Questo articolo (23 luglio 2018) traccia una breve cronistoria del processo di “unificazione” europea.
Nelle dichiarazioni degli esponenti liberali dell’epoca, e dello stesso Guido Carli, si ritrovano i contenuti del famoso discorso di Cefis: la grande borghesia capitalistica, compresi i grand commis che sono al suo servizio, si stava allineando e compattando attorno a un progetto che avrebbe portato al progressivo svuotamento dell’idea di politica intesa come emancipazione umana e sociale che si era andata formando nel corso del diciannovesimo e del ventesimo secolo. (Il Collettivo)
Qui il discorso di Cefis: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/05/la-multinazionale-ecumenica-eugenio.html
Un interessante contributo di Zbigniew Brzezinski (1968): https://ilcomunista23.blogspot.com/2016/10/usamerica-nellepoca-tecnetronica.html
L’Unione europea
ha finalmente dichiarato la conclusione del programma di assistenza
finanziaria imposto alla Grecia nel maggio del 2010. In questi otto
anni il Paese ha ricevuto prestiti per 243 miliardi di Euro dal fondi
Salva-Stati, e per 32 miliardi di Euro dal Fondo monetario
internazionale. In cambio ha realizzato centinaia di riforme
strutturali con le quali ha tagliato la spesa sociale per
l’istruzione, la sanità e le pensioni, ridimensionato la pubblica
amministrazione, privatizzato i beni pubblici e le principali
infrastrutture, liberalizzato i servizi, precarizzato il lavoro e
indebolito il sindacato.
La dimensione della macelleria
sociale provocata da queste misure si coglie dai dati che documentano
l’esplosione della povertà, la compressione dei salari e delle
pensioni, la crescita della disoccupazione soprattutto giovanile, la
perdita dei posti di lavoro nel settore pubblico, la condizione
miserevole in cui è ridotta la sanità e il sistema della sicurezza
sociale nel suo complesso. Anche i parametri economici documentano in
modo incontrovertibile l’insuccesso della cura imposta dall’Europa:
il deficit è stato annullato e anzi il Paese è ora in surplus, ma
al prezzo di un rapporto tra debito pubblico e prodotto interno lordo
passato dal 146% dell’anno in cui la Troika è giunta ad Atene, al
178,6% di adesso. Sono cresciuti anche la pressione fiscale e
l’ammontare dei prestiti in sofferenza delle banche, mentre sono
calati la competitività e il potere di acquisto.
Vi sono
dunque riscontri notevoli di quanto l’assistenza finanziaria
fornita alla Grecia sia stata fallimentare se non criminale, tenuto
conto che il 90% delle somme prese a prestito hanno beneficiato le
banche francesi e tedesche espostesi per aver tentato di lucrare sui
titoli del debito greco. Ciò nonostante Atene sarà costretta a
proseguire lungo la strada imposta da Bruxelles come contropartita
per l’assistenza, e continuerà a essere sorvegliata da
Commissione, Banca centrale e Fondo monetario internazionale. Il
Paese sarà infatti sottoposto alla “sorveglianza rafforzata”
prevista per i casi in cui si temono “gravi difficoltà per quanto
riguarda la sua stabilità finanziaria, con probabili ripercussioni
negative su altri Stati membri nella zona euro”[1].
Sebbene il programma di assistenza finanziaria sia formalmente
concluso, di fatto esso prosegue, così come la cessione di sovranità
politica ed economica alla Troika, presumibilmente sino al 2022.
Nel
documento della Commissione europea con il quale si è attivata la
sorveglianza si lodano le autorità greche perché il bilancio
dell’anno in corso si chiuderà probabilmente con un surplus del
3,5%. E tuttavia si stigmatizzano l’entità del debito e gli altri
parametri negativi appena elencati: ad essi la Grecia dovrà
rimediare attuando un programma di riforme concordato con la
Commissione europea come contropartita per la formale conclusione del
programma di assistenza finanziaria[2].
