mercoledì 4 luglio 2018

La grande lezione di ERNST BLOCH - Pierluigi Vuillermin

Da: https://sinistrastoriaeteoria.myblog.it - https://esseresinistra.wordpress.com/
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2015/09/psicologia-delle-folle-1895-prima-parte.html
                    https://ilcomunista23.blogspot.com/2015/01/freud-e-la-massenpsychologie-stefano.html


Weimar e noi (attraverso Bloch) - (2011)
1. Premessa (anti-borghese)

Secondo l’Economist (notizia di qualche tempo fa) per la prima volta nella storia dell’umanità circa metà della popolazione mondiale è entrata a far parte della middle class. Ebbene, ne ha fatta di strada la vecchia piccola borghesia negli ultimi due secoli. Nelle aree emergenti dell’Impero la sua avanzata è incessante. In nome del progresso, essa sostiene la crescita economica e predica le virtù democratiche del benessere materiale. In Occidente, invece, si constata il declino dei ceti medi. Con la competizione globale, l’incubo del declassamento, in casa propria, è una minaccia costante. Ora, questa “nuova borghesia globale” è ancora una classe rivoluzionaria, nel significato tradizionale del concetto? Tanto per essere chiari, citando Hermann Broch, spaventevole progresso, quello alla cui testa marcia il piccolo borghese. La domanda che guida la presente rilettura del libro di Ernst Bloch Eredità del nostro tempo, è molto semplice. In un’epoca di crisi dove vanno politicamente i ceti medi impoveriti? La vicenda della Repubblica di Weimar è risaputa. Mentre l’operaio disoccupato guardava a Mosca, l’impiegato disoccupato si affidò a Hitler. Sappiamo tutti come andò a finire. La questione è tuttora di grande e urgente attualità. Soprattutto oggi, in tempi di recessione economica e conflitto sociale. Di recente il quotidiano La Stampa, recensendo un saggio del sociologo Arnaldo Bagnasco sul ceto medio, così titolava: la classe media lascia il salotto e va alla guerra. In buona sostanza l’autore dell’articolo sosteneva che, in un periodo storico come quello che stiamo vivendo, di incertezza e insicurezza, la classe media abbandona i suoi comodi rifugi e scende rabbiosamente in piazza a lottare in difesa dei diritti o dei privilegi, a seconda del punto di vista. Un po’ in tutta Europa, infatti, stiamo assistendo a manifestazioni e proteste, a volte anche molto violente, da parte di ampi strati di quella popolazione che si considera classe media. Certo, più che con la rivoluzione abbiamo a che fare con rivolte. Così almeno sembra. Differenza non da poco. Tuttavia questo generale malcontento dei ceti medi rischia di prendere una deriva reazionaria e protofascista.

Come ha acutamente ricordato Benedetto Vecchi sul manifesto, vengono in mente gli scenari iperrealisti alla James G. Ballard. In Millenium People la classe media, strangolata da mutui e indebitamento, sopraffatta dalla riduzione dello stato sociale, rincari ingiustificati e da un proibitivo costo della vita, si trasforma in una massa inferocita, pronta a bruciare e distruggere ogni cosa, persino le proprie lussuose ville, simbolo della mentalità borghese. Oppure, incubo ancora peggiore, nel Regno a venire, la ribellione paranoide della piccola borghesia occidentale prende tinte razziste e xenofobe contro gli alieni venuti da fuori.

Sono questi, io temo, i due sbocchi politici dell’attuale declino dei ceti medi: rivolta luddista e sovversivismo fascista. In un clima generale di paura, risentimento e sfiducia, i richiami della destra ottengono facilmente ascolto, in una società sempre più divisa e atrofizzata, priva di legame sociale. Il paesaggio dell’antipolitica è sotto gli occhi di tutti. Dopo un iniziale qualunquismo da osteria, si è passati alle uniformi paramilitari e ai pugni in tasca delle ronde padane. E non si tratta soltanto di folklore. Secondo diversi sondaggi, nella vecchia Europa, dalle Alpi ai Balcani, ma ultimamente anche nelle metropoli progressiste, la destra xenofoba e razzista vede aumentare il proprio consenso tra la massa delusa e impaurita della popolazione. Come avrebbe chiosato Ernst Bloch, i borghesi falliti sono estranei al rosso. Pertanto rileggere oggi Eredità del nostro tempo significa interrogarsi sul presente e porsi domande politiche. In primo luogo, da un punto di vista prettamente storico, un confronto tra la situazione contemporanea e quella della Repubblica di Weimar può forse suggerirci alcune “somiglianze di famiglia”. Elenco, in modo sommario, i problemi più rilevanti da affrontare in questa sede. Perché la sinistra non sa più parlare al popolo? Per quali ragioni la destra è diventata egemone nella società? La cosiddetta deriva autoritaria, oligarchica e plebiscitaria delle democrazie occidentali è un esito necessario della crisi del sistema capitalistico? Dopo la fine del comunismo ha ancora senso parlare di rivoluzione e utopia? Infine, per tornare al nodo del testo, la decadenza della classe media dove porterà? Quale bandiera seguirà la “piccola borghesia planetaria”?

La geografia del malessere borghese manifesta diversi scenari possibili. In Europa la situazione della borghesia è molto più critica e problematica rispetto al resto del mondo, in particolare in quei paesi emergenti, dove attualmente si verifica una notevole crescita della classe media. Ma la storia presenta percorsi intricati, non sempre decifrabili nel breve periodo. Nondimeno un fenomeno sembra incontestabile: il vecchio continente segna il passo, sta regredendo nella scena mondiale. E nel declino si riattivano le ombre e i fantasmi di un passato non troppo lontano. Attraverso il marxismo eretico di Bloch, e nello specifico la sua analisi del nazionalsocialismo, proveremo a individuare qualche risposta a tali questioni. Mi propongo di indicare alcuni percorsi di lettura e di approfondimento, necessariamente approssimativi e schematici, utilizzando il saggio di Bloch come pretesto e riferimento intertestuale. Un esercizio di pensiero critico. L’indicazione di un nemico e di un campo di battaglia, proprio oggi che, per citare l’intelligente battuta di Isaac Babel, la banalità è la controrivoluzione.


2. Le bourgeois revenant

Se, come affermava Roland Barthes, da un punto di vista meramente ideologico la borghesia è una società anonima, vale a dire la classe sociale che non vuole essere nominata, allora bisogna fare uno sforzo di nominazione, quantomeno di raffigurazione. Si tratta di denaturalizzare e rovesciare la falsa immagine. Niente di più facile, se si prende come guida visiva George Grosz. Basta guardarli bene in faccia i borghesi. Ieri come oggi sono sempre uguali. La fisiognamica non inganna davvero. Alta borghesia: maiali e pescecani. Media e piccola borghesia: impiegatucci e cagnolini rabbiosi. Con la rumorosa e variopinta processione di nani e ballerine. Ma lasciamo perdere l’arte figurativa. La ricostruzione sociologica è presto detta. Nel tardo capitalismo l’individualismo proprietario e il consumismo narcisistico hanno prodotto una profonda mutazione dell’originario carattere borghese. Se al capitalismo delle origini, essenzialmente liberale e protestante, corrispondeva il borghese alla Max Weber (tutto onorabilità, spirito di sacrificio, senso del dovere e dedizione al lavoro), con la modernità liquida del turbocapitalismo si è realizzato l’imborghesimento della società civile, che ha trasformato gli individui in monadi di idiotismo e indifferentismo. Da qui tutta la letteratura critica, di destra e di sinistra, sul carattere postmoderno. Questa moltitudine atomizzata, creativa e flessibile come si dice oggi, non porta da nessuna parte. In effetti va bene sia al mercato omologante che al pensiero alternativo. Semplice intrattenimento. Non disturba mai il manovratore di turno. Ciò che conta è mantenere la posizione sociale. Riempirsi le tasche e non inimicarsi i potenti. Al massimo qualche predica moraleggiante. Per il resto tace e acconsente. Tuttavia, quando subentra una crisi economica e sociale, il salotto del buon borghese può diventare un inferno domestico, per familiari e congiunti; e in casi estremi trasformarsi in un teatro di guerra o in un centro di detenzione, per chi attenta al quieto vivere delle signore e dei signori.

