva acutamente, pur senza
darsi per vinto. «Gli scritti riuniti in questo volume - così
inizia l’introduzione a Un’economia in ritardo -
sono accomunati dal destino di costituire, in qualche modo, dei
“messaggi non ricevuti”» (26).
Fra
coloro che non davano segno di ricevere i suoi messaggi Caffè
annoverava non solo le forze di governo, ma anche quelle di
opposizione, e in particolare il Partito comunista, cui rimproverava
la fede incrollabile nel primato della politica sull’economia e una
cultura economica subalterna a quella dominante e impermeabile al
keynesismo.
La
sua critica assunse toni particolarmente accesi poco dopo la metà
degli anni settanta, quando il Partito comunista, forte di poderosi
successi elettorali, entrò a far parte di una vasta coalizione
parlamentare che trovava il suo fragile cemento in un programma di
stabilizzazione monetaria. Caffè sorrideva amaramente di quel
programma e dei suoi presupposti teorici, come anche della generale
approvazione con cui venivano accolte le terroristiche ingiunzioni
del Fondo monetario internazionale (divenuto ormai, com’egli
sottolineava, un organismo ben diverso da quello prefigurato dagli
accordi di Bretton Woods).
Considerava
un grave errore, da parte della sinistra, garantire il consenso a una
politica deflazionistica. E parlava dei guasti economici e sociali
che in questo modo si producevano e di quelli cui ci si asteneva dal
porre rimedio, del dramma dei giovani senza lavoro, della
disgregazione sociale del Mezzogiorno, delle speranze suscitate e
destinate ad andare deluse.
La
sinistra, soleva ripetere, cadeva in un errore simile a quello
commesso nell’immediato dopoguerra, quando aveva preso parte a
governi di coalizione caratterizzati sul piano economico in senso
conservatore; con il risultato di consentire alle classi dominanti di
rafforzarsi fino al punto di poter fare a meno di dividere con le
sinistre il governo del paese.
Mi
accadde di intervistarlo, proprio su questi temi, per una rivista
delle tante che nascevano e morivano nel convulso clima politico di
quegli anni. La rivista, legata alla sinistra sindacale, si chiamava
«Sinistra 77» e in quella forma non andò oltre il numero zero (ma
rinacque immediatamente, con una diversa redazione e una diversa
veste tipografica, come «Sinistra 78», «Sinistra 79» e «Lettere
di Sinistra 80», e Caffè prese a collaborarvi direttamente) (27).
All’intervista fu dato il titolo 1947-1977: gli stessi
errori? Poiché si tratta di un testo introvabile, credo di
fornire un utile contributo di documentazione riproducendolo in
appendice a questo scritto.
6.
Una discussione su Sraffa.
Essendo
con ciò venuto a dire dei miei personali rapporti con Caffè, e
poiché anche attraverso essi è possibile gettare qualche ulteriore
luce su di lui, mi si consenta di indugiarvi sopra brevemente. La
profonda intesa che c’era fra noi in tema di politica economica e
il conforto che me ne veniva si accompagnavano a un netto dissenso
teorico, tacere del quale non mi pare né giusto né utile. La
concezione che Caffè aveva della scienza economica nel suo divenire
era quella che amava esprimere con le parole di Gustavo Del Vecchio
(un economista che egli ha a più riprese tentato di strappare
all’oblio) (28): «un’opera costante, continua e successiva, per
cui l’edificio della scienza stessa risulta come una serie di piani
che si aggiungono a quelli precedenti, in modo da costituire un tutto
solido e armonico» (29). Questa concezione, diciamo così,
continuista (o sincretista) era sopravvissuta in lui al chiarimento
fornito da Sraffa circa la radicale inconciliabilità fra
l’impostazione marginalista e quella propria degli economisti
classici e di Marx: per cui non di aggiungere piani si trattava,
secondo Sraffa, ma di riprendere un punto di vista «Sommerso e
dimenticato» (30).
Fu
appunto in occasione della morte di Sraffa che non potei trattenermi
dall’entrare in aperta, anche se affettuosissima, polemica con
Caffè sulle colonne del «Manifesto», di cui egli era allora un
collaboratore abituale. Contro la sua opinione che il contributo di
Sraffa dovesse essere assunto come mero «correttivo di incoerenze o
storture di ragionamento (31) - dunque, per insistere nella metafora,
come consolidamento e abbellimento del vecchio edificio - asserivo
che quel che Sraffa aveva mostrato (e inteso mostrare) era la
necessità di gettare al macero il marginalismo e di rifondare la
teoria economica su basi del tutto diverse (32).
