domenica 1 aprile 2018

...MA LA FELICITÀ È UN’ALTRA COSA - Gianfranco Pala


Da: la Contraddizione, 141, Roma 2012 gianfrancopala è un economista italiano. - https://rivistacontraddizione.wordpress.com/ 




limiti, risorse, sostenibilità ... felicemente “decrescendo”

Sono molti, troppi, anni che gli imbonitori vanno cianciando di limiti delle risorse, di sostenibilità dello sviluppo, di altro-mondo-possibile (l’“altro mondo” forse?), ... “felicemente” affidandosi all’assenza di qualunque fondamento nella realtà mondiale, magari alla ricerca della pietra filosofale di una felicità interna lorda [dicono un fil che deve sostituire il pil, prodotto interno lordo]. Ma guai a toccare il modo di produrre, da cui dipende quel pil che teoreticamente deve misurare solo la scambiabilità della merce prodotta come valore, e non invece stimare l’auspicabile raggiungimento di una felicità attraverso la ricchezza, non solo quella materiale ma anche quella spirituale, prodotta e utilizzabile in quanto tale dall’intera comunità. Già è stato discusso, nelle linee generali, nel numero scorso il tema complesso della “felicità dei cittadini”, come fine formale dello stato, secondo Hegel. E prima ancora di lui, nel settecento, addirittura si ponevano le basi di tale obiettivo nei principii dello stato, in quanto all’epoca la felicità era intesa come “idea nuova”, “mutata ai nostri giorni nell’idea di "benessere" cui aggiungere, oltre al consumo di beni materiali, la conquista di "beni relazionali"” [cfr. no.140]. Non si ripete perciò qui che pure fin dalla remota antichità si è discusso di felicità entro le forme della vita associata e del reciproco controllo dei poteri. Ma lo stato borghese, non assolutista e tuttavia sempre più corrotto, dura soltanto dunque “finché le circostanze particolari impongono ai cittadini di sopportarlo, alla ricerca di risposte sociali alla "felicità" mancata”. Codesto fondamento attiene alla non permanenza del modo di produzione capitalistico, il cui rovesciamento diviene pertanto esiziale.

Dunque “la felicità è altra cosa; spesso è compagna della malinconia e perfino della tristezza e del dolore per la perdita e lo scempio” – ha scritto recentemente un compagno, Sergio Arioli – criticando contingentemente il turismo in montagna; ma l’osservazione si può riferire a tutta la natura originaria, la terra in senso lato, il mare e le acque. In una razionalità compiuta – secondo quello che Marx aveva chiamato “ricambio organico” con la natura, in cui la portata del pianeta si stabilisce in un rapporto dialettico con la crescita limitata della popolazione, di ogni popolazione, a finire quindi con quella umana che invece si è sottratta alle leggi della natura – ciò vuol dire che ci devono essere delle condizioni oggettive comuni, in maniera che si possano condividere tutte le situazioni non solo i momenti migliori ma anche le sofferenze. In simili circostanze sociali, qualora si riesca a determinarle, è altresì ovvio che miseria e dolori anche personali siano ineliminabili; molto spesso la consapevolezza fa sì che si abbia pure cognizione che “malinconia e tristezza, perdita e scempio” sono ineliminabili per la forza e l’arroganza del nemico – di classe.

Ma è diverso il contesto sociale quando anche le disgrazie personali siano condivise dagli altri membri della “comune”: è questo il significato straordinario di “felicitàcollettiva, onnicomprensiva per una vita realmente sociale. Una condizione simile si è potuta trovare, in particolare nel passato, in elementi di vita primitiva, tribale, contadina, paesana e nelle forme di vita associata strutturata in effettive “comunità”; in tali situazioni si può osservare come facessero parte di tale felicità vissuta in comunanza anche, a es., i riti funebri con la partecipazione di apposite prèfiche, seguita da banchetti offerti dai familiari a parenti e amici lì convenuti con oggetti e regali (oggi, invece, va di moda “applaudire” il feretro, per convenzione ipocrita, moralistica o pure spettacolare). Viceversa allora esisteva in quella maniera una vera “cultura della morte” come naturale e non ossimorico momento della vita, un necessario avvicendamento ciclico vitale che serviva a socializzare il lutto senza – ovviamente di norma, a meno di tragedie – drammatizzare l’evento.