Secondo un noto aforisma di Adorno, “i borghesi hanno perduto la loro ingenuità e ciò li ha resi del tutto incaponiti, impenitenti e malvagi. La mano diligente e premurosa che continua a curare e a coltivare il suo giardinetto come se non fosse diventato, da tempo, un loft anonimo e impersonale, ma che tiene ansiosamente lontano dai cancelli l’intruso sconosciuto, è già pronta a negare l’asilo al profugo politico. Sotto la minaccia oggettiva che pesa su di loro, i detentori del potere e i loro seguaci finiscono per diventare, soggettivamente, del tutto inumani”. Ebbene, niente di nuovo. Nel Novecento, fascismo e nazismo hanno messo all’opera questa regressione dello spirito borghese. Ma anche le società democratiche, come avevano già osservato i francofortesi, in determinate occasioni possono subire questa degenerazione. Da classe rivoluzionaria, la borghesia può mutarsi in massa anonima e violenta, attraversata da pregiudizi aggressivi e rigurgiti fascistoidi. Il tragico epilogo è prevedibile. Il capitale e la grande borghesia comandano e dettano le regole. Alla piccola borghesia non rimane che obbedire, seguendo docile e disciplinata i suoi capi e padroni. La strategia è sempre la stessa: dividere il fronte degli sfruttati e procurare capri espiatori per le masse impoverite. Detto ciò, nella fase attuale di ristrutturazione del capitalismo e di totale svuotamento dello stato di diritto, situazione non molto diversa dalla crisi europea degli anni Venti e Trenta, qualcosa di oscuro e non-contemporaneo, per riprendere una formulazione blochiana, sta tornando pericolosamente a galla. Se persino moderati e vecchi conservatori sono seriamente preoccupati per la tenuta della società aperta, tant’è che ormai gli esperti parlano di “post-democrazia”, vuol dire che il peggio della civiltà montante deve ancora arrivare. Forse è venuto il momento, al di là delle geremiadi della borghesia illuminata, di segnalare l’incendio. Come concludeva amaramente Adorno dal suo esilio americano, i borghesi sopravvivono a se stessi come spettri annunciatori di sventura.


3. Viaggio attraverso l’inflazione tedesca

Durante gli anni difficili e tormentati della Repubblica di Weimar, Walter Benjamin, viaggiando per la Germania del primo dopoguerra, ha modo di rendersi conto della crisi economica e sociale. Da questa drammatica esperienza egli ricaverà un reportage giornalistico, nel quale descrive, quasi in presa diretta, il disfacimento della borghesia e, in particolare, la rapida decadenza dei ceti medi. Da questo nucleo tematico originario nascerà poi Strada a senso unico (1928), un libro profetico che racconta la rovina materiale e morale della Germania. La fotografia è impietosa e inquietante. Nelle grandi città tedesche, come nei piccoli centri di provincia, si diffondono paura e insicurezza. L’interno borghese del passato guglielmino, simbolo di buon gusto e piacevole agiatezza, non è più un luogo di protezione, ma un cadavere in putrefazione. La gente non riesce a tirare avanti. Si parla solo ed esclusivamente dei maledetti soldi, che mancano sempre. Lo sfacelo è assoluto: vita grama, sudiciume, miseria. Si sopravvive come relitti assediati, giorno dopo giorno, senza via di scampo. L’analisi sociologica di Benjamin è molto lucida e allarmata. In un’epoca simile di cupio dissolvi, di totale disgregazione della società, il piccolo borghese manifesta due comportamenti reattivi opposti. Da un lato, egli si ostina nel folle perseguimento dell’interesse privato e del tornaconto personale, in forme ancora più aggressive e violente ma, data la situazione di grave crisi economica, frustranti e impotenti. Dall’altro, è condizionato dagli istinti della massa e regredisce a un’animalesca stupidità, una specie di decadimento dell’intelletto e una totale corruzione degli istinti. In modi contraddittori, nell’animo disorientato e inquieto del piccolo uomo, alla Hans Fallada per intenderci, convivono sia uno spietato calcolo utilitaristico che paure inconsce e pulsioni irrazionali. Questa la disposizione di spirito della borghesia tedesca che, sospinta da un cieco impulso autodistruttivo, corre all’impazzata verso il baratro, tra le braccia dei suoi carnefici.

Ben prima del definitivo trionfo del nazismo, Benjamin si accorge che la borghesia in rovina si sta trasformando in una collettività amorfa, in una massa primitiva, e ne avverte immediatamente la minaccia per la tenuta della democrazia. Da qui la necessità psicologica di “disciplinare i propri sensi”, in modo che la sofferenza sociale non conduca al pessimismo e allo sconforto, che generano solo improvvise e sterili rivolte o scoppi contagiosi di follia collettiva, ma piuttosto, attraverso la lotta e la coscienza di classe, faccia rinascere la solidarietà tra gli oppressi, al fine di ottenere una reale emancipazione della società. Su questo programma politico rivoluzionario Benjamin tornerà più concretamente negli anni Trenta, quando il nazismo rivelerà il suo volto demoniaco e la guerra sarà imminente, grazie al confronto con il marxismo di Brecht. Se il fascismo trova il suo consenso nella massa compatta della piccola borghesia, il comunismo deve rispondere con il dispositivo della classe, intesa non tanto come una determinata classe sociale, secondo una lettura troppo superficiale del marxismo, ma come “autochiarificazione della massa”, che ha di mira la creazione di un fronte unitario, solidale e progressista, contro l’attacco della reazione, quale si manifesterà da lì a poco con la realizzazione dei cosiddetti “fronti popolari”.


4. Ceti medi proletaroidi

Come ha ricostruito Sergio Bologna, la sociologia weimariana si è interessata molto dei ceti medi. In particolare ha analizzato il tema cruciale del sostegno al nazionalsocialismo da parte della piccola e media borghesia. In questa prospettiva interpretativa, il sociologo tedesco Theodor Geiger ha studiato il graduale processo di proletarizzazione dei ceti medi, durante l’agonia della Repubblica di Weimar fino all’avvento del nazismo e, a tale proposito, egli ha coniato il concetto sociologico di proletaroide. Nel corso degli anni Venti in Germania, i proletaroidi sono quella parte del vecchio ceto, del tradizionale lavoro autonomo che, di fronte alla progressiva emarginazione economica, ormai si è rassegnato. Essi sono la riserva di voti del nazismo, perché sono portati a proiettare e sublimare la loro rassegnazione nei riguardi della loro emarginazione economica e sociale in visioni di palingenesi nazional-patriottica. Questi ceti medi disorientati e proletarizzati, oltre alla sicurezza del reddito, cercano di recuperare prestigio sociale; rivendicano un’identità forte e riconosciuta nei confronti del movimento operaio e dei capitalisti. Tuttavia, a cominciare dalla crisi economica del ‘29, essi perdono ogni prospettiva di promozione sociale. Nella loro posizione sono socialmente frustrati, scontenti e impotenti, nonché politicamente invisibili; e per tutti questi motivi si rifugiano nella propaganda nazista. Per Geiger i ceti medi, soprattutto dal 1930 in poi, precipitano in un vero e proprio panico. Non a caso da questo momento crescerà vertiginosamente il consenso a Hitler. Il rifiuto del “compromesso weimariano” e la spinta a votare nazista nascono dalla paura irrazionale di godere di minore considerazione sociale.