Gettare
al macero: l’espressione non gli piacque né punto né poco, e mi
telefonò di prima mattina per dirmelo. Per iscritto precisò il suo
concetto con accattivante finezza. «Gettare al macero», osservò, è
«una variante peggiorativa del “mettere in soffitta” che almeno
non esclude che qualcuno possa riscoprire ciò che vi è stato
accantonato (33). In seguito mi confessò di essersi convinto che,
per quanto riguardava gli intendimenti di Sraffa, avevo probabilmente
ragione. Aggiungendo però che si trattava di intendimenti per lui
inaccettabili.
7.
In difesa del Welfare State.
Tutt’altra,
anche se per molti versi convergente, era la sua strada: quella, per
così dire, dell’autocritica radicale e dello svuotamento
dall’interno, piuttosto che del ripudio dei fondamenti, della
teoria neoclassica. E’ per questa strada che egli era giunto alla
sfiducia, che pervadeva le fibre più profonde del suo pensiero,
nella capacità del mercato di promuovere l’efficienza, di
garantire la piena occupazione, di dar luogo a una distribuzione
accettabile del reddito e della ricchezza. Ed è da tale motivata
sfiducia che derivavano la sua impermeabilità alle lusinghe del
neoliberismo e la sua ostinata fedeltà a «una visione del mondo che
affida alla responsabilità dell’uomo le possibilità del
miglioramento sociale» (34).
Criticando
la fretta con cui si era voluta proclamare la «fine» del Welfare
State, Caffè parlava di una «riedizione del “crollismo”» (35):
come, secondo certe interpretazioni marxiste, il sistema
capitalistico era in evitabilmente destinato al «crollo», così,
egli diceva, le disfunzioni del Welfare State vengono spesso
presentate come sintomi di una «crisi» irreversibile e della
necessità di superare la «vecchia» concezione dello Stato come
garante del benessere sociale. E richiamava, a questo proposito, le
considerazioni di Albert Hirschman sull’«errore strutturalista (o
fondamentalista)»: che consiste appunto nel vedere crisi strutturali
anche dove non vi sono che rimediabilissimi difetti di funzionamento
(36).
Se
si accetta la diagnosi di Hirschman, secondo cui il peggioramento
qualitativo dei servizi è una conseguenza dell’estensione dei
servizi stessi, se ne deve concludere, osservava Caffè, che «in una
visione non reazionaria del progresso sociale, non si tratta di
ridurre la quantità dei servizi, ma di migliorarne la qualità»
(37) combattendo con opportuni strumenti le conseguenze negative
dell’estensione; nella consapevolezza che il Welfare State «è una
conquista ancora da realizzare faticosamente, non un intralcio
fallimentare da scrollarsi di dosso» (38). Quanto poi ai costi del
Welfare State, Caffè faceva notare che, da un lato, esiste un
margine elevato di «efficienza X»
recuperabile a costo nullo,
o pressoché nullo (39); e che, dall’altro, «la reazione critica
dei contribuenti dovrebbe investire non lo strumento della tassazione
in sé, ma il suo uso distorto, la sua incapacità di incidere in
zone altamente protette della proprietà della ricchezza» (40).
Il
completamento del Welfare State è l’obiettivo che Caffè assegnava
a un riformismo che egli voleva rigorosamente laico e portatore di
una concezione del Welfare come umanesimo (41); da intendersi, se ho
interpretato bene il suo pensiero, come l’opposto di una concezione
paternalistico-autoritaria per la quale si tratta di assistere i
poveri, e non di riconoscere dei diritti ai cittadini e di
promuoverne l’autonomia (42). Ma
dal riformismo laico Caffè ha avuto tante e tali delusioni da
indurlo ad augurarsi che i compiti cui esso si sottraeva fossero
assolti da altri, quale che fosse la loro ispirazione etico-politica.
