Leggi anche: https://ilcomunista23.blogspot.it/2018/04/7-aprile-una-interpretazione-degli-anni.html
IL Contesto: 1977/78 un paio d'anni particolarmente difficili.
il 15 gennaio 1977, ad un convegno di intellettuali al teatro Eliseo di Roma, Berlinguer lancia la "politica dell'austerià" - [https://www.ilpost.it/2010/08/27/berlinguer-austerita/];
il 26 gennaio 1977, per "frenare l’inflazione e difendere la moneta attraverso il contenimento del costo del lavoro e l’aumento della produttività”, CGIL-CISL-UIL firmano un accordo con la Confindustria che prevedeva l’eliminazione degli scatti futuri di contingenza dal conteggio del TFR e l’abolizione di sette festività, inoltre aumenta l'orario di lavoro;
il 17 febbraio 1977 Lama parla all’università La Sapienza di Roma, ma è violentemente contestato da studenti dell’Autonomia in lotta contro la riforma Malfatti. Seguono scontri fra servizio d’ordine del PCI e studenti, e Lama è costretto a fuggire.
Disordini alla Sapienza nel giugno 1977 per "favorire l’occupazione” viene varato il “contratto di formazione lavoro” che avvia in Italia il processo di precarizzazione e frantumazione del rapporto di lavoro che farà molta strada da allora;
la nuova linea proposta da Lama nell'intervista è ratificata, dopo un'ampia discussione nelle diverse federazioni, dall'Assemblea della CGIL-CISL-UIL che si svolge nel quartiere romano dell’EUR;
il 28 febbraio 1978, Aldo Moro avanza finalmente all'assemblea delle DC l'ipotesi di un futuro governo con il PCI;
il 16 marzo 1978, Aldo Moro è rapito dalle Brigate Rosse mentre si reca al giuramento del governo Andreotti (monocolore DC) che vede il decisivo appoggio esterno del PCI;
il 9 maggio Aldo Moro è ritrovato ucciso;
il 13 dicembre 1978 l'Italia ratifica, con il voto contrario del PCI annunciato da un vigoroso discorso [http://tempofertile.blogspot.com/2014/03/giorgio-napolitano-il-rilevante.html] di Giorgio Napolitano l'adesione allo SME.
L'intervista a Luciano Lama, a cura di Eugenio Scalfari - la Repubblica il 24 gennaio 1978
1978: In un momento di crisi economica nazionale grave il Segretario Generale della CGIL illustra le basi teoriche e i contenuti pratici della "SVOLTA DELL'EUR" che vede in quel periodo impegnate unitariamente CGIL, CISL, UIL.
Eugenio Scalfari: “È
vero che all’interno dello stato maggiore sindacale c’è stata
battaglia nei giorni scorsi?”
Luciano Lama: “Sì,
è vero”.
E.S.: “E lei,
personalmente, ha avuto qualche difficoltà? Insomma la sua posizione
è indebolita?”
L.L.: “Difficoltà
sì, come tutti quelli che sono impegnati in un’azione che incide
sulla realtà e sugli interessi concreti della gente. Posizione
indebolita non direi, ma questo è un discorso che non riguarda solo
me: riguarda il gruppo dirigente del movimento sindacale. Noi siamo
arrivati all’appuntamento
decisivo, il più importante dall’autunno del ’69 in poi.
Ne siamo tutti
consapevoli”.
E.S.: “Qual è
quest’appuntamento?”
L.L.: “Bisogna
partire dalla riunione del comitato direttivo della Federazione
unitaria, la scorsa settimana. Su quella riunione si sono dette
alcune cose esatte, altre meno. La verità è che, alcuni giorni
prima nella segreteria della Federazione e poi nel direttivo, abbiamo
affrontato un tema di fondo: quello di preparare un vero e proprio
programma, una linea di politica sindacale che affrontasse
globalmente i problemi del paese in un momento che tutti giudichiamo
di gravissima crisi.
Certo non è la
prima volta che il sindacato formula proposte di politica economica
importanti: ma non eravamo mai arrivati a redigere un programma vero
e proprio che, tra i suoi punti essenziali, avesse anche quelli
relativi al comportamento dei lavoratori.
Era inevitabile che
un tema così scottante suscitasse al nostro interno contrasti anche
vivaci. Ma ciò che conta è che alla fine siamo approdati ad una
linea comune, unanime. Essa è contenuta nel documento che Carniti ha
illustrato al comitato direttivo a nome di tutta la segreteria e che
il comitato ha approvato”.
E.S.: “Lei ha
detto che il vostro programma contiene un punto relativo al
comportamento dei lavoratori. Intende dire: i sacrifici che i
lavoratori sono chiamati a fare?”