La
Commissione europea ha voluto sottolineare che il programma di
riforme non costituisce una sorta di nuovo piano di assistenza
condizionata, ma è chiaro che si tratta di una scusa non richiesta,
equivalente a un’accusa manifesta. E difatti Atene si è impegnata
a mantenere un surplus del 3,5% per il futuro, ovvero,
inevitabilmente, a “modernizzare il welfare” e dunque a tagliare
ulteriormente la spesa sociale soprattutto per le pensioni e la
sanità. Dovrà poi rilanciare il programma di dismissione del
patrimonio pubblico, privatizzando quanto di appetibile è rimasto
ancora nelle mani dello Stato. Non mancano poi impegni a intervenire
ulteriormente nel mercato del lavoro per “salvaguardare la
competitività” e dunque renderlo sempre più flessibile e
sottopagato, nel settore privato come nel settore pubblico: si
dovranno realizzare “riforme per modernizzare la gestione delle
risorse umane nella Pubblica amministrazione”[3].
La
resa dei conti
Alla luce di queste vicende si
capisce lo scontro in atto entro la Sinistra europea, che comprende
oramai forze collocate su fronti davvero inconciliabili. Da una lato
Syriza, il partito di Tsipras che si è arreso alla Troika, divenendo
il fedele esecutore materiale dei programmi che questa ha riservato
per la Grecia. Dall’altro lato il Partie de Gauche di Mélenchon,
che ha recentemente lasciato la Sinistra europea in polemica contro
la decisione di non espellere Syriza: forza politica che “sta
spingendo la sua logica austeritaria sino a limitare il diritto di
sciopero, così accogliendo in modo sempre più servile i diktat
della Commissione europea”[4].
In mezzo l’indecisione delle altre formazioni aderenti alla
Sinistra europea, in qualche modo alimentata dalla posizione della
Linke, che giustifica le politiche di Atene: “è ricattata dalla
Troika” e dunque non ha scelta[5].
Peraltro
la Linke non è compatta, e i suoi orientamenti sono sempre meno
rappresentativi di quanto avviene nella sinistra radicale, dove non
regge più il mantra che fa da sfondo alla posizione ufficiale sulla
sinistra greca: l’Europa dei mercati può essere riformata e
divenire un’Europa del lavoro e dei diritti. È oramai diffusa la
convinzione opposta, ovvero che questa Europa è irriformabile perché
l’Unione economica e monetaria è un dispositivo neoliberale
concepito per cancellare le tracce del compromesso keynesiano che
resistono qua e là, e soprattutto per impedire che questo possa
tornare. Il tutto presidiato da una sorta di mercato delle riforme:
la vita della costruzione europea nel suo complesso viene scandita da
forme di assistenza finanziaria condizionata all’adozione di
riforme di chiara matrice neoliberale. Lo abbiamo riscontrato in
occasione degli allargamenti a sud e ad est, e lo sperimentiamo con
il modo scelto per affrontare la crisi del debito sovrano e persino
con la gestione dei fondi strutturali: inizialmente concepiti come
strumento di redistribuzione delle risorse dai Paesi ricchi ai Paesi
poveri, poi trasformati anch’essi in dispositivi volti a presidiare
l’ortodossia neoliberale[6].
Insomma,
l’Europa della moneta unica si regge sulla spoliticizzazione del
mercato e sulla sterilizzazione del conflitto sociale. Per cambiarla
occorre contrastare la prima riattivando il secondo: occorre tornare
alla dimensione nazionale per ripristinare la dialettica democratica
e rifondare le basi di una comunità di popoli. E a monte si devono
combattere i luoghi comuni che impediscono di vedere in questo
percorso l’unica via di uscita, che continuano cioè a illudere
circa la possibilità di percorrere scorciatoie. Primo fra tutti la
credenza secondo cui l’europeismo coincide con l’internazionalismo,
e deve pertanto essere difeso, e poi la confusione tra identità
nazionale e nazionalismo, che deve pertanto essere combattuta senza
esitazione.