A questa riflessione egli volle dare il massimo risalto esprimendola
nella prima pagina della ricordata raccolta In difesa del
welfare state: «Non è improbabile che questi “punti fermi”
di una concezione economico-sociale progressista, anche se oggi
sembrino essere eco sbiadita di un pensiero attardato, si
ripresentino - in realtà si stiano già ripresentando - sotto
aspetti diversi: come critica a un profitto considerato avulso da
preoccupazioni di indole sociale; come attività di volontariato
ispirata a un’etica radicata nei valori della trascendenza; come
rifiuto di un individualismo spinto a tal punto da perdere ogni
contatto con un’economia “al servizio dell’uomo” [...]. Le
condizioni di chi è privo di lavoro, di assistenza, di prospettive
di elevarsi sono troppo gravi per poter astenersi dal riconoscimento
dovuto a chi si faccia carico dei loro problemi, anche se secondo
linee di pensiero che siano diverse da quelle dei principi ispiratori
del riformismo laico. Ma questo avrà indubbiamente perduta
un’occasione; il che del resto non gli è inconsueto» (43).
Appendice.
Intervista
a Federico Caffè di «Sinistra 77».
Come
ho preannunciato, riproduco qui di seguito il testo dell’intervista
concessa da Caffè a «Sinistra 77» sulla partecipazione delle
sinistre al governo fino alla metà del 1947 e sugli insegnamenti che
se ne potevano trarre trent’anni dopo (44).
Federico Caffè
Federico Caffè
1947-1977: gli stessi errori?
Quali
furono le scelte economiche che caratterizzarono i governi di unità
nazionale?
Più
che di scelte bisognerebbe forse parlare di non scelte, o di cose che
si sarebbero potute fare e non si fecero. Fra le molte proposte che
rimasero sulla carta, una delle più importanti è certamente quella
del riconoscimento ufficiale dei Consigli di gestione. Il relativo
progetto di legge, presentato da Morandi e D’Aragona, incontrò la
violenta opposizione della Confindustria e fu insabbiato. Ecco una
prima occasione perduta. Uso di proposito questo termine, occasione
perduta, proprio perché oggi ci sentiamo troppo spesso ripetere che
la storia non può essere letta come una storia di occasioni perdute.
A
questo punto Caffè cita un’affermazione di Giorgio Amendola: il
cliché di un paese sempre pronto a fare la rivoluzione, ma che non
la fa mai per colpa di qualcuno che tradisce, è duro a morire. Si
parla solo e sempre di occasioni perdute: il Risorgimento, il primo
dopoguerra, la Resistenza. Ma se in cento anni questo paese non l’ha
mai fatta, la rivoluzione, delle ragioni oggettive ci saranno pure
(«la Repubblica», 17 maggio 1977. Nel parlare mi porge il
ritaglio).
In
questa tesi c’è un equivoco di fondo. A chi parla di occasioni
perdute si attribuisce infatti l’idea che fosse possibile uno
sbocco rivoluzionario. Ma ciò serve solo a eludere il vero problema.
A nessuno sfugge, oggi come allora, che vi era stata una divisione
del mondo in sfere d’influenza e che avevamo gli americani in casa.
Il problema storico su cui non riusciamo a intenderci è: posto che
non si poteva fare la rivoluzione, che cos’altro si poteva fare?
Ciò che è mancato è la volontà di attuare un coraggioso programma
di riforme. Per tornare ai Consigli di gestione, si trattava
semplicemente di tener conto di quanto gli operai avevano fatto
durante la ritirata tedesca per salvare gli impianti industriali del
Nord.
Quali
sono le altre occasioni perdute?
Un
esempio è quello del progetto di legge sul cambio della moneta
accoppiato con un’imposta straordinaria sul patrimonio. Anche
questo progetto, presentato dal governo Parri, fu deliberatamente
insabbiato. Non è vero, com’è stato sostenuto, che la sua
attuazione presentasse gravi difficoltà tecniche. Le difficoltà
erano esclusivamente di natura politica: mantenere la fiducia di
quelli che vengono tradizionalmente chiamati i risparmiatori, fu
ritenuto più importante che combattere efficacemente l’inflazione.
