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1
- Nella Vorrede (prefazione)
di un’opera filosofica, si crede erroneamente –così nota
Hegel[1] - di poterne indicare l’essenza (intesa come lo scopo,
che l’A. si è prefissato; il rapporto,
in cui si trova la sua trattazione rispetto ad altri lavori, che
hanno affrontato lo stesso argomento ed, in fine, il risultato a
cui l’opera è pervenuta), contrapponendola,
tale essenza, allo sviluppo,
che la ricerca ha seguito per giungere ai suoi risultati. Ma ciò,
avverte Hegel, non è confacente rispetto alla natura della cosa
(cioè, l’essenza della filosofia) ed è, perfino, contrario
allo scopo (dunque, la messa in chiaro di codesta essenza).
Richiamandosi,
di fatto, anche ad un orientamento, che fu dello scetticismo antico,
e continuando a riflettere sulla Vorrede di
un’ opera filosofica, Hegel chiarisce che offrire un’informazione
storica a proposito della tendenza e della posizione (che
caratterizzano la filosofia in questione), del (suo) contenuto
generale e dei (suoi) risultati, oppure prender le mosse da un
insieme ordinato di asserzioni ed assicurazioni, assunte e proposte
senz’altro circa il vero[2], “non rappresentano il modo
adatto di esporre la verità filosofica.”
Insomma,
ciò su cui Hegel vuol richiamare l’attenzione è che, partendo
dall’essenza stessa della filosofia –che consiste nell’includere
entro di sé il particolare-, si inferisce erroneamente che sia
proprio nello scopo e nei risultati finali[3], che quell’essenza si
mostra più chiaramente, relegando, invece, ai margini, perché
inessenziale, “lo sviluppo dell’indagine”, che ha
condotto a quello scopo e a quegli esiti.
Un
analogo errore vien commesso anche riguardo la scienza (Hegel fa
l’esempio della biologia), quando si crede che conoscere
scientificamente equivalga a conoscere “parti separate dei corpi”
–le quali, però, proprio perché così indagate,
“risultano prive di vita” ed è chiaro che, fissa
questa angolatura,
la ricerca continua di una conoscenza più dettagliata del
particolare non può far uscire dal limite di impostazione
iniziale.[4]
Già
da queste prime battute possiamo ricavare due osservazioni, destinate
ad essere approfondite nel proseguo del testo.
Abbiamo
visto che due sono gli errori di fondo, che Hegel stigmatizza, ovvero
(i) la separazione tra risultato e percorso
storico, che
ad esso ha portato, perché è proprio il percorso, invece, che
consente di ricostruire il senso (e il significato)[5] dello stesso
risultato; mentre la loro giustapposizione comporta, al contrario,
l’intellettualistica separazione di un insieme. Da ciò deriva
anche la secondo critica, ovvero (ii), la tendenza a stravolgere i
processi, figurandoli come cose separate
–ed è per questo, d’altronde, che si perde di
vista l’intimità delle
relazioni fra le diverse filosofie e ci si vorrebbe invece limitare a
confrontarle tra di loro esternamente,
quasi realtà intimamente
esteriori l’una
all’altra, e non fasi di un processo, che si svolge.
Approfondendo
questo punto, Hegel osserva che, per l’opinione, vero e falso sono
così rigidamente
opposti, che il confronto tra due sistemi filosofici non può dare
come risultato se non la verità dell’uno e la falsità dell’altro,
o vice versa; insomma, la diversità fra i sistemi filosofici non
vien pensata come sviluppo progressivo della verità, quanto
piuttosto nella diversità si vede solo la contraddizione. Ricorrendo
ad una metafora che più di una volta incontriamo nelle sue pagine,
così scrive Hegel: “Il bocciolo scompare nella nascita del fiore,
si potrebbe dire che il primo è confutato dal secondo: così come il
frutto rende il fiore un falso esserci della pianta; ed, in quanto
loro verità, questo si presenta al posto degli altri. Non solo
queste forme si distinguono, ma anche si respingono come
intollerabili l’una rispetto all’altra. La loro fluente natura,
però, rende, nello stesso tempo, quelle forme momenti
dell’unità organica, in cui esse non solo non si contrastano, ma
anzi si dimostrano l’una tanto necessaria quanto l’altra e la
vita del tutto nasce proprio da questa uguale necessità.”[6]
Dunque,
ancora una volta, ci troviamo di fronte alla critica
anti-intellettualistica di Hegel, che denuncia l’effetto reificante
del Verstand, perché
incapace di cogliere il ritmo
interno delle
cose, il loro essenziale articolarsi
in momenti.
