Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2015/08/una-candela-che-brucia-dalle-due-parti.html
https://ilcomunista23.blogspot.com/2015/03/il-capitale-apre-i-confini.html
distribuiscono a vicenda il diritto alla “competenza”,
e di fronte alle quali la massa dei pii musulmani
debba inchinarsi in cieca fede. Il marxismo è una
dottrina rivoluzionaria, che nulla aborre di più che
le formule valide una volta per tutte, e che mantiene
viva la sua forza nel clangore delle armi incrociate
dell’autocritica e nei fulmini e tuoni della storia.
Rosa Luxemburg
Lo
spirito di Rosa Luxemburg, l’ideale socialista,
era una passione travolgente che travolgeva tutto;
una passione, allo stesso tempo, del cervello e del
cuore, che la divorava e la sollecitava a creare.
L’unica ambizione grande e pura di questa donna
impareggiabile, l’opera di tutta la sua vita, non fu
altro che preparare la rivoluzione che doveva lasciare
il passaggio franco al socialismo. Poter vivere la
rivoluzione e partecipare alle sue battaglie, era per
lei la suprema felicità.
Clara Zetkin
era una passione travolgente che travolgeva tutto;
una passione, allo stesso tempo, del cervello e del
cuore, che la divorava e la sollecitava a creare.
L’unica ambizione grande e pura di questa donna
impareggiabile, l’opera di tutta la sua vita, non fu
altro che preparare la rivoluzione che doveva lasciare
il passaggio franco al socialismo. Poter vivere la
rivoluzione e partecipare alle sue battaglie, era per
lei la suprema felicità.
Clara Zetkin
1.
La militanza come coscienza di classe e passione rivoluzionaria
L’articolo
di Maria Turchetto (1) sul libro di Rosa Luxemburg L’accumulazione
del capitale (1912)
ai miei occhi ha soprattutto il merito di ricordarci la figura
politica e umana della grande rivoluzionaria polacca (naturalizzata
tedesca) brutalmente assassinata nel 1919 dalla canaglia al servizio
della controrivoluzione. «Operai! Operaie! Cose mostruose stanno
avvenendo a Berlino da qualche giorno. […] Un mostruoso assassinio
è stato commesso contro Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg. Non è
vero che Karl Liebknecht sia stato abbattuto durante un tentativo di
fuga. Testimoni obiettivi hanno stabilito all’obitorio che Karl
Liebknecht è stato colpito a distanza ravvicinata e di fronte. Rosa
Luxemburg è stata gettata a terra in modo bestiale da una banda di
borghesi e quindi smembrata e trascinata via. E le truppe
governative, che avrebbero dovuto arrestare e proteggere l’inerme
prigioniera, non hanno impedito quest’azione vile e cannibalesca».
Così scriveva Die
Freiheit il
17 gennaio 1919. «Oggi a Berlino, la borghesia e i socialtraditori
esultano; sono riusciti ad assassinare K. Liebknecht e R. Luxemburg.
Ebert e Scheidemann, che per quattro anni hanno condotto gli operai
al macello, in nome di interessi briganteschi, si sono assunti oggi
la parte dei carnefici dei dirigenti proletari. L’esempio della
rivoluzione tedesca ci persuade che la “democrazia” è solo una
copertura della rapina borghese e della violenza più feroce. Morte
ai Carnefici» (Lenin). Come sappiamo, l’auspicio leniniano non si
realizzò, e anzi nuovi carnefici, diversi solo nelle divise e nei
simboli, sostituiranno quelli vecchi.
In
effetti, la responsabilità politica del massacro dei due
rivoluzionari marxisti e di miglia di proletari rivoluzionari che
lottarono sotto le insegne della neonata Lega
di Spartacofaceva
capo al governo socialdemocratico di Ebert, Scheidemann, Landsberg,
Wissel e Noske. «Noske assume il comando supremo delle truppe per la
guerra civile osservando: “bisogna pur che qualcuno sia il cane
sanguinario ”» (2). In democrazia come in ogni altro tipo di
regime politico-istituzionale la classe dominante trova sempre i suoi
cani sanguinari da aizzare contro i sovvertitori dell’ordine
sociale. Rosa Luxemburg sapeva benissimo che Ebert e Scheidemann
sarebbero stati «spinti dalle circostanze alla dittatura con o senza
stato d’assedio», e per questo nel suo Discorso sul Programma
pronunciato a Berlino il 30 dicembre 1919, al Congresso di fondazione
del Partito Comunista Tedesco (Lega di Spartaco), invitò il
proletariato «ad affrontare la lotta fra rivoluzione e
controrivoluzione senza illusioni, petto contro petto e occhio
nell’occhio» (3). E sapeva bene, avendo alle spalle tanti anni di
appassionata militanza politica spesa al servizio della causa
rivoluzionaria, che il movimento operaio d’avanguardia tedesco a
quel punto non aveva la forza sufficiente per coinvolgere nel
processo rivoluzionario l’intero proletariato, la campagna tedesca
e gli strati più impoveriti della piccola borghesia. Basta leggere i
suoi ultimi articoli, scritti nel pieno della mattanza
controrivoluzionaria e resistendo ai sempre più pressanti inviti dei
compagni a sottrarsi con una fuga precipitosa all’imminente arresto
e alla vendetta del nemico di classe, per rendersi conto di quanto
lucida e poco incline all’ottimismo ideologico fosse l’analisi di
Rosa Luxemburg alla vigilia del suo brutale quanto vigliacco
assassinio. Per la comunista polacca si trattava, a quel punto, di
come organizzare un’ordinata ritirata strategica delle forze ancora
disposte a combattere fino alle estreme conseguenze, così da
preparare su più solide basi politiche e organizzative una
successiva ondata rivoluzionaria.
Ma
la ritirata strategica, se non vuol trasformarsi in una catastrofica
débâcle, deve prevedere momenti di attiva battaglia, singole
iniziative di attacco, incoraggiamento delle truppe, così da rendere
meno doloroso e più sicuro l’arretramento complessivo del fronte
di lotta. La Luxemburg decise di mettersi alla testa, insieme agli
altri compagni spartachisti, di questa complessa e rischiosissima
impresa, anche per non alimentare nel proletariato d’avanguardia,
già abbastanza demoralizzato, l’idea che nel momento del massimo
sacrificio i capi della rivoluzione pensano solo a come salvare la
pelle. Bisognava bere l’amaro calice della rivoluzione fino in
fondo, essere rivoluzionari nella buona come nella cattiva sorte. In
altri termini, una serie di valutazioni politiche ed etiche
convinsero «la più geniale tra tutti i discepoli di Karl Marx» (F.
Mehring) a rimanere sul campo di battaglia fino all’ultimo,
condividendo la sorte di chi ancora non intendeva chinare la testa e
consegnare le armi al nemico. Lotta rivoluzionaria e autocritica
della rivoluzione: queste due impellenze ispirarono la condotta
politica e umana (sempre che si possa fare questa distinzione nel
caso di specie) della grande aquila nel famigerato gennaio 1919. «La
rivoluzione è l’unica forma di “guerra” in cui la vittoria
finale possa essere preparata solo attraverso una serie di
“sconfitte”!»: così scrisse la rossa Rosa nel suo ultimo
articolo, dal titolo tristemente emblematico e presago: L’ordine
regna a Berlino.
Un ordine borghese ripristinato con tutti i mezzi necessari (pacifici
e violenti), e che ebbe come sua espressione più verace la
Repubblica di Weimar, nata appunto sulle ceneri della rivoluzione
sociale e tra fiumi di sangue. Ancora nel gennaio del 1920 «la
polizia aveva sparato con le mitragliatrici sulla folla che
manifestava davanti al Reichstag per i Consigli uccidendo 42 persone
tra i dimostranti» (4). Scheda elettorale e mitraglia: è così che
la democrazia capitalistica difende l’ordine sociale basato sullo
sfruttamento dei lavoratori.
Scriveva
György Lukács nel gennaio del 1921: «È un segno dell’unità tra
teoria e praxis nell’opera di Rosa Luxemburg il fatto che
quest’unità di vittoria e disfatta, di destino singolo e di
processo totale abbia formato il filo conduttore della sua teoria e
della sua condotta di vita. […] Il fatto che essa rimase accanto
alle masse nonostante la sconfitta della rivolta di gennaio, da anni
lucidamente prevista sul piano teorico e su quello tattico nel
momento stesso dell’azione, è appunto la giusta conseguenza
dell’unità tra teoria e praxis nella sua azione, così come l’odio
mortale che ebbe a meritarsi dai suoi assassini: i socialdemocratici
opportunisti» (5). Anche quando la teoria sviluppata dalla Luxemburg
non fu sempre, a mio modestissimo avviso, all’altezza della sua
incrollabile volontà rivoluzionaria, certamente si può rintracciare
nella sua azione politica il fecondo tentativo di fondare la prassi
su un solido e sicuro terreno teorico, in modo da conferirle un
respiro che andasse al di là della mera contingenza, oltre le
esigenze di una tattica pensata solamente per risolvere i problemi
del momento e senza alcun legame con il programma strategico.
Per
quanto riguarda il merito del libro di Rosa Luxemburg sintetizzato
brillantemente da Maria Turchetto, devo “confessare” che da
sempre (diciamo da quando l’ho studiato per la prima volta, cioè
nella prima metà degli anni Ottanta) condivido le critiche a cui lo
sottoposero Lenin, Anton Pannekoek e Henryk Grossmann. La lettura del
bell’articolo in questione non mi ha fatto cambiare idea; mi ha
però sollecitato a rileggere un’ennesima volta il testo
luxemburghiano, una lettura che, per quel che vale, consiglio a chi
vuole approfondire la conoscenza non solo della rivoluzionaria di
Zamošć, ma anche del Capitale marxiano, nonché del Capitalismo e
dell’Imperialismo colti nel loro movimento storico.. Come scrisse
Paul M. Sweezy nella sua Introduzione del 1958 al libro di Rosa
Luxemburg, «nonostante, malgrado, i suoi errori e le sue deficienze
che non sono trascurabili, L’accumulazione
del capitale è
opera notevole di una grande rivoluzionaria» (6). Condivido
pienamente questo giudizio, tanto più se rifletto sul fatto che
quegli errori e quelle deficienze furono in parte dovuti alla fretta
dell’autrice di assestare un duro colpo teorico e politico a
personaggi che si autodefinivano socialisti e marxisti nello stesso
momento in cui portavano acqua al mulino della conservazione sociale.
