giovedì 5 luglio 2018

- IL ROSSO, IL ROSA E IL VERDE. Classe, genere e natura. - Riccardo Bellofiore

Da: http://www.palermo-grad.com - il-rosso-il-rosa-e-il-verde - riccardo.bellofiore è docente di "Analisi Economica", "Economia Monetaria" e "International Monetary Economics" e "Dimensione Storica in Economia: le Teorie" presso il Dipartimento di Scienze Economiche "Hyman P. Minsky" dell'Università di Bergamo. (Economisti-di-classe-Riccardo-Bellofiore-Giovanna-Vertova
Vedi anche: https://ilcomunista23.blogspot.com/2018/05/economia-per-i-cittadini-riccardo.html 

      Qui il video dell'incontro: https://www.facebook.com/418633548290438/videos/1057843317702788/

Le idee contenute in questo contributo sono state presentate a Roma, il 27-28 febbraio 1988 al seminario “Emergenza ambientale, crisi delle politiche, movimenti”; esse hanno anche costituito l’oggetto di una discussione svoltasi a Torino nella sede del C.r.i.c.. Solo la cortese insistenza dei compagni di Roma e di Torino mi spinge a mettere per iscritto delle riflessioni che sento ancora insufficienti; ma gioca anche un po’ la convinzione che vada superata una situazione come quella italiana attuale in cui il rapporto tra marxismo, femminismo e pensiero verde è per lo più di indifferenza, di ostilità o al meglio di ossequio di maniera. Ringrazio Stefano Alberione, Maria Teresa Fenoglio, Roberto Finelli e Mimmo Porcaro per i commenti, i consensi e i dissensi. A Marco Revelli sono debitore di un ringraziamento particolare: le discussioni sulle questioni qui trattate sono state così tante, e l’impressione di porsi spesso interrogativi comuni è stata tale, che mi è difficile distinguere ciò che è mio e ciò che è suo nelle opinioni che avanzo, e facendolo rischierei di attribuirgli opinioni che non condivide ed è bene rimangano di mia responsabilità. 

Considerazioni inattuali su centralità operaia e nuovi movimenti 

"​Il rapporto dell’uomo alla donna è il più naturale rapporto dell’uomo all’uomo. In esso si mostra, dunque, fino a che punto il comportamento naturale dell’uomo è divenuto umano, ossia fino a che punto la sua umana essenza gli è diventata esistenza naturale, fino a che punto la sua umana natura gli è diventata naturale. In questo rapporto si mostra anche fino a che punto il bisogno dell’uomo è divenuto umano bisogno; fino a che punto, dunque, l’altro uomo come uomo è divenuto un bisogno per l’uomo, e fino a che punto l’uomo, nella sua esistenza la più individuale, è ad un tempo comunità."  
(Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere filosofiche giovanili, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 225. Corsivi nel testo) 

"Don’t you know 
They’re talkin’ about a revolution
It sounds like a whisper"
(Tracy Chapman,Talkin’ bout a revolution
                                                                                           Introduzione

Nell’ultimo decennio vi è stata una sostanziale disattenzione, quando non inimicizia, tra quel che rimaneva del marxismo critico e le culture femminista ed ambientalista. Nelle pagine che seguono vorrei provare, dal mio punto di vista, ad interrompere questa sorta di reciproco disinteresse, nel modo forse più scomodo: entrando nel merito del pensiero rosa e del pensiero verde, presentandone un inizio di critica, e ciononostante accettando la sfida lanciata dal femminismo e dai verdi: convinto, come sono, che gli attacchi portati in questi anni dai cosiddetti nuovi movimenti alla cultura della sinistra, vecchia e nuova, siano spesso tutt’altro che infondati. I lettori (e le lettrici) giudicheranno se il tentativo sia troppo coraggioso o troppo ingenuo.

Anticipo subito, per chiarezza, il punto di vista da cui parto ed il filo del ragionamento. Il mio discorso si regge su due convinzioni: che non siano esaurite tutte le potenzialità della rilettura ‘operaista’ del marxismo che ha permeato parte della nuova sinistra italiana (e dunque anche chi, come me, ha mosso i primi passi politici nel “manifesto”); e che non vi sia contraddizione ma rapporto fecondo tra ‘questo’ marxismo e la rottura operata dal sessantotto. Sono però anche convinto che ciò che c’è di positivo in questa recente tradizione possa vivere solo se essa esercita su se stessa una pesante riflessione autocritica.

Nella mia riflessione tenterò di impiegare le nozioni di uguaglianza, di democrazia e di libertà come una cartina di tornasole, o se volete come una sorta di controllo di qualità, del potenziale emancipativo tanto dei movimenti che si rifanno alla classe operaia quanto dei cosiddetti nuovi movimenti, e dunque anche di quelle riflessioni che vogliono far capo alle cosiddette nuove soggettività. La tesi centrale del mio ragionamento è che tanto dentro il pensiero femminista quanto dentro il pensiero verde sono presenti non poche, e preoccupanti, ambiguità: si incontrano spesso argomentazioni che recuperano il valore delle differenze fuori o contro l’eguaglianza; ed è possibile individuare dentro l’uno e l’altro tendenze antiegualitarie e, forse, persino antidemocratiche. Non può essere nascosto, in altri termini, un potenziale esito conservatore e reazionario delle cultura della differenza sessuale e dell’emergenza ambientale. 

D’altro canto, femminismo e ambientalismo pongono problemi reali, su cui è grave il sottosviluppo della riflessione della sinistra: mi riferisco, in particolare, alla questione della articolazione di eguaglianza e differenze, ai pericoli della rottura dell’equilibrio ambientale, alla messa in discussione della centralità della produzione. Se dunque non è possibile limitarsi a cercare altrove, fuori dalla produzione, altre identità antagoniste, irrelate alla questione operaia – come è ormai di moda fare – va anche detto che il ritardo del marxismo critico (non solo, dunque, quello del marxismo e del movimento operaio tradizionali) non può essere semplicisticamente superato inglobando i problemi della liberazione della donna e dell’equilibrio uomo-natura dentro la classica contraddizione capitale-lavoro vista come esaustiva, riaffermando la centralità della produzione – come per esempio ha fatto nel numero scorso di questi “Quaderni” Mimmo Porcaro, ed in varie sedi Costanzo Preve.

Così, Porcaro scrive che il movimento delle donne “difficilmente trae tutte le conseguenze dal semplice fatto che le mansioni lavorative maggiormente subordinate siano spesso assegnate alla forza-lavoro femminile: un vero processo di liberazione ha come componente decisiva la critica teorica e pratica di un modo di produzione che, dovendo inserire gli individui in funzioni lavorative gerarchizzate, si appoggia su altre gerarchie presenti nella società, ne impedisce il superamento, ed anzi le riproduce e le rende funzionali al proprio movimento” (Una gelida utopia, in “Quaderni del Cric”, n.2, p.30): il che è probabilmente vero (anche se personalmente sostituirei quel ‘decisiva’ con ‘necessaria anche se non sufficiente’), ma, come chiarirò nei prossimi paragrafi, dà una rappresentazione, ed anche una critica, riduttiva del femminismo, e dunque non ne coglie la possibile ed autonoma convergenza con la critica dell’economia politica per un superamento del paradigma della produzione. Ed ancora, sempre nel numero scorso, Preve lamenta come una sciagura la prevalenza nella cultura della nuova sinistra del femminismo differenzialistico e della critica della politica, “che hanno fatto ‘saltare’ il valore portante della idea di eguaglianza” (Soffia ancora il vento dell’Est?, ivi, p. 51): idea che però deve essere ben povera se i suoi sostenitori si rivelano capaci solo di anatemi e non anche di trasformazione – se cioè l’eguaglianza è ‘saltata’ come valore portante, ciò è avvenuto anche perché è apparsa obiettivo contrapposto allo, e non arricchita dallo, sviluppo delle differenze.

Una nuova eguaglianza 

Comincerò proprio dalla questione della relazione tra eguaglianza e differenze, prendendola un po’ alla lontana: partendo cioè dal sessantotto. La ragione è in parte occasionale, e me ne scuso: l’eco del ventennale è probabilmente troppo forte per sfuggirne. Ma vi è anche una ragione di contenuto, ed è che sono convinto che allora si propose, sia pure in embrione ma con estrema chiarezza, una nuova nozione di eguaglianza, e che solo a partire da essa è possibile capire gli avvenimenti seguenti, e gli avanzamenti e le impasse successivi.

Questa tesi è stata già sostenuta, con argomentazioni che condivido in larga parte, da Marco Revelli in un recente articolo su “Rinascita”. Nel sessantotto, scrive Revelli, si afferma una nozione di eguaglianza che è diversa tanto dalla eguaglianza formale, l’eguaglianza dei diritti, e dunque dei punti di partenza e delle opportunità, tipica del pensiero liberaldemocratico, quanto dalla eguaglianza sostanziale, livellatrice, uniformante del modello vetero-comunista, e dunque dei punti di arrivo e del trattamento (Il discorso sull’eguaglianza, in Per capire il’68, “Il Contemporaneo”, supplemento a “Rinascita”, n.9, 12/3/1988). Aggiungerei, come corollario a questo discorso di Revelli, la considerazione che la nozione di eguaglianza che si afferma come valore cardine del ’68 è anche diversa dall’idea che l’eguaglianza sia il portato di processi di massificazione o, per usare un concetto meno connotato con echi di destra, di omogeneizzazione reale (materiale) dei soggetti. Una tesi, questa, che ha avuto versioni secondo e terzo-internazionaliste (lo sviluppo delle forze produttive e il generalizzarsi della figura operaia), ma ha anche possibili, e certo più interessanti, versioni nel marxismo critico di questi anni: come in quegli autori che si pongono il compito teorico-pratico di individuare come perno della composizione di classe un settore la cui attività sia ‘materialmente’ omogenea (a questo portati da una interpretazione del lavoro astratto come eguagliamento materiale dei lavori che ne annulla la dimensione concreta, interpretazione che reputo scorretta per ragioni che ho esposto altrove). Un esempio di questa posizione è nei lavori recenti di Roberto Finelli.

Quale è allora questa nuova nozione di eguaglianza che si impone nel sessantotto, e ne diviene il valore cardine? Si tratta del riconoscimento di una pari dignità dei soggetti, pari dignità che è invece negata realmente da un processo sociale che è profondamente disegualitario: “questo nuovo concetto di eguaglianza, come pari diritto di ognuno alla propria autonomia e indipendenza personale – come libertà, quindi – è incompatibile, contrariamente al concetto formale di eguaglianza, con ogni gerarchia, ma non – contrariamente al concetto sostantivo, veterocomunista – con la differenza” (ivi). L’eguaglianza è perciò pari dignità dei diversi: essa però, possiamo aggiungere, non viene vista dal sessantotto come data nel processo sociale, ma è una eguaglianza tutta da produrre, rompendo le diseguaglianze di potere e di sapere che realmente instaurano e riproducono gerarchie ed eteronomia. Se dunque, per un verso, questa nozione di eguaglianza, lungi dall’essere negatrice delle differenze, dà loro spazio affinché si manifestino, e nel loro proliferare e riconoscersi pari dignità trova la sua realizzazione, per l’altro verso essa si propone come critica e negazione tanto dell’eguaglianza intesa come massificazione e conformismo quanto della differenza intesa come gerarchia e come destino imposto e non scelto.