Sappiamo,
però, che nonostante la sua radicalità, la critica hegeliana
all’intelletto non comporta l’ esclusione di quest’ultimo
dall’ambito della conoscenza scientifica; ed, infatti, precisa
Hegel, se un simile fare –ovvero l’intellettualistica maniera di
concepire il rapporto tra le filosofie e di definirne l’essenza-,
“dovesse valere per qualcosa di più dell’inizio
della conoscenza [sott.
mia, SG], e se dovesse valere addirittura come effettiva conoscenza,
nella realtà esso sarebbe da registrare fra i ritrovati, per girare
intorno alla cosa stessa e per legare l’apparenza del conoscere
reale e dell’impegnarsi intorno alla cosa, con il trascurare
entrambi.”
Dunque,
pur nel suo limite, l’intelletto (Verstand)
appartiene al processo della conoscenza, ne segna un ben preciso
momento: quello della distinzione, della separazione; momento, che è
essenziale, purché riesca a non irrigidirsi e a non perdere, così,
il fluire delle cose ed il trascorrere delle contraddizioni nella
mediazione, che le supera e ripropone ad un altro livello.
Necessario, dunque, l’intelletto, come momento della conoscenza,
nella stessa misura, in cui sappia trapassare –e negarsi- nella
ragione o Vernunft.
Tornando
alla questione del senso e del significato di una filosofia, partendo
da quanto sopra, Hegel ribadisce che la ‘cosa’ non è esaurita
dal suo scopo, ma dal suo manifestarsi progressivamente (Ausführung);
dunque, il risultato non
è il tutto reale, ma piuttosto il
tutto reale è
il risultato, insieme al suo divenire.
Esplicativo
della prospettiva dialettica, è anche il proseguo della pagina: lo
scopo per
sé
è l’universale non vivente, come la tendenza è la tensione
(Treiben),
che ancora
manca di una sua realtà,
e il nudo
risultato è il cadavere,
che ha lasciato dietro di sé la tendenza.
Il
più facile –commenta Hegel- è giudicare ciò, che ha un contenuto
e solidità; più difficile è coglierlo; difficilissimo è produrre
ciò, che unisce entrambi, ovvero la sua rappresentazione oggettiva.
Per un miglior intendimento, ricordiamo anche che, per Hegel, la vera
configurazione (Gestalt),
in cui la verità esiste, può essere solo il suo sistema
scientifico: collaborare a questo, che la filosofia si avvicini alla
forma della scienza, allo scopo di poter confermare il suo nome di
<amore della verità>, passando ad essere sapere
effettivo:
è questo che io mi propongo.
Se
teniamo presente quanto letto finora, la posizione di Hegel ci
risulta chiara: la forma scientifica è quella che consente di
superare l’esteriore relazione
soggetto/predicato, in quanto fa di quest’ultimo un’ esplicazione, dunque,
qualcosa che nasce dallo
svolgimento stesso del
primo; il risultato è che, nel suo movimento, nella sua
storia, il soggetto non trova predicati,
che gli si addicano; piuttosto li
svolge da sé stesso,
come espressione
della sua interiore dinamica.
E’
per questo che cercare di definire il senso e il significato di una
filosofia, confrontandola con altre –come procede, sappiamo,
l’intelletto- significa fallire l’obiettivo: il problema,
infatti, è piuttosto quello di cogliere,
attraverso il processo storico, proprio della filosofia in questione,
il definirsi della sua particolarità, senso e significato.[7]
Giunta
la riflessione a questo punto, chiariti, così, alcuni temi di
fondo, Hegel esplicita la sua polemica.
Posto
che l’autentica configurazione della verità è nella forma della
scientificità, ovvero –il che è lo stesso- dato che la verità ha
solo nel concetto l’elemento della sua esistenza, ecco allora
–osserva Hegel- che tutto ciò si mostra in aperta contraddizione
con una presuntuosa rappresentazione e le sue conseguenze, largamente
diffuse nei pregiudizi del nostro tempo.