Ai miei occhi gli errori e le deficienze della Luxemburg, palesati in
ogni caso sul terreno della militanza rivoluzionaria, valgono
infinitamente di più di qualche critica corretta sul piano
astrattamente dottrinario che allora le arrivò da alcuni presunti
“marxisti ortodossi” intenti a dimostrare la possibilità di
transitare pacificamente e progressivamente dal Capitalismo al
Socialismo alla vigilia della Prima carneficina mondiale. «Gli
epigoni che nell’ultimo decennio hanno tenuto in mano la direzione
teorica del movimento operaio in Germania, hanno fatto bancarotta al
primo scoppio della crisi mondiale, hanno ceduto pacificamente il
timone all’imperialismo» (7). È sotto questa sinistra e veritiera
luce che bisogna guardare i “successi teorici” che quegli epigoni
credettero di cogliere qualche anno prima ai danni dell’indomita
rivoluzionaria. Come scriveva Paul Mattick, «L’accumulazione del
capitale di
Rosa Luxemburg incontrò un rifiuto quasi generale tra i teorici
della socialdemocrazia, non tanto perché osava criticare Marx o
deduceva la realtà concreta dell’imperialismo dalle difficoltà di
realizzazione dell’accumulazione, ma perché accennava alla fine
inevitabile del capitalismo e indicava quindi una politica proletaria
di lotta di classe, diametralmente opposta all’atteggiamento
riformistico dominante» (8). Per una critica puntuale del testo
luxemburghiano consiglio il libro di Grossmann Il
crollo del capitalismo,
dal quale cito i passi che seguono: «La concezione di Rosa Luxemburg
si fonda del resto sulla supposizione di una fine
meccanica del
sistema capitalistico. Se si pensasse ad un esercizio soltanto
capitalistico di tutta la produzione sulla terra, “l’impossibilità
del capitalismo apparirebbe allora chiaramente”. Viene così
anticipata sul piano teorico una situazione quale taluni
rivoluzionari vogliono scorgere in ogni crisi, grazie alla quale si
spera in “una distruzione automatica del capitalismo”. Lenin
aveva gettato uno sguardo assai penetrante su questa connessione
quando affermava: “talvolta i rivoluzionari si sono sforzati di
dimostrare che la crisi è assolutamente senza via d’uscita.
Non esistono situazioni che non presentino in assoluto alcuna via d’uscita” (9). Ironia della sorte, anche Grossmann sarà a sua volta colpito, a torto, dall’accusa di essere un teorico del crollo inevitabile del Capitalismo, «di una fine meccanica del sistema capitalistico».
Secondo i rispettivi critici, Rosa Luxemburg si sarebbe aspettata la «fine meccanica del sistema capitalistico» dal versante della realizzazione del plusvalore (sfera della circolazione), Henrik Grossmann da quello della valorizzazione del plusvalore (sfera della produzione). In realtà sia l’una che l’altro sapevano benissimo che senza rivoluzione sociale, senza il farsi classe per sé del proletariato, non esiste alcuna «fine meccanica del sistema capitalistico». Entrambi i presunti “crollisti” intesero piuttosto combattere le concezioni armoniciste e riformiste del loro tempo, ponendo l’accento su quelle tendenze oggettive e ineliminabili che minando il processo di accumulazione del capitale, provocano le devastanti crisi economiche e sociali che sono in grado di scuotere dalle fondamenta l’ordine sociale e così creare le “condizioni oggettive” per una soluzione rivoluzionaria della catastrofe. Come insegna la storia dell’ultimo secolo, senza quella soluzione la catastrofe (o il crollo) può preparare una nuova rinascita del Capitalismo, magari passando attraverso il massacro degli individui e la distruzione di “capitale costante”.
Non esistono situazioni che non presentino in assoluto alcuna via d’uscita” (9). Ironia della sorte, anche Grossmann sarà a sua volta colpito, a torto, dall’accusa di essere un teorico del crollo inevitabile del Capitalismo, «di una fine meccanica del sistema capitalistico».
Secondo i rispettivi critici, Rosa Luxemburg si sarebbe aspettata la «fine meccanica del sistema capitalistico» dal versante della realizzazione del plusvalore (sfera della circolazione), Henrik Grossmann da quello della valorizzazione del plusvalore (sfera della produzione). In realtà sia l’una che l’altro sapevano benissimo che senza rivoluzione sociale, senza il farsi classe per sé del proletariato, non esiste alcuna «fine meccanica del sistema capitalistico». Entrambi i presunti “crollisti” intesero piuttosto combattere le concezioni armoniciste e riformiste del loro tempo, ponendo l’accento su quelle tendenze oggettive e ineliminabili che minando il processo di accumulazione del capitale, provocano le devastanti crisi economiche e sociali che sono in grado di scuotere dalle fondamenta l’ordine sociale e così creare le “condizioni oggettive” per una soluzione rivoluzionaria della catastrofe. Come insegna la storia dell’ultimo secolo, senza quella soluzione la catastrofe (o il crollo) può preparare una nuova rinascita del Capitalismo, magari passando attraverso il massacro degli individui e la distruzione di “capitale costante”.
L’einaudiano
Giuseppe Russo qualche tempo fa cercava di spiegare ai suoi lettori i
motivi del «fallimento» della previsione marxiana circa la fine del
Capitalismo: «Quando Karl Marx formulò le sue previsioni sulla fine
del capitalismo, aveva in mente la caduta tendenziale del tasso di
profitto. […] C’è da domandarsi perché mai il capitale dovesse
avere profitti (rendimenti) decrescenti e la risposta sta nel fatto
che Marx pensava a mercati finiti, mentre l’ambizione di profitto
dei capitalisti non lo è. Conquistato l’ultimo mercato da parte
del capitale, si sarebbe verificato il collasso. Ci sono tre buone
ragioni per cui, fino ad oggi, la previsione di Karl Marx non si è
avverata. La prima è che i mercati sono finiti solo in teoria, ma
nella pratica sono collegati ai bisogni delle persone. Le persone
abitanti sul pianeta sono costantemente cresciute di numero, quindi
quel limite non si è mai raggiunto, per ora. In secondo luogo, i
bisogni delle persone non sono costanti, ma sono sia proporzionati al
loro reddito (e quindi fino a che esistono paesi a basso reddito, ci
sono mercati che devono crescere per soddisfare i bisogni futuri),
sia sono dinamici e mutano nel tempo con la cultura e l’innovazione.
Legata a questa seconda osservazione ve ne è una terza.
L’innovazione crea e distrugge: l’industria dell’auto ha
distrutto quella delle carrozze; l’industria informatica sostituirà
il terziario che si occupava di informazioni strutturabili. Questa
distruzione avviene di continuo ma può subire delle accelerazioni
quando le innovazioni anziché essere ben distribuite si concentrano.
[…] Il capitalismo, in altri termini, non è arrivato alla crisi
finale anche perché attraversa crisi periodiche nelle quali il
capitale meno produttivo viene purgato e sostituito da capitale più
produttivo. Alla fine di queste crisi, il rendimento medio del
capitale che era prostrato risale e così l’incentivo a
risparmiare, accumulare a investire non viene meno» (10).
Ora,
non solo Marx non ha mai pensato a «mercati finiti» in termini
assoluti, come sa chiunque abbia letto – non dico capito – le sue
opere “economiche”, ma il suo concetto di capitale contraddice
nel modo più evidente la tesi di un limite fisico assoluto per
l’investimento capitalistico, raggiunto il quale il sistema basato
sullo sfruttamento sempre più intensivo (scientifico) della capacità
lavorativa deve necessariamente collare. Questa tesi si trova
piuttosto in non pochi epigoni di Marx, ma di questo non si può
certo accusare il comunista di Treviri, il quale peraltro fece in
tempo a dichiarare la propria estraneità al “marxismo”. Se nei
suoi scritti “economici” Marx sottolineò continuamente il
carattere rivoluzionario del vigente modo di produrre e distribuire
la ricchezza sociale, e lo contrappose al carattere conservatore dei
precedenti modi di produzione, è appunto perché egli comprese che
la sopravvivenza del Capitale dipende da un continuo allargamento e
rivoluzionamento della sfera economica, la quale non va in nessun
caso concepita come uno spazio fisico, ma come una dimensione sociale
(addirittura “esistenziale”: vedi il concetto di colonizzazione
capitalistica delle anime) in continua e sempre più accelerata
trasformazione. Detto en passant, fu lo stesso Marx che introdusse il
concetto – se non la locuzione – di distruzione creatrice, poi
ripreso e sviluppato in modo più o meno originale da Schumpeter; ed
fu sempre lui che parlò della crisi economica generale nei termini
di uno shock tanto socialmente gravido di conseguenze potenzialmente
nefaste per l’ordine costituito (leggi alla voce Rivoluzione
sociale), quanto salutare per un processo di accumulazione entrato in
sofferenza. La produzione capitalistica non trova alcun limite
assoluto nella produzione di “beni e servizi” perché in assoluto
la capacità di consumo della società è illimitata, esattamente
come la fame di profitto da parte del capitale. Scriveva Marx: «La
tendenza a creare il mercato mondiale è data immediatamente nel
concetto stesso di capitale. Ogni limite si presenta qui come
ostacolo da superare» (11). Ed è questa estrema tensione intesa a
superare ogni limite che sta a fondamento reale e concettuale di ciò
che chiamiamo Imperialismo.
L’analisi
marxiana della merce scopre il vero limite dell’accumulazione
capitalistica, un limite che il capitale è chiamato appunto a
superare sempre di nuovo, in qualcosa di impalpabile. Di che si
tratta? Lo vedremo tra poco, occupandoci del libro di Rosa Luxemburg.
In realtà chi conosce quel testo ha già capito che la mia
riflessione si sta già muovendo per intero sul terreno concettuale
da esso ampiamente praticato.
A
proposito di imperialismo, scrive la Turchetto: «Sono convinta che
le indicazioni contenute in L’accumulazione
del capitale risultino
ancora preziose per illuminare l’imperialismo contemporaneo».