Cosmopolitismo
La
confusione tra internazionalismo e cosmopolitismo o europeismo è
alla base della convinzione che il favore per i processi di
denazionalizzazione appartiene alla storia e alle idealità della
sinistra.
Questi processi sono stati avviati a partire
dagli anni Ottanta, ma la loro teorizzazione è molto più risalente:
la troviamo in uno scritto di Friedrich von Hayek pubblicato sul
finire degli anni Trenta[7].
Il punto di partenza è la costruzione di un ordine internazionale
incentrato sulla pace, raggiungibile unicamente attraverso una
“federazione interstatale” fondata sulla libera circolazione dei
fattori produttivi. Solo abolendo le barriere economiche si eliminano
le occasioni di conflitto, in quanto i membri della federazione
possono disporre di un “meccanismo efficace per la risoluzione di
ogni controversia”, e inoltre la federazione nel suo complesso è
“tanto forte da eliminare qualsiasi rischio di attacco
dall’esterno”. Se invece ci si limita a realizzare “l’unità
politica”, ovvero si rinuncia a “una politica fiscale e monetaria
comune”, allora si produce in ciascuno Stato “una solidarietà di
interessi tra tutti i suoi abitanti, e conflitti” con gli interessi
degli “abitanti di altri Stati”.
Hayek parla insomma
del vincolo esterno rappresentato dalla forza condizionante di un
“mercato unico”, che rende agli Stati “chiaramente impossibile
influenzare i prezzi dei diversi prodotti”, e dunque ostacolare il
mercato concorrenziale: tanto che “sarà difficile produrre persino
le discipline concernenti i limiti al lavoro dei fanciulli o
all’orario di lavoro”. Il tutto mentre occorre ovviamente evitare
che la stessa possibilità sia accordata al sistema delle relazioni
industriali, o peggio trasferita a una qualche autorità federale.
Del resto, a quest’ultimo livello, incidono contrasti tra operatori
economici sconosciuti a livello statale, tanto da rendere
estremamente difficile, se non impossibile, la conclusione di accordi
di matrice protezionista o comunque di intralcio per il funzionamento
del mercato. Se non altro perché “la diversità di condizioni e i
diversi gradi di sviluppo economico raggiunti dai diversi membri
della federazione faranno sorgere seri ostacoli alla produzione di
regole federali”.
Che il vincolo esterno si traduca
inevitabilmente in una diminuzione degli spazi assicurati alla
decisione democratica, è dunque un risvolto ineliminabile e anzi
voluto della costruzione federale. Per Hayek il livello statale era
oramai espressione inemendabile della volontà di redistribuire
risorse con modalità alternative a quelle assicurate dal mercato.
Questo era dipeso dall’invadenza delle istituzioni democratiche,
sicché solo alimentando il livello sovrastatale si poteva ovviare
all’inconveniente: “se il prezzo da pagare per lo sviluppo di un
ordine democratico internazionale è la restrizione del potere e
delle funzioni del governo, è comunque un prezzo non troppo
alto”.
Internazionalismo
Come
abbiamo detto, se il fascino del cosmopolitismo miete vittime a
sinistra, è perché viene identificato con l’internazionalismo,
nonostante vi siano insormontabili differenze di fondo: innanzi tutto
in ordine alla libera circolazione dei fattori produttivi.
Quest’ultima è l’essenza dell’ordine neoliberale, per cui gli
Stati sono meri contenitori di risorse che possono e anzi devono
circolare senza vincoli alcuni, anche per mettere in moto il
meccanismo attraverso cui rendere il pensiero unico irreversibile:
quello per cui gli Stati devono fare di tutto per attirare
investitori, ovvero abbattere i salari e la pressione fiscale sulle
imprese, con ciò impedendo il funzionamento del compromesso
keynesiano. L’internazionalismo valorizza invece la frizione tra
l’estrema volatilità dei “flussi di segni di valore, merci,
servizi, informazioni e membri delle élite che li governano” e
l’irrimediabile radicamento dei “corpi di coloro che chiedono
cibo, casa, lavoro e affettività”[8].