L.L.: “Sì, si
tratta proprio di questo: il sindacato propone ai lavoratori una
politica di sacrifici. Sacrifici non marginali, ma sostanziali.”
E.S.: “È questo
il punto che ha suscitato i contrasti?”
L.L.: “Sì, era
naturale che fosse così”.
E.S.: “Ed è
questo punto che viene ora affrontato nelle assemblee di base, nelle
fabbriche?”
L.L.: “Nelle
assemblee di base viene discusso il programma nel suo insieme. Per
dirla in breve, esso riguarda l’impiego delle risorse nazionali,
finalizzato ad un obiettivo: quello di accrescere l’occupazione e
diminuire la disoccupazione. Ovviamente le discussioni più accese,
nelle assemblee di base, si sono
svolte e si svolgeranno sulla questione dei sacrifici richiesti ai
lavoratori. Il momento centrale del dibattito avverrà il 13 e il 14
febbraio, quando si riunirà l’assemblea nazionale del sindacato.
Sarà composta dai consigli generali delle tre confederazioni, Cgil,
Cisl e Uil, e da un numero di delegati di base superiore ai
componenti dei tre consigli generali. Sarà un momento determinante
nella storia del sindacalismo italiano, perché i rappresentanti dei
lavoratori saranno chiamati a decidere, sotto gli occhi di tutta
l’opinione pubblica, quale ruolo la classe operaia intende svolgere
per raddrizzare la barca Italia”.
E.S.: “Lei parla
di sacrifici. Vuole spiegare in che cosa consistono?”
L.L.: “Anzitutto
voglio fare una premessa: quando il sindacato mette al primo punto
del suo programma la disoccupazione, vuol dire che si è reso conto
che il problema di avere un milione e seicentomila disoccupati è
ormai angoscioso, tragico, e che ad esse vanno sacrificati tutti gli
altri obiettivi. Per
esempio quello – peraltro pienamente legittimo per il movimento
sindacale – di migliorare le condizioni degli operai occupati.
Ebbene, se vogliamo esser coerenti con l’obiettivo di far diminuire
la disoccupazione, è chiaro che il miglioramento delle condizioni
degli operai occupati deve passare in seconda linea”.
E.S.: “Che cosa
significa in concreto?”
L.L.: “Che la
politica salariale nei prossimi anni dovrà essere molto contenuta, i
miglioramenti che si potranno chiedere dovranno essere scaglionati
nell’arco dei tre anni di durata dei contratti collettivi, l’intero
meccanismo della Cassa integrazione dovrà essere rivisto da cima a
fondo.
Noi non possiamo più
obbligare le aziende a trattenere alle loro dipendenze un numero di
lavoratori che esorbita le loro possibilità produttive, né possiamo
continuare a pretendere che la Cassa integrazione assista in via
permanente i lavoratori eccedenti.
Nel nostro documento
si stabilisce che la Cassa assista i lavoratori per un anno e non
oltre, salvo casi eccezionalissimi che debbono essere decisi di volta in volta dalle
commissioni regionali di collocamento (delle quali fanno parte, oltre
al sindacato, anche i datori di lavoro, le regioni, i comuni
capoluogo). Insomma: mobilità effettiva della manodopera e fine del
sistema del lavoro assistito in
permanenza”.
E.S.: “È una
svolta nell’atteggiamento del sindacato?”
L.L.: “È una
svolta di fondo. Dal ’69 in poi il sindacato ha puntato le sue
carte sulla rigidità della forza lavoro…”.
E.S.: “Vi siete
resi conto che era un errore?”
L.L.: “Ci siamo
resi conto che un sistema economico non sopporta variabili
indipendenti.
I capitalisti
sostengono che il profitto è una variabile indipendente. I
lavoratori e il loro sindacato, quasi per ritorsione, hanno sostenuto
in questi anni che il salario è una variabile indipendente. In parole semplici: si
stabiliva un certo livello salariale e un certo livello
dell’occupazione e poi si chiedeva che le altre grandezze
economiche fossero fissate in modo da rendere possibile quei livelli
di salario e d’occupazione. Ebbene, dobbiamo essere intellettualmente onesti: è stata una sciocchezza, perché in
un’economia aperta le variabili sono tutte dipendenti una
dall’altra”.
E.S.: “Vuol dire
che se il livello salariale è troppo elevato rispetto alla
produttività, il livello dell’occupazione tenderà a scendere?”
L.L.: “È
esattamente così, l’esperienza di questi anni ce l’ha
confermato. Oppure, l’occupazione non scenderà, ma la
disoccupazione aumenterà, perché le nuove leve giovani non
troveranno sbocco”.
E.S.: “Parliamo
ancora della mobilità. Molti affermano che questa parola serve a
nascondere una realtà assai minacciosa: cioè i licenziamenti. Lei
ritiene che siano molte le aziende che hanno manodopera in numero
superiore alle necessità?”