Finora ho parlato solo di proposte che formarono oggetto di specifici
progetti di legge. Ma le cose che si sarebbero potute fare sono assai
più numerose. Penso al mantenimento e al ripristino dei controlli
amministrativi sui prezzi e di un sistema di razionamenti (anche se
in questo caso le difficoltà tecniche non possono essere considerate
irrilevanti, date le condizioni del paese). Penso anche a una seria
riforma urbanistica. E ad alcune nazionalizzazioni, come fu fatto in
Inghilterra e anche in Francia. La nazionalizzazione dell’energia
elettrica, per esempio, avrebbe potuto essere attuata in modo ben
diverso che nel 1962, scaglionando i rimborsi su un arco di trenta o
quarant’anni. Di nazionalizzare l’energia elettrica si era, in
realtà, parlato durante la Resistenza, e se ne continuò a parlare
nell’immediato dopoguerra. Ma non se ne fece nulla. Mentre le cose
andavano in questo modo, alcuni ministeri economici erano tenuti dai
partiti operai, con uomini prestigiosi e autorevoli come Pesenti e
Scoccimarro. Ciò mi rende molto scettico sulla possibilità di
realizzare alcunché per il semplice fatto di stare nella «stanza
dei bottoni».
Se
i partiti operai avallarono con la loro presenza al governo un
indirizzo economico liberistico, fu perché lo condividevano o perché
pensarono di non poter fare altrimenti?
Viene
qui in considerazione la grande influenza esercitata, sul terreno
culturale, dalla scuola economica liberale, i cui esponenti erano
circondati dal più grande rispetto. Da questa influenza la sinistra
non fu per nulla indenne. L’egemonia culturale della triade Del
Vecchio, Bresciani Turroni, Einaudi era così forte che le voci
critiche riuscivano difficilmente a farsi udire. Provenivano, queste
voci critiche, da giovani che gli economisti più attempati
guardavano con olimpica indifferenza; oppure da studiosi molto
rispettati, come Alberto Breglia, ma
inclini per loro natura alla testimonianza di un dissenso piuttosto
che alla lotta per l’egemonia.
Ma
l’arrendevolezza della sinistra in materia economica non rifletteva
anche una precisa gerarchia di obiettivi?
La
preoccupazione dominante era, per la sinistra, la scelta
istituzionale. Ma anche in seguito le scelte economiche furono
considerate secondarie rispetto alle scelte politiche. Non a caso lo
slogan di Nenni era «politique d’abord». La mia convinzione,
maturata fin da allora è che si trattò di una linea miope.
Prendiamo, per esempio, la crisi ministeriale del marzo 1947. Fu
subito chiaro che essa preludeva all’estromissione dei partiti
operai dal governo. Allora mi chiedo: non era preferibile cadere
combattendo? Non era preferibile dare battaglia sulle linee di fondo
lungo cui si muoveva la ricostruzione? Una riflessione su questo
problema può essere ricca di insegnamenti anche per l’oggi.
Veniamo
dunque all’oggi. L’attuale discussione sulla politica economica
presenta delle analogie con quella svoltasi nel dopoguerra?
Sul
piano dell’egemonia culturale trovo delle analogie sconcertanti.
Ricompare con forza il tema dell’efficienza. Si riparla
dell’impresa come centro del sistema economico e dell’imprenditore
come regolatore incontrastato della vita dell’impresa. Si ripetono,
talora con parole identiche; i discorsi che si sentivano nel
dopoguerra, quando veniva detto che i Consigli di gestione non
consentivano all’imprenditore di fare il suo mestiere, di prendere
le decisioni con la necessaria rapidità e snellezza. Anche oggi la
sinistra accetta un terreno di discussione proposto da altri. Non
riesco a comprendere, per esempio, perché il Partito comunista debba
rinunciare programmaticamente a qualsiasi estensione del settore
pubblico dell’economia. In particolare, non vedo perché non si
dovrebbe nazionalizzare almeno l’industria farmaceutica. Per
continuare il paragone con il dopoguerra, mi sembra di cogliere
nell’atteggiamento del Partito comunista la stessa paralizzante
preoccupazione di rassicurare i ceti medi moderati.
Il
problema del Pci è sempre stato quello di farsi accettare
all’interno di un assetto socio-politico che voleva emarginarlo.
Non è anche per questo che esso ha assunto atteggiamenti più
moderati di quelli tipici dei tradizionali partiti riformisti?