Qui devo esternare a malincuore qualche dubbio, e tra poco chiarirò
il perché. Riprendo la citazione: «Il termine “imperialismo”
risulta oggi desueto, è scomparso anche dal vocabolario della
sinistra rimpiazzato dal più asettico “globalizzazione” che
sembra alludere a un processo naturale e pacifico di espansione dei
mercati. Ma se la parola è in disuso, la realtà dell’imperialismo,
inteso come intreccio aggressivo di politiche economiche e militari
che acuisce le diseguaglianze del mondo, rimane». Qui invece la
concordanza con il mio pensiero è totale, e lo dimostro citandomi:
«La Cina del XXI secolo pratica un imperialismo che per molti e
decisivi aspetti risponde quasi alla lettera alla caratterizzazione
che dell’Imperialismo fece Lenin sulla scorta degli studi di J. A.
Hobson, di R. Hilferding e di altri economisti borghesi che si
misurarono con le profonde trasformazioni intervenute nel Capitalismo
mondiale alla fine del XIX secolo e agli inizi del secolo successivo.
L’imperialismo che caratterizza la nostra epoca storico-sociale ha
la sua più forte e profonda radice, la sua più irresistibile
motivazione e potente spinta propulsiva in un rapporto sociale di
dominio e di sfruttamento che per “mantenersi” in vita ha bisogno
che la sfera economica si allarghi sempre di nuovo e si approfondisca
in ogni direzione, compresa quella che alcuni filosofi chiamano
“esistenziale” e taluni sociologi alla moda chiamano
“biopolitica”. In altri termini, l’imperialismo moderno ha come
sua base fondamentale la competizione capitalistica volta ad
assicurare agli investitori pubblici e privati profitti, mercati,
materie prime, infrastrutture e quant’altro. Questa spinta e questa
proiezione economica, che ha nel capitale
finanziario la
sua più aggressiva e verace espressione, ha coinvolto sempre più
gli Stati nazionali, chiamati a puntellare, proteggere e promuovere
gli interessi del capitale nazionale, sempre più organizzato (in
trust, monopoli, cartelli) e sempre meno rispondente all’ortodossia
libero-scambiata – peraltro più frutto della mitologia liberista e
antiliberista, che specchio di una concreta realtà economica. La
creazione di “sfere di influenza” e di “spazi” vitali”
risponde in primo luogo a processi di natura “strutturale” che
non mancano di avere un loro puntuale riscontro politico, militare e
ideologico. Ecco, la Cina dei nostri tempi sembra aderire
perfettamente, e sempre cambiando quel che c’è da cambiare, al
modello “classico” di imperialismo appena abbozzato, e quindi
esporta e prepara, insieme ai suoi competitori, le condizioni
oggettive dei conflitti bellici e sociali ovunque entrano in gioco i
suoi interessi economici e strategici: in Asia, in Africa, in America
Latina» (12). Naturalmente l’articolo citato faceva l’esempio
della Cina solo perché di quel Paese esso si occupava. Per par
condicio mi
vedo costretto (sic!) a un’altra citazione: «Dopo la Seconda
guerra mondiale il Giappone ha continuato la sua espansione economica
nello spazio vitale che gli compete dal punto di vista storico e
geopolitico. Anziché bruciare i tempi servendosi dello strumento
militare come aveva cercato di fare negli anni Trenta, adesso il
Giappone si serve dello strumento imperialistico per eccellenza: il
Capitale, rivelando in tal modo la vera natura storico-sociale del
moderno Imperialismo, la cui intima essenza è radicata
nell’imperiosa (brutale, violenta, totalitaria) necessità
del Capitale di espandere la propria sfera di dominio –
socialmente, geograficamente, esistenzialmente, “antropologicamente”:
è il solo concetto di globalizzazione capitalistica che a mio avviso
ha senso e che proprio per questo si sottrae alle tradizionali e il
più delle volte banali declinazioni di quella locuzione. Anziché
esportare eserciti, il Giappone del Secondo dopoguerra ha iniziato a
esportare merci, tecnologie, scienza e capitali a caccia di alti
profitti e di ancora più cospicue e sicure rendite finanziarie.
Mutatis mutandis, analogo discorso si può fare per la Germania e, in
una forma molto più sfumata, per l’Italia: vedi la sua
penetrazione mercantile, finanziaria e politica nei Balcani,
nell’aria Danubiana e nelle ex colonie africane. Giappone, Germania
e Italia; verrebbe da dire: guarda che combinazione!» (13). Scriveva
Grossmann nel 1928: «Proprio questo carattere aggressivo del
capitalismo odierno gli imprime il marchio specifico che noi
concepiamo sotto il nome di “imperialismo”» (14).
In
realtà tutte queste citazioni intendono realizzare un indiretto
dialogo con L’Accumulazione
del capitale di
Rosa Luxemburg. Tracce dei miei studi di quel testo si trovano in un
mio scritto di molti anni fa, del quale pongo all’attenzione dei
lettori alcuni brani. Naturalmente non si tratta, per me, di
rispolverare vecchie polemiche, di stabilire torti e ragioni (e chi
se ne frega!), ma piuttosto di contribuire in qualche modo alla
comprensione del Capitalismo e dell’Imperialismo dei nostri giorni.
2. Rosa
Luxemburg e l’accumulazione del capitale
È
qui appena il caso di ricordare a grandi linee che alla fine del XIX
secolo nel movimento operaio il concetto di crisi economica finì per
saldarsi con quello di crollo
del Capitalismo, concetto
che accreditava un’inevitabile palingenesi
sociale, più o meno fecondata dalla violenza rivoluzionaria delle
classi subalterne. La fine del Capitalismo non fu solo
ritenuta storicamente
necessaria –
come aveva affermato Marx – sul fondamento di una transitorietà che
aveva riguardato i modi di produzione che lo avevano preceduto,
bensì, in qualche modo, anche fatale. La
temeraria saldatura concettuale di crisi e crollo
spontaneo/inevitabile/definitivo aveva
come proprio retroterra teorico una lettura tutta ideologica dei
testi marxiani. In realtà essa servì da paravento dottrinario ad
una prassi che – svincolata dall’assillo di dover costruire i
presupposti soggettivi della
rivoluzione, dato che il Capitalismo sarebbe appunto crollato
automaticamente consegnando lo Stato borghese nelle mani del
proletariato – poteva abbandonarsi alla cura degli interessi
immediati della classe lavoratrice, soprattutto di quel suo strato
(definito aristocrazia
operaia)
che godeva di condizioni salariali migliori e di una collocazione nei
settori più avanzati del sistema industriale e che pertanto
possedeva maggiore forza contrattuale rispetto agli altri lavoratori,
per non parlare dei disoccupati.
Più
in generale, si venne a consolidare nella Socialdemocrazia tedesca
l’idea, che Marx ed Engels avevano già combattuto scontrandosi
soprattutto con i leader del movimento operaio inglese, secondo la
quale una dura lotta sindacale contro i padroni e una lotta politica
intesa a conquistare maggiori spazi di “agibilità democratica”
per i lavoratori, bastassero da sole a caratterizzare in senso
rivoluzionario un partito, soprattutto quando esso avesse assunto
proporzioni “di massa”. Già nella sua Critica
al programma di Gotha (1875),
scritta contro i numerosi epigoni di Ferdinand Lassalle, Marx aveva
denunciato la penetrazione nel movimento operaio di ideologie
estranee al comunismo critico-rivoluzionario, e i successivi sviluppi
teorici e politici di quel movimento, culminati nel famigerato agosto
1914, confermarono le preoccupazioni del comunista di Treviri, che
non caso volle prendere le distanze da ogni tipo di “marxismo”.
L’ideologia
crollista nacque “ufficialmente” in Germania come risposta alle
tesi riformiste di Eduard Bernstein esposte in una serie di articoli
e poi elaborate in un testo del 1896 che allora fece scalpore e che
ebbe una duratura – quanto cattivissima – influenza sul movimento
operaio: I
presupposti del socialismo e i compiti della Socialdemocrazia.
Nel testo di Rosa Luxemburg Riforma
sociale o rivoluzione? (1899)
si trova forse la critica più sprezzante, più radicale e più
coerente allo “spirito marxiano” del riformismo “movimentista”
(«Lo scopo finale per me è nulla, il movimento è tutto») di
Bernstein. «È bastato che l’opportunismo parlasse per mostrare che
non aveva niente da dire. E in ciò sta la particolare importanza del
libro di Bernstein nella storia del partito» (15). Bernstein non
aveva niente di nuovo da dire, semplicemente perché l’opportunismo
di fatto aveva impregnato di sé la Socialdemocrazia quasi nella sua
interezza e al netto degli equilibrismi centristi di cui Karl
Kautsky, il “Papa Rosso”, fornì prova per un lungo periodo. Il
libro di Bernstein (16) ebbe quantomeno il merito di suscitare nella
Socialdemocrazia tedesca un rinnovato interesse per i testi marxiani
riguardanti il processo di accumulazione, i limiti dello sviluppo
capitalistico, le cause delle crisi economiche, e così via, e ciò
alla luce degli straordinari mutamenti che avevano cambiato il volto
del Capitalismo internazionale. Scriveva la Luxemburg: «Bernstein ha
iniziato la sua revisione del programma socialdemocratico con
l’abbandono della teoria del crollo del capitalismo. Ma dato che il
crollo della società borghese è una pietra angolare del socialismo
scientifico, Bernstein, per essersi allontanato da questo pilastro,
doveva logicamente arrivare a far crollare tutta la concezione
socialista» (17). Occorre chiedersi fino a che punto è corretto,
dal punto di vista marxista, istituire un legame indissolubile tra la
teoria del crollo e il «socialismo scientifico»; in altri termini
occorre chiarire in che senso è legittimo parlare di crollo,
parlarne cioè criticamente(“scientificamente”)
e non ideologicamente,
solo per esibire un’irriducibile – quanto poco fondata sul piano
teorico e politico – avversione al dominio sociale capitalistico.
Con
un articolo apparso sulla Neue
Zeit del
1898, Heinrich Cunow sforna la prima teoria del crollo inteso come
«crisi
mortale»
del sistema capitalistico, ossia come catastrofe inevitabile e
definitiva che non può essere evitata perché procede secondo
«ferree leggi di natura». Lo spunto, probabilmente, egli lo trasse
forzando il significato di quanto Engels aveva scritto in una nota al
Terzo libro del Capitale nell’edizione
del 1894, nella quale segnalava i mutamenti intervenuti nella
struttura del Capitalismo con la formazione dei trust e dei cartelli,
per concludere che alle vecchie crisi generate da lunghi cicli
espansivi, si stavano sostituendo lunghi momenti di «stagnazione
cronica come condizione normale dell’industria moderna». In ogni
caso, la fiaba del «crollo imminente» attestava l’incapacità
degli epigoni di Marx di comprendere ciò che stava fiorendo nel
Capitalismo giunto ormai nella sua fase “matura”, e in questo
Bernstein non si era sbagliato.