Ora è essenziale e vero che si intrufoli surrettiziamente nell’arrendevole “senso comune” un rovesciamento ideologico nella rappresentazione di codeste comunità originarie. Nondimeno tale “rovesciamento” è effettivo e così esso si può afferrare compiutamente solo se è visto dialetticamente, non unilateralmente; sappiamo bene come esso sia funzionale a rappresentare la società del capitale, con il suo presunto “benessere”, come la più felice, “il migliore dei mondi possibili”. Epperò senza considerare la contraddizione tra l’ideologia e la realtà si affoga nella trascuranza il “carattere rivoluzionario” storico del capitale, come sosteneva Marx; anche se però oggi esso stesso, osservava Brecht, è “scivolato nell’incorporeo e nell’occulto” e quindi nel carattere distruttivo del cosiddetto progresso. È in tale unilateralità che si rischia l’irrazionalità antiscientifica e l’esaltazione in sé del “mito del buon selvaggio”, qualora ci si limiti a vedere senza contraddizioni storiche l’altrimenti supposta confortevole vita di tali comunità e la loro felicità. Infatti quei viventi reali non solo vengono “rappresentati”, ma “sono” costretti realmente in una costante lotta disperata e disperante contro le avverse forze della natura: questo è l’aspetto contraddittorio della faccenda, per risolvere il quale – in entrambe le forme insieme (non può esserci l’una senza l’altra) – occorre conservare ed elevare la vecchia nella nuova situazione (sempreché ci sia ancora tempo di sopravvivenza). Se è vero, come è stato notato, che gli unici ad afferrare immediatamente il falso ideologico sono proprio i residuali abitatori di residuali selve e deserti, ovunque espropriati di tutto, felicità compresa, appunto a causa di tale espropriazione per l’espansione della borghesia in “un’epoca sanguinaria e oscura in cui governano delle classi criminali”, per dirla ancora con le parole brechtiane, quei residuali abitatori – relegati senza coscienza e organizzazione adeguata – non possono fare niente contro i dominanti. Non può bastare, dunque, appagarsi con il dire che “prima” quegli abitatori erano decisamente più felici di noi: il povero Gauguin è un buon esempio di chi, avendo voce in arte e parte, poteva permettersi (non come adesso un lavoratore Fiat o un precario, per non parlare di un palestiense di oggi), “credeva” di rincorrere la “verginale” felicità primitiva del buon selvaggio, se non sognare la mitologica perdita del paradiso terrestre e dell’età dell’oro.

Sicché oggi, nel presente dominato dalla merce e soprattutto dal mercato nella sua forma capitalistica, e dal potere del denaro, che entro quel “modo” si sono vieppiù sviluppati, una vita comune reale non si trova. Si possono, sì, individuare “surrogati”, ma solo nella prefigurazione totale del pensiero o pure in maniera assai parziale nella realtà pratica di entità minime separate: ma codesti surrogati molto raramente sono autentici. È qui infatti che fioriscono abbondantemente anche falsità e menzogne – a cominciare da quelle propalate da associazioni segrete, sètte, ecc. e tutto quanto si basa sulla “fede”, anche laica, fino alle credenze “rivelate” dogmaticamente dalle religioni – nella finzione della “ecclesia” [dal greco, assemblea (del popolo)]. Ma ormai l’unica reale “concezione” o pure “pratica minima” di comunità – sotto il dominio mondiale del modo capitalistico della produzione, da cui in una maniera o nell’altra tutti i rammentati organismi menzogneri di “appartenenza” restano condizionati, in nome del potere, del comando, del profitto e del denaro: ovverosia della ricchezza sotto ogni aspetto – non può che essere la sola che si schiera e agisce contro il modo di produzione presentemente dominante: ossia, con il comunismo marxista, e non attraverso le sue protesi residuali e che sono sopravissute usurpando quel nome o nomi simili.

Si dirà che nel mondo ci sono tante altre realtà moderne, differenti dal comunismo marxista, che individuano la possibilità di una tale solidarietà condivisa. Tuttavia, basta osservare come le condizioni sociali, anche laddove c’è chi riteneva di essere pervenuto a una alternativa (vedi ex Urss o ex Cina o pure Vaticano o martirio islamico), vengano travolte e annullate dalla forma “sociale” dominante – quella del mercato del capitale, del consumo indotto, del denaro anelato per comprare (magari a debito), e per pagare tasse, mutui, debiti, e via integrandosi nelle regole capitalistiche. In questo quadro è opportuno riferirsi alla “comunicazione persuasiva”, correntemente detta pubblicità, e alle sue tecniche specifiche rivolte solo al tentativo capitalistico di vendere le eccedenze di produzione, in una dura lotta di concorrenza con gli altri capitali: tutti cercano, in tale lotta dell’uno contro l’altro di accaparrarsi il plusvalore residualmente esistente attraverso un consumo irrazionale, ma “razionale” per il capitale. Tutto ciò colpisce inesorabilmente chi si bea e si appaga dei falsi “surrogati” di cui sopra, cercando di “scalare” il proprio status sociale, sia esso popolare o sia in àmbito religioso o pseudo comunista. Pertanto non può essere immediatamente una questione di “identità”, come si è soliti dire, se non c’è già prima una entità oggettiva, conosciuta e che faccia paura – “un’entità è una potenza impersonale che può fare spavento”, ha scritto Saul Bellow – semmai anche come “spettro”, ai nemici di classe; giacché quest’ultima spaventa pure gli pseudo “compagni” che si schierano dalla parte dell’identità-comunista-per-appartenen­za, quando la realtà e la verità non è conosciuta neppure da essi.