Secondo questo approccio sociologico, non propriamente marxista, il fascismo va interpretato come un “radicalismo piccolo-borghese”, una specie di “estremismo del centro”. Esso infatti emerse quando l’aggravarsi delle ristrettezze economiche e la conseguente percezione di una reale minaccia proveniente tanto dal grande capitale quanto dal movimento operaio costrinsero i componenti della classe media, che prima avevano sempre votato per i partiti liberali di centro, a spostarsi all’estrema destra. Quello che importa in questa lettura psico-sociale è il fatto che, sotto il fascismo, i ceti medi proletarizzati si trasformano in una “massa reattiva”, manovrata dal capitale finanziario, nella quale sogni e passioni prendono il sopravvento sulla ragione. Secondo il sociologo tedesco Emil Lederer, il Terzo Reich è uno Stato delle masse amorfe, in cui tutte le forze e tutti gli interessi individuali vengono sottomessi in una “massa umana emozionale”, guidata e controllata dal partito. Ancora una volta il piccolo borghese impoverito guarda politicamente a destra, non solidarizza con il proletario sfruttato, cerca in modo disperato e paranoico di risalire la china scalciando in basso, compensa la sua frustrazione sociale nella persecuzione dei deboli e dei diversi, proietta la propria impotenza nel culto del capo e nell’ossessione identitaria. In tutto ciò si manifesta una vera e propria “regressione psichica”, che preannuncia una comunità autoritaria e gerarchica.


5. Piccola borghesia e fascismo

Nel Saggio sulle classi sociali, l’economista Sylos Labini affermava che la piccola borghesia, socialmente frammentata e politicamente instabile, allorquando perde reddito economico e prestigio sociale, si sposta su posizioni reazionarie. Il caso del fascismo italiano è emblematico. Secondo un consolidato paradigma storiografico, esso fu il risultato della saldatura fra grande borghesia terriera, finanziaria e industriale e larghe parti della piccola e media borghesia (impiegati pubblici e privati, liberi professionisti, piccoli commercianti). Questa lezione storica non dovrebbe essere dimenticata. L’instabilità politica della piccola borghesia ha conseguenze rilevanti: quando, in periodi di crisi, ampi strati di questa quasi classe si alleano con i gruppi dominanti della grande borghesia, il paese corre il serio pericolo del fascismo. L’interpretazione di Sylos Labini, che sottolinea la componente piccolo-borghese del fascismo, non è poi molto distante da quella di Antonio Gramsci. Nelle Tesi di Lione del 1925, importante testo di ricostruzione storica delle vicende italiane dopo il biennio rosso, questi sosteneva che “il fascismo, come movimento di reazione armata che si propone lo scopo di disgregare e di disorganizzare la classe lavoratrice per immobilizzarla, rientra nel quadro della politica tradizionale delle classi dirigenti italiane, e nella lotta del capitalismo contro la classe operaia”. Fin qui siamo ancora nell’ambito della classica lettura marxista-leninista. Più avanti, però, Gramsci osserva che “socialmente il fascismo trova la sua base nella piccola borghesia urbana e in una nuova borghesia agraria”. Pochi anni prima, in un articolo su L’Ordine Nuovo, egli aveva infatti dichiarato che il fascismo non era altro che l’ultima incarnazione politica della piccola borghesia italiana. Insomma, il popolo delle scimmie è sempre una grave minaccia per una democrazia sana, conflittuale e pluralista. In un periodo di crisi economica e di delegittimazione politica, il piccolo borghese fallito, tra qualunquismo, populismo e sovversivismo, prende sempre la strada dell’ordine comunitario e dell’autorità carismatica. D’altronde già nel Manifesto del partito comunista Marx ed Engels sostenevano che gli “ordini medi” non sono rivoluzionari ma conservatori. Anzi reazionari. Diventano rivoluzionari solo quando passano dalla parte del proletariato, cioè non difendono i loro interessi presenti ma quelli futuri. Per non parlare del sottoproletariato, lo strato infimo e passivo della società, che è sempre disposto a lasciarsi comprare per “mene reazionarie”. Marx dimostrerà poi questo modello interpretativo, analizzando la storia francese tra il 1848 e la Comune di Parigi, prefigurazione di molti esiti politici novecenteschi.

Ora, tornando per un istante alla triste attualità italica, in una prospettiva ideal-tipica si può dire che il berlusconismo, da un punto di vista culturale, sociale e politico, è una ripresa “postmoderna” del fascismo, sicuramente con importanti novità e differenze; vale a dire di quell’estremismo dei ceti medi, del lavoro autonomo e del centro moderato, clerico-fascista, che quasi sempre approda a una democrazia oligarchica e plebiscitaria. Da un recente sondaggio sui consensi alle forze politiche, pubblicato su Il Sole 24 Ore, risulta che circa il 50% degli italiani vota per la destra (Pdl e Lega). Da quindici anni questa percentuale è rimasta più o meno stabile, con qualche flessione da ultimo. Ma soprattutto il Pdl è diventato un partito interclassista pigliatutto, come la Democrazia cristiana della “prima repubblica”. Ottiene voti e consenso non soltanto tra l’alta borghesia del capitale, delle professioni liberali e della media e piccola borghesia del lavoro autonomo (il suo blocco sociale di riferimento, particolarmente al Nord, che vota in base all’interesse privato e allo scambio di favori); ma anche tra operai, casalinghe, pensionati, studenti e disoccupati, quegli strati più svantaggiati che solitamente sostenevano i partiti della sinistra, il consenso al Pdl arriva addirittura al 60%. Perché questi votano Berlusconi? Le risposte dei sondaggisti sono varie: manipolazione, falsa coscienza, stupidità, egoismo, ecc. Ma in questi trent’anni di restaurazione liberale dov’era la sinistra? Come si è realizzato questo deserto? Come avrebbe detto il vecchio Bloch, qualcosa manca.


6. Eredità del nostro tempo

Pubblicato nel 1935 a Zurigo, Eredità del nostro tempo, più che un classico testo di filosofia, è un saggio storico-sociologico sulla Germania, sul crollo della Repubblica di Weimar e sull’avvento del nazismo, nonché sulla sconfitta dell’SPD e del partito comunista. Come per altri libri di Bloch, anche questo è costruito attraverso l’accumulo e il montaggio di materiali diversi, soprattutto articoli e interventi di giornale e di rivista usciti tra il 1924 e il 1933. Pertanto “l’epoca in putrefazione” è quella degli anni ‘20 e ‘30. La lente di ingrandimento è dichiaratamente marxista. In breve, Bloch vuole descrivere la situazione spirituale di quegli anni tragici, ripercorrendone il dibattito culturale e filosofico, al fine di decifrare la grave crisi politica che ha condotto il popolo tedesco al nazismo. Quest’opera tortuosa e labirintica, composta per strati compatti e attraversata da sguarci improvvisi, è un mirabile esempio di quel “giornalismo filosofico” che, allestendo una rassegna caleidoscopica di figure e immagini, cerca di interpretare il presente e cogliere al balzo lo spirito del tempo. Il tema principale del libro è la crisi e la decadenza della borghesia, che culminerà nel nazionalsocialismo. Di esso Bloch offre innanzitutto un’interpretazione ideologica e culturale, che sottolinea l’autonomia delle componenti sovrastrutturali rispetto a una lettura marxiana tradizionale, che privilegia l’analisi materialistica. Il nucleo teorico fondamentale è la nota teoria della non-contemporaneità, secondo la quale la realtà storica è soggetta a una dialettica frammentaria, piena di arresti e salti, cortocircuiti e brusche mediazioni. Nonostante l’assemblaggio di diversi articoli su altrettanti svariati problemi, il testo mantiene una sua unità e coerenza interna. Il materiale argomentativo, suddiviso in tre parti, è preceduto da un’importante prefazione e da una densa introduzione, intitolata non a caso Polvere. La metafora centrale del libro è infatti la polvere, che la piccola borghesia in rovina solleva nell’aria e che va diffondendosi per la Germania. Potenze della polvere sono la distrazione e l’inebriamento, le due categorie interpretative per mezzo delle quali Bloch esamina il nazismo nel suo complesso.