E in tale prospettiva rigetta quanto si potrebbe chiamare
l’internazionalismo delle élites: il cosmopolitismo buono solo a
presidiare il mercato autoregolato, a spoliticizzarlo in quanto arena
nella quale sviluppare il conflitto redistributivo.
Altrimenti
detto, il cosmopolitismo alimenta l’immagine dell’individuo come
cittadino del mondo, privo di radicamento territoriale e dunque in
balìa delle forze del mercato autoregolato, e nel fare questo
ridefinisce i compiti dei pubblici poteri: non più relativi alla
gestione del conflitto redistributivo, bensì concernenti tutti il
presidio della concorrenza e la sterilizzazione del conflitto
sociale. L’esatto opposto dell’internazionalismo, che infatti
mira a ribaltare questo schema, ovvero a consentire alle classi
subalterne di conquistare lo Stato attraverso l’esercizio della
sovranità popolare: finalità per la quale occorre valorizzare la
dimensione nazionale e dunque la sovranità statale.
La
contrapposizione tra cosmopolitismo e internazionalismo veniva
riconosciuta e tematizzata all’epoca in cui l’ortodossia
neoliberale non era ancora divenuta l’orizzonte fisso per la
costruzione e lo sviluppo dell’ordine economico. Lo vediamo
considerando i passaggi parlamentari che hanno accompagnato
l’adesione dell’Italia prima al Consiglio d’Europa, poi alla
Comunità economica europea, e infine al Sistema monetario
europeo.
Il Consiglio d’Europa nasce sul finire degli
anni Quaranta per rafforzare la pace nella giustizia e nella
cooperazione internazionale. Allora in particolare Lelio Basso ebbe a
stigmatizzare il comportamento della borghesia, storicamente
espressiva di una “coscienza nazionale”, che aveva abbandonato il
“vecchio esasperato nazionalismo” e assunto come sua bandiera il
“cosmopolitismo”. E che lo aveva fatto per motivi non certo
nobili: voleva resistere alla “pressione di classi che hanno
acquistato la coscienza dei propri diritti e che, non potendoli
soddisfare nel quadro delle antiquate strutture, minacciano di farle
saltare”[9].
Probabilmente
Basso non conosceva le tesi di von Hayek in materia di federazione
statale, e tuttavia le riflessioni del primo ben possono costituire
la traccia per una puntuale reazione critica alle proposte del
secondo. Il deputato socialista chiarisce che l’emancipazione delle
classi subalterne passa dalla loro capacità di togliere “alla
nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominate”,
ma non anche di abbandonarla come terreno di lotta politica. E ciò
equivale a dire che il proletariato deve acquisire
“contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza
nazionale, ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una
federazione di popoli liberi”.
La distinzione tra
cosmopolitismo e internazionalismo, speculare a quella tra
nazionalismo delle classi dominanti e sentimento nazionale delle
classi subalterne, ricorre anche nelle discussioni che hanno
accompagnato la nascita della Comunità economica europea.
La
Relazione al disegno di legge di ratifica dei Trattati di Roma aveva
fatto chiari riferimenti al senso della denazionalizzazione che la
costruzione europea avrebbe provocato: “la tecnica moderna non può
applicarsi completamente che nei grandi spazi e nei grandi mercati”,
motivo per cui gli Stati nazionali dovevano trasmettere la certezza
che la loro azione “ispirata a motivi più o meno giustificati non
può in alcun caso limitare le dimensioni del mercato”. Si sarebbe
in tal modo realizzata l’utopia neoliberale: il “diffondersi
della domanda verso i prodotti migliori ed a miglior prezzo”,
l’espansione “dell’offerta verso zone di potenziali acquirenti
oggi artificialmente tenuti esclusi dalla protezione doganale e
quantitativa”, e la dissoluzione delle “posizioni monopolistiche
createsi all’interno dei più asfittici mercati
nazionali”[10].