Infatti
–prosegue l’argomentazione hegeliana- se il vero esistesse
propriamente solo
in ciò o,
meglio, come
ciò,
che è chiamato sbrigativamente intuizione,
immediato sapere dell’assoluto, religione, la
conseguenza sarebbe che la rappresentazione della filosofia
pretenderebbe addirittura l’opposto del concetto, vale a dire il
sentimento e l’intuizione. Non solo, ché inoltre il ruolo della
parola non sarebbe quello di denotare e connotare un reale
(distinguendolo così, da un altro), ma piuttosto di esprimere
l’immediatezza del sentire.
Il
Bello, il Santo, la Religione e l’Amore sono l’esca, che è
richiesta per risvegliare il piacere di abboccare[8]; non il
concetto, ma l’estasi, non la fredda progrediente necessità della
cosa, ma l’esaltazione fermentante dovrebbero essere
l’atteggiamento e l’espansione continua della ricchezza della
sostanza.
All’atteggiamento
fin qui descritto, si contrappone l’impegno, affannoso e accanito,
e uno zelo bruciante, a sottrarre gli uomini alla cecità del
sensibile, del comune e del singolare, ed orientare invece il loro
sguardo verso le stelle; come se, dimenticando completamente il
divino, come vermi, fossero sul punto di soddisfarsi con polvere ed
acqua.
Vi
fu un tempo –prosegue Hegel-, in cui gli uomini avevano un cielo
con una grande ricchezza di pensieri e di immagini. Di tutto ciò che
è, il significato era nel filo rosso, che lo legava al cielo; invece
che sul presente, lo sguardo si soffermava al di sopra, all’essenza
divina: se così si può dire, (si posava) su un presente al di sopra
di questo (presente mondano). L’occhio della spirito doveva per
costrizione volgersi al mondano e fermarsi ad esso.
Fu
necessario un lungo periodo di tempo per introdurre (hineinarbeiten)
quella chiarezza, che solo il sovramondano ha, nell’oscurità e
confusione, in cui è immerso il senso dell’al-di-qua; e per
rendere interessante e valida l’attenzione volta al presente come
tale, denotato esprienza.
Nel
nostro tempo, invece, appare il bisogno (Not)
dell’atteggiamento opposto, di radicare tanto profondamente il
senso nel mondano, che richiede la stessa violenza, elevarlo al di
sopra. Lo spirito si mostra tanto povero, che sembra vedersi
ristorato solo dall’oscuro sentimento del divino in quanto tale,
come il viaggiatore nel deserto da una semplice goccia d’acqua. Con
ciò, con cui lo spirito si contenta è da misurarsi l’ampiezza
della sua perdita.
Chi
cerca solo l’edificazione, chi cerca di avvolgere nella nebbia la
mondana molteplicità del suo esserci e del pensare, e ricerca
l’indeterminato piacere di questa indeterminata divinità, può
facilmente stare a guardare dove trova tutto ciò; egli facilmente
può raccontarsi, esaltato, qualcosa e con ciò trovare il modo di
valorizzarsi. La filosofia, però, deve ben guardarsi dal voler
essere costruttiva. Ed ancor meno questa sufficienza (Genügsamkeit =
questo sentirsi soddisfatti), che deforma la scienza, deve avanzare
la pretesa che una tale esaltazione e opacità sia qualcosa di più
elevato che la scienza. Questo parlare profetico pensa di restare
tanto rettamente nel centro e nel profondo, da guardare con disprezzo
alla determinazione (il confine) e si mantiene intenzionalmente
distante dal concetto e dalla necessità, come anche dalla
riflessione, che ha la sua sede solo nella finitezza.
A questo punto
possiamo dettagliare meglio l’obiettivo della polemica hegeliana,
ricorrendo –come abbiamo fatto finora- ad una stretto legame con il
testo stesso di Hegel.
Da
un lato, questo in definitiva sostiene Hegel, è necessario esser
consapevoli dei pregi e dei limiti dell’intelletto, per poterne
utilizzare –ai fini della conoscenza scientifica- il suo nesso
organico con la finitezza, senza pretendere, però, di arrestare
a quel punto il
processo dialettico della conoscenza stessa, - perché sappiamo che
essa ha il suo compimento nella costruzione del concetto.
Da
un altro lato, dobbiamo ben guardarci
dall’identificazione immediata (e
perciò mistica)
di finito ed infinito, di determinato ed assoluto, che caratterizza
profondamente il pensiero del nostro tempo (e dobbiamo leggere quel
‘nostro’ non solo nel senso di contemporaneo all’epoca
hegeliana, ma sì piuttosto nel senso più forte di a
noi
contemporaneo: basti pensare a quella ‘famiglia’ di posizioni e
orientamenti, che costituisce il frastagliato universo
del post-moderno).