Cunow
legava Il
crollo del capitalismo,
come da titolo di una sua celebre opera, al sottoconsumo delle
masse proletarie: mentre la capacità produttiva del Capitalismo si
allargava a dismisura, la capacità di consumo dei lavoratori si
restringeva a causa del declino dei loro salari, e ciò lasciava
marcire, per così dire, il plusvalore contenuto in una gran massa di
merci.
Il
mercato non può più estendersi al medesimo ritmo della produzione:
questo vero e proprio mantra crollista verrà ripetuto, con qualche
piccola variazione, da tutti i maggiori teorici “ortodossi” della
socialdemocrazia tedesca, i quali rappresentavano un sicuro punto di
riferimento per tutta la socialdemocrazia europea. La causa
fondamentale del crollo inevitabile/definitivo/imminente veniva in
ogni caso individuato da essi non nella sfera della valorizzazione
del capitale,
che per Marx costituisce il luogo centrale del processo capitalistico
di produzione, il punto critico da cui partire per comprendere la
dinamica capitalistica colta nella sua totalità, ma nella sfera
della circolazione, nel cui seno il valore viene “semplicemente”
realizzato. Anche Rosa Luxemburg individuò nella sfera della
circolazione (nella realizzazione
del valore)
la magagna che aveva dato corpo all’imperialismo e che preparava la
fine oggettiva del Capitalismo.
«Io
esprimo i più seri dubbi che, in una società composta soltanto di
capitalisti e lavoratori come quella che sta alla base degli schemi
di Marx, l’accumulazione possa compiersi; esprimo il parere che lo
sviluppo della produzione capitalistica nel suo insieme non possa
essere racchiuso entro un rapporto schematico fra imprese puramente
capitalistiche; e i “competenti” mi rispondono: ma certo che lo
può! lo si dimostra brillantemente “in base alla tabella IV”,
“lo mostrano appunto gli schemi”, cioè il fatto che la serie di
cifre scelte a titolo di esemplificazione e chiarimento si lasciano,
sulla carta, sommare e sottrarre a piacere» (18). In primo luogo non
è affatto vero che «la serie di cifre scelte a titolo di
esemplificazione e chiarimento [questo è corretto e qui la Luxemburg
si limita a ripetere le avvertenze metodologiche marxiane che
peraltro lei stessa mostra non di rado di sottovalutare e
fraintendere] si lasciano, sulla carta, sommare e sottrarre a
piacere»: le cifre marxiane non si lasciano affatto «sommare e
sottrarre a piacere», arbitrariamente, semplicemente perché esse
rispondono a una precisa logica e, soprattutto, a una precisa
concezione del processo di accumulazione del capitale. E infatti
la più feroce nemica degli «epigoni di Marx» esprime
«i più seri dubbi che, in una società composta soltanto di
capitalisti e lavoratori come quella che sta alla base degli schemi
di Marx, l’accumulazione possa compiersi», che «lo sviluppo della
produzione capitalistica nel suo insieme possa essere racchiuso entro
un rapporto schematico fra imprese puramente capitalistiche». Il
problema non è quindi stabilire se le cifre marxiane si lasciano o
no sommare o sottrarre «sulla carta» (e dove se no?), ma quale
concezione capitalistica ha informato la critica di Rosa Luxemburg.
Nonostante
le avvertenze metodologiche dello stesso Marx (19) circa
l’intenzionale astrattezza del suo modello di capitalismo («Qui
non vi sono né commercianti né finanzieri né banchieri né classi
solo consumatrici e non partecipi direttamente della produzione delle
merci») (20), la Luxemburg accusò dunque il barbuto di Treviri di
aver costruito un modello sociale troppo puro, troppo astratto, al
punto da sganciarsi completamente dalla reale dinamica capitalistica.
Così facendo la nostra critica della marxiana riproduzione allargata
dimostrò di non aver compreso né il metodo analitico di Marx, ossia
quel procedimento che aveva permesso all’autore del Capitale di
penetrare criticamente le categorie fondamentali dell’economia
politica per mettere in luce quello che «l’ingannevole
apparenza delle cose»
mostra come il riflesso di realtà autonome, non riconducibili ad
alcun momento unitario; né il significato degli schemi marxiani,
cosa Marx intese dimostrare con essi.
«L’ipotesi
teorica di una società composta esclusivamente di capitalisti e
lavoratori, perfettamente giustificata per determinati scopi
d’indagine, mi parve insufficiente e perturbante nell’analisi
dell’accumulazione del capitale sociale totale» (21). Invece a mio
avviso l’ipotesi teorica marxiana raggiunge pienamente il suo
scopo: 1. Fare luce sulla complessa dialettica tra valore d’uso
(merci orientati al consumo produttivo, merci orientati al consumo
improduttivo “primario” e di “lusso”) e valore di scambio che
regola il processo di riproduzione sociale; 2. criticare in primo
luogo la «stupefacente» concezione smithiana che non contemplava il
capitale costante nella produzione sociale totale, ma solo il
capitale variabile (salari) e il plusvalore (22); 3. criticare le
altre teorie della riproduzione (come quella di Destutt de Tracy) che
in un modo o nell’atro occultavano e mistificavano lo sfruttamento
capitalistico dei lavoratori desumendo la genesi del profitto in
cause estranea al processo di valorizzazione del capitale, che è
appunto un processo di sfruttamento che prescinde, in linea di
principio, dal livello (basso, alto, medio) di consumo dei
capitalisti e dei lavoratori.
«Non
c’è dubbio che Marx intese rappresentare il processo
dell’accumulazione in una società composta esclusivamente di
capitalisti e lavoratori, in regime di generale ed esclusivo dominio
del modo di produzione capitalistico. Ma con tale premessa, il suo
schema non permette altra deduzione che questa: la produzione per
amore della produzione» (23). Qui l’incomprensione della Luxemburg
circa le intenzioni analitiche di Marx appare evidente, soprattutto
alla luce della lungimiranza marxiana che dalla prospettiva del XXI
secolo risalta con particolare evidenza. «Il prodotto del processo
di produzione capitalistico non è né un semplice prodotto (valore
d’uso) né una semplice merce, cioè un prodotto che ha un valore
di scambio; il suo prodotto
specifico è
il plusvalore.
[… ] Che il fine della produzione capitalistica sia il prodotto
netto, di fatto puramente nella forma del plusprodotto, in cui si
rappresenta il plusvalore, deriva dal fatto che la produzione
capitalistica è essenzialmente produzione di plusvalore» (24).
L’ipotesi “purista” marxiana, avanzata per facilitare la
comprensione di un oggetto di per sé molto complicato, in nulla
contraddice a questa fondamentale tesi. L’opera marxiana va
considerata nella sua totalità e tenendo conto delle indicazioni
metodologiche che l’autore ha sempre cura di precisare e ripetere,
a volte con eccessiva insistenza, anche perché buona parte dei suoi
scritti non erano nemmeno destinati alla pubblicazione.
Secondo
Sweezy, Rosa Luxemburg «negò insistentemente che lo schema –
marxiano – fosse una fedele rappresentazione della realtà
capitalistica» (XVIII). Ma il primo a negare che lo schema della
riproduzione «fosse una fedele rappresentazione della realtà
capitalistica» fu appunto Marx in persona! Se ne ricava che quella
tesi luxemburghiana raggiunge il suo corretto obiettivo critico solo
se è indirizzata esclusivamente contro quei “marxisti” che
vollero leggere i noti – famigerati? – schemi di riproduzione in
chiave armonicista e sviluppista. Scrive Guido Carandini: «Senza
entrare nei dettagli della analisi marxiana si deve però almeno
coglierne la problematica per intendere il senso vero di questa
complessa indagine. Esso sta in fondo nella dimostrazione che il
meccanismo di produzione capitalistico solo casualmente può
trovarsi nelle condizioni per cui le esigenze produttive e di consumo
siano effettivamente soddisfatte nello scambio generale fra i diversi
settori. Il ché equivale a dire che normalmente ciò non avviene»
(25).
Ma
veniamo al punto dolente della questione, alla realizzazione
del plusvalore.
«Da dove si origina la domanda continuamente crescente che sta alla
base del progressivo allargamento della produzione nello schema di
Marx? Una prima cosa è chiara: ch’essa non può venire dagli
stessi capitalisti. […] Fondamento dell’accumulazione è il
non-consumo del plusvalore da parte dei capitalisti: per chi produce,
dunque, quest’altra parte, questa parte accumulata di plusvalore? I
lavoratori possono realizzare il plusvalore capitalistico ancor meno
della classe capitalista. […] La realizzazione del plusvalore
all’infuori delle due sole classi esistenti della società appare
tanto necessaria quanto impossibile» (26). Ma il consumo di
plusvalore da parte dei capitalisti non contraddice in alcun modo né
la teoria marxiana né la prassi dell’accumulazione capitalistica.
Secondo Marx il processo di accumulazione non esclude «affatto, anzi
include da parte del capitalista un consumo che cresce con la
grandezza del plusvalore. […] Esso vi è congiunto in quanto
l’esistenza del capitale pone l’esistenza del capitalista, e
quest’ultima è condizionata dal suo consumo di plusvalore. […] E
se questo processo è allargato – ciò che implica allargato
consumo produttivo dei mezzi di produzione – questa riproduzione
del capitale può essere accompagnata da allargato consumo
individuale (dunque domanda) dei lavoratori» (27). Ma ultimiamo la
citazione luxemburghiana: «L’accumulazione del capitale è finita
in un circolo vizioso: il libro II del Capitale non ci permette di
uscirne. […] Essendo dunque impossibile trovare all’interno della
società capitalistica gli acquirenti visibili delle merci in cui la
parte accumulata del plusvalore si nasconde, non resta che una via
d’uscita: il commercio estero. […] La realizzazione del
plusvalore è a priori legata in quanto tale a produttori e
consumatori non-capitalistici. L’esistenza di acquirenti
non-capitalistici del plusvalore è dunque condizione diretta di vita
per il capitale e per la sua accumulazione, e rappresenta perciò il
punto decisivo del problema dell’accumulazione del capitale» (28).
