Dall'intervista che chiude il libro di Stefano G. Azzarà L''humanité commune : Dialectique hégélienne, critique du libéralisme et reconstruction du matérialisme historique chez Domenico Losurdo (Delga, Paris 2012).
Domanda.
Come incide questa debolezza teorica sullo stato della sinistra
attuale? L'Europa si confronta oggi con trasformazioni imponenti che
stanno mutando il volto del mondo. Sono trasformazioni che riguardano
i rapporti di forza internazionali sul piano politico e su quello
economico, ma anche l'equilibrio tra Stato e mercato, la natura della
democrazia, le grandi migrazioni. La sinistra non sembra avere oggi
né idee, né prospettive politiche.
Losurdo.
Con la crisi prima e col crollo poi del «socialismo reale», in
Occidente e in Italia in modo particolare la sinistra ha smarrito
ogni reale autonomia. Sul piano storico ha sostanzialmente desunto
dai vincitori il bilancio storico del Novecento. Due sono i punti
centrali di tale bilancio: per larghissima parte della sua storia, la
Russia sovietica è il paese dell'orrore e persino della follia
criminale. Per quanto riguarda la Cina, il prodigioso sviluppo
economico che si verifica a partire dalla fine degli anni 70 non ha
nulla a che fare col socialismo ma si spiega soltanto con la
conversione del grande paese asiatico al capitalismo. A partire da
questi due capisaldi ogni tentativo di costruire una società
post-capitalistica è oggetto di totale liquidazione e persino di
criminalizzazione, e l'unica possibile salvezza risiede nella difesa o
nel ristabilimento del capitalismo. E paradossale, ma sia pure con
sfumature e giudizi di valore talvolta diversi, questo bilancio viene
spesso sottoscritto dalla sinistra, compresa quella «radicale».
Ancora
più grave è la subalternità di cui la sinistra dà prova sul piano
più propriamente teorico. Nell'analizzare la grande crisi storica che
si sviluppa nel Novecento, l'ideologia dominante evita accuratamente
di parlare di capitalismo, socialismo, colonialismo, imperialismo,
militarismo. Queste categorie sono considerate troppo volgari. I
terribili conflitti e le tragedie del Novecento sono invece spiegate
con l'avvento delle «religioni politiche» (Voegelin), delle
«ideologie» e degli «stili di pensiero totalitari» (Bracher),
dell«assolutismo filosofico» ovvero del «totalitarismo
epistemologico» (Kelsen), della pretesa di «visione totale» e di
«sapere totale» che già in Marx produce il «fanatismo della
certezza» (Jaspers), della «pretesa di validità totale» avanzata
dalle ideologie novecentesche (Arendt). Se questa è l'origine della
malattia novecentesca, il rimedio è a portata di mano: è
sufficiente un'iniezione di «pensiero debole», di «relativismo» e
di «nichilismo» (penso al Vattimo degli anni Ottanta). In tal modo
non solo la sinistra fornisce il suo bravo contributo alla
cancellazione di capitoli fondamentali di storia: i massacri e i
genocidi coloniali sono stati tranquillamente teorizzati e messi in
pratica in un periodo di tempo in cui il liberalismo si coniugava
spesso con l'empirismo e il problematicismo; prima ancora dell'avvento
del pensiero forte novecentesco, la prima guerra mondiale ha imposto
col terrore a tutta la popolazione maschile adulta la disponibilità
e la prontezza ad uccidere e ad essere uccisi. Per di più, come
medico per eccellenza della malattia novecentesca viene spesso
celebrato Nietzsche, che pure si attribuisce il merito di essersi
opposto «ad una falsità che dura da millenni» e che aggiunge: «Io
per primo ho scoperto la verità, proprio perché per primo ho
sentito la menzogna come menzogna, la ho fiutata» (Ecce homo, Perché
io sono un destino, 1). Così enfatica è l'idea di verità, che
coloro i quali sono riluttanti ad accoglierla sono da considerare
folli: sì, si tratta di farla finita con le «malattie mentali» e
con il «manicomio di interi millenni» (L'Anticristo, § 38). D'altro
canto, il presunto campione del «pensiero debole» e del
«relativismo» non esita a lanciare parole d'ordine ultimative:
difesa della schiavitù quale fondamento ineludibile della civiltà;
«annientamento di milioni di malriusciti»; «annientamento delle
razze decadenti»! La piattaforma teorico-politica suggerita a suo
tempo da Vattimo ma che Vattimo stesso pare oggi mettere in
discussione - mi sembra insostenibile da ogni punto di vista.