A conferma di quanto appena detto si può rilevare che lo stesso intersecarsi di diversi movimenti (studenti, donne, neri, per non citare che i più ovvi) dentro il ’68, questa pratica sincronia dell’asincronico – per usare l’immagine blochiana – è una delle caratteristiche più ‘visibili’ del sessantotto, come ci ricorda anche Peppino Ortoleva nel suo bel libro pubblicato dagli Editori Riuniti (Saggio sui movimenti del 1968 in Europa e in America, Roma 1988): “si trattò di una di quelle grandi, e rare, crisi sociali il cui elemento caratterizzante è il coincidere, il simultaneo venire ad un punto di svolta, di processi di trasformazione sociale differenti” (p. 15). Ad accomunare i diversi movimenti è una visione del meccanismo sociale come sistema astratto che generalizza l’oppressione – se si vuole, dalla fabbrica alla società. La lotta è insubordinazione di ognuno, ‘a partire da sé’, nei confronti di una società che tratta le particolarità come indifferenti (senza per questo tornare ad una visione da antico regime in cui il riconoscimento delle differenze è la giustificazione di un ordinamento gerarchico). In ciò, dunque, il sessantotto si costituisce come critica dall’interno della modernità: dentro e contro.

Ad essere comune alle diverse insubordinazioni è, cioè, il mettere in questione ovunque l’eteronomia. Quello che però mi pare vada sottolineato – e che sfugge invece a Revelli nell’articolo citato, in cui descrive il sessantotto come “un’uscita in massa (dalla città dei diritti formali. NdR). Una grande secessione attraverso cui costituire una nuova città: la città degli ultimi, degli sfavoriti, dei sofferenti e degli oppressi” (ivi) – è che nei momenti più alti dell’autocoscienza teorica del sessantotto (si pensi, per fare un nome, ad Hans Jurgen Krahl) la lotta all’eteronomia, il partire da sé, l’essere dentro e contro, sono inseriti in una analisi della ‘totalità’ capitalistica. Contro cui si lotta, ma cui non si può non riconoscere sul piano conoscitivo e reale (di una realtà che si vuole rovesciare) un primato. Affermare la propria autonomia è mettere in crisi il sistema presente, non separarsene. La possibilità sperata dell’uscita in massa dalla comunità sociale per costituire un’altra comunità, di cui parla Revelli, non è una possibilità concreta: semmai, quando i movimenti prenderanno questa via, negando l’universalismo del momento iniziale – quando cioè ognuno andrà per conto proprio – ciò sarà effetto (e in parte causa) della fine del sessantotto, della sconfitta dei movimenti, a duro rammento dell’illusorietà di quella prospettiva: e così come la musica rock aveva anticipato e accompagnato i movimenti del 1968, così ne fotografa tempestivamente la crisi – per citare solo uno dei molti possibili esempi, passa solo un anno tra il militante Volunteers of America (1969) dei Jefferson Airplane, che si apre con un battagliero “We can be together”, e il successivo Blows against the Empire (1970) dei Jefferson Starship, che della fuga nello spazio fa il proprio tema (Earth getting too thick. Move on out to the cool & the dark).
 
 
Operai al centro
 
La fine del ‘sessantotto’ in realtà è databile in anni diversi da luogo a luogo: in Italia, per esempio, l’onda del sessantotto durò poco meno di un decennio. Sostenere che in Italia il sessantotto va molto al di là di quanto indichi l’anno solare è ovviamente posizione controversa, ed in una certa misura minoritaria, almeno da qualche tempo in qua. È difatti diffusa l’opinione secondo cui il sessantotto, antiautoritario e movimentista, sarebbe poi stato sopraffatto e soffocato da un sessantanove operaista e dallo sciagurato politicismo degli anni Settanta, dei gruppi prima e del terrorismo poi. Non è dunque scontato che esista un legame tra il sessantotto e ciò che viene dopo. Questo legame c’è, comunque, a mio parere, e sta proprio nel fatto che nelle lotte operaie del ciclo ’69-’73 al centro è ancora il tema dell’eguaglianza, e nel fatto che è comune al movimento degli studenti ed all’autunno caldo la rivendicazione dell’autonomia e dell’autodeterminazione.

Lungo tutti gli anni Sessanta si era andata preparando la svolta nei rapporti di forza tra capitale e lavoro che si realizza a fine decennio: svolta che ha il suo elemento principale nell’autonomia del valore di scambio e del valore d’uso della forza-lavoro dalle esigenze cicliche del capitale. Il conflitto operaio non si limita alle classiche lotte distributive ma diviene in primo luogo lotta allo sfruttamento: le lotte sul salario vengono affiancate da lotte sulla produttività, le lotte sull’orario dalle lotte sulla gerarchia nel processo di lavoro. All’interno di una base tecnico-organizzativa taylorista-fordista ormai matura – con la sua riduzione della prestazione lavorativa a erogazione continua, di cui è trasparente il nesso con il prodotto e con le relazioni di potere dentro la fabbrica – le lotte dell’operaio massa si concentrano sull’organizzazione e sul tempo di lavoro: lotte, dunque, che mettono immediatamente in questione l’ottenimento da parte del capitale di un pluslavoro, e più in generale minano la base del potere padronale, il controllo stesso della prestazione lavorativa.

Se le lotte di quegli anni non possono essere semplicisticamente viste come lotte per l’ottenimento di più valori d’uso, di più merci, di maggiore consumo reale (che sarà comunque una conseguenza del maggior peso politico, nella fabbrica e nella società, degli operai), ciò non significa che in esse la dimensione del valore d’uso sia irrilevante. Le lotte di quegli anni sono, anzi, proprio lotte sul valore d’uso della forza-lavoro. Si riscopre allora, praticamente, quello che è il cuore della teoria marxiana del valore-lavoro (ed è questa scoperta a consentire di rileggere in modo nuovo Marx): la valorizzazione del capitale è un processo la cui riuscita richiede come condizione necessaria, anche se non sufficiente, che il capitale riesca a mantenere la forza-lavoro nel suo ruolo di parte del capitale, di variabile dipendente dell’accumulazione, impedendole il movimento inverso, di farsi tutto da semplice parte, variabile autonoma da variabile dipendente, classe operaia da forza-lavoro. È questo capovolgimento che ha luogo dopo il sessantotto, e si esprime, appunto, nell’indipendenza dei movimenti della composizione di classe dalle esigenze cicliche dell’accumulazione, nel veto operaio all’estrazione di pluslavoro, nella messa in discussione dell’ordine capitalistico, dalla fabbrica alla società.

Vale la pena di insistere su quanto appena detto, perché proprio in ciò che è il punto più essenziale, e che dovrebbe anche essere (ma non è) il più scontato, del pensiero di Marx, proprio lì è forse possibile incontrare, insieme al noto, l’ignoto: individuare cioè intersezioni con i temi del sessantotto, e perciò anche possibili nuove letture di ciò che altrimenti potrebbe apparire tradizionale. Come sempre nel capitalismo, il capitale ha bisogno di trovare dentro all’immane raccolta di merci una merce particolare, dal cui acquisto possa venire un di più di valore. Questa merce è la forza-lavoro, il cui valore d’uso è il lavoro vivo, la sostanza del valore, che dunque può eccedere il lavoro contenuto nel suo valore di scambio, nelle merci che vanno a costituire i beni salario. La particolarità di questa merce sta però anche nel fatto che il valore d’uso della forza-lavoro non è separabile dall’operaio come individuo concreto. Il capitale, perciò, per ottenere lavoro e pluslavoro deve incidere sulla vita reale dell’operaio in quanto persona, deve sfruttarlo in quanto corpo, in quanto essere naturale. Nelle lotte dell’operaio massa il fatto che il conflitto si svolga immediatamente sul potere capitalistico di disposizione del tempo rende questo carattere generale del capitalismo cruciale nel definire le forme stesse dell’antagonismo: la lotta tra operai e capitale si manifesta come lotta dell’uomo concreto (nelle diverse stratificazioni di culture interne alla composizione politica di classe) contro il meccanismo impersonale della valorizzazione capitalistica.

Riemerge qui un tema che abbiamo visto essere tipico del sessantotto ‘studentesco’, e si anticipa in un certo senso una tematica ecologista (ci tornerò più avanti): basti pensare alle lotte per la salute, e dentro la fabbrica alla parola d’ordine – tutt’altro che scontata, come mostra la storia prima e dopo di allora – ‘la salute non si vende’. È presente anche, del sessantotto, la tensione tra eguaglianza e differenze: l’egualitarismo di quegli anni si accompagna difatti non alla negazione delle diverse culture presenti con diverso peso nella composizione della classe operaia di allora – dall’operaio di mestiere all’operaio massa, dall’etica del lavoro al rifiuto del lavoro – ma al loro comunicare e riconoscersi pari dignità ed efficacia, nel rifiuto di un meccanismo omologante. Il limite, semmai, sta nel fatto che la valorizzazione delle differenze interne alla classe ed il superamento di una nozione di eguaglianza come portato materiale e ineluttabile della tecnica e del ‘progresso’ è possibile solo nella comune negazione del comando capitalistico: continua a dipendere, in questo senso, da ciò che si nega; non è, in altri termini, un valore autonomo. È questa, come vedremo, una delle ragioni dell’instabilità e della debolezza del compromesso tra eguaglianza e differenze nella cultura operaia di allora.

Se questi sono alcuni dei caratteri di quel ciclo di lotte, si può dire a ragione che esse erano anche lotte contro il primato della produzione. Vi è, da un lato, la scoperta del potere di veto che gli operai possono esprimere come classe interrompendo la valorizzazione e mettendo temporaneamente in crisi l’accumulazione: per questa via, certamente, si riafferma la base materialistica e rivoluzionaria del cambiamento. La centralità operaia, in questa accezione, è dovuta alla centralità della valorizzazione nella società capitalistica, ed alla centralità del lavoro nell’accumulazione. La centralità che gli operai rivendicano è, in altri termini, nient’altro che la centralità delle lotte operaie nella messa in crisi di una data forma dell’accumulazione e, dunque, della società capitalistica. Ma, dall’altro lato, le forme che assumono tali lotte (nesso eguaglianza-differenze, autonomia dei movimenti della composizione di classe, primato dei bisogni concreti degli operai contro il meccanismo astratto della valorizzazione) costituiscono una critica pratica di straordinaria violenza alla tesi del primato delle ragioni dell’economia su quella delle altre sfere della connessione sociale – primato che in effetti Marx riconosceva reale, ma come carattere che si afferma solo con il capitalismo, e di cui appunto la sua teoria vuole dare una critica teorica. Per quanto paradossale ciò possa apparire, le lotte operaie di quegli anni, proprio per la loro (diciamo pure quella che oggi viene quasi universalmente considerata una brutta parola) ‘oggettiva’ radicalità anticapitalistica, sono lotte contro un meccanismo produttivo e sociale che in un certo senso è la loro condizione di vita. Anche qui Marx si rivela più moderno di quanto sia d’uso ritenere, quando scrive “Se vince, il proletariato non diventa il lato assoluto della società; infatti esso vince solo togliendo se stesso e il suo opposto”(La sacra famiglia, Editori Riuniti, Roma 1972, p.37).
 
 
Altri tempi
 
La centralità operaia è stata oggetto, soprattutto dalla metà degli anni Settanta, di attacchi da più parti. L’attacco più efficace è stato, senza dubbio, quello del capitale: riaffermando la centralità della produzione contro la centralità operaia, riducendo nuovamente gli operai da classe operaia antagonista a forza-lavoro frammentata e dispersa, ha rimosso l’ostacolo principale alla sua valorizzazione, e alla sua egemonia. Riprendendo subito dopo a dividersi, come sempre, in frazioni antagoniste, per spartirsi il bottino dello sfruttamento.