Concretamente, sotto la scura polvere che si alza in un’atmosfera cupa e minacciosa, si manifestano l’ottenebramento della situazione sociale, l’impossibilità di intravvedere una concreta via d’uscita e l’offuscamento delle contraddizioni economiche. Il finale naturalmente è già scritto. Da un punto di vista storico, Bloch individua due periodi distinti di crisi e declino della borghesia weimariana. Tra il 1924 e il 1929, cioè tra la stabilizzazione del marco e il crollo della borsa di Wall Street, c’è un primo periodo di ripresa economica, caratterizzato dall’affermarsi della distrazione, del consumismo e della cultura di massa. Dopo il ‘29 invece, fino alla definitiva ascesa al potere di Hitler nel 1933, si assiste all’inebriamento ideologico della borghesia fallita per opera della propaganda nazista. Le tre sezioni sono quindi così organizzate. Impiegati e distrazione Non-contemporaneità e inebriamento (1929-1933) descrive il secondo periodo. Grande borghesia, oggettività e montaggio (1924-1933) comprende i due periodi insieme, visti però dal punto di vista del dibattito culturale del tempo, ovvero della storia delle idee, così come esse venivano elaborate e diffuse dalle università, sugli organi di stampa e nell’opinione pubblica. (1924-1929) analizza il primo periodo.

Per Bloch la situazione della Germania alla vigilia del nazionalsocialismo è semplice. Le forze che detengono il potere sono, nonostante la crisi, unite e compatte. Il capitale non scherza e mira al sodo. I tempi sono difficili e non vuole fare una brutta fine. La rivoluzione russa esercita ancora il suo fascino, anche se il peggio sembra ormai alle spalle. Più complessa, invece, la condizione della piccola borghesia, che è costantemente ingannata e disorientata. Non sa bene da che parte guardare: destra o sinistra? Una pulsione anticapitalista esiste anche al di fuori del movimento operaio. Ora, per Bloch il problema è il seguente: la borghesia in declino, proprio in quanto tale, apporta degli elementi tangibili alla costruzione del mondo nuovo e, in caso affermativo, quali sono questi fattori innovativi? Questo il significato del titolo del libro. Dalla crisi della borghesia è possibile ereditare qualcosa di positivo, per l’avvento del comunismo. Da un punto di vista immediato, sostiene Bloch, l’inganno del fascismo non serve che al grande capitale, il quale, grazie a esso, distrae e confonde lo sguardo offuscato dei ceti medi impoveriti. Tuttavia, da un punto di vista mediato, nella distrazione e nell’inebriamento del fascismo non ci sono solo becera volgarità, rozzezza inarticolata e credulità panica ma, questo il punto, “un po’ dell’antico anticapitalismo romantico, con la coscienza di ciò che manca nella vita di oggi e la nostalgia di una vita oscuramente diversa”. C’è poco da ridere quindi. Bisogna partire dall’eredità di “questo tempo”, non certo progressivo. Si tratta allora di sottrarre alla reazione le armi della critica del capitalismo. Anzi è tempo di mobilitare contro il capitalismo, sotto la guida socialista, le contraddizioni profonde della borghesia in rovina. Questo il primo compito di una sinistra radicale, che non sottovaluta l’irratio borghese, ma ha la capacità diabolica di strappare il bottino dell’anticapitalismo alla destra fascista.

Grande è dunque la ricchezza di un’epoca in agonia, afferma Bloch. Là dove il rosso e il nero si confondono, più che demonizzare l’avversario, o peggio sottovalutarlo con irrisione e supponenza, occorre studiarlo seriamente per anticiparne le mosse. Pertanto non è sufficiente, da buon marxista, denunciare la violenza dello sfruttamento e smascherare l’apparenza ideologica; al contrario bisogna essere in grado di interpretare politicamente il residuo possibile. Prendere dal nemico quello che è buono, dialettizzabile, e utilizzarlo per la costruzione del socialismo. Questo non significa “strizzare l’occhio al diavolo”. Una cosa è certa: affermare che la ribellione della piccola borghesia è ambigua non porta da nessuna parte. Per Bloch più importante di tale constatazione, un po’ stereotipata, è un lavoro di distinzione e di accertamento, che non sottovaluti l’avversario e che miri al bottino. Nello specifico, un bottino fatto di uomini confusi che cercano qualcosa di meglio della sopravvivenza e che quasi sempre, per cecità e disperazione, affidano la loro vita al nemico di classe.


7. Polvere

Esistiamo ancora. Ma ci riusciamo solo a metà. Il piccolo uomo soffoca troppe cose. Crede ancora di farlo per se stesso. Questa è la dura verità. Crisi economica e declino sociale mordono ormai la carne viva dei ceti medi. Il piccolo borghese stringe la cinghia e tira avanti, ma non ce la fa più. La situazione è preoccupante e non si vede una via di uscita. Intanto ci rimettono i più deboli, che sono guardati con disprezzo e terrore. Il piccolo uomo inveisce e sbraita contro il Palazzo, ma sempre in forma generica. Più facilmente, quando rientra a casa, dopo un lavoro che non paga, se la prende col vicino più disgraziato. L’assenza di pensiero è assoluta: frasi triviali e sproloqui al solito tavolo, tra rumori di bicchieri e chiacchiere. Il ragionamento è impossibile. Dominano pregiudizi e luoghi comuni. Si parla meno della tisi del proletario sfruttato che di quella della celebre ballerina. Non rimane che la vita sparpagliata della distrazione. Avanti, un altro giro di bevute! Ma qualcosa cambia. Da sotto, un urto si propaga tra la massa galvanizzata. La classe media si accorge almeno di essere povera. Certo, se ne accorge in maniera sbagliata: è diverso non aver mai posseduto denaro o averlo perso. La prospettiva è rovesciata. Il rischio di un repentino impoverimento genera rabbia e solitudine. Nel bottegaio fallito la voglia di lottare non rende fratelli, figurarsi compagni. Si cerca di venire alle mani. L’idiotismo rancoroso diventa monade e inno di guerra. La situazione è singolare: il piccolo borghese adesso vuole cambiare vita. Il declino dei ceti medi solleva la polvere, ma l’aria è confusa e spessa. Non si vede ancora niente all’orizzonte.