Altre
correnti del pensiero dominante indicano il rimedio alle tragedie del
Novecento non già nel relativismo, ma, al contrario, nel recupero
della saldezza delle norme morali, sacrificate da comunisti e nazisti
sull'altare del machiavellismo e della Realpolitik (Aron e Bobbio)
ovvero della filosofia della storia e della presunta necessità
storica (Berlin e Arendt). Nella sinistra e nella stessa sinistra
radicale (si pensi a «Empire» di Hardt e Negri) è divenuta un
punto di riferimento soprattutto Arendt. Rimossa o sottoscritta è la
liquidazione a cui lei procede di Marx e della rivoluzione francese
con la connessa celebrazione della rivoluzione americana (e il
conseguente indiretto omaggio al mito genealogico che trasfigura gli
Usa quale «impero per la libertà», secondo la definizione cara a
Jefferson, che pure era proprietario di schiavi). In questo caso
ancora più assordante è il silenzio sulla tradizione colonialista e
imperialista alle spalle delle tragedie del Novecento. Arendt
condanna lidea di necessità storica nella rivoluzione francese, e
soprattutto in Marx e nel movimento comunista; dimentica però che il
movimento comunista si è formato nel corso della lotta contro la
tesi del carattere ineluttabile e provvidenziale dell'assoggettamento
e talvolta dell'annientamento delle «razze inferiori» ad opera
dell'Occidente, si è formato nel corso della lotta contro il «partito
del destino», secondo le definizione cara a Hobson, il critico
inglese dell'imperialismo, letto e apprezzato da Lenin. Arendt
contrappone negativamente la rivoluzione francese, sviluppatasi
all'insegna dell'idea di necessità storica, alla rivoluzione
americana, che trionfa all'insegna dell'idea di libertà. In realtà
l'idea di necessità storica agisce con modalità diverse in entrambe
le rivoluzioni: se in Francia viene considerata ineludibile anche
l'emancipazione degli schiavi, che è in effetti è sancita dalla
Convenzione giacobina, negli Usa il motivo del Manifest Destiny
consacra la conquista dell'Ovest, inarrestabile nonostante la
riluttanza e la resistenza dei pellerossa, già agli occhi di
Franklin destinati dalla «Provvidenza» ad essere spazzati via.
Arendt
muore nel 1975, non ancora settantenne. In questa morte precoce c'è
un elemento paradossale di fortuna sul piano filosofico. Solo
successivamente intervengono gli sviluppi storici che falsificano
totalmente la piattaforma teorica della filosofa scomparsa: a partire
dalla presidenza Reagan sono proprio gli Stati Uniti a impugnare la
bandiera della filosofia della storia contro l'Urss e i paesi che si
richiamano al comunismo, destinati a finire nella «spazzatura della
storia» e comunque collocati ai giorni nostri lo proclamano Obama e
Hillary Clinton «dalla parte sbagliata della storia». Più longevi
ma meno fortunati sul piano filosofico sono i devoti di Arendt, che
continuano a ripetere la vecchia filastrocca, senza accorgersi del
radicale rovesciamento di posizioni che nel frattempo si è
verificato sul piano mondiale.
Subalterna
sul piano del bilancio storico così come delle categorie
filosofiche, la sinistra (compresa quella radicale) è chiaramente
incapace di procedere a un'«analisi concreta della situazione
concreta». Tanto più, se teniamo presente che alla catastrofe
teorico-politica ha contribuito ulteriormente una mossa sciagurata,
quella che contrappone negativamente il «marxismo orientale» al
«marxismo occidentale». Alle spalle di questa mossa agisce una
lunga e infausta tradizione. In Italia, subito dopo la rivoluzione
d'ottobre, Filippo Turati, che continua a fare professione di
marxismo, non riesce a vedere nei Soviet null'altro che l'espressione
politica di un«orda» barbarica (estranea e ostile all'Occidente). A
partire dagli anni 70 del secolo scorso, la divaricazione tra
marxisti orientali e marxisti occidentali ha visto contrapporsi da un
lato marxisti che esercitano il potere e dall'altro marxisti che sono
all'opposizione e che si concentrano sempre più sulla «teoria
critica», sulla «decostruzione», anzi sulla denuncia del potere e
dei rapporti di potere in quanto tali, e che progressivamente nella
loro lontananza dal potere e dalla lotta per il potere ritengono di
individuare la condizione privilegiata per la riscoperta del marxismo
«autentico». E una tendenza che ai giorni nostri raggiunge il suo
apice nella tesi formulata da Holloway, in base alla quale il
problema reale è di «cambiare il mondo senza prendere il potere»!
A partire da tali presupposti, cosa si può capire di un partito come
il Partito comunista cinese che, gestendo il potere in un
paese-continente, lo libera dalla dipendenza economica (oltre che
politica), dal sottosviluppo e dalla miseria di massa, chiude il
lungo ciclo storico caratterizzato dall'assoggettamento e
annientamento delle civiltà extra-europee ad opera dell'Occidente
colonialista e imperialista, dichiarando al tempo stesso che tutto
ciò è solo la prima tappa di un lungo processo all'insegna della
costruzione di una società post-capitalistica?
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