Nell’immediato
dopoguerra il più forte partito della sinistra non era il Pci, ma il
Psi. Il Pci ne prese il posto in seguito, grazie a una politica molto
accorta. Per cominciare, lo scavalcò immediatamente a destra già
dalla «svolta di Salerno•, riconoscendo la monarchia. Sotto il
profilo dell’acquisizione di rispettabilità, e quindi
dell’efficacia propagandistica e degli esiti elettorali, la
politica di Togliatti non si può certo definire sbagliata.
L’obiezione che ho rivolto ad Amendola nel corso di un dibattito è,
tuttavia, che questa politica è stata utile per il partito, ma forse
non altrettanto utile per il paese. Le sinistre potevano almeno far
pagare qualcosa per ciò che concedevano. E ciò che concedevano non
era poco: l’adesione delle forze organizzate del lavoro. Invece
tutto si è risolto nell’avallo dato a una politica di
restaurazione.
Con
quali conseguenze?
Molte
delle cose che si sarebbero potute fare allora non furono fatte, a
maggior ragione, neppure in seguito. Il modo in cui si provvide alla
ricostruzione e le scelte deflazionistiche dei governi centristi
condizionarono tutto lo sviluppo economico italiano. La
consapevolezza delle cose non fatte emerse improvvisamente nel 1962,
quando la «Nota aggiuntiva» di La Malfa colpì molti come una
rivelazione.
La
politica economica italiana è sempre stata caratterizzata da un
orientamento deflazionistico. Oggi, tuttavia, un simile orientamento
e la sua accettazione da parte della sinistra sembrano trovare
qualche giustificazione nello stato della bilancia dei pagamenti.
Dobbiamo dunque chiederci: dove conduce questa strada? Ma anche:
esiste una strada diversa?
Continuare
sulla strada attuale non mi sembra assolutamente auspicabile. Le
nostre esportazioni, tutto sommato, reggono. Ma ciò avviene grazie
al lavoro nero e accettando una posizione subalterna nella divisione
internazionale del lavoro. Il deterioramento delle ragioni di scambio
impone senza dubbio dei sacrifici. Ma affidare la distribuzione dei
sacrifici al meccanismo dei prezzi non è affatto l’unica scelta
possibile. Questa è, però, la strada che ci viene indicata. Inoltre
viene richiesta una maggiore mobilità del lavoro e, più in
generale, la liberazione delle decisioni imprenditoriali da tutti i
vincoli cui sono oggi sottoposte. Il problema che si pone è se le
forze di sinistra debbano accettare queste condizioni (o, meglio,
subire il ricatto, poiché di questo in realtà si tratta); oppure se
esse debbano proporre un sistema di sacrifici generalizzato e
controllato. La Robinson ha scritto che se usassimo anche in tempo di
pace i metodi dell’economia di guerra il problema della piena
occupazione sarebbe risolto. Non dovrebbe essere questo il programma
delle sinistre?
Economia
di guerra per scopi non di guerra. Quali sono gli obiettivi
prioritari?
Il
problema principale è quello dell’occupazione. L’aumento
dell’occupazione non può essere affidato all’espansione delle
esportazioni, e cioè a una variabile che è fuori del nostro
controllo. E’ necessario rilanciare l’edilizia e fare una
politica di opere pubbliche, espandere la spesa pubblica nelle sue
componenti non assistenziali. C’è però un equivoco di cui
dobbiamo liberarci: si sente spesso ripetere che la spesa pubblica
deve rivolgersi in maggior misura agli investimenti e in minor misura
al pagamento di salari e stipendi. Ma alcune riforme fra le più
importanti, richiedono un aumento dell’occupazione nel settore
terziario. Se si vogliono migliorare i servizi sociali, si devono
pagare salari e stipendi. Non è vero, poi, che la spesa pubblica è
troppo elevata. E’ il gettito fiscale che è troppo basso per le
ragioni che sappiamo.
E
quali sono i metodi dell’economia di guerra?
Per
esempio il circuito dei capitali. Noi facciamo qualcosa del genere
quando blocchiamo la scala mobile, imponendo un prestito forzoso. Ma
lo facciamo poco e male, colpendo alcuni e non altri. Trascuriamo,
poi, lo strumento fondamentale, che è rappresentato da una politica
di estesi razionamenti.
… e
di controllo delle importazioni.
Certo.