Con questa breve introduzione, che ho cercato di riassumere per sommi capi, Bloch pone subito la questione centrale del libro. Dove porterà politicamente la crisi della classe media tedesca? Ecco la domanda: il forte desiderio di cambiamento della piccola borghesia, impoverita e infuriata, andrà a destra, seguirà i canti militari dei nazisti; oppure la sinistra saprà intercettare quell’oscuro lamento, che mescola passato e futuro in modo vago e ambiguo, e alla fine tradurlo in un programma politico rivoluzionario? Tale era per Bloch la situazione politica della Germania tra il 1924 e il 1933. In quel periodo drammatico nulla era già definito; al contrario, tutto era incerto e imprevedibile. La vittoria dei nazisti, sostiene Bloch a posteriori, nel 1935 dal suo esilio in Svizzera, poteva essere evitata. Ma allora il problema non era tanto la forza della destra, bensì l’incapacità della sinistra di comprendere quanto stesse accadendo nel paese reale. Se il fascismo, secondo la definizione del Comintern, è la “dittatura degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialistici del capitale finanziario”, l’errore strategico della sinistra, sia dell’SPD che del KPD, è stato quello di non avere saputo leggere e interpretare l’anticapitalismo e la domanda di cambiamento della classe media impoverita, e avere perciò disperso quel patrimonio disarticolato di odio, rancore e sogni a occhi aperti, consegnandolo alla propaganda nazionalsocialista. Pertanto in questo libro Bloch, attraverso la ricostruzione della crisi e della fine della Repubblica di Weimar sino alla “non irresistibile” presa del potere da parte di Hitler, prestando attenzione principalmente agli elementi culturali dell’ideologia e della propaganda nazista, si rivolge alla sinistra comunista, per mostrare la sua incapacità di ereditare positivamente dalla reazione. Ecco la vera causa delle sue sconfitte storiche. A me sembra che oggi, in un contesto storico assai diverso, questo insegnamento blochiano sia ancora valido.


8. Distrazione

Nei testi giornalistici della prima sezione, una specie di reportage sociologico, Bloch descrive la vita quotidiana della piccola borghesia tedesca, durante la Repubblica di Weimar (1924-1929). Egli analizza sia gli impiegati della grandi città che i piccoli proprietari della campagna. Nelle metropoli meccaniche come Berlino si assiste all’americanizzazione della vita da parte dei colletti bianchi. Qui prevale, come si può vedere in Cabaret di Bob Fosse, la potenza fantasmagorica della distrazione e della cultura di massa come attività e svago (sport, cinema, ballo, consumo, supplemento illustrato). In buona sostanza, Bloch riprende le precedenti inchieste di Kracauer sugli impiegati. Per entrambi la cultura posticcia e triviale degli impiegati non è nient’altro che una fuga davanti alla rivoluzione e alla morte. Nel vuoto caotico e ben assortito dello stordimento collettivo, l’impiegato cerca e trova un surrogato alla sua impotenza politica e un diversivo per la sua miserabile esistenza sociale. Nella distrazione niente cambia di posto ma tutto è travolto dal flusso. L’anestetico funziona benissimo. In questo senso è evidente che i ceti dominanti riforniscono il pubblico piccolo borghese di svaghi e intrattenimenti, al fine di allontanare il pericolo di una rivoluzione. In provincia, invece, dominano la desolazione dell’ambiente esterno, foreste e campagna fumante, il vuoto interiore e una disumana violenza nei rapporti interpersonali. Come nel film Scene di caccia in Bassa Baviera, il guerriero ariano si nasconde nel contadino bigotto e ritardato, pieno di pregiudizi e animalesco risentimento, pronto a guidare la “muta di caccia” contro il nemico, venuto da fuori, che minaccia l’integrità della comunità. In un’atmosfera di inerzia e disfacimento, qualcosa comincia a fermentare e imputridire. Da un lontano passato risorgono vecchie leggende, saghe ancestrali e sogni fantastici. Dai boschi in movimento giungono i richiami del sangue e della terra. Il destino del popolo tedesco è segnato. La Wanderung romantica risorge nel passo dell’oca delle camicie brune. La razza superiore deve ormai conquistare il mondo. Tra simulacri e feticci, la classe media, impoverita dalla crisi e minacciata dal declino, è in grande subbuglio. Come un vulcano che si è risvegliato, essa cerca una via d’uscita. Il suo riscatto morale è all’ordine del giorno.

Ma ora non c’è più la borghesia liberale ottocentesca, dedita non solo al profitto ma anche alla cultura, impegnata nella società civile in vista del progresso civile e sociale. Al contrario, siamo in presenza di una piccola borghesia reazionaria, filistea e tradizionalista, priva di moralità e senso del dovere, tendenzialmente aggressiva e violenta, distratta a suo piacimento e manipolata a dovere dai ceti dominanti. Il salotto di casa del buon borghese, con il confortevole pathos dell’interiorità, inizia a vacillare e dalle crepe del pavimento salgono gli umori torbidi della reazione fascista. In un’epoca di crisi e decadenza, la piccola borghesia diventa “barbara e avida di vendetta”, sprofonda a poco a poco in un cupo e sinistro inebriamento primitivo, si fa incantare dall’utopia nazionalista e razzista del nazismo. Assume, espressione blochiana, un’esistenza palustre: comincia a marcire. Questo ceto medio, eccitato e imbarbarito, è adesso pronto a seguire l’imbianchino austriaco. Il grande capitale, per superare la congiuntura negativa e schiacciare il movimento operaio, ha bisogno della dittatura fascista, il suo comitato d’affari in armi, e in più del narcotico, ossia della mitologia, per ammansire i borghesi proletarizzati. Sotto la nera polvere che si solleva nell’aria, il piccolo uomo è sanguinante e oscuro. La “Germania segreta” sogna.


9. Inebriamento

Dopo il 1929 qualcosa è cambiato, in peggio. La crisi è arrivata come un uragano e ha gettato sul lastrico i più deboli. I risparmi di una vita sono andati in fumo. Il denaro non vale più niente. I prezzi salgono e le fila dei disoccupati s’ingrossano. La distrazione non basta. C’è poco da ridere. Gli affari vanno proprio male. Una catastrofe che travolge ogni famiglia. I ceti medi non ce la fanno più. Il piccolo uomo, pieno di amarezza e angoscia, resta indietro e scalpita. L’incubo della miseria è alle porte di casa. L’imprecazione verso chi sta in alto non porta da nessuna parte. Ma soprattutto non riempie la pancia. La smorfia diventa urlo e pugno. Aumentano quelli che sono sanguinanti e oscuri. “Da quando il campanello alla porta ha iniziato ad arrugginire, il bottegaio ha lo sguardo particolarmente fosco”. Bisogna decidersi e passare all’azione. Si comincia a odiare l’ebreo accanto, dato che ha un negozio concorrente. Il piccolo borghese “ama sentirsi ariano, così rimpiazza il pane imburrato”. Occorrono eccitanti per sopportare il disastro. Il capitalista lo sa bene e provvede. Dalla campagna tedesca marcia sulla città la reazione agraria. I boschi sono in cammino, avrebbe detto Elias Canetti. L’attaccamento panico si manifesta nel culto atavico e ctonio del sangue e della terra, sfocia nell’ostilità verso l’avventura nell’ignoto. Alla stupidità della distrazione subentra il kitsch del romanticismo e il mito della razza superiore. Ora il piccolo uomo ha trovato un senso alla sua vita. Ha inizio così l’inebriamento del nazionalsocialismo.

La diagnosi di Bloch è lucida e dettagliata. Ne riporto una lunga ed eloquente citazione, che dà conto anche del suo originalissimo stile di scrittura, a metà strada tra argomentazione e narrazione: “Il fascio tedesco è la torbida risposta del ceto medio, e la risposta esatta del grande capitale a una crisi che penetra nel vivo. L’impostura revisionista dei socialdemocratici e la sua Camera alta: le democrazia delle illusioni sullo Stato popolare non hanno più alcuna presa sulle masse. Ma ecco che il capitale, seriamente minacciato, fa ricorso a un nuovo imbroglio, un imbroglio mitologico, e premia tutte le riserve non-contemporanee che in buona fede alimentano quell’inganno o che sono incistate fuori del tempo. L’impoverimento dei contadini e dei ceti medi è ormai allo stesso livello di quello del proletariato; il fascismo diventa allora necessario per tenere completamente in scacco i proletari e per isolare ideologicamente da essi i ceti proletarizzati. La cosa funziona: gli scontenti si sono infatti già divisi in gruppi troppo numerosi per poter esaminare in comune la loro situazione”. Tuttavia, se il nazismo offre un rifugio alla protesta e all’agitazione, perché non si ridestino, rimane per Bloch la seguente domanda cruciale: questo irrazionale che si risveglia non potrebbe diventare qualcosa di estraneo alla ragione capitalistica? Nonostante non riesca a esplicitare la contraddizione con il capitale e riempia il vuoto in modo mitico, l’immenso giacimento della reazione non potrebbe essere utilizzato in vista della rivoluzione proletaria?