Ma la centralità operaia è stata anche oggetto di attacco da parte di molte delle riflessioni emerse dai ‘nuovi movimenti’, in particolare quella femminista e quella verde. L’imputazione, schematicamente, è quella secondo cui la centralità operaia comporterebbe una ideologia dell’‘uomo produttore’. In quanto predicata su una generica, non sessuata, nozione di ‘uomo’, tale ideologia altro non sarebbe che una falsa universalizzazione, che attribuisce un indebito primato nell’agire umano alla dimensione del lavoro e della produzione di beni, cioè ad una dimensione che storicamente è stata solo o prevalentemente maschile. Di conseguenza, si sostiene, si finisce con l’attribuire ad entrambi i sessi ciò che è proprio solo di uno di essi, e con il negare valore ad altre sfere dell’attività umana come quella della riproduzione, storicamente delegata al genere femminile.

Inoltre, in quanto ideologia dell’uomo ‘produttore’, tale posizione sarebbe solidale rispetto ad un atteggiamento di dominio illimitato dell’uomo sulla natura, con tutte le conseguenze distruttive dell’equilibrio ambientale che abbiamo tragicamente sotto gli occhi. Di fronte a chi, a partire da una prospettiva marxista, replica sostenendo che è il capitale oggi la leva principale della discriminazione sessuale e della distruzione della natura, la risposta è quella secondo cui è semmai il capitale ad essere un momento di una vicenda, tutta maschile, di dominio sul diverso da sé; la lotta anticapitalistica non ha dunque ragione di pretendere una qualsiasi centralità, dal momento che l’abolizione dello sfruttamento di classe non comporterebbe né la fine del conflitto di genere né l’uscita dal produttivismo e dall’industrialismo.

Per mio conto, ho in parte anticipato di non condividere una visione che imputa ai movimenti nati nel sessantotto, alle lotte dell’operaio massa, o al marxismo (ad un certo marxismo, e ad un certo operaismo) una negazione delle differenze o una affermazione di un primato della produzione in quanto tale. E ho anche fatto capire in che senso, limitato ma potente, mi pare che una centralità operaia vada ristabilita (centralità di un’altra composizione di classe, in un diverso modo dell’accumulazione): allo scopo, precisamente, di far marciare su gambe reali la lotta alla centralità della produzione. Mi pare però che un nodo vero venga colto dalle critiche femministe e verdi alla nozione di centralità operaia come era pensata all’interno della sinistra classista: si tratta della metamorfosi, che effettivamente ha avuto luogo nella seconda metà degli anni Settanta, della centralità che potremmo chiamare ‘sociale’ degli operai in una nozione di centralità ‘politica’ nel movimento anticapitalistico; questa metamorfosi, dal mio punto di vista non ineluttabile ma di cui è il caso di chiedersi perché sia avvenuta, ha implicato un offuscamento prima ed una subordinazione dopo del ruolo degli altri soggetti. Il conflitto operaio, che dalla fabbrica si era esteso alla società, si concentrò nuovamente nella fabbrica, e da lì non fu più in grado di uscire.

La storia della divaricazione tra operai e nuovi movimenti, nella seconda metà degli anni Settanta, può essere sintetizzata in un doppio processo. Un versante ne è ampiamente noto: quello di cui, appunto, è paradigmatico il femminismo post ’75, con le differenze che si affermano fuori e contro l’eguaglianza, rivendicando l’autonomia dei propri tempi da quelli degli operai, ed in genere dagli altri soggetti sociali: una autonomia che diviene presto totale separazione. Abbiamo qui un’altra versione del tentativo – comprensibile, ma a mio parere profondamente contraddittorio – di fondare un’altra, diversa, comunità. Il versante meno noto, almeno all’interno della cultura di cui faccio parte, è quello che rivela la faccia negativa, in qualche misura dispotica e fragile al tempo stesso, della centralità politica degli operai così testardamente proclamata, e altrettanto vivacemente contestata, in quegli anni. Una classe operaia forte era riuscita a bloccare la valorizzazione tra il ’69 e il ’73. Vi aveva fatto seguito uno stallo nei rapporti di forza tra le classi, che il Partito e il Sindacato utilizzavano sul mercato politico per ottenere potere in cambio della loro compartecipazione alla destrutturazione dei luoghi di forza operai. Nella seconda metà degli anni Settanta abbiamo così una classe operaia che si ritiene illusoriamente forte dentro la fabbrica, ma si sa in trincea e misura il proprio isolamento nei confronti della società. Non vede che il ‘progresso’ tecnologico, la rivoluzione del capitale fisso, svuota i presupposti della rigidità nell’uso della forza-lavoro degli anni precedenti, e prepara la flessibilizzazione del capitale negli anni Ottanta. Quella classe operaia legge anzi l’innovazione nei processi produttivi come una propria conquista: o vaneggiando un controllo degli investimenti, o credendo irreversibile l’aumento del tempo libero in fabbrica.

Esemplare a questo proposito la vicenda della Fiat. Nella seconda metà degli anni Settanta quasi nessuno si rese conto di ciò che avveniva nella grande fabbrica torinese. Si era di fronte ad una  circostanza del tutto peculiare ed eccezionale, al fatto cioè che la riduzione del tempo di lavoro socialmente necessario frutto dei mutamenti tecnologici aveva luogo in una situazione sociale in cui la classe operaia era ancora in grado di impedire che aumenti della forza produttiva del lavoro o riduzioni della domanda si traducessero in disoccupazione. Si trattava cioè della conseguenza del permanere di una rigidità nel mercato e nel processo di lavoro: ma era proprio quella rigidità ad essere erosa dalla rivoluzione dall’alto del capitale, che prima aggirava e poi attaccava i punti di forza del controllo operaio sul ciclo produttivo. Quando ciò si verificò – quando cioè la flessibilità del nuovo sistema di macchine consentì al capitale di rendere nuovamente flessibile il mercato del lavoro e la prestazione lavorativa, espellendo gli operai dalla grande fabbrica e aumentando vertiginosamente la produttività per addetto – quel ‘tempo libero’ in fabbrica diverrà tempo vuoto fuori dalla fabbrica. Realtà dei fatti, questa, su cui l’unico che negli ultimi anni ha avuto parole chiare, e del tutto condivisibili, è stato Cesare Romiti.

Una classe operaia che sente fragile la propria forza e che sperimenta un isolamento crescente è lo sfondo che vede molte avanguardie proporsi come centro del soggetto collettivo più ampio rivendicando un primato sugli altri soggetti sociali. In questo modo, però, finisce con l’andare perso quello che mi pare uno degli elementi più originali del ciclo di lotte dell’operaio-massa: l’essere insieme lotte ‘dentro’ e lotte ‘contro’ il capitale; il realizzare una critica pratica dell’economia politica; l’affermare, insomma, la centralità operaia solo in quanto critica della centralità dell’economico tipica del capitalismo.

La forza delle lotte dell’operaio massa si rivela al tempo stesso come il suo limite. Proprio in quanto vincente, quella classe operaia aveva finito con il mettere in questione anche la propria centralità nel soggetto anticapitalistico: lì, nel punto più alto del proprio percorso, si era rivelata priva di una capacità autonoma di prefigurare nuove forme di organizzazione sociale e nuovi valori, a partire dalla compresenza e dalla comunicazione di diversi linguaggi e di diverse ragioni: più per la novità e la radicalità della posta, dunque, che per l’essere il conflitto operaio conflitto di tipo tradizionale, come invece suggerisce la critica femminista e verde. Lotta (operaia) al capitale come dominio dell’astratto e (dentro e oltre quella lotta) sviluppo e arricchimento delle differenze concrete si separano: come conseguenza anche di questa frattura, gli operai saranno ridotti nuovamente a forza-lavoro, a parte del capitale, e si faranno a volte (e senza contropartita) solidali con le ragioni della produzione per la produzione, cui è legata la loro condizione.
 
 
Critica del femminismo
 
Il femminismo italiano della seconda metà degli anni Settanta è un femminismo caratterizzato dalla estraneità rispetto al conflitto di classe; è, più in generale, un femminismo che proclama di essere indifferente, quando non ostile, all’idea di eguaglianza. Si è appena detto che questo movimento di separazione e allontanamento dalla sinistra operaia ha cause reali, trova giustificazione in limiti precisi della cultura marxista e operaista anche più avvertita. Ciò non toglie che si tratti di un arretramento, e che sia opportuno sviluppare una critica di molte delle forme che questo femminismo, quello dell’ultimo decennio, ha preso.

Vi sono, certamente, delle posizioni femministe che accentuano la fondazione biologica della differenza sessuale: il passo verso l’affermazione della differenza come diseguaglianza naturale ed originaria è qui breve, e pericoloso. Si tratta però di posizioni poco interessanti, anche perché poco rilevanti: sarebbe un errore ridurre il nuovo femminismo a ciò. Più interessanti sono le posizioni che riconducono il femminismo alla differenza di ‘genere’, cioè ad una differenza tra maschile e femminile che trova origine in un impasto di natura e cultura, in cui il secondo termine ha la prevalenza sul primo, gli dà forma. All’interno di questo modo di impostare la questione, tanto la ricerca quanto il movimento delle donne hanno avuto certamente il merito di dare peso, scientifico e politico, a temi non a caso a lungo disattesi dalla ricerca ‘maschile’: dalla maternità al lavoro domestico; dalla finta neutralità asessuata del linguaggio alla tutt’altro che ‘naturale’ formazione psicologica delle personalità maschile e femminile; dalla critica del prometeismo della scienza e della tecnica attuali alla accettazione della logica del rischio come costo del progresso tecnico. E si potrebbe continuare.

La ricchezza delle scoperte è stata però ingabbiata in due atteggiamenti antitetici, ambedue inaccettabili. Il primo consiste nel dare veste postmoderna al pensiero della differenza: si accetta la dissoluzione dell’unità sociale in frammenti non solo diversi ma incomunicanti come un fatto positivo, e che anzi non può non riprodursi all’infinito nello stesso movimento delle donne, dando luogo ad un benefico proliferare delle differenze (plurali). Quanto meno esse si toccheranno, quanto più contraddittorie esse saranno, tanto più ricco si rivelerà il movimento delle donne. In questa posizione l’ambiguità iniziale del femminismo della differenza – che nel porre l’accento sull’identità sostantiva femminile si dichiara indifferente all’affermazione di una eguaglianza tra gli individui, la quale effettivamente comporta un processo di astrazione dalle differenze, l’accettare che per certi aspetti e per convenzione non si tenga conto di ciò che rende diversi – sfocia in una sorta di programmatica e rivendicata irrilevanza: solo la convinzione che punti di vista diversi conducano a vivere realmente in mondi diversi può difatti rendere irragionevole giungere ad un progetto comune, può trasformare l’incoerenza da limite in ricchezza.

Ciò che totalmente sfugge a questo punto di vista è il fatto che la pluralità irrelata dei soggetti sociali non è che l’altra faccia del medesimo processo di ristrutturazione sociale ed economica di cui ho parlato prima: la ‘debolezza’ delle pretese, conoscitive e trasformative, dei nuovi soggetti, che segnerebbe in modo ‘femminile’ gli anni recenti, è il risultato di un potere sistemico capillarmente diffuso e invisibile, ma proprio per questo ‘fortissimo’, ed in questo senso ‘maschile’. Mi pare, per esempio, significativo che il movimento delle donne dopo Chernobil si sia trovato diviso tra posizioni che si limitavano a dichiarare una estraneità rispetto al mondo degli uomini, e posizioni che invece mettevano i piedi nel piatto di una critica globale al sistema scientifico, industriale e militare: percorrere la seconda strada porterebbe probabilmente lontano da un pluralismo in cui tutto va bene perché nulla conta.