Proprio
la contestazione di questi automatismi ispira la reazione
dell’opposizione di allora. Il deputato comunista Giuseppe Berti li
stigmatizza, precisando che in un mercato comune incentrato sulla
libera circolazione dei fattori produttivi “la lotta di classe
all’interno può attenuare le caratteristiche più negative… ma
non può certo mutarne il carattere, poiché questo è fissato, è
irreversibile, è immutabile”. Non si potrà cioè incidere sulla
circostanza per cui il mercato comune favorirà i “grandi monopoli
industriali”, in particolare i tedeschi in quanto “grandi
beneficiari dei Trattati”, mentre impedirà “l’affermazione
delle classi lavoratrici” e comprimerà “la forza contrattuale
dei sindacati”[11].
Anche per questo occorreva ribadire, con Gian Carlo Pajetta,
l’utilità di preservare la dimensione statuale in quanto terreno
di conflitti sociali capaci di emancipare le classi subalterne:
occorreva “comprendere… quale valore grande, decisivo sia quello
dell’indipendenza nazionale”[12].
L’opposizione
all’internazionalismo delle élites viene ribadita dalla sinistra
storica anche sul finire del 1978, in occasione del varo del Sistema
monetario europeo: un sistema di limiti alla fluttuazione dei cambi
concepito come avvio di un’unione monetaria fondata sul controllo
dell’inflazione e dunque della spesa pubblica. Luigi Spaventa,
all’epoca deputato della Sinistra indipendente, non utilizza il
linguaggio dei suoi predecessori, bensì quello dell’economista
intento ad avvertire circa le dinamiche di un’area monetaria in cui
non vi sono obblighi per “i Paesi che accumulano riserve ad
adottare politiche interne più espansive”. Le conclusioni sono
però le stesse: a queste condizioni “la stabilità del cambio
viene perseguita a spese dello sviluppo dell’occupazione e del
reddito”. Il tutto provocato in particolare dalla Germania, che
vuole “evitare il danno che potrebbe derivare alle esportazioni
tedesche da ripetute rivalutazioni del solo marco, ma non accetta di
promuovere uno sviluppo più rapido della domanda
interna”[13].
Maastricht
come religione
Le cose sarebbero però cambiate
in occasione della ratifica del Trattato di Maastricht. Guido Carli,
Ministro del tesoro tra il 1989 e il 1992, era consapevole che
avrebbe condotto ad “allargare all’Europa la Costituzione
monetaria della Repubblica federale di Germania”. E lo apprezzava
proprio per questo, perché avrebbe implicato “la concezione dello
Stato minimo” e dunque un “mutamento di carattere
costituzionale”, per cui si sarebbero ristrette le libertà
politiche e riformate quelle economiche: realizzando in particolare
“una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere
delle assemblee parlamentari ed aumenti quelle dei governi”, e un
ripensamento complessivo delle “leggi con le quali si è realizzato
in Italia il cosiddetto Stato sociale”[14].
L’elogio
del vincolo esterno compare anche in occasione del dibattito
parlamentare per la ratifica del Trattato di Maastricht. Il liberale
Paolo Battistuzzi riconosce che esso impone agli Stati una “stretta
disciplina economica finanziaria”, per l’Italia “un compito
quasi sovrumano” i cui “effetti recessivi saranno particolarmente
forti”, e tuttavia lo considera un condizionamento positivo:
“quell’accordo significa rigore economico, trasparenza politica,
risanamento anche delle istituzioni”[15].
Nel dibattito non emerge invece la contrarietà della sinistra
storica alla costruzione europea, dimentica della distinzione tra
cosmopolitismo e internazionalismo rivendicata fino a qualche anno
prima.