Ecco la questione. L’incapacità della sinistra di intercettare il malessere sociale e trasformarlo in un progetto politico di emancipazione. Nell’adesione al fascismo e al nazismo non ci sono soltanto miseria e falsa coscienza, ma la messa in opera e la mobilitazione di “uno spesso strato inconscio di natura arcaica e persino primitivo”, che appartiene a un passato non-contemporaneo. La propaganda marxista non riesce a contrapporre al mito reazionario alcuna contropartita convincente, che sappia trasformare i sogni dionisiaci del borghese in sogni rivoluzionari. Questa la sua debolezza culturale e la sua inconsistenza politica. Proprio tale residuo emozionale, quasi una vena fanatico-religiosa, doveva essere raccolto e dialettizzato dal marxismo. Come riferiva un giovanotto a un raduno del partito nazista, “non si muore per un programma che si è compreso, si muore per un programma che si ama”. Il movimento operaio, invece, ha irresponsabilmente consegnato ceti medi e proletariato al nazionalsocialismo, braccio armato del capitale economico e finanziario, che nella crisi si maschera da comunità di popolo. A ciò si aggiunga che l’opposizione irrazionale, non-contemporanea, della piccola e media borghesia si contrappone sia al capitalismo che al socialismo, accomunati entrambi dall’accusa di “meccanicismo in generale”, in sostanza di essere sistemi politici in cui prevalgono le patologie della modernità: razionalizzazione e spersonalizzazione. In effetti, per l’impiegato fallito, il socialismo non è attraente, perché non è altro che il “rovescio del capitalismo”. In questo modo si è formata l’irratio “antimoderna” dei ceti medi, che in seguito si è saldata con l’irratio altoborghese della conservazione. Il nazismo ha saputo unificare queste due forme di irrazionalità borghese agli interessi del capitale monopolistico. Il marxismo, invece, a causa del suo astratto intellettualismo, non è stato capace di guadagnare alla propria causa rivoluzionaria questo ceto medio disorientato e impoverito, che è caduto in balia dei sogni di riscatto nazionale e sociale, nonché dei richiami mitici e nostalgici della reazione fascista.


10. Non-contemporaneità

L’esperienza dell’attualità non è la stessa per tutti. C’è sempre qualcosa di anteriore, non del tutto passato e risolto, che viene a mescolarsi al presente. Secondo Laura Boella, con l’espressione “non-contemporaneità” Bloch intende “la diversità dei ritmi temporali che contraddistinguono una determinata epoca e determinano l’incrociarsi, nelle sue manifestazioni artistiche, economiche, politiche e ideologiche, di progresso e stasi, di futuro e passato”. Pertanto la non-contemporaneità è una categoria storico-temporale che assume molteplici declinazioni: coesistenza di diversi modi di produzione (capitalismo e forme economiche premoderne); sviluppo ineguale di economia e arte, cultura e altre manifestazioni dello spirito; dimensione socio-psicologica dei rapporti tra classi e ceti (momenti irrazionali e inconsci); pluralità di percorsi storici e scenari geopolitici (città/campagna, provincia/metropoli, centro/periferia, Oriente/Occidente); infine, possibilità storica bloccata (contro le teorie dell’arretratezza). La non-contemporaneità rompe quindi il continuum storico e permette di recuperare e attualizzare il passato; contrapponendo alla storia, intesa come un tempo omogeneo e vuoto, una storia riempita da tempi diversificati, intessuta di elementi che non necessariamente sono tendenze di avanzamento e progresso, ma quasi sempre rappresentano creazioni o idee sorpassate, momenti psicologici irrazionali e inconsci, che all’improvviso irrompono nella cronaca, si mettono di traverso al continuum storico-evolutivo, interferiscono con esso e addiritura lo interrompono. Da quanto sin qui detto, risulta evidente che, con la teoria della non-contemporaneità, Bloch ha voluto criticare ogni forma di storicismo e di positivismo, i quali interpretano la storia esclusivamente nel segno di un progresso graduale e lineare. In questo senso, anche il Benjamin delle Tesi di filosofia della storia elaborerà un nuovo modo di intendere il tempo storico, al di là dello storicismo liberale, ma anche socialista, attraverso una sintesi originale di escatologia e materialismo storico

All’interno della non-contemporaneità Bloch distingue due lati. Un lato oggettivo, che concerne il ritardo o anche soltanto la lontananza dal presente di modi di produzione precapitalistici e residui premoderni, e un lato soggettivo, inteso come opposizione spirituale al contemporaneo nella forma del rifiuto, della nostalgia e del risentimento. Nel caso specifico della Germania, Bloch vede nella storia tedesca un retaggio non-contemporaneo, che si manifesta nella provincia organica, con il suo arsenale di anticapitalismo romantico, e che ne impedisce la modernizzazione. Il nazional-socialismo ha saputo risvegliare queste forze oscure, ha indicato loro uno sbocco politico, ottenendo consenso proprio tra la piccola borghesia non-contemporanea (impiegati, contadini, commercianti, artigiani e giovani delusi e arrabbiati), rimasta indietro nel processo storico e pertanto affascinata dal richiamo conservatore del mito del sangue e del suolo. Di fronte a un presente duro e insopportabile le masse hanno creduto all’imbianchino austriaco. Nel concreto, l’analisi blochiana del blocco sociale che ha appoggiato il nazismo è acuta e particolareggiata. Innanzitutto i giovani, per cui la viva emozione conta più del freddo ragionamento. Le parole d’ordine della destra (purezza, decisione, autenticità, patria, forza, ecc), attraverso l’esaltazione orgiastica e comunitaria, hanno fatto breccia negli animi giovanili, afflitti e depressi dallo spettacolo deprimente della democrazia weimariana. Poi ci sono i contadini che hanno visto nel nazismo, oltre all’anticomunismo viscerale e alla protezione doganale, il richiamo al radicamento nella terra e alla fedeltà alla tradizione e nella nazione umiliata e offesa. Infine il ceto medio, rovinato dall’inflazione e perduto il prestigio sociale dell’epoca gugliemina, è stato abbindolato e catturato dalla propaganda hitleriana: complotto giudaico e delirio di grandezza pangermanico. Nella classe media si manifesta un desiderio di subordinazione, che si trasforma in “partecipazione mistica” al destino del popolo tedesco. La precaria democrazia weimariana è ormai screditata e la vecchia classe dirigente liberale è giudicata responsabile del fallimento dei ceti medi a vantaggio del grande capitale e, in parte, del movimento operaio. L’impiegato diventa selvaggio e bellicoso. La “collera repressa” del borghese fallito cerca una via di fuga, rivitalizzando un passato mitico a partire dall’urgenza del presente. Ma l’inganno della destra eversiva è palese. Per il capitale lo “Stato corporativo” è uno strumento contro la lotta di classe; per la piccola borghesia rappresenta il suo riscatto materiale dalla miseria. Nella crisi il capitalismo usa la reazione (non-contemporanea) per occultare la sua contraddizione (contemporanea), e dirigerla verso il fascismo, che ha il compito di salvare il capitalismo, contro la prospettiva rivoluzionaria (contemporanea) del comunismo.