Per
uscire fuori dal – presunto – circolo vizioso marxiano Rosa
Luxemburg pensò bene di prendere la strada che porta dalla sfera
della valorizzazione del
capitale a quella della realizzazione del
plusvalore, e a quel punto la rivoluzionaria perse ogni contatto con
l’essenza della concezione marxiana dell’accumulazione
capitalistica, cosa che indebolì anche la sua capacità di
comprensione del processo sociale capitalistico colto nella sua
dimensione mondiale – vedi il fenomeno “imperialismo”.
Sulla
base dell’analisi marxiana dell’accumulazione capitalistica si
comprende benissimo perché a un certo punto dello sviluppo
capitalistico debba insorgere necessariamente la crisi che provoca
l’arresto dell’accumulazione, e come, altrettanto
necessariamente, alla crisi debba seguire una nuova fase espansiva.
L’espandersi e il contrarsi del salario sono due fenomeni che vanno
naturalmente connessi alle diverse fasi della congiuntura economica e
che in qualche modo la influenzano in notevole misura, sia dal lato
della valorizzazione del capitale (vedi saggio del plusvalore e
saggio del profitto), sia da quello della realizzazione del valore.
Lo sviluppo e la crisi non sono che due momenti necessari
dell’economia capitalistica, ne caratterizzano per così dire il
respiro; l’uno prepara l’altro, sempre di nuovo. Si tratta
piuttosto di capire a quali condizioni il respiro dell’economia
fondata sullo sfruttamento del lavoro salariato, cioè sul profitto,
può tramutarsi in un rantolo mortale. Condizioni che chiamano
potentemente in causa il soggetto storico della rivoluzione, ossia il
costituirsi del proletariato «in partito politico», per dirla con
Marx. E su questo punto Rosa Luxemburg la sapeva infinitamente più
lunga del modestissimo epigono di Marx che scrive le modestissime
cose che ha l’ardire di sottoporre alla paziente e benevola – si
spera! – attenzione dei lettori.
Teoria
dello sviluppo capitalistico e teoria della crisi capitalistica sono
incorporate, così, nella più generale teoria della
valorizzazione del capitale che in Marx coincide con la teoria
dell’accumulazione capitalistica: la produzione sociale allargata
sempre di nuovo in vista del profitto.
«Inoltre, non si vede perché tutti i mezzi di produzione e di consumo necessari debbano essere prodotti solo capitalisticamente. È vero che quest’ipotesi sta alla base dello schema marxiano della accumulazione, ma non corrisponde né alla prassi quotidiana e alla storia del capitalismo né allo specifico carattere di questo modo di produzione. […] Basta del resto pensare al ruolo che l’importazione del grano contadino e perciò prodotto in ambiente non capitalista gioca nell’alimentazione della massa dei lavoratori industriali dell’Europa (cioè come elemento del capitale variabile) per vedere come l’accumulazione del capitale sia legata nei suoi elementi materiali ad ambienti non-capitalistici» (29). Qui abbiamo la teorizzazione di una situazione storica contingente, destinata a cambiare profondamente nel tempo fino a convergere con l’ipotesi marxiana del capitalismo come unico modo di produzione presente sulla faccia della Terra. Proprio lo «specifico carattere di questo modo di produzione» tende a che «tutti i mezzi di produzione e di consumo necessari debbano essere prodotti solo capitalisticamente»: Marx lo aveva capito sviluppando il concetto stesso di capitale; la Luxemburg mostrava di non comprenderlo già in una fase notevolmente avanzata dello sviluppo capitalistico, almeno in Europa, negli Stati Uniti e in Giappone. In ogni caso, la prassi capitalistica ha ampiamente confutato la teoria luxemburghiana dell’ambiente non-capitalistico come necessaria condizione dello sviluppo capitalistico e, quindi, come conditio sine qua non della sopravvivenza della società capitalista.
Una
contraddizione, sulle tante altre, emerge dunque con estremo vigore
nell’argomentare di Rosa Luxemburg, contraddizione che ne rende
evidente l’intima debolezza. Mentre giustificava le “incongruenze”
di Marx con il limitato sviluppo capitalistico del suo tempo,
dall’altro assumeva proprio le condizioni del Capitalismo nella sua
fase iniziale a modus
vivendi del
Capitalismo in generale. Per la Luxemburg, cioè, l’ambiente
precapitalistico non è più solo l’ovvio dato di partenza dello
sviluppo capitalistico, il quale ha come propria “missione storica”
la distruzione di ogni ostacolo che si oppone allo sviluppo delle
forze produttive; ma diventa il presupposto della sua
stessa condizione
di esistenza, la
sua forza e il suo insormontabile limite storico. Partendo dall’ovvia
constatazione che «il capitalismo nasce e si sviluppa storicamente
in un ambiente sociale non-capitalistico», Rosa Luxemburg giunge ad
una conclusione che rappresenta non solo l’abbandono degli schemi
del II libro del Capitale,
ma l’abbandono della concezione marxiana dello sviluppo
capitalistico: «Il capitalismo ha bisogno, per la sua esistenza e
per il suo ulteriore sviluppo, di un ambiente costituito da forme di
produzione non-capitalistiche».
«I
marxisti “legali” russi hanno indubbiamente battuto i loro
avversari populisti, ma hanno vinto
troppo.
Tutti e tre – Struve, Bulgakov, Tugan-Baranovskij – hanno, nel
fervore della battaglia, dimostrato più di quanto si doveva
dimostrare. Il problema era: è il capitalismo in generale, e in
particolare in Russia, suscettibile di sviluppo? E i suddetti
marxisti hanno dimostrato così a fondo questa capacità di sviluppo,
da dimostrare anche la possibilità teorica di un’esistenza eterna
del capitalismo. È chiaro che, una volta ammessa l’illimitata
accumulazione del capitale, si è anche provata la illimitata
vitalità del capitale. […] la dimostrazione, partita dalla
possibilità del capitalismo, sfocia nell’impossibilità del
socialismo» (30). Nei testi di Lenin scritti contro il populismo
russo e contro i “marxisti legali” (Le
caratteristiche del romanticismo economico del
1897 e Lo
sviluppo del capitalismo in Russia,
scritto tra il 1896 e il 1898), troviamo una critica anticipata del
libro della Luxemburg, e questo non a caso. Lenin infatti ebbe modo
di affrontare teoricamente e praticamente tutti i problemi connessi
con la genesi e lo sviluppo del Capitalismo in un Paese, la Russia
appunto, che con quei problemi si stava misurando ormai da alcuni
anni. Per il rivoluzionario russo l’accumulazione originaria del
capitale, la formazione del mercato interno, la funzione del mercato
estero (31), ecc. costituivano problemi di scottante attualità, e da
questa prospettiva egli poteva verificare la bontà della teoria
“economica” marxiana anche alla luce delle critiche che
provenivano sia dal socialismo piccolo borghese (proudhoniani e
sismondiani), peraltro già ampiamente “mazziato” da Marx, sia
dai “marxisti sviluppisti”. I testi leniniani dimostrano come
anche allora, senza cioè aspettare il gigantesco sviluppo
capitalistico dell’ultimo secolo, fosse possibile criticare
sviluppisti, armonicisti e riformisti d’ogni genere su un solido
terreno rivoluzionario. Occorreva semplicemente sviluppare
coerentemente e “dialetticamente” i lineamenti
fondamentali della critica dell’economia politica elaborati
da Marx sempre a partire dal concetto stesso di capitale.
Ora,
il problema della funzione del mercato estero nello sviluppo
capitalistico compie con Rosa Luxemburg un clamoroso passo indietro
concettuale, giacché essa non solo non pensa ad un mercato
extranazionale negli stessi termini in cui lo concepiva Marx (e, come
si è visto, Lenin): «il
paese più avanzato mostra a quello meno sviluppato il proprio
futuro»,
dal momento che la tendenza immanente dello sviluppo capitalistico è
quello di dominare e di trasformare l’economia di tutti i paesi del
mondo; ma fondamentalmente ella lo immagina diverso da come se lo
prospettavano gli stessi populisti. Nella sua concezione, infatti, il
problema del mercato estero come base del capitalismo nazionale si
identifica con quello relativo alla presenza di un ambiente
non-capitalistico accanto al capitalismo, ambiente che deve esistere
sia all’interno dei singoli paesi sviluppati, sia al loro esterno.
La Luxemburg non parla tanto di “mercato estero”, quanto di
“mercato esterno”, esterno al
Capitalismo.
Secondo
la Luxemburg nella sua teoria della crisi Marx «esclude il profondo
e fondamentale conflitto fra capacità produttiva e capacità di
consumo della società capitalistica, originata appunto
dall’accumulazione di capitale, che si traduce periodicamente in
crisi e spinge il capitale ad un continuo allargamento del mercato»
(32). Non sono d’accordo. Diciamo piuttosto che Marx, contro i
sottoconsumisti, spiegava la crisi peculiare del
Capitalismo non tanto con «il conflitto fra capacità produttiva e
capacità di consumo della società», una “dialettica” che
peraltro su basi capitalistiche si rinnova continuamente, ma in primo
luogo con il conflitto che sempre di nuovo insorge nel processo di
produzione del valore fra l’investimento capitalistico, sempre
crescente (soprattutto nella sua parte “costante”, ossia per ciò
che riguardo il capitale destinato all’acquisto di mezzi di
produzione), e la sua valorizzazione, la quale solo sotto date
condizioni dà piena soddisfazione al capitale. Ed è proprio la
continua tensione che si stabilisce tra l’investimento produttivo
di capitale e le condizioni della sua valorizzazione che genera i più
importanti fenomeni sociali: ristrutturazioni tecnologiche,
implementazione di nuovi modelli organizzativi, incremento dello
sfruttamento, licenziamenti, allargamento dei mercati, esportazione
di merci e di capitali, guerre commerciali e guerre militari e
quant’altro. Scriveva Marx: «È pura tautologia dire che le crisi
provengono dalla mancanza di un consumo in grado di pagare o di
consumatori in grado di pagare […] Il fatto che merci siano
invendibili non significa altro se non che non si sono trovati per
esse dei compratori in grado di pagare, cioè consumatori. Ma se a
questa tautologia si vuol dare una parvenza di maggior
approfondimento col dire che la classe operaia riceve una parte
troppo piccola del proprio prodotto, e che al male si porrebbe quindi
rimedio quando essa ne ricevesse una parte più grande, e di
conseguenza crescesse il suo salario, c’è da osservare soltanto
che le crisi vengono sempre preparate appunto da un periodo in cui il
salario in generale cresce e la classe operaia realiter riceve
una quota maggiore della parte del prodotto annuo destinato al suo
consumo. Al contrario, quel periodo – dal punto di vista di questi
cavalieri del sano e “semplice” buon senso – dovrebbe
allontanare la crisi. Sembra quindi che la produzione capitalistica
comprenda delle condizioni indipendenti dalla buona o cattiva
volontà, che solo momentaneamente consentono quella relativa
prosperità della classe operaia, e sempre soltanto come
procellaria di una crisi» (33).