Ma occorre anche il razionamento. Bisogna evitare che il razionamento
avvenga automaticamente attraverso l’aumento dei prezzi. La mia
preoccupazione è che si continui sulla strada del liberismo
economico, aggravando progressivamente la situazione del paese. Se si
vuole parlare di austerità, per me va bene, purché non sia un
esercizio retorico e purché l’austerità sia concretamente
finalizzata all’aumento dell’occupazione. E a un’occupazione
non precaria. Io vedo la situazione dei giovani. Giovani di
venticinque anni che appassiscono nell’inattività. Non è escluso
che tutto questo si traduca m un aumento dei suicidi. Occorrono
misure immediate per aumentare l’occupazione, accompagnate dagli
altri provvedimenti che mi sono sforzato di indicare. Dire che tutto
si risolve esportando di più praticando l’austerità e restituendo
efficienza al sistema è una colossale mistificazione.
Fra
gli argomenti più frequentemente addotti contro una politica di
controllo delle importazioni e di razionamenti vi sono quelli
relativi ai vincoli del Mercato comune e all’inefficienza della
pubblica amministrazione. Qual è la forza di questi argomenti?
I
regolamenti del Mercato comune sono stati fatti da persone
intelligenti, e prevedono clausole di salvaguardia, scappatoie da
usare ne1 momenti di difficoltà. Quanto poi all’inefficienza della
pubblica amministrazione, non bisogna esagerare. Nel 1945-46, allora
sì, la situazione dei ministeri era disastrosa, anche per effetto
delle epurazioni. Eppure si è rapidamente compiuta un’imponente
opera di ricostruzione delle ferrovie. Quindi, quando qualcuno ha
voluto fare, le cose sono state fatte.
Se
l’attuale linea di politica economica non verrà modificata, vi
saranno ripercussioni sul quadro politico? E’ compatibile questa
politica economica, con uno stabile spostamento a sinistra degli
equilibri governativi?
Non
mi sento completamente in grado di rispondere a questa domanda. Il
mio compito di intellettuale, così come io l’intendo, è quello di
indicare un modello alternativo e di dimostrare che si tratta di un
modello possibile. Sul resto mi è difficile addentrarmi. Posso dire
solo questo. Che, dopo un periodo di restaurazione sociale e
dell’assetto dell’economia, la sinistra venga ricacciata
all’opposizione mi sembra un’ipotesi da prendere in seria
considerazione. Vi è tuttavia, un’ipotesi che mi preoccupa ancora
di più: quella di una Sinistra subalterna che, per andare o restare
al governo, rimette al passo le forze del lavoro senza ottenere
sostanziali trasformazioni economiche. Vorrei aggiungere che, se per
miracolo qualche risultato si dovesse raggiungere, ma andasse nel
senso di un avvicinamento della nostra situazione a quella, poniamo,
della Germania, non è questo il destino che augurerei al mio paese.
Si tratta, infatti, di una situazione in cui i lavoratori, pur
godendo di un certo benessere, sono in una posizione fortemente
subalterna. Non credo, in altri termini, che il risanamento della
bilancia dei pagamenti e un riassetto dell’economia, senza
l’introduzione di veri elementi di socialismo, sia qualcosa che
vale, un traguardo degno di essere indicato alla società italiana.
Se ci mettessimo su questa strada, tradiremmo per la seconda volta
gli ideali della Resistenza. Non vorrei apparire retorico. Ma
tradiremmo l’ideale di costruire un mondo in cui il progresso
sociale e civile non rappresenti un sottoprodotto dello sviluppo
economico, ma un obiettivo coscientemente perseguito.
__________
Note:
(1) F.
Caffè, La
crisi del welfare state come riedizione del «crollismo»;
in Id., In
difesa del welfare state,
Rosenberg & Sellier, Torino 1986, p. 19.
(2) J.
M. Keynes, Introduzione
ai Cambridge Economie Handbooks,
in Id., Collected
Writings, 12, p.
856. Cfr. anche A. Simonazzi, Economia
politica: «tecnica di pensiero» o tecniche di aggiustamento?,
in «Il Mulino», marzo-aprile 1982.
(3) F.
Caffè, Introduzione a In
difesa del welfare state cit.,
p. 10.
(4) Alle
proposte avanzate da Keynes nel novembre 1939 e riformulate qualche
mese più tardi in How
to Pay for the War (Macmillan,
London 1940) Caffè dà il massimo risalto nelle sue Lezioni
di politica economica,
il cui nono capitolo è significativamente intitolato L’applicazione
delle politiche keynesiane: dal finanziamento del secondo conflitto
mondiale agli impegni pubblici per il pieno impiego.