Perché
dobbiamo comprendere che se c’è una vuota estensione,
che si dà nella molteplicità finita, senza la forza di tenersi
unità; altrettanto c’è un’intensità priva
di contenuto che, comportandosi come forza senza estensione, è lo
stesso che la superficialità.
Del
resto, afferma Hegel con grande lucidità, non è difficile vedere
che il nostro è un tempo di passaggio e della nascita di una nuova
epoca. Lo spirito ha rotto col mondo precedente del suo esserci e
della sua rappresentazione e sta per cacciare tutto ciò nel passato;
nello stesso tempo, lo spirito è impegnato nell’attività di una
sua riformazione. Dunque, lo spirito non è in pace, ma sempre preso
in un movimento che si sviluppa. Ma come, nel caso di un bambino,
dopo un lungo e tacito nutrimento, il primo respiro, come un salto
qualitativo, interrompe la gradualità dello sviluppo solo
quantitativo ed, ora, il bambino è nato; così matura lentamente lo
spirito, che si forma e, silenziosa, la nuova configurazione
scaturisce, dissolve –particella dopo particella- la costruzione
del suo mondo precedente, il suo vacillare è significato solo da
singoli sintomi; la
spensieratezza come la noia, che si diffondono in ciò che persiste,
il sospetto indeterminato di un che di sconosciuto, sono segni
anticipatori che qualcosa di nuovo è in marcia. Questo rompersi mano
a mano, che non modifica la fisionomica dell’insieme, viene
interrotto dall’apparizione, dal lampo, che in una volta sola
instaura il nuovo mondo. (18s,
sott. mia).
Solo
che questo nuovo (19) ha tanto poco una compiuta realtà, quanto il
bambino appena nato ed è essenziale non trascurare tale
considerazione.
2
- La
prima apparizione del nuovo è
la sua prima immediatezza o il suo concetto[9]: tanto poco una
costruzione è pronta, se son poste le sue fondamenta, altrettanto
poco il raggiunto concetto del tutto è il tutto stesso. Dove noi
vorremmo vedere una quercia nella forza del suo tronco,
nell’estensione dei suoi rami e nella massa delle sue fronde, non
siamo soddisfatti, se al suo posto vediamo una semplice ghianda.
Il
senso della cosa è chiaro: il nuovo,
quando appare, è già
tutto nel
suo concetto; ma quest’ultimo si presenta dapprima come un seme,
che raccoglie ancora in sé implicitamente i
propri predicati o qualità, come qualcosa che ha l’oscurità,
appunto, dell’implicito :
è solo nel movimento, nel processo storico che l’intenzione si
fa estensione,
ovvero che i predicati si svolgono ed appaiono nel Dasein.
Così
è la scienza, il coronamento di un mondo dello spirito, non ancora
compiuto, al suo inizio. Dacché l’inizio del nuovo spirito è il
prodotto di una lunga trasformazione di molteplici forme di cultura,
il premio di un cammino assai intricato e, proprio perciò, è la
multiforme tendenza ad impegnarsi: come si vede, in Hegel, il ritmo,
la scansione dello svolgersi della scienza è formalmente identico
al ritmo della dialettica. Per cogliere ancora meglio questa intimità
fra ritmo dello svolgimento dialettico e della scienza, consideriamo
questa pagina hegeliana.
Tale
inizio è il tutto, che ritorna in sé dalla successione come, anche,
dalla estensione, è il suo concetto divenuto semplice.
Ma la realtà di questo semplice tutto consiste in ciò, che quelle
configurazioni divenute momenti, di nuovo si ridanno come
configurazioni, ma sviluppate nel loro nuovo elemento e senso.
Poiché, da un lato la prima manifestazione del nuovo mondo è solo
il tutto, ma velato nella sua semplicità, ovvero il suo fondamento
generale, così alla coscienza la ricchezza dell’esserci precedente
è presente ancora nel ricordo. La coscienza sente, nella
configurazione che, nuova, si sta manifestando, la mancanza
dell’ampiezza e particolarità del contenuto; ma ancora di più
sente la mancanza dell’elaborazione della forma, per mezzo della
quale le differenze son determinate con sicurezza e sono
ordinate nei loro rapporti stabili. Senza questa elaborazione, la
scienza manca della generale intelligibilità e sembra essere
il possesso esoterico di qualche singolo; -un possesso
esoterico,
poiché essa è presente solo nel suo concetto o nella sua
interiorità; di
un singolo,
poiché la sua manifestazione non espansa rende singolare il suo
esserci.