L’allora Partito democratico della sinistra, per
bocca di Claudio Petruccioli, decide di “confermare e rafforzare la
scelta strategica dell’unità dell’Europa”, sulla quale
“convergono le ragioni della democrazia, del lavoro, della pace e
dell’internazionalismo”. E se prima si dicevano cose diverse, era
solo a causa della Guerra fredda, che impediva di riconoscere
apertamente come “l’idea di Europa” fosse “implicita non solo
nelle origini internazionaliste, ma anche nella coscienza
dell’antifascismo e della Resistenza”[16]:
una ricostruzione molto approssimativa e con il senno di poi, da cui
trae conferma la sensazione che l’europeismo di oggi costituisca il
rimpiazzo, davvero poco meditato sebbene rassicurante come solo sanno
essere le religioni, dell’internazionalismo di ieri e più in
generale della crisi delle idealità ereditate dal
passato.
Nonostante fosse evidente che l’idea di Europa
cui si riferiva Petruccioli non ha nulla a che spartire con l’Europa
di Maastricht, la bandiera dell’opposizione a quest’ultima, e nel
contempo alle chiusure nazionaliste, viene raccolta solo da
Rifondazione comunista. È Giovanni Russo Spena a soffermarsi sul
contrasto tra Costituzione italiana e Trattato di Maastricht, innanzi
tutto dal punto di vista della disposizione che ammette limitazioni
della sovranità solo se volte a promuovere, in condizioni di parità,
la pace e la giustizia tra le nazioni (art. 11). Peraltro la
costruzione europea comporta trasferimenti e non semplici limitazioni
di sovranità, il che è insito nella sua natura di organismo
sovranazionale: capace di esercitare porzioni più o meno ampie di
sovranità autonoma e concorrente con quella degli Stati. Con il
risultato che si finisce per intaccare in modo irrimediabile il
carattere unitario e non divisibile della sovranità[17].
Si
realizza cioè uno scenario molto diverso rispetto alla
partecipazione ad organismi internazionali che trovano il loro
fondamento e il loro limite nella sovranità degli Stati, e che
infatti non possono produrre regole direttamente rivolte ai loro
cittadini. E i Costituenti avevano in mente quest’ultima
situazione, giacché disposero in materia di limitazioni della
sovranità pensando alle Nazioni Unite: tipica organizzazione
internazionale la cui Carta codifica non a caso il “principio della
sovrana eguaglianza di tutti i suoi Membri” (art. 2).
Identità
nazionale
Peraltro anche nella sinistra radicale
si sarebbe in qualche modo digerita l’equazione che identifica
l’europeismo con l’internazionalismo. Con le conseguenze da cui
abbiamo preso le mosse: un dibattito paralizzante sui massimi
sistemi, proprio mentre i dati di realtà offrono spunti
incontrovertibili per rigettare l’opzione europeista.
A
questa situazione concorre probabilmente l’ambiguità dei
riferimenti all’identità nazionale in quanto vicenda screditata
dal cosmopolitismo neoliberale e dalla sua ostilità nei confronti
delle identità collettive in genere[18].
Quei riferimenti si prestano infatti ad alimentare discorsi attorno a
sedicenti tratti naturali o essenziali di una comunità nazionale
coesa, ricostruita attorno a valori non negoziabili e magari
premoderni, buoni solo a sterilizzare i conflitti prodotti dalla
modernità: a spoliticizzare il mercato e a rendere storicamente
possibile il funzionamento del capitalismo.
C’è però
un modo diverso di intendere l’identità nazionale, che discende
dall’equazione che identifica la nazione con il popolo, nel solco
di quanto ha fatto la Costituzione. E che soprattutto trae fondamento
dall’essere il popolo un concetto che ha perso il significato di
“discendenza” per assumere quello di “assemblea che decide”,
di “insieme dei cittadini” accomunati dalla condivisione di
diritti e doveri[19].
Di qui la connotazione dell’identità nazionale in termini
alternativi a quelli ricavati da ontologie di varia natura, che
rileva nella sua contingenza anche quando è relativa a
sedimentazioni storiche di lungo periodo. E che in quanto tale evita
la confusione tra nazione e nazionalismo, destinata invece a
manifestarsi nel momento in cui si passa da una concezione
volontaristica di nazione a un modo di intenderla in senso
naturalistico[20].
