Mondializzazione e sovranismo: due strategie per mantenere in vita il sistema capitalistico?
Scrive il sociologo francese Jean-Claude Paye su Voltairenet.org che lo scontro tra i democratici e la maggioranza dei repubblicani può essere interpretato come il “conflitto tra due tendenze del capitalismo statunitense, quella portatrice dei valori della mondializzazione e quella che sprona per rilanciare lo sviluppo industriale di un paese economicamente in declino”. Questo conflitto nasce per il fatto che negli ultimi vent’anni, a causa della grave crisi della Russia e dell’arretratezza della Cina, gli Stati Uniti sono stati l’unica superpotenza, ruolo ormai messo in discussione dal risorgere e dall’avanzamento dei paesi rivali. Questo cambiamento di situazione richiede da parte degli Stati Uniti un ripensamento della strategia internazionale, se vogliono rimanere sempre al vertice, come pretende la loro classe dirigente.
La scelta adottata da Trump è quella di rilanciare il suo paese in declino, deindustrializzato a causa della libera circolazione dei capitali e della mondializzazione neoliberale (imposte e volute dalle loro transnazionali), portando avanti politiche di carattere protezionistico – come si è visto negli ultimi tempi –, mandando in frantumi le istituzioni multilaterali (per esempio, il ritiro dalla Commissione dei diritti umani), cercando di stabilire trattati bilaterali, che beneficino l’economia statunitense (come sostiene Alberto Negri); inoltre, come vari analisti scrivono, tentando di ridurre il disavanzo commerciale con la Cina e con la Germania, favorendo il ritorno dei capitali fuggiti e finanziando il rinnovamento delle infrastrutture deteriorate da anni di abbandono.
Sebbene Trump si proponesse misure più energiche, non ha potuto fare di più che beneficiare i redditi più elevati [1], tendenza inaugurata da Reagan, e agevolare il ritorno dei capitali detassati, per fare un favore alle transnazionali, che andranno ad ingrossare gli investimenti finanziari, non trovando altre possibilità di valorizzarsi.
In questo nuovo contesto cambia anche la logica della guerra, essendo diversi i mezzi per tentare di mantenere in vita il ruolo di potenza unica statunitense (obiettivo di entrambe le fazioni). Nel caso del protezionismo di Trump la guerra è utilizzata per accendere conflitti locali che possano indebolire nazioni concorrenti e ostacolare lo sviluppo di progetti globali, come la famosa via della seta fattasi sempre più concreta dopo il vertice del gruppo di Shanghai [2]. La guerra totale resta sullo sfondo ed è impiegata come arma per ottenere vantaggi all’economia statunitense, come d’altra parte viene messo in evidenza dal segretario della difesa di Trump, James Mattis, il quale ha recentemente dichiarato: “È la concorrenza tra le grandi potenze – e non il terrorismo – che ora è l’obiettivo prioritario per la sicurezza nazionale americana”.
Da parte loro, confondendo aspetto militare e aspetto economico, strategia e tattica, i democratici considerano la guerra fine a se stessa e sono disposti a portarla alle estreme conseguenze, non preoccupandosi che essa si dipani fino alla “ascesa degli estremi limiti”, che nella contemporaneità per la presenza della bomba nucleare può significare la “guerra assoluta”.
Fatte le debite contestualizzazioni, credo che questa stessa logica terrificante, scaturente dal tardo capitalismo, valga anche per l’opposizione tra l'élite europea e mondialista e i nuovi partiti sovranisti e addirittura costituzionalisti sorti un po’ ovunque in Europa. La mia analisi si limiterà alla situazione italiana.
Forse non tutti sanno o non si ricordano che lo smantellamento delle industrie di Stato italiane (IRI, SME, Telecom, ENI, ENEL, COMIT etc.) è cominciato nel giugno 1992, quando l’Unione Sovietica con i paesi ad essa legati si era già dissolta e quando il PCI si era già trasformato in Partito democratico della sinistra, da cui è scaturito quel mostro di opportunismo ipocrita e di corrotto trasformismo rappresentato dal PD ormai in evidente crisi. Più precisamente, come riportato da varie pubblicazioni, il 2 giugno 1992 sul panfilo Britannia, di proprietà della Corona inglese, si svolse al largo di Civitavecchia un incontro cruciale tra esponenti del mondo finanziario anglo-americano (Goldman Sachs, Barclays, Warburg etc.) e importanti funzionari dello Stato italiano, che poi avrebbero ricoperto cariche rilevanti nei successivi governi di destra e di “centro-sinistra” (Amato, Dini, Ciampi, Prodi, D’Alema, Berlusconi), tra i quali spiccano la figura dell’onnipotente Mario Draghi e del futuro presidente della Repubblica Ciampi.