In
realtà la produzione capitalistica non trova alcun limite assoluto
nella vendita di “beni e servizi” perché in linea di principio
la capacità di consumo della società è illimitata, esattamente
come la fame di profitti del Moloch capitalistico. Tuttavia quella
capacità, “naturalmente elastica”, in regime capitalistico deve
fare i conti con la “bronzea legge del profitto”, e non a caso lo
scambio tra chi offre e chi consuma è mediato dal denaro (34),
«forma generale della ricchezza» (Marx) che in una forma assai
mediata, e quindi difficile da cogliere sul piano empirico, riassume
in sé il concetto di lavoro
sociale astratto.
Come ho già detto, l’analisi marxiana della merce scopre il vero
limite di quella produzione, un limite che il capitale è chiamato a
superare con ossessiva puntualità, in qualcosa di impalpabile, che
sfugge all’analisi empirica del processo economico capitalistico
colto nella sua totalità. Mi riferisco alla complessa dialettica che
viene a stabilirsi tra produttività
del lavoro (misurata
dal saggio
del plusvalore), produttività
del capitale totale investito (misurato
dal saggio
del profitto)
e struttura
tecnologica dell’impresa (o
«composizione organica del capitale», misurata in termini di valore
nel rapporto tra il capitale investito in mezzi di produzione e
quello investito in salari: c/v). Ma qui rinvio senz’altro al III
libro del Capitale.
«Si
può ben supporre che Rosa Luxemburg non avrebbe mai concepito la sua
teoria della necessità delle aree non capitalistiche come condizione
di esistenza del capitalismo, qualora avesse riconosciuto le
conseguenze della legge del valore di Marx. Non c’è alcun dubbio
che dalla lettura del Capitale di
Marx risulta la condizione del crollo (35). I primi due decenni della
critica marxiana furono dominati da questo pensiero. Alla svolta del
secolo Tugan-Baranowsky fornì la sua presentazione di una
possibilità di sviluppo illimitato del capitalismo in equilibrio
armonico, privo di perturbazioni. Gli fecero eco presto Hilferding e
Otto Bauer, infine Kautsky. Fu naturale così che Rosa Luxemburg
difendesse la concezione fondamentale del crollo necessario del
capitalismo contro le deformazioni degli epigoni» (36). Purtroppo la
Luxemburg si convinse che i detrattori del crollo avevano in fondo
qualche ragione quando proclamavano di sviluppare le loro tesi
armoniciste in perfetta concordanza con la teoria marxiana
dell’accumulazione capitalistica, almeno come essa appare
sintetizzata (semplificata) negli schemi di riproduzione: un errore
che la condusse su un terreno pieno di rovinose buche concettuali.
«Per
quanto si possano più esattamente determinare le molle economiche
interne dell’imperialismo, una cosa è intanto chiara e
universalmente riconosciuta: la sua essenza consiste nell’espansione
del dominio del capitale dai vecchi paesi capitalistici a territori
nuovi, e nella concorrenza economica e politica fra quelli per la
conquista di questi. Ma, come s’è visto, nel II libro Marx suppone
che il mondo intero sia ormai “una nazione capitalistica”, che
tutte le altre forme sociali ed economiche siano già scomparse. Come
spiegare l’imperialismo in una società che non gli concede più
spazio?» (37). Qui davvero viene in chiara luce il limite teorico di
Rosa Luxemburg su tre punti teorici fondamentali: la comprensione del
II libro del Capitale,
la comprensione della natura del capitale, la comprensione della
natura del fenomeno “imperialismo”. Questo grave limite è sempre
connesso con la sua tesi secondo la quale il Capitalismo per esistere
ha bisogno di un ambiente precapitalistico da assoggettare,
sfruttare, vampirizzare, tesi che naturalmente si connette
direttamente al problema della realizzazione del valore. Ora, lo
sfruttamento colonialista dei Paesi precapitalistici e
semicapitalistici costituì la fase d’infanzia dell’imperialismo
capitalistico, non la sua condizione permanente di esistenza. Lungi
dall’indebolirsi, l’imperialismo si rafforza enormemente con
l’assoggettamento dell’intero pianeta al rapporto sociale
capitalistico, con la trasformazione dei Paesi non-capitalisti in
Paesi capitalisti. Lo sfruttamento imperialistico non solo permane
nella relazione tra i Paesi capitalistici, ma proprio lì assume la
sua più alta e peculiare espressione.
Oggi
che il mondo è davvero diventato una sola «nazione capitalistica»
o, ancor più precisamente, una sola società dominata dal rapporto
sociale capitalistico (la Società-Mondo che ha nelle nazioni i suoi
nodi locali), sappiamo che l’imperialismo non ha affatto bisogno di
aree non-capitalistiche o precapitalistiche per conservarsi e
rafforzarsi. Il Terzomondismo dei decenni passati vedeva solo la
relazione antagonistica Nord-Sud, ossia tra i Paesi
capitalisticamente avanzati e quelli capitalisticamente arretrati
(peraltro definiti “socialisti” sulla scorta dell’ideologia
allora trionfante, lo stalinismo nelle sue varianti nazionali:
maoismo, castrismo e così via); esso trascurava invece di analizzare
il fondamentale confronto imperialistico che si svolgeva nel seno del
“Primo mondo”, centrato soprattutto sulla competizione economica,
tecnologica e scientifica, ossia, è bene ripeterlo, sul fondamento
stesso del moderno imperialismo.
Scriveva
Grossmann: «Come si concilia l’esportazione di capitale con la
teoria di Rosa Luxemburg circa il fatto che il plusvalore non può
essere realizzato nel capitalismo? Rosa Luxemburg dedica a tale
questione un apposito capitolo: “I prestiti internazionali”.
Lungo quasi 30 pagine leggiamo come i paesi dell’Europa,
capitalisti di lunga data, esportino il capitale in paesi non
capitalistici, come vi fondino persino fabbriche e costruiscano il
sistema capitalistico e attirino gradualmente nelle loro “sfere
d’influenza” questi paesi. […] E che cosa viene dimostrato con
tutte queste esposizioni? Viene forse mostrato che il plusvalore
prodotto nei paesi capitalistici avanzati viene “realizzato” in
quelli non capitalistici? Nemmeno per sogno! vediamo piuttosto che i
fellah e gli altri popoli asiatici e africani ecc. devono lavorare a
lungo e a buon mercato, appena che essi vengono attratti nella sfera
capitalistica; vediamo in una parola non come venga realizzato il
plusvalore prodotto nel capitalismo, ma come venga prodotto nei paesi
non capitalistici con l’aiuto dell’esportazione di capitale un
plusvalore addizionale e
venga trasferito nei paesi a capitalismo avanzato. Il fatto
dell’esportazione di capitale non solo non si lascia conciliare con
la teoria di Rosa Luxemburg, ma si trova sempre con essa in diretta
contraddizione. Essa non si trova in alcun nesso con la realizzazione
del plusvalore, non rappresenta dunque un problema della sfera della
circolazione, è piuttosto un problema della sfera della produzione,
della produzione di plusvalore addizionale all’estero» (38). Tra
l’atro Grossmann nota che «il più antico sostenitore della teoria
che spiega il crollo del capitalismo con la mancanza di aree di
sbocco non capitalistiche, è H. Cunow. […] La diagnosi marxiana
delle tendenze di sviluppo del capitalismo – si dice nell’articolo
di Cunow – era esatta; Marx s’ingannò soltanto in rapporto al
tempo dello sviluppo, perché nella sua epoca aveva considerato come
dati i mercati di sbocco esistenti» (39). Giustamente Grossmann
osservava che quella aspettativa crollista era completamente
infondata sulla base della concezione di Marx, il quale considerava
la dimensione mondiale del Capitalismo come la dimensione più
adeguata al concetto stesso di capitale. «Marx esamina bensì
attentamente il processo dell’appropriazione di mezzi di produzione
noncapitalistici e di trasformazione del contadiname in proletariato
capitalistico. […] Ma, nel dare l’analisi teorica del processo di
produzione e circolazione del capitale, Marx torna continuamente al
suo presupposto di un predominio generale ed esclusivo
della produzione capitalistica. Senonché, anche nella maturità
piena, il capitalismo è legato in ogni suo rapporto all’esistenza
di strati e società non-capitalistici» (40). Occorre ripeterlo: la
prassi capitalistica dell’ultimo secolo ha dato ampiamente ragione
ai presupposti teorici di Marx e torto ai presupposti teorici di Rosa
Luxemburg. «Rosa Luxemburg con la sua ipotesi ausiliaria, costruita
ad hoc circa la necessità dei paesi non capitalistici, pensava di
prendere due piccioni con una fava, confutare i sogni fatti dai nuovi
assertori dell’armonia e dell’equilibrio, mostrare la necessità
economica della fine del capitalismo e spiegare contemporaneamente
l’imperialismo» (41). Eccellenti le intenzioni, disastrosi i
risultati teorici.
Cosa
pensava dunque la Luxemburg dell’imperialismo? «L’imperialismo è
l’espressione politica del processo di accumulazione del capitale
nella sua lotta di concorrenza intorno ai residui di ambienti
non-capitalistici non ancora posti sotto sequestro» (42). La tesi è
ribadita nell’Anticritica:
«L’attuale imperialismo […] è il periodo della lotta generale e
acutizzata di concorrenza fra gli stati capitalistici per gli ultimi
resti di ambiente non-capitalistico sopravvissuti nel mondo» (43).