Più
precisamente, il riferimento all’identità nazionale rinvia alla
cittadinanza come condivisione di un “progetto comune in un
determinato territorio”, o meglio come appartenenza “a una
comunità solidale che stabilisce come distribuire la ricchezza
prodotta in quel territorio”, a prescindere dalla riconduzione al
medesimo “gruppo etnico o religioso”[21].
Con ciò evidenziando gli stessi tratti cui rinvia “l’indole di
un popolo” intesa come “l’insieme delle regole del gioco
private e pubbliche di una certa società sedimentate in secoli di
storia”[22]:
regole concernenti in ultima analisi la conduzione del conflitto
redistributivo e la possibilità di recepirne l’esito.
Se
così stanno le cose, l’identità nazionale contribuisce a
valorizzare la democrazia in quanto pratica saldamente legata alla
dimensione statuale[23]:
la dimensione del conflitto democratico, con cui collegare al
circuito della rappresentanza le decisioni di fondo sul modo di
essere dell’ordine economico, oltre che dell’ordine politico. Il
riferimento all’identità rinvia all’esistenza di una cornice
comune entro cui sviluppare il conflitto, equiparandolo a un
confronto tra avversari piuttosto che tra nemici: a un agonismo
piuttosto che a un antagonismo. Nel contempo consente però una
convivenza della “lealtà comune ai principi di libertà e
uguaglianza per tutti” con un “disaccordo sulla loro
interpretazione”[24].
Il
momento Polanyi
Se la sinistra è in crisi, come
si usa dire con un eufemismo, è anche perché si avvita attorno a
dibattiti appesantiti dalla resistenza di luoghi comuni come quelli
di cui ci siamo occupati. Se lo si riconoscesse, ci si potrebbe
finalmente concentrare sul modo corretto di interpretare la realtà,
magari a partire da quanto è stato efficacemente descritto in
termini di momento Polanyi[25].
Il
riferimento è a Karl Polanyi, il fondatore dell’antropologia
economica che decenni or sono analizzò l’avvento del fascismo come
reazione a quanto aveva caratterizzato l’Ottocento: la
dissociazione tra economica e società provocata dall’avvento dei
mercati autoregolati[26].
Le società governate dai mercati autoregolati sono infatti votate
all’autodistruzione, e per questo prima o poi reagiscono e premono
per la risocializzazione dell’economia. Questo si accompagna
necessariamente a un recupero della dimensione nazionale, che può
avvenire nel rispetto della partecipazione democratica, come accadde
con il New Deal statunitense, ma anche in un tutt’uno con
l’edificazione di un ordine autoritario o totalitario: il
fascismo.
L’epoca attuale è indubbiamente
caratterizzata dal rigetto del mercato autoregolato e dal processo di
denazionalizzazione che ha accompagnato la sua affermazione, nel
solco di quanto auspicato da von Hayek decenni or sono e incarnato
ora dall’Unione europea. Il tutto sta però avvenendo a destra,
secondo lo schema del nazionalismo economico: si sta profilando una
lotta tra Stati per la conquista dei mercati, unita allo sviluppo di
un sistema di socializzazione delle perdite e privatizzazione dei
profitti. E si stanno diffondendo valori premoderni, escludenti e non
negoziabili, buoni solo a occultare la violenza della modernità
capitalistica.
Ci sarebbe invece bisogno di una lotta
degli Stati contro i mercati, che tuttavia non prende corpo anche per
le colpe della sinistra: prigioniera degli stessi luoghi comuni che a
partire dagli anni Ottanta l’hanno trasformata in un fedele custode
dell’ortodossia neoliberale. Incapace di riconoscere che gli
attuali processi di denazionalizzazioni sono inarrestabili, che
occorre pertanto evitare di lasciare alla destra il compito di
interpretarli.