Il secondo atteggiamento che ha egemonizzato la discussione femminista negli ultimi due anni è bene rappresentato dalle posizioni dominanti nella Libreria delle Donne di Milano e nel gruppo di filosofe di Diotima (rispettivamente Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier, Torino 1987, e Il pensiero della differenza sessuale, La Tartaruga, Milano 1987): tale atteggiamento può essere definito, in opposizione al primo, come premoderno. Al contrario che nella posizione precedente, abbiamo qui una critica del pluralismo e del pensiero debole, e la proposizione di un pensiero forte della differenza sessuale, che non annega la differenza di genere nelle altre differenze. Qui il richiamo all’identità si fa però talmente forte da cadere in un essenzialismo dai tratti hegeliani: è l’essere donna, esperito come un fatto, a dover trovare una significazione, ed in ciò sta il compito principale attribuito oggi al movimento delle donne, nella costruzione separata di un linguaggio, di un pensiero, di una cultura, persino di un immaginario femminili – il ‘persino’, va chiarito, è dovuto al fatto che questo obiettivo appare essere proposto come obiettivo attuale, con un ottimismo idealistico per certi versi invidiabile. L’essere differenti tra donne potrà prendere senso solo una volta dato significato a questa comune origine, a questo comune essere donne. Questo ‘fatto’, l’essere donne, assunto aprioristicamente (e irrazionalmente) come fondamento di unità, si sviluppa in un separatismo che non è più momento di individuazione per riconoscersi ed andare poi all’incontro con l’altro, ma che diviene anzi progetto strategico. 

L’affermazione – che condivido – secondo cui la duplicità di genere dà luogo a punti di vista differenti si prolunga nella tesi, che mi pare invece inaccettabile, secondo cui non avrebbe senso l’universalismo (l’affermazione della presenza di caratteri comuni ai generi: caratteri certo sempre da costruire, e sempre transitori, ma nondimeno tali da poter parlare, appunto, di ‘un’ genere umano); e trascolora quindi da differenza di genere a differenza di specie. Siamo qui, di nuovo, alla costruzione di una comunità altra, ma in una forma estrema, tale da rompere per principio la possibilità di dialogo razionale. In qualche modo, se si vuole, si tratta anche di una posizione rassicurante per il ‘maschile’: cosa infatti ne sia del mondo maschile, fintamente neutro, che le donne dovrebbero così radicalmente abbandonare, non importa; ad ognuno le sue regole.

Quando poi si va a guardare il tipo di rapporti che questo femminismo propone dentro la comunità delle donne – di cui è emblematico l’‘affidamento’ della Libreria delle Donne di Milano (“Affidarsi – recita la controcopertina del loro libro – non è uno specchiarsi pari pari nell’altra per confermarsi quello che si è, ma chiederle e offrirle il mezzo di avere nel mondo esistenza vera e grande”) – si scopre che in realtà nemmeno lì l’eguaglianza degli individui (sia pure donne) vi ha molto peso: “l’ideale dell’uguaglianza non aveva e non ha niente a che vedere con la storia e lo stato dei rapporti fra donne. Tant’è che l’uguaglianza s’intende, parlando di donne, delle donne con gli uomini” (p.146). Anzi, dentro l’insieme, dentro il ‘corpo’, delle donne appare non solo accettabile ma in qualche modo da valorizzare un essere diverse che ha il sapore delle gerarchie: perché la riproduzione di ruoli diversi, fissati in una divisione del lavoro ed in una asimmetria di poteri, appare qui una naturale articolazione del tutto femminile. Ciò che conta è la comune identità, ed i comuni interessi: “Prima di tutto viene la fedeltà a quello che è, a quello che si è” (p.162). Le singole sono libere solo in quanto riconoscono la necessità del loro essere donne, e dunque si riconoscono come parte del mondo delle donne: libertà dunque non è autonomia dell’individuo-donna, ma appartenenza; libertà ed eteronomia cessano di essere termini opposti, e possono coniugarsi insieme, con un salto netto a prima della rivoluzione francese (non a caso il libro della Libreria delle Donne di Milano ha per titolo Non credere di avere dei diritti). Alla frammentazione sociale del postmoderno si oppone così il ritorno a logiche da antico regime.


Produrre e riprodurre

Il discorso che si è appena fatto non deve però condurre a trascurare la presenza di altre posizioni, minoritarie ma non per questo meno interessanti, nel recente femminismo italiano. Vorrei qui limitarmi a richiamarne due. La prima è costituita dalla critica femminista all’economia, critica cioè al primato della produzione sulle altre sfere dell’agire sociale, sviluppata per esempio in due libri recenti di Carla Ravaioli (Tempo da vendere, tempo da usare, 2° edizione con in appendice un dialogo con Claudio Napoleoni, Franco Angeli, Milano 1988) e di Lidia Menapace (Economia politica della differenza sessuale, Felina, Roma 1987). La seconda è la tesi che individua nell’esperienza e nel punto di vista delle donne i germi possibili di una riflessione che superi le coppie dicotomiche soggetto-oggetto sul terreno epistemologico e individualismo-organicismo sul terreno della filosofia politica, a favore di un approccio che sottolinei l’intersoggettività e l’interdipendenza.

Cominciamo dalla prima posizione. Il paradigma della produzione, proprio anche (o, secondo alcune, soprattutto) del marxismo, condurrebbe inevitabilmente a considerare secondaria la sfera della riproduzione; la metafisica dell’uomo produttore, in altri termini, viene ritenuta responsabile della svalorizzazione della dimensione dell’‘aver cura’, delle forme di agire diverse dall’agire strumentale, storicamente delegate e ‘fissate’ al genere femminile. Secondo questa posizione, dunque, il marxismo si rivelerebbe insufficiente nella sua critica del capitalismo perché ancora interno ad una prospettiva unidimensionale, essenzialmente maschile, di privilegiamento della crescita quantitativa illimitata della produzione di beni. D’altra parte, si dice, gli sviluppi tecnologici più recenti, quali l’introduzione dell’elettronica e dell’informatica nei processi produttivi, comportano una riduzione dell’occupazione necessaria alla produzione di merci: è questa la premessa strutturale per invertire quella che è stata la divisione sessuale del lavoro prevalente sino ad oggi, mediante il riempimento del tempo libero frutto delle innovazioni con attività di tipo riproduttivo dividendole più equamente tra i sessi.

Questa posizione, nei modi in cui è formulata, è insieme interessante ed insostenibile, perché utopica: prefigura un modo di essere possibile e (almeno per me) anche auspicabile, ma è incapace di configurare i passaggi concreti che rendano quel modo di essere attuale; a sua volta, è incapace di realismo non perché è troppo, ma perché è troppo poco radicale, cioè perché è incapace di vedere il nesso tra riduzione della sfera della produzione e lotta operaia nella produzione.

Vale innanzitutto la pena di notare che la riduzione della quantità di lavoro socialmente necessario per la produzione di una merce indotta dalle innovazioni tecnologiche non è detto che dia luogo ad una riduzione della quantità di lavoro totale impiegata: potrebbe, per esempio, avverarsi anche il contrario, qualora si abbia un aumento della produzione tale da più che compensare l’aumento della produttività per addetto – l’aumento di produzione potendo essere costituito, evidentemente, tanto da merci materiali come da merci immateriali. Non vi è, insomma, nulla di necessario o di automatico nella riduzione del peso della sfera della produzione; e la produzione non cesserebbe di essere tale per non essere produzione di beni fisici. Ma anche immaginando che effettivamente si riduca l’ammontare di ore di lavoro dedicato alla produzione di merci, niente impedisce che la riduzione del tempo di lavoro totale si concentri solo su alcune fasce di lavoratori, dia luogo cioè a disoccupazione tecnologica e non a riduzione dell’orario di lavoro individuale – ed è questa infatti, lo si è visto, la triste storia di questi anni. Insomma, la redistribuzione del lavoro tra produttivo e riproduttivo ed una ripartizione più egualitaria tra i sessi di entrambe le attività è possibile solo se le lotte dentro la sfera della produzione assicurano che gli aumenti di produttività vadano a favore di una liberazione dal tempo di lavoro e non in una espulsione di lavoratori dalle fabbriche. La difesa delle comunità operaie dall’attacco delle nuove tecnologie è dunque complementare, e non opposta, alla riduzione del tempo di lavoro totale dedicato alla produzione.

Ma le difficoltà della critica femminista dell’economia non finiscono qui. È davvero possibile pensare ad una riduzione del peso della produzione nell’agire umano se non cambia il modo di lavorare dentro la produzione? Se, ancora, il primato della produzione di ricchezza astratta rimane il valore dominante nella sfera dell’economia, a discapito degli operai concreti, visti solo come una variabile da rendere compatibile agli obiettivi di efficienza? Dal punto di vista di ciò che ho detto nelle prime pagine di questo scritto, la risposta alle due domande precedenti non può che essere negativa. La critica del paradigma della produzione di origine femminista non può dichiararsi indifferente – come invece spesso, e baldanzosamente, fa – rispetto a quella che è una condizione necessaria (anche se forse non sufficiente, come dirò) per rompere il primato delle ragioni dell’economia, e cioè all’antagonismo di classe dentro il processo di valorizzazione capitalistica.

D’altronde, questo limite del pensiero femminista non è certo casuale: esso affonda le sue radici non solo in una sopravvalutazione della portata delle nuove innovazioni, quasi che al limite esse risolveressero ‘naturalmente’ la questione riducendo tendenzialmente al minimo la dimensione produttiva, ma anche in una discutibile equazione tra produttivo e ‘maschile’ e tra femminile e ‘riproduttivo’: sicché l’evoluzione storica sarebbe segnata da una progressiva ‘femminilizzazione’ della società. Maschile e femminile, come è ovvio, precedono il capitalismo, e prevedibilmente gli sopravvivranno: attribuire alla produzione la caratterizzazione di maschile finisce dunque con il rendere impermeabile quest’ultima ad una critica delle sue determinazioni sociali. Significa, in altri termini, confondere la produzione di beni e la produzione di merci, sicché la produzione di merci è criticata in quanto produzione tout court e non come produzione capitalistica.

Più interessante sarebbe semmai interrogarsi sul perché il lavoro riproduttivo, tanto in senso biologico che sociale, sia nel capitalismo un lavoro fondamentale ma invisibile: lavoro svolto gratuitamente per lo più dentro le pareti domestiche e cionondimeno essenziale alla riproduzione della forza-lavoro, esso compare raramente nella riflessione economica, classica e neoclassica; e nella stessa teoria di Marx il lavoro domestico non produce valore né ha la qualifica di lavoro ‘produttivo’. A me pare, peraltro, che la posizione di Marx sia più ricca di come la rappresenta la critica femminista dell’economia, e persino più radicale nelle sue implicazioni per una critica teorica e pratica della divisione sessuale del lavoro. Nella teoria marxiana, infatti, il lavoro domestico non è (direttamente) produttivo di valore per due considerazioni: innanzitutto, la forza-lavoro dell’operaio non è l’esito di un processo produttivo in senso proprio (come è d’altronde esplicito nella stessa distinzione femminista di produzione e riproduzione); inoltre, il lavoro domestico, pur essendo produttivo di valori d’uso, non è produzione per il mercato, non è produzione di merci, e dunque non compare nella ‘contabilità’ capitalistica (il che esprime proprio quel primato della produzione sulla riproduzione oggetto della critica femminista).