L.L.: “C’è un
certo numero di aziende che ha un carico di dipendenti eccessivo. Non
si tratta di cifre terribili, ma neppure esigue. Siamo nell’ordine
di parecchie decine di migliaia di lavoratori. Ciò crea problemi
umani e sociali molto gravi, anche perché in Italia lo sviluppo
economico è bloccato e i lavoratori che perdono il posto hanno il
fondato timore di non trovarne mai più un altro. E poi si tratta
quasi sempre do grandi aziende, i cui stabilimenti sono situati in
centri urbani importanti: ciò accresce il disagio sociale e politico
di queste operazioni. Noi siamo tuttavia convinti che imporre alle
aziende quote di manodopera eccedenti sia una politica suicida.
L’economia italiana sta piegandosi sulle ginocchia anche a causa di
questa politica. Perciò, sebbene nessuno quanto noi si renda conto
della difficoltà del problema, riteniamo che le aziende, quando sia
accertato il loro stato di crisi, abbiano il diritto di licenziare”.
E.S.: “Per di più
proponete che la Cassa integrazione non assista i lavoratori per più
d’un anno. Perché?”
L.L.: “Perché non
vogliamo trasformare il lavoro produttivo in assistenza. E poi capita
spesso che i lavoratori in cassa integrazione trovino un altro
lavoro, un lavoro nero, e contemporaneamente beneficino del salario
corrisposto dalla Cassa. Questi fenomeni, specie al Nord, sono
abbastanza diffusi. E debbono
assolutamente cessare.
Naturalmente non
abbandoniamo i licenziati al loro destino. La nostra proposta è che
i licenziati siano iscritti in speciali liste di collocamento ed
abbiano priorità assoluta per il reimpiego. In città come Torino,
Milano, Bologna, dove il “turnover” è elevato, il reimpiego dei
licenziati non dovrebbe presentare insormontabili difficoltà.
Naturalmente occorre che gli uffici di collocamento diventino
un’istituzione completamente diversa da ciò che sono ora: siano l’organo che gestisce in entrata e in uscita il mercato del
lavoro”.
E.S.: “È
l’Agenzia del lavoro di cui si parla?”
L.L.: “Il nome ha
poca importanza. Sì, più o meno, è il progetto dell’Agenzia del
lavoro”.
E.S.: “Non pensa
però che dare priorità assoluta di reimpiego ai lavoratori
licenziati sia un’iniquità a danno dei giovani in cerca di primo
impiego? Non si perpetua in questo modo quel contrasto tra le
due società –
quella degli occupati e quella dei non occupati – che è
all’origine di molti dei nostri squilibri attuali?”
L.L.:
“L’osservazione è esatta: dal punto di vista di un’astratta
giustizia, non ci dovrebbe essere priorità. Ma dal punto di vista
concreto, il salto che facciamo nel riammettere il principio che si
possa licenziare la manodopera eccedente e che la Cassa integrazione
operi per periodi limitati è già enorme. Credo che ci sia un
interesse generale a non rendere drammatiche, esplosive, certe
situazioni sociali. Almeno fino a quando il meccanismo di sviluppo
non si sarà rimesso in moto, noi dobbiamo tutelare i lavoratori
licenziati con priorità sugli altri.
Ripeto: è
un’ingiustizia, ma in concreto sarebbe follia non commetterla”.
E.S.: “Alla base
di tutto c’è il problema dello sviluppo: se l’economia ristagna
non c’è ufficio di collocamento o Agenzia del lavoro che possa
risolvere la questione”.
L.L.: “È
verissimo”.
E.S.: “Lei ritiene
che accorciare l’orario di lavoro potrebb’essere una soluzione?”
L.L.: “Potrebbe
contribuire, certo. Ma teniamo presente che noi siamo il paese dove
l’orario di lavoro effettivo è uno dei più bassi tra i paesi
industriali evoluti. Lavoriamo mediamente 40 ore settimanali e
abbiamo un numero di festività più alto che altrove. La tendenza di
tutti i paesi capitalistici è
d’accorciare l’orario, ma bisogna che gli altri paesi si
allineino con noi prima che noi si possa muovere un altro passo in
quella direzione.
Ripeto: il problema
si risolve soltanto con una ripresa dello sviluppo”.
E.S.: “Quindi
dell’accumulazione del capitale?”
L.L.: “Sì,
dell’accumulazione del capitale, opportunamente programmata dallo
Stato e indirizzata al fine di accrescere il più possibile
l’occupazione. Questa è la nostra linea”.
E.S.: “Lei ha
detto all’inizio che c’è stata battaglia al vostro interno per
definire questa linea e che non mancheranno i contrasti alla base.