Di
grande importanza, per smorzare almeno la sicurezza della
tradizionale lettura idealistica di Hegel, è il modo, in cui come
continua la pagina.
Ciò
che è compiutamente determinato è, nello stesso tempo, essoterico,
concepibile e capace d’esser conosciuto da tutti e d’esser,
dunque, proprietà di tutti. La forma intelligibile della scienza è
la strada per essa, a tutti aperta e costruita per tutti e per
giungere, attraverso l’intelletto, all’essenza razionale, è la
giusta esigenza della coscienza che si accosta alla scienza; poiché
l’intelletto è il pensiero, il puro io in quanto tale; e
l’intelligibile è il già conosciuto e quanto è comune alla
scienza e alla coscienza non – scientifica, mediante cui
immediatamente quest’ultima può entrare in quella.[10]
Come
si vede, Hegel è ben lontano dallo svalutare la scienza e
l’intelletto, che ne è uno strumento fondamentale; naturalmente,
però, dobbiamo tener a mente anche lo stretto rapporto, che esiste
fra scienza e concetto o Begriff,
perché in questo modo riusciamo a cogliere sia il valore scientifico
del Verstand,
sia anche il limite entro cui quest’ultimo può operare. L‘altra
osservazione, che è bene non perder mai di vista, è che il sapere
scientifico è da Hegel concepito come un processo, che si svolge nel
tempo o, in altre parole, che una scienza non è all’inizio come
sarà nella sua maturità, ovvero, solo nella sua maturità una
scienza mostra la propria novità e determinatezza rispetto
alla tradizione.[11]
La
scienza che comincia e che, perciò, ancora non conduce né alla
completezza del dettaglio, né alla perfezione della forma, è per
questo esposta al biasimo.[12] Ma se questo biasimo dovesse
concernere la sua essenza, sarebbe ingiusto, come è inammissibile
non voler riconoscere l’esigenza di perfezionamento (p.20).
Qui
risulta chiarissimo l’atteggiamento di Hegel: né il limite
essenziale dell’intelletto, né il fatto che la scienza sia
un processo in espansione (e,dunque, dalla portata limitata in ogni
sua fase determinata) possono giustificare un orientamento
filosofico, che la critichi in
toto,
contrapponendo l’immediatezza della fede e dell’intuizione alla
faticosa costruzione del concetto.
La
posizione di Hegel si chiarisce ulteriormente nella distinzione (e
nella critica), che egli fa di due orientamenti, a lui contemporanei,
che si contrastano a proposito della scienza.
L’uno,
è l’orientamento fichtiano,
il quale insiste sulla necessità di un contenuto determinato e
conserva la ricchezza delle determinabilità, mentre la totalità,
l’assoluto, resta con tale orientamento un’esigenza mai
soddisfatta.[13]
L’altro,
è l’orientamento di Schelling, che certamente pone l’assoluto,
la totalità, ma in modo irrazionale, perché sacrifica le
determinabilità e le loro opposizioni qualitative.
Naturalmente,
il compito che Hegel si assume, segna un terzo atteggiamento, ovvero
quello della costruzione scientifica dell’assoluto, mediante la
mediazione tra determinabilità e assoluto o totalità.
L’orientamento
fichtiano si caratterizza, precisa Hegel, per il commettere l’errore
di applicare una
e la stessa formula ad
un molteplice materiale, che in questo modo risulta sì ordinato, ma
secondo una regola che non nasce dal suo stesso movimento, dacché
è esterno
ad essa e
che, dunque, le viene sovrapposto.
La conseguenza, inferisce Hegel, è che l’idea indubbiamente vera
resta,in realtà, sempre solo al suo inizio, se lo sviluppo in
null’altro consiste, se non in un ripetizione della stessa formula.
L’unica
immobile formula riferita dal soggetto conoscente a ciò che c’è
(Vorhandenen),
il materiale immerso dall’esterno nel calmo elemento, ciò, come le
arbitrarie fantasie sul contenuto, è tanto poco il compimento di
quanto è richiesto. Esattamente, è ben diverso dalla ricchezza, che
nasce da sé e dalla differenza di configurazioni, che determina se
stessa. Si tratta invece di un formalismo monocromo, che arriva alle
differenze della materia, solo perché questa è già pronta e
conosciuta. Perciò tale formalismo afferma, come assoluto, questa
monocromia e l’astratta generalità; lo stesso formalismo assicura
che essere insoddisfatti di ciò significa l’incapacità di
dominare il punto di vista dell’assoluto e di attenersi ad esso.