Cfr. F. Caffè, Lezioni
di politica economica,
Boringhieri, Torino 1978, pp. 168-9
(5) Keynes,
per dirne una, abbraccia il protezionismo negli anni trenta; si piega
nel dopoguerra al liberoscambismo americano, adoperandosi tuttavia
per una soluzione che lasci spazio alle politiche di piena
occupazione; individua dapprima tale soluzione nella predisposizione
di una fonte di liquidità per i paesi in disavanzo (L’International
Clearing Union);
reagisce infine al mancato accoglimento della sua proposta affidando
la salvaguardia della piena occupazione alla modificabilità dei
tassi di cambio e alla possibilità di imporre restrizioni alla
libertà di movimento dei capitali. Cfr. Simonazzi,Economia
politica cit.,
p. 225. Per un’ampia analisi delle posizioni assunte in diversi
momenti da Keynes in tema di relazioni economiche internazionali cfr.
L. M. Milone,Libero
scambio, protezionismo e cooperazione internazionale nel pensiero di
Keynes, La Nuova
Italia Scientifica, Roma 1993.
(6) Impedire
che la piena occupazione si traduca in un eccessivo aumento dei
salari monetari e dei prezzi rappresenta, scrive Keynes nel 1943,
«uno dei principali compiti con cui dovrà misurarsi la nostra arte
di governo». Note
by Lord Keynes, in
«Economic Journal», december 1944, riprodotta in J. M.
Keynes, Collected
Writings, 26, pp.
39-40.
(7) Di
Fuà e Steve - entrambi presenti a questo Convegno, anche se solo
Steve come relatore - voglio ricordare i lucidi interventi alla
Conferenza economica nazionale per il «Piano del lavoro» della
Cgil. Cfr. Il
Piano del lavoro. Resoconto integrale della Conferenza economica
nazionale della CGIL e un’appendice. Roma 18-20 febbraio 1950,
Stab. Tip. Uesisa, Roma, pp. 131-7 e 215-9. Di Steve si veda anche il
notevolissimo articolo Politica
finanziaria e sviluppo dell’economia italiana,
in «Moneta e credito», secondo trimestre, 1950.
(8) Cfr.
S. Steve, Politica
fiscale keynesiana e inflazione,
in «Rivista internazionale di scienze economiche e commerciali»,
febbraio 1977, p. 98.
(9) F.
A. Burchardt e altri, L’economia
della piena occupazione,
Rosenberg & Sellier, Torino 1979.
(10) M.
Kalecki, Tre
metodi per la piena occupazione,
in Burchardt e altri, L’economia
della piena occupazione cit.,
p. 73.
(11) R.
F. Kahn, Memorandum
of evidence submitted to the Radcliffe Committee (1958),
in Id., Selected
Essays on Employment and Growth,
Cambridge University Press, Cambridge 1972, p. 133.
(12) Ibid.,
p. 136.
(13) F.
A. Burchardt, Le
cause della disoccupazione,
in Burchardt e altri, L’economia
della piena occupazione cit.,
p. 66.
(14) F.
Caffè, Teoria
economica e politica economica in Italia,
in «Civiltà delle macchine», settembre-dicembre 1976, p. 67.
(15) F.
Caffè, Keynes
oggi, in
Id., L’economia
contemporanea. I protagonisti e altri saggi,
Edizioni Studium, Roma 1981, p. 87.
(16) Burchardt
e altri, L’economia
della piena occupazione cit.,
p. 254.
(17) F.
Caffè, E’
consentito discutere di protezionismo economico? (1977),
in Id., La
solitudine del riformista,
a cura di N. Acocella e M. Franzini, Bollati Boringhieri, Torino
1990, p. 240.
(18) Cfr.
in particolare F. Caffè, Vecchi
e nuovi trasferimenti anormali dei capitali (1966),
in Id., Teorie
e problemi di politica sociale,
Laterza, Bari 1970, p. 105.
(19) Cfr.
F. Caffè, Umanesimo
del welfare (1986),
in Id., La
solitudine cit.,
pp. 258-9.
(20) Cfr.