A questo punto, per decostruire la non-contemporaneità, occorre una dialettica critico-materiale, in grado di dialettizzare gli elementi irrazionali della reazione non-contemporanea. Per il militante Bloch è necessario un esame di coscienza. La sinistra, soprattutto quella marxista, è rimasta troppo astratta e intellettuale, non ha avuto la capacità di intercettare le fantasie inconscie delle masse. A differenza del nazista, il marxista non sa comunicare emotivamente con la gente. “I nazisti parlano una lingua ingannatrice, ma a degli uomini, i comunisti parlano una lingua totalmente vera, ma che riguarda soltanto le cose”. Insomma, il marxismo deve mostrare al popolo la sua “utopia concreta”. Come dice Bloch al termine del suo studio, la contraddizione soggettivamente non-contemporanea è la collera repressa, la contraddizione oggettivamente non-contemporanea è il passato non ancora esaurito; la contraddizione soggettivamente contemporanea è l’atto rivoluzionario libero del proletariato, la contraddizione oggettivamente contemporanea è il futuro impedito contenuto nel presente, i benefici della tecnica bloccati, la società nuova bloccata di cui quella vecchia è gravida nelle sue forze produttive. Per Bloch, in una prospettiva marxista, anche se non del tutto ortodossa, la contraddizione oggettivamente contemporanea è il conflitto tra il carattere collettivo delle forze produttive dispiegate nel quadro capitalistico e il carattere privato della loro appropriazione. Questo soltanto, tra capitale e lavoro, è l’unico e reale conflitto di classe contemporaneo. L’altro conflitto, non-contemporaneo, tra capitale e piccola borghesia, coesiste col primo solo in maniera confusa e produce unicamente angoscia e collera repressa. Tale conflitto secondario si ferma ai sintomi della crisi, attutisce la forza d’urto del primo e non si rivolge direttamente alle cause dello sfruttamento. Il trucco del capitale è sempre lo stesso: mettere gli ultimi contro i penultimi. Nondimeno anche nel conflitto non-contemporaneo ci sono elementi positivi, che possono e devono essere usati contro il capitalismo. Pertanto si tratta di “separare gli elementi della contraddizione non-contemporanea che sono suscettibili di avversione e di metamorfosi, ossia quelli che sono ostili al capitalismo e in esso non trovano accoglienza, e nel rimontarli dando loro un’altra funzione in un contesto diverso”. La “triplice alleanza” tra proletariato, contadini in miseria e classe media pauperizzata deve rimanere sotto l’egemonia del movimento operaio, in modo tale da sottrarre alla reazione gli elementi della contraddizione non-contemporana. Non c’è un’altra possibilità. Una sinistra degna di questo nome, non astratta e liquidatoria, è obbligata a farsi carico degli elementi utopici e sovversivi presenti nella reazione non-contemporanea. Come ammoniva Brecht, più o meno negli stessi anni, bisogna partire dal cattivo nuovo, anziché rimpiangere il vecchio buono di un tempo.


11. Oggettività e montaggio

Il capitale e la grande borghesia dominano sulle masse attraverso l’oggettività della distrazione e il montaggio dell’inebriamento. In questa parte, la più ampia e articolata del libro, Bloch si impegna in una dura battaglia di critica culturale contro il pensiero della destra. Attraverso un’approfondita analisi della rivoluzione conservatrice, dell’anticapitalismo romantico, dell’ideologia völkisch della razza e della patria, Bloch vuole non soltanto smascherare e denunciare l’inganno del nazismo, ma soprattutto strappare al nemico il suo bottino, ovverosia sottrarre il mito e il simbolo alla destra, e traghettare a sinistra la rabbia e la rivolta delle masse ingannate e sfruttate. In questa sezione, in forma di rivista e fantasmagorica divagazione, Bloch demolisce l’ideologia tedesca del suo tempo: Spengler, Nietzsche, Wagner, Heidegger, Jaspers, Klages, Jung, Steiner, Mann, Benn, George e tutta la paccottiglia dell’irrazionalismo, dell’anti-modernismo, dell’esoterismo e dell’occultismo, che in quegli anni andava diffondendosi in Germania. Egli non risparmia nessuno. Con profondità di giudizio e lingua acuminata, tutta quanta la produzione culturale weimariana, alta e bassa, elitaria e popolare, viene sottoposta a un lavoro di smontaggio e disinnesco. I suoi interessi sono molteplici: filosofia, musica, arte, letteratura, teatro, scienza. Non è tenero nemmeno con gli intellettuali della sinistra radicale, come emerge dal confronto sull’espressionismo tedesco, che lo vedrà polemizzare aspramente con il vecchio compagno Lukács. Non è il caso, in questa sede, di riassumere tutte le osservazioni e i commenti, dal momento che molti di essi sono recensioni e scritti occasionali che risentono del dibattito di allora. Per Bloch comunque una cosa è indubbia: l’interpretazione marxista del fascismo come fase suprema del capitalismo monopolistico è assolutamente vera ma parziale. Il fascismo, prima del potere politico, ha conquistato l’egemonia ideologica e culturale nella società. Senza una puntigliosa analisi della lingua e delle idee dei nazisti, non è possibile capire il successo di Hitler. Prima di tutto è nell’articolazione della sovrastruttura che si consolida il dominio. Da qui l’impossibilità di uscire dalla reificazione linguistica e di sottrarsi all’incantamento emozionale che ne consegue. Al di là del consenso e della violenza, il nazismo ha saputo risvegliare nelle masse un mostro addormentato, fatto di nostalgie romantiche, speranze fantastiche, forze irrazionali, energie ctonie, pulsioni arcaiche, residui mitici, ecc. Il serbatoio dell’irratio non-contemporanea ribolle ed è pronto a scoppiare. Mentre il marxista discetta e ragiona, l’oscuro pensa.


12. Coscienza di classe

Nel saggio del 1936 sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducubilità tecnica, Benjamin si interroga sul rapporto tra arte e politica, alla luce dei nuovi mezzi di comunicazione di massa, in particolare della radio e del cinematografo. Ma soprattutto egli è interessato all’uso politico dell’arte da parte del fascismo, che si è ormai imposto in tutta l’Europa. Questo scritto segna, inoltre, la convinta ma problematica adesione di Benjamin al marxismo. La guerra è vicina e il fronte antifascista registra la mobilitazione di molti intellettuali. L’analisi di Benjamin è pertinente ed esplicita. “La crescente proletarizzazione degli uomini di oggi e la crescente formazione di masse sono due aspetti di un unico e medesimo processo. Il fascismo cerca di organizzare le recenti masse proletarizzate senza però intaccare i rapporti di proprietà di cui esse perseguono l’eliminazione. Il fascismo vede la propria salvezza nel consentire alle masse di esprimersi (non di veder riconosciuti i propri diritti). Le masse hanno diritto a un cambiamento dei rapporti di proprietà; il fascismo cerca di fornire loro una espressione nella conservazione delle stesse. Coerentemente il fascismo tende a un’estetizzazione della vita politica”. Ora, per Benjamin, il comunismo deve rispondere con la politicizzazione dell’arte. Nell’epoca del tramonto dell’aura, vale a dire della funzione rituale-sacrale dell’opera d’arte, il problema concerne il mezzo tecnico che riproduce l’opera d’arte per la fruizione delle masse. Senza ostentare un atteggiamento elitario alla Adorno, ma in sintonia con il teatro brechtiano, Benjamin invita artisti e intellettuali a impegnarsi in un’operazione di educazione politica delle masse, al fine di coniugare le tecniche dell’avanguardia con la prassi rivoluzionaria. In una importantissima nota del saggio, egli afferma che il fascismo trova il suo consenso soprattutto tra la massa della piccola borghesia. Questa massa, impenetrabile e compatta, è quella studiata dalla psicologia delle folle di Le Bon e dalla psicologia delle masse di Freud. In essa si rivela sempre un tratto panico, in cui prevalgono scosse emozionali e irrazionali. Il fascismo, attraverso l’estetizzazione del politico, ha saputo risvegliare queste energie e forze oscure e mobilitarle politicamente. Ora, questo è il punto, la piccola borghesia non è una classe; in realtà essa è solo massa, tanto più compatta, quanto maggiore è la pressione alla quale è esposta da parte delle due classi nemiche, costituite dalla borghesia e dal proletariato.