Fa
sempre parte della polemica antifichtiana una importante –anche se
rapida- osservazione di Hegel sul tema del possibile,
non casualmente –è ovvio- messo in diretta relazione con un
orientamento filosofico, che identifica la scientificità con il
dominio di una forma, sempre identica a sé, che dall’esterno ordina
le esperienze.
Se
–leggiamo in Hegel- la vuota possibilità di immaginare qualcosa
anche in un altro modo aggiunge la possibilità di confutare una
rappresentazione, e la stessa pura possibilità, il pensiero
generale, possiede anche l’intero valore positivo dell’effettiva
coscienza, allora vediamo così attribuire tutto il valore dell’idea
universale in questa forma dell’irrealtà e vediamo lo scioglimento
del diverso e del determinato o piuttosto vediamo valere come modo di
indagine speculativa il fatto di precipitare queste differenze
nell’abisso del vuoto, quando quel precipitare ancora non è
giustificato, per essersi sviluppato in se stesso.[14]
Com’è
chiaro, la critica hegeliana si muove da una prospettiva, che già
conosciamo: l’ordinarsi della ‘cosa’ fa tutt’uno col suo
svolgersi e, dunque, la forma, che essa va nel tempo assumendo, è
prodotta dal suo stesso svolgimento. Non è, dunque, nulla di
esteriore, di sovrapposto, che si possa sostituire con una
qualsiasi altra forma arbitraria.
In questo senso, il possibile non definisce uno spazio, di cui il
reale sia solo una regione, dacché al contrario è proprio il
possibile a segnare uno spazio, interno al reale e, dunque,
circoscritto da quest’ultimo.
Per
concludere, possiamo dire che la critica hegeliana all’orientamento
filosofico à la Fichte si riassume in questo modo: indagare
qualunque esserci, per come esso è nell’assoluto, consiste –per
questa tradizione- in null’altro che nel fatto che se ne è parlato
e che se ne è parlato come di un qualcosa. Ma nell’assoluto,
nell’A = A, tuttavia, non vi è affatto qualcosa di simile, poiché
in esso tutto è uno; Contrapporre alla conoscenza, che distingue ed
è compiuta o cerca e richiede tale compimento, quest’unico sapere,
che nell’assoluto tutto è uguale, o che vuole dare il suo assoluto
per la notte, in cui –come si suol dire- tutte le vacche sono nere,
quest’unico sapere, dunque, è l’ingenuità del vuoto nella
conoscenza.- Il formalismo, che la filosofia contemporanea ha
chiamato in giudizio e disprezzato, ma essa stessa lo riproduce;
anche se la sua inadeguatezza è nota e viene avvertita, non scompare
dalla scienza, fino a che la conoscenza della verità assoluta sulla
propria natura non sia divenuta completamente chiara.[15]
3
– C’è
un nesso chiaro fra il modo, in cui Hegel concepisce il farsi della
scienza da un lato, e la sua rappresentazione della sostanza vivente
dall’altro: nel senso che, in entrambi i casi, l’enfasi hegeliana
è sul movimento,
sul farsi.
La
sostanza vivente –scrive Hegel- è l’essere: il quale in realtà
è soggetto
o, il che è lo stesso, è ciò che in verità è reale solo nella
misura, in cui è movimento
del porre se stesso o la mediazione con se stesso, del
divenire altro da sé: il
vero è solo questa ricostruentesi uguaglianza o la riflessione in se
stesso nell’altro da sé. Non, già, un’unità
originaria o immediata;
il vero è, piuttosto,
il divenire di se stesso,
il circolo che presuppone come suo scopo e che ha come cominciamento
la propria fine e. solo mediante la realizzazione progressiva e la
sua fine, è reale (p.22).
D’altronde,
è questa stessa concezione, che sta al fondo, anche, del modo
hegeliano di concepire la Vorrede di
un’opera filosofica: in tutti e tre i casi (dello sviluppo della
scienza, della sostanza vivente e del senso e significato di una
filosofia), la questione è ricostruire il processo, che conduce
ciascuna delle tre alla propria conclusione, ma sempre procedendo
dal futuro
della cosa,
ovvero, dal suo punto
di arrivo o
di maggiore sviluppo
e maturità.[16]
A
questo punto possiamo considerare una pagina di Hegel, che anticipa
–e rende nulla- molta della critica a cui –fino ai nostri giorni-
il filosofo sarà sottoposto. Vediamo.