Si dette avvio così all’operazione privatizzazioni-liberalizzazioni, ancora non completamente terminato, all’insegna dell’inefficienza del pubblico, che non fu osteggiata con vigore dai lavoratori italiani perché si sono sempre sentiti vessati da una burocrazia statale privilegiata e distante. Il risultato di questo processo è stato quello di consegnare a pochi ricchi quanto apparteneva allo Stato, determinando così la riduzione delle entrate, dei posti di lavoro e la trasformazione dei servizi (educazione, sanità, previdenza etc.) in merci. Nello stesso tempo, si sono create le condizioni con varie leggi nei diversi settori per trasformare quelli che prima erano monopoli pubblici in oligopoli e monopoli privati, provocando il fallimento di centinaia di migliaia di piccole imprese e garantendo ai nuovi padroni una rendita stabile e sicura. È in quel periodo che si sviluppano in Italia le grandi reti commerciali (i disumanizzanti centri commerciali) che fanno fallire le piccole aziende familiari dislocate sul tutto il territorio.
Ovviamente tali processi di concentrazione del capitale, di straordinario incremento della disoccupazione, di impoverimento sempre più vistoso della popolazione hanno incentivato il malessere e il malcontento che, a causa dell’inesistenza di un partito di classe in grado di elaborare un’analisi realistica e convincente della situazione, si sono indirizzati verso quelle formazioni politiche (Lega e 5 Stelle), che come Trump hanno promesso di risollevare l’Italia dal declino e al contempo di riscattarla dalla tecnocrazia europeista.
Abbiamo già potuto verificare che questo riscatto avverrà (?) ribadendo la nostra sovranità nazionale, ma senza mettere in discussione la nostra appartenenza all’Occidente e soprattutto alla NATO, anche se il nuovo governo non considera irragionevole una riapertura delle relazioni con la Russia, malvista dagli Stati Uniti per le ragioni che si dicevano prima.
Ma il richiamo al sovranismo, indistinguibile dal populismo, è assai più ampio, tanto che ci si interroga sulla possibile esistenza di un sovranismo-populismo di destra e uno di sinistra, tra i quali non è sempre facile distinguere. Ed è proprio il mondo variegato e oscuro di questo progetto politico che vorrei analizzare brevemente nelle pagine seguenti, limitandomi a tre formazioni: La lista del popolo capeggiata da Giulietto Chiesa e Antonio Ingroia, il Fronte sovranista italiano e il Movimento Roosevelt, che si definisce un meta-partito e che mira a una più moderata revisione dei Trattati europei e sostiene il governo Conte; formazioni che si dichiarano esplicitamente né di destra né di sinistra e che operano per l’attuazione della Costituzione. A ciò aggiungo però che l’euroscetticismo e certe forme di sovranismo-populismo si ritrovano in varie forme e misure anche nella cosiddetta sinistra radicale, le cui componenti non sempre hanno tra loro buoni rapporti [3]. Sinistra radicale che proprio per definirsi tale è sempre stata un’appendice dei partiti “non radicali”, senza chiarire pertanto che i comunisti sono tutt’altra cosa, da non confondere con la sinistra in tutte le sue sfumature.
Comincio col fare una prima distinzione: mentre le formazioni citate si dichiarano esplicitamente né di destra né di sinistra, i gruppi euroscettici della sinistra radicale non rinunciano alla loro matrice ideologica. Come mostra l’articolo di Lettera43 posizioni che rivendicano il ritorno alla sovranità nazionale e al blocco dei flussi migratori fioriscono anche su questo versante, generando viscerali conflitti tra coloro che si definiscono marxisti.
Quanto alla questione dell’uscita dalla NATO si osservano posizioni variegate: dalla chiara dichiarazione della Lista per il popolo per il neutralismo alla cauta posizione del FSI, che la ritiene “una proposta di nicchia e protestataria”. La posizione del Movimento Roosevelt – che si ispira alla figura di Olof Palme e dai cui, a breve, dovrebbe scaturire il Partito democratico progressista europeo – si condensa, invece, nella proposta che si possa procedere alla riforma del Trattato atlantico, implementando la comune difesa europea.
Prima di aggiungere qualche elemento sul fantomatico Movimento Roosevelt, presieduto da Gioele Magaldi, al contempo presidente della Loggia Massonica Grande Oriente Democratico, vorrei spendere due parole sulla questione migranti, che sembra monopolizzare l’attenzione del grande pubblico. Nell’ambito della sinistra radicale ci sono alcuni che si trovano d’accordo con la regolamentazione dei flussi, mettendo tra parentesi che forse il problema dovrebbe in primis essere affrontato alle radici, combattendo le guerre degli ultimi decenni e lo sfruttamento persistente delle regioni da cui si fugge [4].
Riproponendo l’ipocrita distinzione tra immigrati economici e quelli spinti dalla guerra, anche il FSI auspica uno stringente controllo delle frontiere e ritiene che agli immigrati non debba esser applicato l’articolo 4 della Costituzione, che prevede il diritto al lavoro a tutti i cittadini; non avendo i primi questa qualifica, ne sono conseguentemente esclusi e trasformati in cittadini di seconda classe.