NOTE
[1] Art.
2 Regolamento 21 maggio 2013 n. 472 “sul rafforzamento della
sorveglianza economica e di bilancio degli Stati membri nella Zona
Euro che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per
quanto riguarda la loro stabilità finanziaria”.
[2]Commission
implementing decision on the activation of enhanced surveillance for
Greece dell’11 luglio 2018, C/2018/4495 fin.
[3] Specific
commitments to ensure the continuity and completion of reforms
adopted under the ESM programme (22 giugno 2018),
www.consilium.europa.eu/media/35749/z-councils-council-configurations-ecofin-eurogroup-2018-180621-specific-commitments-to-ensure-the-continuity-and-completion-of-reforms-adopted-under-the-esm-programme_2.pdf.
La vastità del piano di privatizzazioni si ricava dalla tabella di
marcia predisposta dall’Hellenic Republic Asset Development
Fund: v. da ultimo l’Asset development plan del
5 giugno 2018,
www.hradf.com/storage/files/uploads/adp-en05062018.pdf
[4] Dichiarazione
del 30 gennaio 2018,
www.lepartidegauche.fr/le-parti-de-gauche-sadresse-au-pge.
[5] U.
Satter, Französische Genossen nehmen Syriza ins Visier (1.
febbraio 2018),
https://www.neues-deutschland.de/artikel/1078183.streit-bei-der-europaeischen-linken-franzoesische-genossen-nehmen-syriza-ins-visier.html.
[6] A.
Somma, Europa a due velocità. Postpolitica dell’Unione
europea, Reggo Emilia, 2018, p. 145 ss.
[7] F.
von Hayek, The Economic Conditions of Interstate Federalism,
in 5 New Commonwealth Quarterly, 1939, p. 131
ss.
[8] C.
Formenti, La variante populista, Roma, 2016, p.
256.
[9] AC
13 luglio 1949, 10292 ss.
[10] La
Relazione è riportata in Senato della Repubblica, L’autorizzazione
alla ratifica dei Trattati di Roma, Roma, 2007, p. 12.
[11] AC
25 luglio 1957, 34736 ss.
[12] Ivi,
34518 ss.
[13] AC
12 dicembre 1978, 24892 ss.
[14] G.
Carli, Cinquant’anni di vita italiana (1993),
Roma e Bari, 1996, p. 432 ss.
[15] AC
28 ottobre 1992, 5261.
[16] Ivi,
5251 ss.
[17] A.
Guazzarotti, Sovranità e integrazione europea,
in Rivista AIC, 2017, 3, p. 8 ss.
[18] G.
Preterossi, Residui, persistenze, illusioni: il fallimento
politico del globalismo, in Scienza e politica,
2017, p. 113.
[19] A.
Tedde, Conflitto di classe e forma istituzionale
repubblicana, in Democrazia e diritto, 2016, p.
107 s.
[20] D.
Moro, La gabbia dell’Euro. Perché uscirne è
internazionalista e di sinistra, Reggio Emilia, 2018, p. 35
ss.
[21] C.
Formenti, Quelle sinistre che odiano il popolo (29
gennaio 2018),
http://temi.repubblica.it/micromega-online/quelle-sinistre-che-odiano-il-popolo-contro-lideologia-del-politicamente-corretto.
[22] S.
Cesaratto, Chi non rispetta le regole? La Germania e le
doppie morali dell’Euro, Reggio Emilia, 2018, p. 9.
[23] Ad
es. E.J. Hobsbawm, La fine dello Stato, Milano, 2007,
p. 46 s.
[24] C.
Mouffe, Il conflitto democratico (2013), Milano,
2015, pp. 25 ss. e 73 ss.
[25] S.
Cesaratto, Polanyi moment (22 settembre 2017),
http://sollevazione.blogspot.com/2016/09/polany-moment-quale-strategia-di.html.
[26] K.
Polanyi, La grande trasformazione (1944), Torino,
1974.
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