La
vita di dio –scrive Hegel- e il conoscere divino possono,dunque,
essere bene espressi come un gioco dell’amore con se stesso; questa
idea può degradarsi fin all’edificazione ed anche fino
all’insipidezza, quando vengono a mancare la serietà, il dolore,
la pazienza e il lavoro del negativo. In sé quella vita è l’intatta
uguaglianza e unità con se stessa, a cui manca ogni serietà
[di impegno] con l’esser-altro e con l’estraneazione, così come
con il superamento di questa estraneazione.
L’importanza
della pagina sta nel sottolineare come non esista totalità
hegeliana, senza quel suo interno travaglio, dato dalla
presenza reale della
contraddizione e, dunque, dell’altrettanto reale
e costante sforzo,fatica
di superarla.
La serietà del vivere è appunto questo: riconoscersi all’interno
di una contraddizione reale, ma anche della razionale possibilità,
mediante faticoso impegno, di superarla.
Se
considero l‘In sé, senza le contraddizioni, che lo travagliano,
ciò che ho in mano è solo “l’astratta universalità, in cui si
è fatta astrazione dalla sua natura …, in generale
dall’automovimento della forma. Quando l’essenza
[Wesen]
è detta uguale alla forma, diviene, per questo, un fraintendimento
pensare che il conoscere si contenti dell’in sé e dell’essenza e
che, invece, possa risparmiarsi la forma, poiché l’assoluto
principio fondamentale o l’assoluta intuizione rendono superflui la
realizzazione della prima [= das Wesen] o lo sviluppo dell’altra [=
la forma]. Proprio
perché la forma è tanto essenziale all’essenza, quanto l’essenza
a se stessa, quest’ultima non va colta ed espressa solo come
sostanza immediata, come autointuizione del divino, ma sì
altrettanto come forma e in tutta la ricchezza della forma
sviluppata; solo allora si può cogliere ed esprimere l’essenza
come il
reale.
Come
si vede, torna il tema centrale: il vivente non è già appieno
realizzato, nel suo semplice esser dato – ché, in questo senso, il
tutto o l’essenza sono solo potenzialità di esistenze, che vanno
mostrandosi nel corso dello sviluppo o svolgimento di ciò che, nel
tutto e nell’essenza, esiste ancora implicite.
E’ mediante il movimento che l’essenza va ponendo –o mostrando-
le proprie forme e, dunque, va costruendosi nel Dasein come un tutto.
Ed
allora è chiaro che non è affatto fondata (né d’altronde sarebbe
sufficiente) la pretesa dell’intuizione, del credere e del
sentimento, di assicurare l’immediata apprensione del tutto e
dell’essenza, prescindendo dalle loro forme e, dunque, dal processo
storico della loro esplicazione; al contrario, l’effettiva
conoscenza dell’essenza si ha solo, quando si abbia anche una
chiara visione del suo disvelamento, del suo mostrarsi o esplicarsi.
Esattamente in questo senso, non esiste conoscenza, se non in
quanto mediata:
esplicitar le proprie forme significa, per
l’essenza, darsi nell’altro
da sé;
ma questo darsi è anche un recuperarsi,
nella misura in cui l’essenza si
riconosce nella
propria estrinsecazione.[17]
Così
Hegel conclude: il vero è il tutto. Ma il tutto è solo l’essenza,
che va compiendosi mediante lo sviluppo. Dell’assoluto va detto che
è essenzialmente risultato,
che alla fine è ciò che è in verità; ed in questo consiste,
appunto, la sua natura , di essere, cioè, reale,
soggetto e divenir se stesso.
(sott. mie, SG).
Di
particolare efficacia esplicativa sembrano le osservazioni, che
seguono immediatamente.