La sacrosanta battaglia contro chi (Kautsky, Hilferding, ecc.) vedeva
nel moderno imperialismo una «malvagia» scelta che faceva capo a
determinati gruppi industriali e finanziari sostenuti da movimenti
politici particolarmente reazionari, e non invece «una necessità
storica», venne puntellata teoricamente da Rosa Luxemburg con una
concezione completamente sbagliata circa la genesi e la natura
dell’imperialismo. Anche su questo punto la Luxemburg commise
l’errore di teorizzare una data condizione del Capitalismo mondiale
che, come sappiamo (vedi sviluppo capitalistico in Cina, India,
ecc.), sarebbe radicalmente cambiata nel tempo senza avvicinare di un
solo millimetro il Capitalismo alla tomba. «Quest’idea», scriveva
Paul Mattick, «aveva una certa plausibilità per il fatto che
realmente il capitalismo si diffondeva sul piano geografico e
coinvolgeva sempre nuovi Paesi nell’economia mondiale. ma non aveva
niente a che vedere con la teoria marxiana dell’accumulazione»
(44). Infatti, l’imperialismo ha a che fare, e so di ripetermi, con
il concetto di capitale e con la prassi del capitale, non con il
restringimento del presunto spazio vitale costituito dall’ambiente
non-capitalistico.
-----------------------------------------
(1)
M. Turchetto, Leggere
L’accumulazione del capitale.
(2) P. Frolich , Rosa Luxemburg, p. 430, Rizzoli, 1987. Gli assassini materiali di Rosa Luxemburg, riconosciuti dal Tribunale di Berlino nelle persone di Runge e Vogel, se la caveranno con poco: il primo riceve una condanna di due anni e due settimane, il secondo di due anni e quattro mesi. Pochi giorni dopo Vogel verrà messo nelle condizioni di scappare in Olanda, e sarà poi amnistiato. I padroni sanno essere riconoscenti con i loro cani da guardia.
(3) R. Luxemburg, in Scritti politici, p. 621, Editori Riuniti,1967.
(4) E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in occidente, p. 21, Dedalo, 1974.
(5) G. Lukács, Storia e coscienza di classe, pp. 56-57, Sugarco, 1988.
(6) P. M. Sweezy, Introduzione a R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo, p. XXX, Einaudi, 1980.
(7) R. Luxemburg, Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una anticritica, in L’accumulazione del capitale, p. 588.
(8) P. Mattick, Crisi e teorie della crisi, p. 103, Dedalo, 1979.
(9) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione е del crollo del sistema capitalistico p. 38, Jaca Book, 1977.
(10) G. Russo, Capitalismo, stagnazione secolare, e politica monetaria. Una critica, 26 ottobre 2015, Centro Einaudi.
(11) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, II, p. 9, La Nuova Italia, 1978
(12) La natura dell’imperialismo cinese.
(13) Dal secolo giapponese al tramonto del Sol Levante.
(14) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, p. 255
(15) R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, in Scritti politici, p. 207.
(16) Ecco come Bernstein sintetizzò, ridicolizzandola, la concezione dogmatica che si era fatta strada nella socialdemocrazia tedesca: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Così di una teoria che era essa stessa il prodotto della pratica concreta del movimento operaio e dello sviluppo delle correnti spirituali che l’accompagnavano, si è fatto una rivelazione divina, in sé conchiusa fin dal primo giorno e che era, è e sarà in eterno come al principio di tutte le cose. In tal modo però il marxismo viene diffuso come la saggezza definitiva, tanto che si danneggia il pensiero di Marx più di quanto gli si giovi, giacché si costringe la conoscenza che preme per farsi riconoscere la propria autorità a presentarsi in polemica con Marx» (cit. tratta da Storia del marxismo contemporaneo, I, Einaudi, 1978). Bernstein sembra dire ai “marxisti ortodossi”: «Siete voi che mi costringete a polemizzare con Marx, mentre io non faccio che essere fedele al suo spirito critico». Ma il problema vero è che il dogmatismo dei sacerdoti “marxisti” non solo non aveva nulla a che fare con il «Verbo» marxiano, ma ne era piuttosto una brutta caricatura, e ciò rendeva ancora più difficile cogliere la differenza tra la critica marxiana dell’economia politica e il marxismo ufficiale.
(17) R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, p. 199.
(18) R. Luxemburg, Una anticritica, p. 498.
(19) Marx elaborò il suo schema della riproduzione semplice riprendendo il Tableau Economique del fisiocratico Quesnay. «Il Tableau économique di Quesnay mostra in pochi grandi tratti come un prodotto annuo della produzione nazionale, determinato nel valore, si ripartisce attraverso la circolazione così che, rimanendo invariate le altre circostanze, possa svolgersi la sua riproduzione semplice, cioè la riproduzione sulla stessa scala. In conformità con ciò, il raccolto dell’ultimo anno costituisce il punto di partenza del periodo di produzione. […] L’agricoltura viene esercitata capitalisticamente. […] Il carattere capitalistico del sistema fisiocratico provocò, già durante il suo periodo di fioritura, l’opposizione da un lato di Linguet e Mably, dall’altro dei difensori della libera piccola proprietà fondiaria. Il regresso di A. Smith nell’analisi del processo di riproduzione è tanto sorprendente, in quanto altrove egli elabora ulteriormente le giuste analisi di Quesnay» (K. Marx, Il Capitale, II, pp. 377-378). La prima versione del Tableau économique risale al 1758; la terza e ultima al 1759. «Il Tableau économique costituisce a tutt’oggi una delle più suggestive performancesprodotte nel quadro di quella riflessione collettiva che nel corso del secolo XVIII, tra Francia e Inghilterra, ha tentato di costruire un’economia politica con statuto di scienza. Come tale, oltre a una serie di straordinari apprezzamenti, esso ha collezionato una sostanziosa lista di altrettanto considerevoli contestazioni» (G. Longhitano, Introduzionea F. Quesnay, Tableau économique, pp. 9-10, CUECM, 1992).
(2) P. Frolich , Rosa Luxemburg, p. 430, Rizzoli, 1987. Gli assassini materiali di Rosa Luxemburg, riconosciuti dal Tribunale di Berlino nelle persone di Runge e Vogel, se la caveranno con poco: il primo riceve una condanna di due anni e due settimane, il secondo di due anni e quattro mesi. Pochi giorni dopo Vogel verrà messo nelle condizioni di scappare in Olanda, e sarà poi amnistiato. I padroni sanno essere riconoscenti con i loro cani da guardia.
(3) R. Luxemburg, in Scritti politici, p. 621, Editori Riuniti,1967.
(4) E. Rutigliano, Linkskommunismus e rivoluzione in occidente, p. 21, Dedalo, 1974.
(5) G. Lukács, Storia e coscienza di classe, pp. 56-57, Sugarco, 1988.
(6) P. M. Sweezy, Introduzione a R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo, p. XXX, Einaudi, 1980.
(7) R. Luxemburg, Ciò che gli epigoni hanno fatto della teoria marxista. Una anticritica, in L’accumulazione del capitale, p. 588.
(8) P. Mattick, Crisi e teorie della crisi, p. 103, Dedalo, 1979.
(9) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione е del crollo del sistema capitalistico p. 38, Jaca Book, 1977.
(10) G. Russo, Capitalismo, stagnazione secolare, e politica monetaria. Una critica, 26 ottobre 2015, Centro Einaudi.
(11) K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, II, p. 9, La Nuova Italia, 1978
(12) La natura dell’imperialismo cinese.
(13) Dal secolo giapponese al tramonto del Sol Levante.
(14) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, p. 255
(15) R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, in Scritti politici, p. 207.
(16) Ecco come Bernstein sintetizzò, ridicolizzandola, la concezione dogmatica che si era fatta strada nella socialdemocrazia tedesca: «In principio era il Verbo e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Così di una teoria che era essa stessa il prodotto della pratica concreta del movimento operaio e dello sviluppo delle correnti spirituali che l’accompagnavano, si è fatto una rivelazione divina, in sé conchiusa fin dal primo giorno e che era, è e sarà in eterno come al principio di tutte le cose. In tal modo però il marxismo viene diffuso come la saggezza definitiva, tanto che si danneggia il pensiero di Marx più di quanto gli si giovi, giacché si costringe la conoscenza che preme per farsi riconoscere la propria autorità a presentarsi in polemica con Marx» (cit. tratta da Storia del marxismo contemporaneo, I, Einaudi, 1978). Bernstein sembra dire ai “marxisti ortodossi”: «Siete voi che mi costringete a polemizzare con Marx, mentre io non faccio che essere fedele al suo spirito critico». Ma il problema vero è che il dogmatismo dei sacerdoti “marxisti” non solo non aveva nulla a che fare con il «Verbo» marxiano, ma ne era piuttosto una brutta caricatura, e ciò rendeva ancora più difficile cogliere la differenza tra la critica marxiana dell’economia politica e il marxismo ufficiale.
(17) R. Luxemburg, Riforma sociale o rivoluzione?, p. 199.
(18) R. Luxemburg, Una anticritica, p. 498.
(19) Marx elaborò il suo schema della riproduzione semplice riprendendo il Tableau Economique del fisiocratico Quesnay. «Il Tableau économique di Quesnay mostra in pochi grandi tratti come un prodotto annuo della produzione nazionale, determinato nel valore, si ripartisce attraverso la circolazione così che, rimanendo invariate le altre circostanze, possa svolgersi la sua riproduzione semplice, cioè la riproduzione sulla stessa scala. In conformità con ciò, il raccolto dell’ultimo anno costituisce il punto di partenza del periodo di produzione. […] L’agricoltura viene esercitata capitalisticamente. […] Il carattere capitalistico del sistema fisiocratico provocò, già durante il suo periodo di fioritura, l’opposizione da un lato di Linguet e Mably, dall’altro dei difensori della libera piccola proprietà fondiaria. Il regresso di A. Smith nell’analisi del processo di riproduzione è tanto sorprendente, in quanto altrove egli elabora ulteriormente le giuste analisi di Quesnay» (K. Marx, Il Capitale, II, pp. 377-378). La prima versione del Tableau économique risale al 1758; la terza e ultima al 1759. «Il Tableau économique costituisce a tutt’oggi una delle più suggestive performancesprodotte nel quadro di quella riflessione collettiva che nel corso del secolo XVIII, tra Francia e Inghilterra, ha tentato di costruire un’economia politica con statuto di scienza. Come tale, oltre a una serie di straordinari apprezzamenti, esso ha collezionato una sostanziosa lista di altrettanto considerevoli contestazioni» (G. Longhitano, Introduzionea F. Quesnay, Tableau économique, pp. 9-10, CUECM, 1992).
«Porremo
a base della nostra indagine sulla riproduzione semplice lo schema
seguente, in cui c = capitale costante, v = capitale variabile, pv =
plusvalore e il rapporto di valorizzazione pv/v è supposto uguale al
100%. I numeri possono indicare milioni di marchi, di franchi o di
sterline.