All’interno della critica dell’economia politica l’invisibilità, la secondarietà, e l’assenza di valore del lavoro riproduttivo sono interpretate perciò come caratteristiche che il capitalismo porta al massimo grado, proprio perché si tratta di una società che per la prima volta trova nell’economia il suo principio ordinatore ed il luogo della connessione sociale – una società che realmente pone al centro la produzione per la produzione e realmente relega al margine la riproduzione, che non cessa per questo di essere necessario presupposto della prima. In questa prospettiva è dunque possibile, contemporaneamente, affermare la realtà del primato della produzione (che non è solo un’apparenza dovuta al prevalere di valori maschilisti) e proporne criticamente il superamento (che non va perciò solo visto come l’emergere della sfera della riproduzione e la riduzione del peso della produzione, ma anche come il cambiamento del modo di essere nella produzione).

La critica femminista del marxismo in quanto paradigma della produzione manca allora il bersaglio perché il marxismo (per lo meno, il marxismo critico che sto difendendo) è al contrario una teoria critica del primato della produzione: all’interno di questa visione una centralità della lotta operaia ha senso solo come strumento pratico e ‘materiale’ per rompere quel primato. Ciò non toglie che la critica femminista del marxismo colga almeno in parte nel segno. Ho anticipato prima che l’accento sul conflitto capitale-lavoro nella produzione è un momento necessario ma forse non sufficiente nella critica pratica della centralità della produzione: la ragione sta nella seguente circostanza, che il marxismo (anche nelle sue componenti più eterodosse e libertarie) non dà una risposta adeguata alla domanda di cosa fare del tempo liberato, rotto il dominio capitalistico; e certo, non è estranea a Marx stesso l’idea che l’attività produttiva, rotto il guscio alienante ed astrattizante del lavoro salariato e capitalistico, continuerà a costituire il centro unico ed assorbente dell’essere umano, e della socialità. In altri termini, se il marxismo può essere letto come una critica teorica e pratica della centralità della produzione di merci, esso è però incapace – proprio perché teoria critica e non prefigurazione di una società futura – di definire cosa mettere al suo posto; e l’antropologia marxiana, che privilegia l’attività produttiva come momento di mediazione sociale e materiale con la natura, deve probabilmente non tanto essere sostituita, quanto piuttosto integrata con una più ampia visione del genere umano, che non potrà non guardare in primo luogo a quei luoghi di costruzione dell’identità personale (e sessuata) che sono la maternità, la sessualità, l’inconscio.

Incontriamo qui la seconda posizione cui facevo riferimento all’inizio di questo paragrafo, e che mi pare non priva di interesse – uno dei possibili riferimenti è un articolo recente di Paola Gaiotti De Biase (Se ripensiamo l’esser seconda della donna, “Reti”, n.1, 1988) – e che proverei a riprendere e sviluppare così. L’essere donna ha implicato, in quasi tutta la cultura storica a noi nota, l’essere ‘in relazione a’ (e dunque anche madre, figlia, sposa, ecc.) e l’essere ‘secondaria’ (anche nel senso di meno importante). La reazione del femminismo degli anni Settanta-Ottanta – che in questo riproduce un movimento tipico dei molti movimenti che hanno avuto origine nel sessantotto – è stata quella prima di negare le differenze imposte che da questa condizione venivano, poi di riappropriarsene ponendole a fondamento di una identità totalmente separata, sganciando per così dire le differenze dalla relazione, e provando a ridisegnare le prime. L’impressione che ho è invece che uno dei contributi maggiori che può venire dal femminismo stia proprio nel sottolineare l’intersoggettività (la definizione dell’identità nella relazione) e l’interdipendenza (l’essere seconda, dunque in un rapporto che è anche mutuo legame) non solo come valori etici ma anche e soprattutto come il presupposto necessario di un superamento critico, epistemologico e pratico ad un tempo, della razionalità cartesiana e individualista – come il presupposto cioè per una uscita in avanti da quella che, riprendendo un termine utilizzato da Habermas nel dibattito recente sul postmoderno, possiamo chiamare filosofia del Soggetto: senza cadere, d’altro canto, in paradigmi interpretativi organicisti. In questo modo di vedere il ‘partire da sé’, che il femminismo riprende dal sessantotto, è il partire da un essere già da subito inteso come sociale, e non si propone la costruzione di un mondo separato ma piuttosto un percorso verso la comunicazione.

Alla domanda se in questo modo si individui una caratteristica davvero solo femminile, e non anche maschile, risponderei negativamente: certo, l’accento sulla intersoggettività e sull’interdipendenza mi pare qualcosa che può essere (è stato, può divenire) genericamente umano. Ma si tratta forse proprio di quel qualcosa di comune, di neutro, che è in buona misura costantemente da costruire, da realizzare, e che è sempre fragile eppure essenziale. A questa costruzione, oggi, il punto di vista delle donne potrebbe portare molto proprio perché – per usare di nuovo una parola che non piace a molto femminismo – ‘oggettivamente’ l’esperienza femminile è stata forse segnata storicamente più di quella maschile dalla relazione e dalla dipendenza.


Dal rosso al verde (e ritorno?)

Anche nel caso del pensiero verde vorrei procedere secondo un doppio movimento. Innanzitutto, mostrare il rischio – che qui mi pare più grave che nel caso del femminismo – di esiti conservatori o persino reazionari, antiegualitari o persino antidemocratici, della riflessione ecologista. In secondo luogo, sostenere che la sfida dell’ambientalismo al pensiero della sinistra è importante: mette in rilievo limiti ed insufficienze radicali, richiede dunque importanti correzioni e mutamenti. In questo caso, inoltre, la questione sul tappeto è al tempo stesso epocale e congiunturale. Se, difatti, hanno ragione i verdi – se cioè la distruzione della specie (ma sarebbe meglio dire di tutte le specie) è all’ordine del giorno – si richiede un cambiamento di rotta, nella pratica e nel pensiero, cambiamento che è ad un tempo di grande portata e condizione di sopravvivenza, qui ed ora.

Mi vorrei limitare, anche in questo caso, a trattare solo di due questioni, e cioè del rapporto che il pensiero verde instaura con le nozioni di eguaglianza e di democrazia. Il presupposto da cui partirò è che gran parte della riflessione verde ha una visione naturalista e non artificialista del legame sociale; e questo naturalismo assume altrettanto spesso i tratti dell’organicismo. La tesi che vorrei sostenere è che, nella modernità, il naturalismo non può non rivelarsi antiegualitario. Infatti, le argomentazioni che sostenevano i naturalismi egualitari a noi noti sono via via cadute. Basti pensare, in primo luogo, all’argomento cristiano – richiamato anche da Revelli nel suo articolo sull’eguaglianza – secondo cui “pari dignità morale viene riconosciuta a tutti ex origine in quanto figli di Dio”, che cade con l’autonomizzarsi della politica dalla teologia; in secondo luogo, all’argomento greco-cristiano che coniugava naturalismo ed eguaglianza a partire dalla comunanza agli uomini della ragione, inutilizzabile dai verdi che della critica alla ragione – ritenuta responsabile dell’atteggiamento ‘prometeico’ di dominio e spoliazione della natura – fanno un loro cavallo di battaglia; in terzo luogo, all’argomento hobbesiano in cui l’eguaglianza tra gli uomini nella società naturale viene ricondotta alla reciproca possibilità di darsi la morte, che però decade nella società civile – d’altronde un pensiero verde coerente non può non essere un pensiero che abbandona il privilegio della specie uomo sulle altre specie, e difficilmente l’argomento che Hobbes adotta per quanto riguarda la condizione degli uomini nella società naturale potrebbe essere loro esteso, a meno di presupporre che in natura si dia armoniosamente e misteriosamente un equilibrio tra cacciatore e preda (ma in tal modo, di nuovo, si introdurrebbe un modo di ragionare di sapore religioso).

La possibile contraddizione tra pensiero verde e pensiero democratico è in parte indipendente dall’antiegualitarismo implicito nel primo. È propria del pensiero verde più recente l’idea che viviamo in uno stato di emergenza, e ciò comporta in potenza un mutamento drastico nel modo in cui sono concepite le regole del gioco politico: perché certo appare plausibile che in circostanze in cui ad essere in gioco è la sopravvivenza stessa del genere umano il volere della maggioranza sia sopraffatto.
Non è però possibile sbarazzarsi così facilmente della questione verde, perché rimane ovviamente il contenuto di ciò che i verdi dicono: se è vero – come è vero – che la lunga storia della violenza dell’uomo sulla natura si è accelerata con l’industrialismo capitalista, e se è vero–- come è vero – che dal secondo dopoguerra si è avuto con il nucleare militare e civile un ulteriore salto nella dimensione e nella qualità dell’alterazione degli equilibri ecologici e del rischio di distruzione generale, qualcosa, e presto, lo si dovrà fare. Da questo punto di vista vorrei affrontare velocemente due problemi che riguardano più da vicino la cultura della sinistra.

Il primo problema è relativo alla relazione tra modo di produzione capitalistico e devastazione dell’ambiente naturale: è possibile, come è ritornello comune in ciò che è rimasto nella nuova sinistra, che il rapporto tra l’uno e l’altra sia inscindibile, ma confesso di trovare più plausibile l’ipotesi che ha avanzato da poco Sergio Bologna su “Primo Maggio” (Emarginazione e ambientalismo, n. 28-29) secondo cui oggi “il capitale ha bisogno dell’ambientalismo per raggiungere la frontiera di una nuova rivoluzione industriale, nella produzione civile” (ivi, p.38). Credo che si debba evitare di riproporre una versione rosso-verde di teoria del crollo: il problema è invece quello di individuare nuovi modi del conflitto sia per indurre che per stare dentro processi di cambiamento capitalistico in cui proseguire la lotta allo sfruttamento, e di abbandonare definitivamente l’illusione che oggi la distruzione dell’ambiente come ieri l’anarchia del mercato rivelino supposte contraddizioni insanabili del capitalismo. I segni però non sono incoraggianti: il ‘lunedì nero’ di Wall Street sembra anzi avere rinfocolato vecchie pie illusioni sul riproporsi di una grande crisi, o almeno sull’ineluttabile oggettiva tendenza alla crisi del capitalismo stretto tra le sue interne contraddizioni, e così via: illusioni che meglio sarebbe chiamare incubi perché quando, come negli anni Trenta, la crisi si è prodotta in presenza di una sinistra socialmente sconfitta e politicamente balbettante lo sbocco è stato spesso l’emergere di regimi reazionari.

Il secondo problema rimanda alla possibile individuazione di una intersezione tra critica dell’economia politica e pensiero verde. Credo che un punto di contatto possa essere trovato in una caratteristica di cui ho già parlato, che è già in embrione nella teoria marxiana ed è poi dispiegata nelle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta: si tratta della non indifferenza rispetto al valore d’uso della forza-lavoro, e dunque dell’importanza del corpo per la composizione di classe dell’operaio massa. Il corpo diviene immediatamente luogo del conflitto con il capitale, le lotte interne al tempo di lavoro – sulla sua densità e sulla sua qualità – assumono il carattere di una difesa dallo sfruttamento capitalistico che diviene spoliazione fisica dell’operaio. Da questo punto di vista, l’innovazione informatica, che colpisce la mente più che il corpo dell’operaio, che investe l’energia psichica più che l’energia fisica, è un approfondimento ed una radicalizzazione del medesimo processo, non una inversione di tendenza.