Il
cominciamento, il principio o l’assoluto come è immediatamente
espresso, è solo l’universale: se dico tutti
gli animali,
questa parola può valere tanto poco per una zoologia, quanto capita
alle parole divino, assoluto, eterno, ecc. di non esprimere quanto è
contenuto in esse –ed effettivamente, tali parole non esprimono
altro se non l’immediatezza della intuizione. (p.24). Ma non
appena da tale immediatezza si voglia procedere oltre, ad es. ad una
semplice proposizione, si fanno chiari i limiti insuperabili
dell’immediatezza: ciò che è più di tali parole
contiene,comunque, il passaggio a un divenir-altro,
che deve esser ripreso attraverso una mediazione: ma proprio questa
necessità di ricorrere alla mediazione, osserva Hegel, sembra (al
pregiudizio moderno) comportare la rinuncia alla conoscenza dello
stesso assoluto. E’ dunque un misconoscimento della ragione, quando
la riflessione è esclusa dal vero e non concepita come momento
positivo dell’assoluto.
Quanto
detto, prosegue Hegel, può essere espresso anche in questo modo,
cioè che la ragione è un fare finalizzato;
l’elevamento di una natura che si presume superiore a un pensare
misconosciuto e, in primo luogo, l’aver messo al bando l’esterna
finalizzazione, ha gettato nel discredito la forma del fine in quanto
tale. Solo, come anche Aristotele determina la natura come fare
determinato, lo scopo è l’immediato, il quieto, il non-mosso, che
è esso stesso il movente. Così esso è soggetto.
La
necessità di rappresentare l’Assoluto come Soggetto, si è servita
delle proposizioni: dio è l’eterno o l’ordine morale del mondo o
l’amore, ecc. In queste proposizioni il vero è posto solo
direttamente come soggetto, ma non come il movimento, che si
rappresenta in se stesso. In una tale proposizione si comincia con la
parola <dio>. Di per sé questo è un suono senza senso,
semplicemente un nome; soltanto il predicato dice cosa egli è;
soltanto il predicato ne è il suo riempimento e significato; il
vuoto cominciamento è un sapere reale solo in questa fine.
Note
[1] - G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes. Werke 3, Suhrkamp 1998: 11 (d’ora in avanti: Hegel, PH.). Per la mia traduzione del testo, mi servo anche dell’ed. ital. curata da E. De Negri (Firenze 1973) e di quella francese, curata da J. Hyppolite (Paris, 1977).
[2]
- Si ricordi il significato di dogma per
lo scetticismo antico.
[3]
- Appunto, indeterminati particolari.
[4]
- Condanna, si potrebbe dire, alla cattiva
infinità
[5]
- Questo è un tema da tener costantemente presente, ovvero
quale rapporto si stabilisca in Hegel fra senso (Sinn)
e significato (Bedeutung),
che poi significa il rapporto fra storia e logica.
[6]
- Hegel, PH.
: 12.
[7]
- In lingua più strettamente hegeliana, il concetto è tutta
la determinatezza,
ma come essa è nella sua verità. Dunque, pur se astratto, il
concetto è tuttavia il concreto, ed appunto il puramente concreto,
il soggetto in quanto tale. Per la nozione di concetto in Hegel,
utile quanto scrive H. H. Holz, in AAVV, Interaktionen
zwischen Philosophie und empirischen Wissenschaften,
H.J.Sandkuehler (hersg.), Frankfurt/Main: 164.
[8]
- <Mordre> traduce Hyppolite, op.
cit.
[9]
- Si noti l’uso che fa, qui, Hegel di concetto/Begriff, che verrà
chiarito nelle righe immediatamente successive.
[10]
- Si noti il nesso tra coscienza non ancor scientifica e
l’intelletto, il quale nesso si contrappone ad ogni tendenza
esoterica,rendendo invece la scienza qualcosa, che è alla portata di
tutti.
[11]
- E’ interessante notare come questo motivo sarà ripreso
dall’anti-hegeliano Althusser.
[12]
- Ancora una volta, per comprendere una scienza nella sua
determinatezza, è necessario coglierla non nel momento iniziale del
suo apparire, ma nella maturità del suo sviluppo.
[13]
- v. Hyppolite, op.
cit.:
14n.
[14]
- Anche questa critica hegeliana contro l’idealismo soggettivo di
Fichte giunge a colpire posizioni filosofiche ben più recenti: si
pensi all’ uso del <possibile>, che troviamo, nella
tradizione empiristica e neopositivistica in lingua inglese, fino a
giungere al contemporaneo Putnam.
[15]
- Hegel, PH: 22.
[16]
- Ovvero, come direbbe Althusser, dalla piena giovinezza della cosa,
che si ha solo al termine del processo di sviluppo.
[17]
- In Hegel è centrale, appunto, questo tema del riconoscimento.
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