I. Produzione
di mezzi di produzione
4000 c + 1000 v + 1000 pv = 6000
4000 c + 1000 v + 1000 pv = 6000
II. Produzione
di mezzi di consumo
2000 c + 500 v + 500 pv = 3000
2000 c + 500 v + 500 pv = 3000
Ne
deriva che il prodotto-merce complessivo annuo è
6000 c + 1500 v + 1500 pv = 9000» (K. Marx, Il Capitale, II, p. 414).
6000 c + 1500 v + 1500 pv = 9000» (K. Marx, Il Capitale, II, p. 414).
Se
il plusvalore realizzato dalla classe capitalista non viene
interamente consumato ma in parte reinvestito in una nuova
produzione, viene cioè accumulato,
si ha la riproduzione
su scala allargata.
Nel caso della riproduzione semplice Marx fa l’ipotesi che tutto il
plusvalore venga speso dai capitalisti come reddito, venga cioè
consumato improduttivamente; nel caso della riproduzione allargata,
Marx pone invece l’ipotesi che tutto il plusvalore venga
accumulato, ossia consumato produttivamente nell’acquisto di nuovi
mezzi di produzione e di nuova capacità lavorativa. Circa la
realizzazione dei prodotti «la risposta la dà lo stesso schema nel
modo più semplice, giacché tutti i prodotti vi trovano smercio.
Acquirenti sono gli stessi capitalisti e lavoratori. […] Non esiste
dunque problema da risolvere» (A. Pannekoek, cit. tratta da R.
Luxemburg, Una
anticritica,
p.497
(20) «La produzione capitalistica in generale non esiste senza commercio estero. Ma se si presuppone una normale riproduzione annua su una scala data, si presuppone anche che il commercio estero si limiti a sostituire articoli locali con altri articoli di altra forma d’uso o altra forma naturale, senza toccare i rapporti di valore, e senza toccare quindi neppure i rapporti di valore in cui le due categorie, mezzi di produzione e mezzi di consumo, si scambiano reciprocamente, e nemmeno i rapporti tra capitale costante, capitale variabile e plusvalore., in cuiè scomponibile il valore del prodotto di ciascuna di queste categorie. L’introduzione del commercio estero nell’analisi del valore dei prodotti annualmente riprodotto può quindi creare soltanto della confusione, senza fornire nessun momento nuovo né del problema né della sua soluzione. Si deve quindi farne completa astrazione» (K. Marx, Il Capitale, II, p. 488, Editori Riuniti, 1980).
(21) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 450.
(22) «Come il valore di ogni singola merce, così anche quello del prodotto complessivo annuo di ciascuna sezione si suddivide in c + v + pv. […] Abbiamo visto come, per Smith, il valore complessivo sociale dei prodotti si risolva in reddito, in v + pv, come dunque il valore capitale costante venga posto uguale a zero» (K. Marx, Il Capitale, II, pp. 415-493).
(23) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 325.
(24) K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo sesto inedito, p. 30Newton, 1976.
(25) G. Carandini, Lavoro e capitale nella teoria di Marx, p. 160, Mondadori, 1979.
(26) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, pp. 118-122.
(27) K. Marx, Il Capitale, II, pp. 70-71- 77.
(28) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, pp. 153-361.
(29) Ibidem, p. 351.
(30) Ibidem, p. 316.
(31) «Il problema della realizzazione è il seguente: come trovare per ogni parte del prodotto capitalistico, sia dal punto di vista del valore (capitale costante, capitale variabile e plusvalore), che da quello della sua forma materiale (mezzi di produzione, beni di consumo, e, in particolare, generi di prima necessità e articoli di lusso) un’altra parte del prodotto che la sostituisca al mercato? È chiaro che qui si deve fare astrazione dal mercato estero, giacché chiamando in causa quest’ultimo non si fa progredire di un millimetro la soluzione del problema: ci se ne allontana, anzi, trasferendo il problema da uno a più paesi. […] anche lo smercio del prodotto sul mercato estero richiede di essere spiegato; bisogna cioè trovare un equivalente per la parte della produzione messa in vendita, bisogna trovare un’altra produzione capitalistica capace di sostituire la prima. Ecco perché Marx dice appunto che nell’esame del problema della realizzazione “si deve fare completa astrazione” dal mercato estero, dal commercio estero, giacché “l’introduzione del commercio estero nell’analisi del valore dei prodotti annualmente riprodotto può creare soltanto della confusione, senza fornire nessun momento nuovo né del problema né della sua soluzione”» (Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, Opere, III, pp. 22-23, Editori Riuniti, 1963).
(32) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 340.
(33) K. Marx, Il Capitale, II, pp. 429-430, Einaudi, 1980.
(34) «Nella produzione di merci, la trasformazione del prodotto in denaro, la vendita, è conditio sine qua non. […] Con la separazione fra il processo di produzione immediato e il processo di circolazione è nuovamente e ulteriormente sviluppata la possibilità delle crisi, che si mostrava nella semplice metamorfosi della merce» K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, pp. 3-6, La Nuova Italia, 1978).
(35) Qui il concetto di crollo non ha nulla a che fare con la concezione ideologica definibile come crollista. Per crollo Grossmann intende una tendenza immanente al processo di valorizzazione del capitale che incontrando controtendenze di vario genere si manifesta in concreto come crisi economica. Il crollo marxiano cui fa riferimento Grossmann non è dunque definitivo/mortale/fatale, ma prepara anzi il terreno per una nuova ascesa capitalistica, in attesa di un successivo crollo, e così via. Salvo, beninteso, le sempre possibili e auspicabili soluzioni rivoluzionarie.
(36) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, p 265.
(37) R. Luxemburg, Una anticritica, p. 491.
(38) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, pp. 487-488.
(39) Ibidem, p. 55.
(40) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 360.
(41) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, p. 266.
(42) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 447.
(43) R. Luxemburg, Una anticritica, p. 585.
(44) P. Mattick, Crisi e teorie della crisi, p. 102
(20) «La produzione capitalistica in generale non esiste senza commercio estero. Ma se si presuppone una normale riproduzione annua su una scala data, si presuppone anche che il commercio estero si limiti a sostituire articoli locali con altri articoli di altra forma d’uso o altra forma naturale, senza toccare i rapporti di valore, e senza toccare quindi neppure i rapporti di valore in cui le due categorie, mezzi di produzione e mezzi di consumo, si scambiano reciprocamente, e nemmeno i rapporti tra capitale costante, capitale variabile e plusvalore., in cuiè scomponibile il valore del prodotto di ciascuna di queste categorie. L’introduzione del commercio estero nell’analisi del valore dei prodotti annualmente riprodotto può quindi creare soltanto della confusione, senza fornire nessun momento nuovo né del problema né della sua soluzione. Si deve quindi farne completa astrazione» (K. Marx, Il Capitale, II, p. 488, Editori Riuniti, 1980).
(21) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 450.
(22) «Come il valore di ogni singola merce, così anche quello del prodotto complessivo annuo di ciascuna sezione si suddivide in c + v + pv. […] Abbiamo visto come, per Smith, il valore complessivo sociale dei prodotti si risolva in reddito, in v + pv, come dunque il valore capitale costante venga posto uguale a zero» (K. Marx, Il Capitale, II, pp. 415-493).
(23) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 325.
(24) K. Marx, Il Capitale, libro primo, capitolo sesto inedito, p. 30Newton, 1976.
(25) G. Carandini, Lavoro e capitale nella teoria di Marx, p. 160, Mondadori, 1979.
(26) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, pp. 118-122.
(27) K. Marx, Il Capitale, II, pp. 70-71- 77.
(28) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, pp. 153-361.
(29) Ibidem, p. 351.
(30) Ibidem, p. 316.
(31) «Il problema della realizzazione è il seguente: come trovare per ogni parte del prodotto capitalistico, sia dal punto di vista del valore (capitale costante, capitale variabile e plusvalore), che da quello della sua forma materiale (mezzi di produzione, beni di consumo, e, in particolare, generi di prima necessità e articoli di lusso) un’altra parte del prodotto che la sostituisca al mercato? È chiaro che qui si deve fare astrazione dal mercato estero, giacché chiamando in causa quest’ultimo non si fa progredire di un millimetro la soluzione del problema: ci se ne allontana, anzi, trasferendo il problema da uno a più paesi. […] anche lo smercio del prodotto sul mercato estero richiede di essere spiegato; bisogna cioè trovare un equivalente per la parte della produzione messa in vendita, bisogna trovare un’altra produzione capitalistica capace di sostituire la prima. Ecco perché Marx dice appunto che nell’esame del problema della realizzazione “si deve fare completa astrazione” dal mercato estero, dal commercio estero, giacché “l’introduzione del commercio estero nell’analisi del valore dei prodotti annualmente riprodotto può creare soltanto della confusione, senza fornire nessun momento nuovo né del problema né della sua soluzione”» (Lenin, Lo sviluppo del capitalismo in Russia, Opere, III, pp. 22-23, Editori Riuniti, 1963).
(32) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 340.
(33) K. Marx, Il Capitale, II, pp. 429-430, Einaudi, 1980.
(34) «Nella produzione di merci, la trasformazione del prodotto in denaro, la vendita, è conditio sine qua non. […] Con la separazione fra il processo di produzione immediato e il processo di circolazione è nuovamente e ulteriormente sviluppata la possibilità delle crisi, che si mostrava nella semplice metamorfosi della merce» K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, pp. 3-6, La Nuova Italia, 1978).
(35) Qui il concetto di crollo non ha nulla a che fare con la concezione ideologica definibile come crollista. Per crollo Grossmann intende una tendenza immanente al processo di valorizzazione del capitale che incontrando controtendenze di vario genere si manifesta in concreto come crisi economica. Il crollo marxiano cui fa riferimento Grossmann non è dunque definitivo/mortale/fatale, ma prepara anzi il terreno per una nuova ascesa capitalistica, in attesa di un successivo crollo, e così via. Salvo, beninteso, le sempre possibili e auspicabili soluzioni rivoluzionarie.
(36) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, p 265.
(37) R. Luxemburg, Una anticritica, p. 491.
(38) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, pp. 487-488.
(39) Ibidem, p. 55.
(40) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 360.
(41) H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, p. 266.
(42) R. Luxemburg, L’accumulazione del capitale, p. 447.
(43) R. Luxemburg, Una anticritica, p. 585.
(44) P. Mattick, Crisi e teorie della crisi, p. 102
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