Si potrebbe aggiungere qualcosa su questo punto, rilevando una diversità nel modo con cui si pone la tematica del corpo nelle lotte dell’operaio massa rispetto al modo con cui si pone nel femminismo degli anni Settanta, diversità che può essere messa in questi termini: la difesa del proprio essere naturale – corpo e coscienza – da parte dell’operaio massa non è stata tanto rivendicazione della proprietà del proprio corpo, come in qualche modo è stato per il femminismo che ha identificato autonomia e privatezza, quanto piuttosto lotta universalistica che rivendica l’irriducibilità delle persone a mezzo, dunque negazione di ogni proprietà.

Anche su questo terreno è possibile misurare un limite del ciclo di lotte passato, posto bene in rilievo nell’articolo già citato di Bologna: il limite è costituito dall’indifferenza di parte operaia rispetto al valore d’uso prodotto. Non che non creda che dentro la critica dell’economia politica non si possa concludere che un sistema che tratta come cosa i lavoratori tende naturalmente alla produzione di strumenti di morte: ma è certo che le lotte operaie degli ultimi decenni non sono state capaci di effettuare questo passaggio, e che anzi esse sono regredite dalla critica della monetizzazione della salute alla difesa delle produzioni inquinanti o belliche.


Across the lines

Le pagine che precedono sono evidentemente solo l’inizio di una discussione: non solo per la loro palese non sistematicità e incompletezza, né solo perché sollevano più problemi di quanti ne possa o voglia risolvere in questa sede, ma soprattutto perché acquistano un senso solo dalla presenza, possibile e sperata, di altre voci.

Ho già detto all’inizio che non credo nella possibilità di riportare alla ‘classica’ contraddizione capitale-lavoro le questioni poste dal femminismo o dai verdi, ‘arricchendo’ un marxismo che comunque pretenda di farsi giudice dei nuovi movimenti, o di nuove culture. Non credo neanche, però, che si possano ecletticamente sommare il rosso, al rosa e al verde; o farli stare l’uno accanto all’altro, come diversi vestiti da indossare alla bisogna. Mi è più cara piuttosto l’idea che il marxismo critico è un marxismo che si riconosce dei limiti, spesso tra l’altro figli non solo delle proprie sconfitte o insufficienze ma anche della propria efficacia passata. Un marxismo, dunque, che presta attenzione all’altro da sé: dove attenzione è ascolto e polemica insieme, ed è la premessa per poter trovare nuove parole.

Di fronte ad un tessuto della sinistra andato in frantumi, mi rifiuto di contemplare i frammenti o di sognare di incollarli come una volta.Alla strategia della separazione ed a quella della riconferma confortante della propria identità vorrei opporre il bisogno ed il linguaggio della comunicazione, che non può fare a meno del rischio di traduzioni azzardate ma che scommette sulla possibilità di creare (perché no?) codici comuni di lettura, capaci di trasformare i soggetti e il mondo, almeno per un po’.

Per una delle molte, piccole, coincidenze della vita la ‘colonna sonora’ che ho avuto pressocché ininterrottamente mentre scrivevo questo pezzo è stata il disco di esordio di una giovane cantautrice nera, Tracy Chapman, che ha l’ardire di usare, insieme, linguaggio di classe, di genere, di colore. Un piccolo segno, controcorrente.

(Torino, luglio 1988)

SPUNTI PER UNA BIBLIOGRAFIA


1. Le indicazioni che seguono riguardano testi relativi al femminismo ed al pensiero verde. Ho scelto di dare un percorso di letture, molto soggettivo, al solo scopo di consentire alla lettrice o al lettore interessato di farsi un’idea su quale fosse lo sfondo di dibattito e di elaborazioni che nell’articolo ho dovuto dare per comodità, e per non appesantirne la lettura, come scontato; ed ho scelto anche di privilegiare pubblicazioni recenti.

Ho scelto invece di non dare indicazioni sulle ‘fonti’ della lettura di Marx e del marxismo, del sessantotto e delle lotte operaie, che avanzo, un po’ perché è probabilmente in questa sede più facilmente intuibile quale sia il retroterra intellettuale della mia interpretazione, un po’ perché una lista del genere sarebbe inevitabilmente, e inutilmente, lunga. Basti ricordare che dentro il marxismo stesso mi pare di poter riconoscere filoni non solo differenti ma anche politicamente opposti: modi di pensare egualitari, libertari e sociocentrici, e modi di pensare disgualitari, elitisti, politicocentrici. Tra i primi, non sarà difficile immaginare il peso che hanno nella mia argomentazione, oltre Marx, che so, tutta Rosa Luxemburg ed il Lenin di Stato e rivoluzione, il primo Lukacs e Karl Korsch, Rubin e i francofortesi, Panzieri e il Colletti marxista, sino a Claudio Napoleoni.

Una bibliografia sul rosso non avrebbe inoltre granché senso perché sono sempre più convinto che al ‘marxismo’ che mi interessa sono molto più vicini pensatrici e pensatori spesso estranei alle tradizioni ortodosse del movimento operaio, e molto più lontani alcuni classici: anche qui, solo per fare un esempio, sento molto più congeniale la Simone Weil delle Riflessioni sulle cause della libertà e della oppressione sociale che il Lenin fautore di un uso socialista del taylorismo.

Ed ancora, credo che sarebbe addirittura più illuminante, per lo meno per coloro che hanno avuto la loro educazione politica negli anni Sessanta e primi Settanta, andare alla ricerca dei maestri ‘nascosti’, per così dire, più che di quelli manifesti. Così, per esempio, rileggendo di recente i “Dati personali” di Hans Jurgen Krahl, il riferimento al teologo protestante Dietrich Bonhoeffer mi ha detto almeno altrettanto che i richiami a Che Guevara e Castro, Ho Ci Min e Mao Tse Tung. E di Krahl, quasi ad epigrafe di questo lavoro, mi piace citare un pezzo in cui riconosco il ‘mio’ marxismo: “nel momento in cui cogliamo questa società come sistema di sfruttamento totale, che fa deperire l’attività produttiva vitale della natura umana, il nostro processo di formazione diventa collettivo, non nel senso di una distruzione della individualità, ma, anzi, come costituzione di essa ... Noi attraversiamo processi di formazione che ricostituiscono, anzitutto, un’individualità e che ricostruiscono in senso emancipativo ciò che è individualità, nella misura in cui ci unifichiamo nella lotta pratica contro questo sistema” (Costituzione e lotta di classe, Jaca Book, Milano 1973, p.36).

2. Un efficace confronto, dai toni spesso accesi, tra i diversi filoni del femminismo italiano (che ho chiamati postmoderno e premoderno) lo si trova in Vivere e pensare la differenza. Incontro su pratiche e saperi delle donne, Firenze 23/24 gennaio 1988, edito dal Centro Documentazione della Donna, Quaderno di lavoro n. 3, ed è ripreso da Ida Dominijanni, La ricchezza immobile in “il manifesto”, 27.1.1988, su posizioni vicine a quelle di Luisa Muraro e Adriana Cavarero, cioè a quelle della Libreria delle Donne di Milano e della comunità di filosofe di Diotima. L’influenza di queste due posizioni nel femminismo italiano di oggi è confermata dal peso, quantitativo e qualitativo, degli interventi di esponenti dell’una e dell’altra non solo su pubblicazioni femministe, da “Fluttuaria” a “DWF” a “Reti”, sino agli ultimi numeri di “Inchiesta”, ma anche su altre testate come “Rinascita” o, appunto, “il manifesto”.

Espressioni esplicitamente filosofiche delle due diverse posizioni del femminismo italiano (ma non solo) le si ritrova nel dibattito tra Adriana Cavarero e Rosi Braidotti contenuto nell’importante libro La ricerca delle donne. Studi femministi in Italia, a cura di Maria Cristina Marcuzzo e Anna Rossi Doria, Rosenberg & Sellier, Torino 1987, che riporta gli Atti di un convegno a Modena dello stesso anno. Di questo libro vanno almeno anche segnalati gli interventi di Silvia Vegetti Finzi e Francesca Molfino su temi psicanalitici, di Elena Gagliasso ed Elisabetta Donini su donne e scienza, e di Luisa Passerini, Laura De Rossi e Roberta Fossati sulla storia delle donne. Il libro contiene in genere, in appendice agli interventi, buoni riferimenti bibliografici.

Una critica dall’interno della Libreria delle Donne di Milano al libro Non credere di avere dei diritti è stata pubblicata con il titolo Una libreria e i suoi doni. Lettera aperta dalla Libreria delle Donne di Milano, ottobre 1987. Molto bello un intervento critico di Anna Rossi Doria suNon credere di avere dei diritti, pubblicato su Noidonne, settembre 1987, con il titolo “Mi è cara un’idea di eguaglianza”. Al tema eguaglianza-differenza rimanda anche l’articolo della Rossi Doria sulla storia delle lotte per il voto alle donne contenuto in Il genere della rappresentanza, supplemento a “Democrazia e diritto”, n. 10, 1988 (che contiene anche numerosi altri interventi sulle questioni qui trattate, di Rossana Rossanda, Adriana Cavarero, Claudia Mancina, e altre).

Una ricostruzione della nascita del neofemminismo che sottolinea la continuità tra sinistra e movimento delle donne, e che su molti punti mi pare confermi alcuni suggerimenti dati nel mio pezzo, è quella di Maria Teresa Fenoglio, Matrici storiche e culturali del neofemminismo, in Raccontare e riflettere, “I Quaderni dell’Associazione Livia Laverani Donini”, anno I, n.2, luglio-dicembre 1985. Sul femminismo degli anni ’70 è appena uscito un numero doppio di “Memoria” (Il movimento femminista degli anni ’70, n. 19-20, Rosenberg & Sellier, Torino 1987): ne è uscita una recensione critica su “L’Indice”, n. 5, 1988, di Elisabetta Galeotti, che è in realtà un attacco globale al femminismo, attacco che però per un verso appiattisce il femminismo recente sul pensiero della differenza sessuale, e per l’altro verso è condotto con nozioni povere di eguaglianza e di differenza, tanto che la posizione della Galeotti si presenta come un semplice aggiornamento dell’emancipazionismo e delle pari opportunità. Un quadro del nuovo femminismo più spostato verso la lettura postmoderna è in Differenza, che passione!, “Volontà” n. 1, 1988, Eleuthera, Milano.