J. Tobin, A
Proposal for International Monetary Reform (1978),
in Id., Essays
in Economics. Theory and Policy,
The MIT Press, Cambridge (Mass.)-London 1982, pp. 488-94.
(21) Cfr.
F. Caffè, Sguardi
su un mondo economico in trasformazione (1957),
in F. Caffè,Saggi
critici di economia,
De Luca, Roma 1958. Ho richiamato l’attenzione su questo saggio in
un ricordo di Federico Caffè pubblicato sul «Manifesto» del 16
aprile 1988. Da tale testo ho attinto liberamente nella stesura dei
punti 5 e 6.
(22) Cfr.
su ciò M. de Cecco, Gli
economisti italiani e l’adesione dell’Italia al Mec,
in Aa.Vv., Scelte
politiche e teorie economiche in Italia 1945-1978,
a cura di G. Lunghini, Einaudi, Torino 1981, pp. 245-57.
(23) Cfr.
F. Caffè, Il
mito della deflazione,
in «Cronache sociali», 13 luglio 1949. Si veda anche, sulla stessa
rivista, il successivo articolo Bilancio
di una politica (settembre-ottobre
1949, 16-17 e 18).
(24) F.
Caffè, La
strategia dell’allarmismo economico (1972)
in Id., Un’economia
in ritardo,
Boringhieri, Torino 1976, pp. 48 segg.
(25) F.
Caffè, Dal
falso miracolo alla falsa «agonia»,
in «Il punto di riferimento», maggio-giugno 1975, pp. 27-9.
(26) F.
Caffè, Un’economia
in ritardo cit.,
p. 7.
(27) Si
vedano gli articoli riprodotti in Caffè, La
solutine cit.,
pp. 80-2, 81-9, 143-5, 146-9, 150-1, 155-8, 163-5, 168-82 e 225-9.
(28) Caffè
ha, fra l’altro, curato una raccolta di scritti ti Del
Vecchio: Antologia
degli scritti di Gustavo Del Vecchio nel centenario della nascita
(1883-1983), introduzione
e cura di F. Caffè, Collana di pubblicazioni dell’Istituto di
Politica economica e finanziaria della Facoltà di economia e
commercio dell’Università di Roma, Angeli, Milano 1983.
(29) G.
Del Vecchio, Economia
generale, Utet
Torino 1961, p. 741. Cfr. anche F. Caffè,Economia
senza profeti. Contributi di bibliografia economica,
Nuova Universale Studium, Roma 1977, pp. 10-1.
(30) P.
Sraffa, Produzione
di merci a mezzo di merci,
Einaudi, T orino 1960, p. V.
(31) F.
Caffè, Morte
di un grande economista. La solitudine insidiata di Sraffa,
in «Il Mamfesto», 7 settembre 1983; ristampato in Caffè, La
solitudine cit., pp. 23-5.
(32) F.
Vianello, Sraffa
dopo Sraffa. Correggere o rifondare la teoria economica,
in «Il Manifesto», 14 settembre 1983.
(33) F.
Caffè, Una
precisazione, in
«Il Manifesto», 14 settembre 1983.
(34) Caffè,
Introduzione a In
difesa del welfare state cit.,
p. 10.
(35) Cfr.
Caffè, La
crisi del welfare state cit.,
p.18.
(36) Cfr.
A. O. Hirschman, Lo
stato sociale in difficoltà crisi sistemica o mal di crescita?, in
Id., L’economia
politica come scienza morale e sociale,
Liguori, Napoli 1987, pp. 135-40.
(37) Caffè, La
crisi del welfare state cit.,
p. 20.
(38) Ibid.,
p. 24.
(39) Caffè, Umanesimo
del welfare cit.,
p. 255.
(40) Caffè, La
crisi del welfare state cit.,
p. 18.
(41) Caffè, Umanesimo
del welfare cit.
(42) Cfr.
F. Vianello, Umanesimo
del welfare: qualche riflessione,
in Aa.Vv., In
difesa del welfare state,
a cura di G. M. Rey e G. C. Romagnoli, Angeli, Milano 1993, pp.
107-17 (in particolare p. 112).
(43) Caffè,
Introduzione a In
difesa del welfare state cit.,
p. 7.
(44) All’incontro
con Caffè partecipò anche Antonio Lettieri, cui è dovuta una parte
delle domande. Solo mia è invece la trascrizione delle risposte.
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