Dunque state affrontando ostacoli grossi”.
L.L.: “Sì, è
vero. Quando si deve rinunciare al proprio ‘particulare’ in vista
di obiettivi nobili ma che in concreto non danno benefici a chi è
chiamato a sopportare i sacrifici, ci vuole una dose molto elevata di
coscienza politica e di classe. S’è parlato molto, da parte della
borghesia italiana, del guaio che in Italia ci sia un sindacato di
classe. Ebbene: se non ci fosse un’alta coscienza di classe,
discorsi come questi sarebbero improponibili”.
E.S.: “Lei pensa
che l’accettazione della linea sindacale che state proponendo sia
legata, da parte della base operaia, a una determinata formula
politica?”
L.L.: “Certamente
la proposta d’un governo socialmente e politicamente
rappresentativo faciliterebbe l’approvazione della nostra linea. Le
ragioni sono evidenti. Ma la nostra decisione prescinde completamente
dal tipo di formula di governo che finirà per essere adottato.
La Federazione
sindacale ha preso le sue decisioni al buio rispetto alle soluzioni
politiche ed è impegnata a portarle avanti quale che sia lo sbocco
politico della crisi”.
E.S.: “Vuol dire
che le soluzioni politiche vi sono indifferenti?”
L.L.:
“Nient’affatto. Ma vuol dire che ci sono obiettivi ancora più
importanti che superano la fedeltà di partito. L’obiettivo di dar
lavoro ai giovani è d’immensa portata. Una società che lascia i
giovani senza sbocco è condannata. Debbo dire che la disoccupazione
giovanile c’è ormai in tutti i paesi a capitalismo avanzato, in
Francia, in Germania, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti. Non è un
fatto soltanto italiano. Ma da noi si manifesta con un’intensità
maggiore che altrove.”
E.S.: “Se il
problema è di tutti i paesi capitalistici, vorrebbe dire che il
capitalismo non è più in grado di risolvere il problema degli
sbocchi. Allora come si concilia questa decadenza del capitalismo con
l’ipotesi d’una ripresa dello sviluppo economico in Italia, senza
la quale lei non vede soluzioni ai nostri malanni?
Ha capito la
domanda?”
L.L.: “Ho capito
benissimo. Effettivamente il capitalismo mostra segni di declino. Ma
questi sono problemi di tendenza a lungo termine, sui quali non siamo
chiamati a discutere, per lo meno in questa sede. Io sono convinto
che il capitalismo sia in fase declinante. Ma ciò non significa
affatto che nel periodo medio non possa ancora sostenere intense fasi
di sviluppo. L’Italia ha avuto un’intensa fase di sviluppo per
tutto il periodo 1950-1963. A mio avviso può averne un’altra.
Ripeto: è proprio per collaborare a quest’obiettivo e utilizzarlo
per riassorbire la disoccupazione che noi chiamiamo la classe operaia
ad un programma di sacrifici.
Naturalmente, tutte
le categorie e tutti i gruppi sociali debbono fare altrettanto.”
E.S.: “Cioè vuoi
dire che il sindacato propone un grande programma di solidarietà
nazionale?”
L.L.: “È
esattamente questo che proponiamo”.
E.S.: “È vero che
il governo Andreotti l’avete fatto cadere voi, o per esser più
precisi, i metalmeccanici con la manifestazione del 2 dicembre a Roma
e con la minaccia dello sciopero generale?”
L.L.: “La
pressione del movimento sindacale ha certo avuto peso. Per esempio
alcuni partiti più legati alla classe operaia hanno avvertito la
pressione ed hanno accelerato i tempi del chiarimento. I partiti non
organizzano ‘anime morte’ ma uomini vivi. Niente di strano che
alcuni di essi sentano in modo speciale i loro rapporto coi
lavoratori ed altri, per esempio, i loro rapporti coi proprietari di
case.
I partiti
rappresentano ceti sociali”.
E.S.: “Lei pensa
che la battaglia che avete intrapreso sarà vincente alla base
operaia?”
L.L.: “Sì, ho
fiducia che ciò avvenga. Il gruppo dirigente della Federazione è
compatto e leale. Tutti stiamo facendo la nostra parte. Occorre che
la classe dirigente si dia carico del problema nazionale: questo è
fondamentale. Personalmente ho legato ormai il mio ruolo di dirigente
sindacale a quest’obiettivo.
Se l’obiettivo non
dovesse passare, se fosse respinto, ne trarrò anche personalmente le
conclusioni.
Ma questo sarebbe il
meno. Se non dovesse passare vorrebbe dire che nella classe operaia
avrebbero vinto gli egoismi di settore. Se questo avvenisse, non ci
sarebbe più speranza per questo paese. Ma io non credo che avverrà”.
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