La divaricazione nel movimento delle donne tra un atteggiamento di estraneità ed uno di critica all’esistente era emersa in superficie dopo Chernobil: essa, con le sue molte ambiguità, appare ben documentata in Scienza, potere, coscienza del limite. Dopo Chernobil: oltre l’estraneità, “Quaderni di Donne e Politica”, Editori Riuniti Riviste, Roma 1986. Il dibattito su donne e scienza è in effetti stato negli ultimi anni uno dei più vivaci: anch’esso oscilla spesso, però, tra la posizione che ho definito postmoderna e una più condivisibile problematizzazione della relazione soggetto-oggetto. Qui le traduzioni abbondano: mentre sul terreno letterario, o psicanalitico, o filosofico, sembra prevalere l’influenza francese (in primis la Irigaray, a partire dal suo Etica della differenza sessuale), in questo caso prevale l’area anglosassone: si va dal libro curato dalla Joan Rothschild, Donne, tecnologia, scienza. Un percorso al femminile attraverso mito, storia e antropologia, Rosenberg & Sellier, Torino 1986, con un’importante introduzione di Elisabetta Donini, a Evelyn Fox Keller, Sul genere e la scienza, Garzanti, Milano 1987, anche qui con una bella introduzione di Paola Manacorda (ma è stato anche tradotto In sintonia con l’organismo. La vita e le opere di Barbara McClintock, La salamandra, Milano 1987), a Carolyn Merchant, La morte della natura, Garzanti, Milano 1988, con introduzione di Elisabetta Donini. Le posizioni sono, per fortuna, molto differenziate: la posizione più estrema, che identifica ‘femminile’ e ‘naturale’ all’interno di una visione organicista, dimentica, nella sua critica all’affermarsi del pensiero scientifico all’inizio dell’età moderna, che la scienza moderna non è riducibile all’imporsi di una discutibile filosofia della scienza (che per brevità chiamerò cartesiana, e contro cui si appuntano molte critiche postmoderne) che vede quest’ultima solo come rappresentazione di un meccanismo ed ambisce alla certezza ed al dominio dell’uomo sul mondo; la scienza moderna può anche essere vista come una critica all’ideale premoderno di conoscenza come contemplazione, che porta ad un legame tra sapere ed agire e ad una visione della conoscenza stessa come fare, come attività, come intervento. Le due visioni sono in effetti contrastanti, e la seconda può essere ben vista come una critica in potenza della prima. Non so se anch’essa sia definibile come maschile: ma, nel caso, sarebbe un maschile che mi sentirei di difendere. È un peccato che, tra i tanti libri, non sia stato tradotto il fondamentale Sandra Harding, The Science Question in Feminism, Cornell University, che presenta in maniera dettagliata la discussione scientifica e filosofica all’interno del femminismo sino al suo attuale, e problematico, esito postmoderno.

Vale la pena di notare che, nel ricco fiorire di traduzioni di libri femministi, interi filoni, rilevanti per il discorso che vado facendo e di cui ho tenuto implicitamente conto nello scritto, vengono trascurati. Non sono stati tradotti i testi sul dibattito sul lavoro domestico, a cavallo tra femminismo e marxismo, apparsi negli anni ’70; nè i molti interventi di critica femminista della filosofia politica (tra cui, in particolare, mi è stata utile la raccolta a cura di Seyla Benhabib & Drucilla Cornell, Feminism as Critique, Polity, Oxford 1987; ma si potrebbero citare anche i lavori di Linda Nicholson, Nancy Fraser, Jean Bethke Elshtain, Carole Pateman, Jean Grimshaw, Nancy Hartstock). Nulla si sa da noi della critica, di parte femminista, dell’‘essenzialismo’ femminista, come per esempio la si ritrova in due bei libri quali quelli di Lynne Segal, Is the future Female? Troubled Thoughts on Contemporary Feminism, Virago 1987, e di Anne Phillips, Divided Loyalties. Dilemmas of Sex and Class, Virago 1987; né si vedono da noi critiche felici di luoghi comuni teorici spesso propri anche del femminismo più avvertito, quali l’identificazione di donna e natura da un lato e di uomo e razionalità dall’altro (demistificata invece da Carole McMillan, Women, Reason and Nature, Blackwell, Oxford 1982), o della presunta passività femminile ed aggressività maschile (si veda Jean Bethke Elshtain, Women and War, Harvester Press, London, 1987); come anche, meriterebbe di essere conosciuta pure da noi la storia del consenso femminile al nazismo raccontata da Claudia Koonz in Mothers in the Fatherland, St Martin’s Press, New York 1987.

Oltre ai libri di Menapace e Ravaioli che ho segnalato nel corpo dell’articolo, va infine segnalato il volume Produrre e riprodurre, che riporta gli atti del convegno promosso dal Movimento delle Donne di Torino, e che è edito dalla cooperativa “il manifesto”, Roma 1983.

3. Per quanto riguarda il pensiero verde, i riferimenti sono numerosissimi. Esaurienti bibliografie dei più noti autori che in qualche modo possono essere ricondotti all’ecologismo (da Gregory Bateson ad Andrè Gorz, da Barry Commoner a Edward Goldsmith, da Ivan Illich a Robert Jungk), in appendice a saggi dedicati ad ognuno di essi, possono essere ritrovate nel volume a cura di Fabio Giovannini, Le culture dei verdi. Un’analisi critica del pensiero ecologista, Dedalo, Bari 1987.

Ho avuto più direttamente presenti, per il discorso sul rosso e il verde che sono andato facendo – a parte gli interventi più giornalistici alla Alexander Langer o alla Adriano Sofri al grido di “né sinistra né destra” – testi come quello di Fritjof Capra e Charlene Spretnak, La politica dei verdi, Feltrinelli, Milano 1986 (Capra è autore di ‘classici’ del pensiero verde come Il punto di svolta Il Tao della fisica), o come quello di Rudolph Bahro, From red to green, Verso, London 1984. Più simpatiche, per lo meno, le impostazioni ‘anarchiche’ di Murray Bookchin, L’ecologia della libertà, e quelle contenute in Pensare l’ecologia, “Volontà”, n. 2-3, entrambi editi da Eleuthera, Milano 1987. Utile anche il volume curato da Paolo Ceri, con testi di Anthony Giddens, Claus Offe e Alain Touraine, Ecologia politica, Feltrinelli, Milano 1987, meno interno all’ecologismo in senso stretto. Un equilibrato volume ecologista, ma i cui autori hanno lontane e non rinnegate ascendenze marxiane, è quello di Jean-Claude Debeir, Jean-Paul Deléage, Daniel Hémery, Storia dell’energia. Dal fuoco al nucleare, incredibilmente pubblicato dalle Edizioni del Sole 24 Ore, Milano 1987.
La possibile convergenza tra (parte dell’) ecologismo e pensiero reazionario non è fantascienza: un indizio è fornito dalla strategia dell’attenzione esercitata dalla nuova destra nei confronti dei verdi, testimoniato dal numero monografico di “Diorama letterario” intitolato La sfida verde. Ecologia e crisi della modernità, n. 114, aprile 1988, con interventi di esponenti ecologisti quali il già citato Langer e Fiorello Cortiana, accanto a quelli degli esponenti della nuova destra, da Marco Tarchi ad Alain de Benoist a Giano Accame. 


POSCRITTO 2018 
Riccardo Bellofiore

A novembre dell’anno scorso ho reincontrato David Harvey: la prima volta l’avevo conosciuto di persona a Izmir, un paio d’anni prima, ad un convegno ‘marxista’. Rivedendolo all’incontro londinese annuale di Historical Materialism, stavo per chiedergli se si ricordava di me, ma mi ha anticipato chiedendomi: Riccardo, still looking for trouble?[ancora a caccia di guai?]. Certo, al serioso convegno di Izmir noi due eravamo gli odd men out [gli uomini un po’ strani ed ‘intrusi’]: tra gli altri economisti invitati (tutti maschi), che parlavano quasi solo di dinamiche oggettive pseudo-naturali, era del tutto chiaro il ruolo importante che avevano nel nostro discorso la lotta di classe, e le lotte in genere, anche per ragioni strettamente spaziali: per lui, Baltimore, per me Torino, fine anni Sessanta e Settanta.

Questa espressione, ‘ancora a caccia di guai’, mi è venuta in mente rileggendo l’articolo (di trent’anni fa!) che i compagni e amici mi hanno chiesto di ripubblicare. “Il rosso, il rosa e il verde”, che uscì sul numero 3 dei torinesi Quaderni del CRIC, nel 1988, è un tipico esempio di andarsi a cercare problemi, da qualsiasi parte la si guardi. Lo scritto è dell’anno precedente, e fu molto discusso nelle riunioni collettive che facevamo il mercoledì sera (di nuovo, tutti maschi), salvo partita. Il gruppo di compagni un po’ si stupiva quando regolarmente, a ogni iniziativa che organizzavamo, me ne uscivo con un “compagni, abbiamo un problema”; e alla loro richiesta di esplicitare quale fosse, ricordavo che non erano invitate voci femminili, e magari si poteva provare a porci rimedio. Debbo molto, confesso, agli allora giovani compagni del CRIC, e ai meno giovani intellettuali che Stefanino, Angelo, Pilli e altri avevano raccolto per confrontarsi in una Torino che era davvero diventata un deserto dopo la sconfitta operaia del 1980. Stefano Alberione ricorda di seguito cosa fosse il Centro di Ricerca ed Iniziativa Comunista, in quegli anni che un po’ ricordo con nostalgia.

L’articolo per i Quaderni del CRIC seguiva ad un articolo del 1986 che era uscito sul n. 2 del 1986 di Quaderni del NO, “Lavoro astratto, coscienza collettiva e centralità operaia: tre osservazioni critiche su operai e comunismo”, che discuteva criticamente un articolo di Finelli e Sbardella (L’articolo può ora essere letto a questo link: https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1839426649448457&id=148198901904582). Iniziavo a contestare, in tempi in cui praticamente nessuno nella mia area culturale lo faceva (almeno a mia memoria), l’antropologia marxiana e la sua idea di transizione politica al comunismo (Roberto mi ha poi ampiamente scavalcato su questo fronte): un bel passo se si pensa al fatto che la mia prima pubblicazione fu proprio “Sul concetto di lavoro in Marx”, Ricerche economiche, n. 1 del 1979. Non gettavo certo via, nel 1988, la ‘centralità del lavoro’ in Marx, ma facevo del lavoro non l’unica e totalizzante essenza dell’essere umano (pur storicamente determinata, come già facevo nel pezzo pubblicato nel 1979, e scritto nel 1978), e cercavo di articolarla con altre dimensioni dell’essere umano, quali la cura e l’otium.

Il pezzo per i compagni del CRIC sta in una costellazione di miei lavori scritti tra il 1988 e il 1989, tra cui mi piace ricordarne almeno due: uno scritto sul Sessantotto, che seguì ad un invito di Luisa Passerini ad un convegno della Fondazione Micheletti (ero l’unico ‘non protagonista’, vent’anni dopo); e un contributo a un numero doppio di Collegamenti/Wobbly (collegamenti per l’organizzazione diretta di classe), n. 23-24 intitolato “L’enigma del lavoro”, chiestomi da Cosimo Scarinzi. Il primo lo si può leggere qui: https://www.facebook.com/notes/economisti-di-classe-riccardo-bellofiore-giovanna-vertova/critica-della-societ%C3%A0-e-critica-delleconomia-domande-e-appunti-su-una-assenza-ne/394631897280444/; mentre il secondo lo si può leggere qui: https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1839438956113893&id=148198901904582)
Chi li leggesse tutti, quei vecchi pezzi, credo vi troverebbe un’aria di famiglia, e vi rintraccerebbe uno stesso filo di ragionamento.

Dietro il mio discorso di allora, che non è molto diverso da quello di oggi, stava la necessità di superare in avanti il divorzio di buona parte del femminismo e del pensiero verde dalla sinistra di classe che si era consumato negli anni immediatamente precedenti. L’episodio più eclatante fu la manifestazione del 6 dicembre 1975 in sostegno della legalizzazione dell’aborto. Lotta continua vi partecipò con un proprio striscione. Le femministe che militavano in quel movimento cercarono di separarsi dagli uomini, rivendicando una loro autonomia, ma furono represse dal servizio d’ordine. La dissoluzione di Lotta Continua al congresso del 1976 ha qui, come è noto, la sua origine. Ed è pure certo che dalla seconda metà degli anni Settanta diviene molto forte la critica femminista e ecologista al ‘produttivismo’ marxiano, e spesso al movimento operaio tout court.