Assai bizzarra – a me sembra – la posizione di una parte della sinistra radicale che si oppone all’apertura delle frontiere, perché a suo dire ciò potrebbe favorire le élite dei paesi poveri, che si troverebbero sollevate da un problema e dallo scontro con un eventuale oppositore, il cui arrivo in Europa provoca soltanto l’abbassamento dei salari e la perdita dei diritti (su cui incidono certamente anche altri fattori). Senza cercare appoggio in tante citazioni colte, a me sembra evidente che chi arriva qui – non certo per sua scelta – ha la straordinaria possibilità di partecipare alle lotte in loco (e d’altra parte ne conosco tanti che operano in questa direzione come il JVP dello Sri Lanka), tanto più che ciò che si verifica al centro avrà certamente ripercussioni sulla periferia, dato che facciamo parte di un sistema capillarmente mondializzato. A ciò aggiungo – come del resto è ovvio almeno dal 1848 – che solo l’unione dei lavoratori potrà cambiare effettivamente qualcosa rompendo l’accordo di massima stilato dai padroni del mondo ai loro danni. Inoltre, entrando più nello specifico, sembra che il sovranismo italiano risulterebbe utile all’attuale politica degli Stati Uniti che mirano all’indebolimento della Germania e alla frantumazione dell’Unione europea, provocando un’instabilità politica simile a quella indotta nel cosiddetto Mediterraneo allargato.
Ritornando al Movimento Roosevelt, che in passato ha appoggiato la candidatura di Luigi De Magistris a sindaco [5] e che nelle elezioni del 4 marzo ha sostenuto tre candidati (LeU, 5 Stelle, Lega), propone un’uscita concordata dall’euro e una serie di misure keynesiane che ci facciano uscire dalla crisi in cui siamo impantanati. Questo movimento, per i suoi addentellati internazionali anche massonici, mira più alla difesa del popolo europeo che di quello italiano e giunge a proporre un piano Marshall per l’Africa.
Se ha un senso ricollegare questo calderone di posizioni alle due tendenze ben delineate dell’imperialismo statunitense (come si diceva all’inizio), ciò significa che mentre il mondialismo esprime la politica delle élite cosmopolitiche e transanazionali, il sovranismo rivendica il ritorno alla sovranità nazionale, certo non realizzabile nelle forme tradizionali, a difesa dei ceti piccolo-borghesi, proletari, sottoproletari ulteriormente impoveriti, che si sono fatti convincere di far parte di un misconosciuto popolo sovrano. Per di più irrealisticamente non tiene conto che chiudere le frontiere non terrà mai fuori quei milioni di individui disposti a tutto per entrare.
Come è noto a tutti, “popolo”, base di ogni sovranismo, costituisce una nozione interclassista utile a chi ha solo un atteggiamento strumentale verso le diverse classi che lo compongono, e di cui si avvale per ascendere al potere con vane e demagogiche promesse. Nozione che unifica le diverse componenti, se si ha come orizzonte la dimensione nazionale (come è stato fatto dalla retorica bellicista); al contrario, che divide ferocemente la classe, mettendo il dito sulle differenze etniche, religiose, culturali, le quali sono tutte superabili dal fatto che i proletari sono ovunque accomunati dalla stessa collocazione sociale e che nella società attuale, come in quella passata, non c’è nessun bene comune da realizzare.
Concludendo, a mio parere “popolo” è una nozione mistica, non a caso collegata al romanticismo e sbriciolabile dall’approccio analitico, sulla base della quale i massoni Cavour, Garibaldi, Mazzini hanno dato vita a quella “rivoluzione passiva”, che è stato il Risorgimento italiano. Ciò farebbe pensare che i sovranisti in compagnia dei nuovi massoni vogliano ripetere l’esperimento: presentarsi come i veri rappresentanti democratici del “popolo” per dirigere a loro vantaggio la protesta disillusa di quest’ultimo, magari poi per accordarsi con le élite mondialiste contro cui dicono di mobilitarsi, tramite le straordinariamente abili lobby di queste ultime (come la massoneria).
Note:
[1] L’1% dei contribuenti, i più ricchi, otterranno un risparmio delle tasse di 60 miliardi dollari, identico al vantaggio che toccherà il 54% degli statunitensi che guadagnano tra 20.000 e 100.000 dollari. Da aggiungere che attualmente l’imposta sulle società ammonta solo al 9% delle imposte federali, mentre quella sui redditi costituisce il 42%.
[2] Tenutosi a Qingdao il 9 e 10 giugno scorsi e che ha avuto ben altro successo rispetto al recente G-7 canadese, a cui in futuro la Russia ha disdegnato di reincorporarsi. La Shanghai Cooperation Organization riunisce Cina, Russia, India, Pakistan, alcuni paesi dell’Asia centrale e l’Iran come osservatore.
[3] Come risulta dall’acceso dibattito sul ruolo politico degli immigrati sviluppatosi recentemente tra un esponente della Confederazione per la liberazione nazionale (sovranista), Moreno Pasquinelli, e Giorgio Cremaschi a proposito della drammatica questione dei flussi migratori.
[4] Si tenga presente che, per esempio, la Francia ha imposto alle sue ex colonie africane il pagamento di una tassa per i “benefici ricevuti”.
[5] Il quale al contempo civetta con Varoufakis e Potere al popolo.
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