Come ha sottolineato Andrea Cavalletti in un saggio recente, da questa non-classe il fascismo, quello di ieri come quello di oggi, produce dal nulla il suo popolo, mascherando la pura e semplice compressione nei nomi arcaici e indistinguibili di comunità, nazione, popolo, capo, ecc. I mezzi di comunicazione di massa, attraverso il culto del divo e del pubblico, promuovono la corruzione dello stato d’animo delle masse, che il fascismo cerca di mettere al posto della coscienza di classe. In tal modo la piccola borghesia si trasforma in una massa essenzialmente reattiva e reazionaria, che il capitale utilizza e manovra per scopi politici. Questa degenerazione della classe media, che si è già manifestata nel fascismo novecentesco, è un rischio presente anche nella nostra società globalizzata. Ciò che sta accadendo in Italia, per fare solo un esempio, è assai inquietante. Abbiamo una piccola borghesia volgare e arraffona, che si proietta e si identifica nei desideri perversi del sovrano osceno, completamente infatuata dallo spettacolo del re taumaturgo, imprigionata nel sogno narcisistico del padre-padrone, distratta e manipolata da una disgustosa informazione di regime, pronta a mettersi la divisa e marciare contro i nemici del popolo. Su questi aspetti, oserei dire psicopatologici, ha scritto cose importanti Massimo Recalcati, utilizzando un approccio lacaniano. Non si tratta solo di partita iva ed evasione fiscale. Certamente gli interessi materiali contano, eccome, ma c’è dell’altro. Dalla falsa coscienza emergono sogni, fantasie e pulsioni che danno vita a quella cultura politica di destra che da decenni è egemone nel nostro paese. Questo è l’attuale “fascismo berlusconiano”. E proprio qui, sul campo dell’analisi culturale e della lotta politica, si misura la sconfitta, quasi weimariana, della sinistra italiana. In un attimo, agli inizi degli anni Novanta, dal lutto si passò, senza riserve, al disarmo ideologico e alla resa incondizionata di fronte al ritorno “non-contemporaneo” della destra. Ma il vero politico, secondo il suggerimento di Benjamin e di Gramsci, ha il dovere di distinguere nella massa la classe rivoluzionaria. Attraverso un faticoso lavoro culturale deve, come si dice oggi, scendere tra la gente, sul territorio, e interpretare le contraddizioni reali. Per fare questo occorrono: un partito, dirigenti capaci, solidi apparati, un pensiero forte e linee di condotta. Ma, soprattutto, la speranza alla Bloch e il sogno di una cosa, che non sia la semplice amministrazione dell’esistente. Non ci si mobilita per un programma scritto da contabili e burocrati. Ancora meno se i programmi della destra e della sinistra sono quasi uguali. Se invece si intravvede un orizzonte, se si indica un traguardo, poi il popolo viene da sé. Un popolo che non sarà più massa ma classe. Come sostiene Cavalletti, “la coscienza di classe proletaria, che è la più studiata, tra l’altro modifica radicalmente la struttura della massa proletaria. Il proletariato dotato di coscienza di classe costituisce una massa compatta solo dall’esterno, nell’immaginazione dei suoi oppressori. Nel momento in cui si accinge alla sua lotta di liberazione, in realtà la sua massa apparentemente compatta si è già allentata. Smette di essere in balia di semplici reazioni; passa all’azione. L’allentamento della massa proletaria è opera della solidarietà”. In questo senso, la massa della piccola borghesia è naturalmente fascista. Dai suoi fetidi umori emergono soltanto egoismo e violenza. Il proletariato, invece, inteso non come una classe sociale specifica, ma come il risultato della “purificazione” della massa stessa, attraverso la lotta e la coscienza di classe, evita il rischio della regressione a massa reattiva, ossia reazionaria, e di conseguenza sa guardare avanti, verso un futuro di emancipazione collettiva.


13. Conclusione (qualcosa manca)

Sono già passati vent’anni dalla fine del comunismo. In Occidente molti pensavano che la storia fosse ormai terminata con la vittoria della democrazia liberale. Da qui in avanti si sarebbe realizzato il trionfo del capitalismo. In sostanza il mercato globale. Finalmente l’umanità abbandonava quelle utopie totalitarie, che avevano portato l’inferno sulla terra. Inutile immaginare un mondo diverso. Questo il ritornello degli ultimi decenni: coltiva il tuo giardino. Ma con questa saggezza spicciola la vita è diventata più ricca e più bella? Ci suggeriscono che bisogna essere pragmatici e accontentarsi. Che cosa abbiamo ottenuto con la rassegnazione? Il mondo è diventato migliore nel frattempo? Non abbiamo più speranza. Come pontificano i borghesi, il saggio deve saper accettare l’esistente. Bella conquista! Ma guardiamoci attorno. Siamo sicuri che questo racconto della fine delle ideologie non sia un ulteriore travestimento dell’oppressione? Insomma, qualcosa manca. Ebbene, contro il cinico opportunismo di quest’epoca di miseria e sottomissione, il marxismo di Ernst Bloch rivendica con coraggio la necessità dell’utopia concreta: del non-ancora-divenuto. I sapienti postmoderni dicono che dobbiamo ricordarci degli errori passati. E quanti ne sono stati fatti in nome della rivoluzione. Libro nero sottobraccio, non smettono di ripeterlo. Ora che sono sistemati, pretendono dagli esclusi moderazione. La loro ricetta si chiama “fine della storia”. Ma la speranza è un principio antitetico non soltanto all’angoscia e alla morte, ma anche alla memoria. Non desidera il ritorno alle origini, bensì guarda al futuro. L’attuale inflazione di pianti non è che il vaccino contro la rivoluzione. Gli sfruttatori possono stare tranquilli, nessuno chiederà loro il conto.

Probabilmente siamo di nuovo alla Repubblica di Weimar. Grande è la ricchezza di un’epoca in agonia e putrefazione. Sotto la polvere, oggi come allora, si vedono possibilità diverse. La sinistra è ridotta a un balbettìo. Al massimo predica un capitalismo ben temperato, in cui più nessuno crede. Come ripeteva Brecht: i piccoli cambiamenti sono nemici dei grandi cambiamenti. Forse è venuto il tempo di passare all’attacco. Non bisogna restare prigionieri del discorso vittimista e autolesionista sul “secolo breve”. È stato innanzitutto un secolo di conquiste di civiltà. Occorre vincere le passioni tristi attraverso la conoscenza che deriva dalla lotta. In uno dei suoi ultimi interventi il materialista Edoardo Sanguineti, commentando un noto brano di Benjamin, diceva che il proletariato non deve pensare alla felicità dei figli, ma a vendicare le sofferenze dei padri. Non c’è coscienza di classe, senza odio di classe. Ma anch’esso dev’essere insegnato daccapo. Rileggere l’opera di Ernst Bloch, oggi che siamo sanguinanti e oscuri, un po’ come negli anni Trenta, significa ricominciare ad agire. Perché la speranza è sempre la stessa: accompagnare la borghesia al suo ultimo viaggio.


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