Nelle nostre riunioni le tesi esposte ne “Il rosso, il rosa e il verde” furono molto contestate all’epoca: ricordo una qualche sintonia con Marco Revelli, il Marco Revelli di allora. È la mia memoria, che è notoriamente fallibilissima: ricordo però che fui invitato nel 2000 a Torino, dopo Seattle, alla Camera del Lavoro, ad una iniziativa in cui i compagni del CRIC avevano un ruolo organizzativo importante, ed uno di loro quando mi vide mi disse: “avevi ragione tu!”. Non era proprio così. Il mio pezzo del 1988, che scherzosamente venne al tempo non poco criticato per leso operaismo, finì dopo per essere contestato per eccesso di operaismo. Devo dire che, dovessi cambiare qualcosa, non parlerei più di “centralità operaia”, anche se il senso non era chiaramente sociologico: era il riferimento alla centralità della classe lavoratrice. Andrei più cauto nella lode della ‘secondarietà’ femminile: non per il ragionamento che ci stava dietro, che molto anche rimandava ad una riflessione psicoanalitica che coinvolge da Melanie Klein a Joan Rivière a Nancy Chodorow, ma per il rischio che si portava dietro l’espressione che veniva da un certo femminismo cattolico. E starei attento a definire con il colore ‘rosa’ il femminismo. Non toglierei però il ‘considerazioni inattuali: un giovane compagno mi disse, con logica stringente, “ma se sono inattuali, perché le pubblichi?”; beh, era un riferimento a Nietzsche, e ci stava bene.

Il mio tentativo ne “Il rosso, il rosa e il verde” è di dialogare con il femminismo e con il pensiero verde: perché hanno secondo me ragione nella critica al marxismo e alla vecchia e nuova sinistra di allora, meno nella critica a Marx. Con espressione forse abusata, buttano il bambino, ma anche la bambina, con l’acqua sporca. Chi vorrà, leggerà le mie argomentazioni per sostenere questo giudizio. Aggiungo solo che mandai questo mio scritto a molte femministe, e ne nacque una discussione seria e produttiva, e in alcuni casi amicizie durevoli. Tra le interlocutrici, negli anni, ci sono state, tra le altre, Anna Rossi Doria, Lidia Menapace, Rossana Rossanda, e altre. In alcuni casi, la loro critica del femminismo è più dura della mia. Ovviamente, ci si potrebbe chiedere: di quale femminismo stiamo parlando?

Da allora in poi, ho evitato di ricondurre la questione di genere e la questione della natura a temi ‘parziali’: sono talmente trasversali e decisivi che cerco, quando posso, di fare in modo che attraversino, più o meno esplicitamente, ogni mio scritto, che si tratti, che so, di Adam Smith e della sua filosofia della storia, o della crisi capitalistica, o della politica economica, e così via. Non ho dunque scritto più nulla dedicato in particolare ed esclusivamente al femminismo o all’ecologia. C’è però una eccezione, a cui sono affettivamente molto legato. Alessandra Vincenti mi portò una richiesta sua, e di Monia Andreani, quella di scrivere una postfazione ad un loro volume, molto bello, intitolato Coltivare la differenza. La socializzione di genere e il contesto multiculturale, pubblicato per la Unicopli di Marzio Zanantoni, che è stato anche il mio editore. La richiesta di Alessandra e Monia mi onorò, ma confesso che anche un po’ mi spaventò. Credo che però ad entrambe sia piaciuto il mio testo che, su un registro molto diverso, riprende alcuni dei punti dello scritto che PalermoGrad ora ripubblica. La mia postfazione, intitolata Continental Divide, l’ho resa disponibile a tutti sulla pagina Facebook che tengo con Giovanna Vertova, Economisti di classe (da cui provengono anche gli altri link), e la si trova a questo link: https://www.facebook.com/permalink.php?story_fbid=1839369159454206&id=148198901904582.

Monia se n’è andata pochi mesi fa, per una morte assurda, ed a lei dedico questa ripubblicazione. Non l’ho mai conosciuta di persona, ma rimanemmo da allora in contatto virtuale: è una delle poche cose positive che mi ha dato Facebook. Non credo fossimo sempre d’accordo. Una cosa però la so con certezza. Era una persona dolce. Ed era una persona curiosa. Alessandra Vincenti la ricorda qui di seguito, come non potrei fare io. 



TRENT’ANNI DOPO
Stefano Alberione

Nel 1981 andava ormai definitivamente esaurendosi l’esperienza della sede di Lotta Continua, in corso San Maurizio a Torino. Il gruppone di ragazzi e ragazze (un paio di centinaia di giovani sotto i 30 anni) che l’aveva animata da quando l’organizzazione nazionale si era sciolta, si stava dividendo. Dopo la stagione dei Circoli del Proletariato Giovanile del ’77, la campagna elettorale partecipata in modo extraistituzionale sotto il motto “I Fascisti non devono parlare: questa la nostra campagna elettorale!” (pagata da alcuni di noi con parecchi mesi di carcere) della primavera del ’79 a cui seguirono i 61 licenziamenti politici alla Fiat nel settembre dello stesso anno, la campagna politica della primavera/estate del 1980 “uscire dal terrorismo senza morire e senza finire in galera” che sosteneva i militanti di Prima Linea che ritenevano chiusa la stagione della lotta armata, ma soprattutto la sconfitta dei 35 giorni nell’autunno dell’80 sempre alla Fiat, infatti, si stavano delineando prospettive divaricanti. Da un lato c’era chi riteneva necessario partecipare alla ricostruzione di un’organizzazione rivoluzionaria, e diede vita a Lotta Continua per il Comunismo, e chi riteneva, invece, che occorresse aprire una fase di riflessione militante, e diede vita al Centro di Ricerca ed Iniziativa Comunista (C.R.I.C.).

Si aveva ben chiaro, già allora, che la vertenza dell’80 alla Fiat avrebbe rappresentato uno spartiacque nella storia sociale e politica del nostro Paese. La classe operaia in carne ed ossa, quella dell’operaio massa, del Consiglione di Fabbrica di Mirafiori (che concretamente incarnava quella che all’epoca chiamavamo l’autonomia operaia, cioè la soggettività consapevole di lotta irriducibile a mera forza lavoro), dell’esperienza unitaria della F.L.M. era stata definitivamente sconfitta: disarticolata materialmente dal decentramento produttivo e dall’introduzione dei sistemi robotizzati governati dalla microelettronica ed abbandonata politicamente dai sindacati confederali che firmarono la resa con la cassa integrazione per 24.000 persone (tra le quali la quasi totalità delle avanguardie di lotta) a dispetto del voto contrario delle assemblee operaie.
I padroni riprendevano il pieno controllo delle fabbriche: Romiti aveva sconfitto gli operai e si preparava ad avviare quel processo di marginalizzazione della produzione e di astrattizzazione finanziaria del capitale che si sarebbe dispiegato nei decenni successivi.
Il C.R.I.C. si proponeva dunque di capire la nuova fase e lo fece interloquendo con alcuni dei migliori intellettuali militanti, soprattutto torinesi ma non solo torinesi, dell’epoca.

Organizzavamo cicli di conferenze in una piccola sede, in via Giulio, in due stanze al secondo piano di un palazzo ultra popolare con una stufa a gasolio che ci riscaldava (poco e tardivamente d’inverno). Marco Revelli, Costanzo Preve, Dino Invernizzi, Pino Ferraris, Mario Pianta, Luigi Bobbio, Giovanni De Luna, Sergio Bologna sono stati i nostri primi interlocutori.
Nel corso del 1981 matura la convinzione che fosse utile socializzare queste nostre riflessioni e pensiamo di fare una rivista.
La prima riunione di una cosa che assomigliasse ad una redazione si svolgerà a fine febbraio del 1982. Verranno pubblicati quattro numeri della rivista, un libro fotografico con cassetta di documenti audio registrati allegata sulla lotta dell’Autunno 1980 a cura di Marco Revelli e Pietro Perotti, un libro di Gabriele Polo di interviste ad operai e operaie avanguardie di lotta (“I tamburi di Mirafiori”) , poi uno di Sergio Dalmasso ed altri ancora.
Leggemmo su “Unità Proletaria” (all’epoca rivista teorica di Democrazia Proletaria) un rigoroso e ponderoso articolo di critica all’operaismo erede del pensiero politico di Raniero Panzieri e dei suoi “Quaderni Rossi”, sia nella sua variante di “destra” (Tronti e Cacciari e la loro “autonomia del politico”) sia nella sua variante di “Sinistra” (Negri e il suo “operaio sociale”). L’autore è un certo Riccardo Bellofiore, giovane economista, a noi sconosciuto. Venendo a sapere che questi abitava a Torino, lo rintracciamo. Diventerà un nostro importante interlocutore per lunghi anni (almeno fin tanto che non si trasferirà definitivamente a Bergamo).

Come anche incontrammo Mimmo Porcaro, all’epoca animatore di un ristretto gruppo di militanti che si erano concentrati nella lettura e studio collettivo delle opere di Karl Marx, soprattutto de “Il Capitale”. Anche Mimmo divenne un nostro importante e duraturo interlocutore.
I “quaderni” erano stati pensati quali oggetti di studio (e richiamavano quelli ben più autorevoli “Rossi” di Panzieri): il loro formato quadrato, se da un lato non facilitava la loro tascabilità, dall’altro permetteva ampi margini quadrettati al testo su cui annotare appunti o riflessioni. Uno strumento non occasionale.

Se qualcuno, dopo trent’anni, ritiene il loro contenuto ancora attuale, da leggere, discutere e  ripubblicare ciò ci inorgoglisce perché vuol dire che non abbiamo speso vanamente le nostre energie allora. Buona lettura e buon lavoro compagni e compagne! 

Torino, 28 giugno 2018 



UN RICORDO DI MONIA ANDREANI
Alessandra Vincenti

Ci hanno presentate a fine giugno del 1999, a Urbino, nei corridoi della allora Facoltà di Sociologia. Avremmo così lavorato al nostro primo progetto insieme, un seminario dal titolo profetico: Sconfinare.

Perché Monia Andreani era innanzi tutto una filosofa, ma una filosofa curiosa, cui piaceva frequentare territori diversi e ascoltare prospettive differenti, assai poco preoccupata dei recinti che negli anni si sono fatti sempre più alti tra le discipline. 

Per questo il libro Coltivare la differenza, scritto insieme agli studenti, è stato importante per entrambe. Per il modo di costruirlo tutti insieme, con giovani donne e uomini che si misuravano per la prima volta con la scrittura. E per la postfazione di Riccardo Bellofiore (un regalo prezioso per entrambe) che chiude un progetto che poi è diventato strumento di incontri nelle scuole.

Sconfinare per Monia ha voluto dire anche andare a Paestum nel 2013, insieme a Giovanna Vertova, per discutere animosamente con femminismi differenti meno sensibili alle condizioni materiali delle donne.

Oggi forse non ci avrebbero presentate: perché attraversare i confini è una pratica che viene scoraggiata (valutata poco utile, poco accademica). Ma sconfinare oggi è ancor più urgente di allora per poter – come scriveva Hannah Arendt, tanto amata da Monia – “pensare l’impensabile”.



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