E per la specie umana – anche quella che nel marxismo si suole chiamare “seconda natura”, frutto della ragione sviluppata sulla base di quella prima natura originaria attraverso cultura, scienza, arte, insomma pensiero – ciò si amplifica giacché a es. “i turisti che ora aggrediscono le montagne non le vedono, non vedono le sue genti, i segni di secoli di fatiche e passioni”, gli umani, dice Arioli, ormai “non percepiscono la bellezza: vivono la "montagna" – come il resto che resta – solo come consumo, o, ancora peggio, come predazione”. Gli infelici non vedono nulla di bello, “il resto che resta”, giacché ciò che rende “felici” è capire le contraddizioni reali di tutta l’esistenza applicando la propria intelligenza; intelligenza che è di molti. Notava Brecht – in chiave marxista, applicandola allo “straniamento” teatrale [cfr. Scritti teatrali] – che per essere in “molti”, anche nella realtà della lotta sociale, occorre concepire un paio di cose. Ognuno per non rimanere “all’oscuro circa la natura della società umana” e trovarsi così “di fronte alla possibilità di una totale distruzione del pianeta”, deve preliminarmente cercare per se stesso un “effetto di straniamento” che “lascia riconoscere l’oggetto, ma al tempo stesso lo fa apparire estraneo”: se “ci si mette dal punto di vista della palla, è evidente che le leggi del moto diventano inconcepibili”. Ma poi – ed è molto più difficile da capire – per arrivare a essere in molti, una massa quale è richiesta da una società in “comune”, comunista, bisogna concepire che “la più piccola unità sociale non è l’uomo, ma due uomini”. Questo perché “nella vita ci costruiamo a vicenda” e solo in codesto modo al minimo in due può intervenire la discussione, la dialettica, la contraddizione.

E se pure oggi si è in una bruttissima situazione, i “tempi bui” degli anni 1930 sono stati sicuramente per questo verso sociale e politico (forse non economico in senso stretto se pensiamo al 1871) peggiori degli attuali, ciò che dilegua è la conoscenza dettagliata del funzionamento del rapporto di capitale, la coscienza di classe: e sì allora che di lavoro pratico da fare, a séguito di quello teorico che come dice anche Lenin non può essere scisso da esso, ce n’è a iosa, se si pensa al livello di abbandono del marxismo di lotta da parte delle masse. Perché se è vero che la minima unità di cui parlava Brecht non è un individuo (come tale “indivisibile”) ma due persone, per il comunismo ne occorrono molte di più di due, servono le masse coscienti e il lavoro da fare è massacrante, senza inoltre poterne vedere presto i risultati. Paul Klee concludeva una sua poesia del 1928 (ossia l’anno prima della crisi del 1929!) sull’arte moderna “ci manca ancora la forza fondamentale: le masse non sono con noi. Ma noi cerchiamo le masse. Le mie parole non si rivolgono a ciascuno in isolamento, ma si integrano e mettono a fuoco le impressioni. Di più non possiamo fare”. Dunque tutto ciò implica l’intelligenza degli eventi sociali, che in quanto tale è a priori indipendente dall’istruzione; tuttavia chi ha avuto la fortuna di riceverla, sa che ogni tipo di acculturazione aiuta: Marx sosteneva che chi ha quella fortuna ha il dovere di “lavorare per il mondo!”. Nella misura in cui la specie umana tende a sviluppare anche la ricchezza spirituale, la bellezza costruita con cultura, scienza e arte, è qui che entra la lotta per il comunismo e la sua superiore “felicità”, ed è qui che c’entra comunque – rispetto a una generica popolazione, non a un popolo che a differenza da quella ha una struttura sociale e una storia ben definita, la quale ha invece perduto o non ha mai avuto una coscienza – al “gregge senza idee”, come chiamava Marx le masse prive di coscienza, i “turisti della vita” si potrebbe dire per estensione con le parole di cui sopra. Perciò anche se il comunismo reale pratico – quello che consiste intanto in ciò che, scrissero Engels e Marx nell’Ideologia tedesca (1845), è “il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” – non riuscissimo a raggiungerlo o a vederlo, è quella coscienza di classe accompagnata a quella della comunità e della società che ci eleva su tutti. Qualche comunista serio e conoscitore dell’analisi marxiana è così convinto della giustezza di questa indicazione capace di procurare una ricompensa immediata che può limitarsi a una sua enunciazione apodittica.

Tutto ciò non vuol dire affatto, pertanto, che la felicità in senso totale, e non circoscritta solo a eventi gioiosi e spensierati, possa essere data da comportamenti insani come quelli di una beata demenza da “lupetto-dei-boy-scout” o da chierichetto bischero, di un’utile idiozia del tipo dei “fratelli ignorantelli”, di un continuo atteggiamento ridanciano anche per assentire a comando di fronte a barzellette da deficiente, fino a definire “felice” [ogni riferimento alla cosiddetta decrescita-felice di Pallante\Latouche non è puramente casuale] un inviluppo che fa decrescere la produzione di valori d’uso. A costoro non interessa affatto che ciò sia fatto dall’imperialismo del capitale ai danni di tutta la società mondiale di esclusi, emarginati, poveri, affamati e assetati ma a privilegiato vantaggio di coloro che si possono permettere simile lusso, i super ricchi, e dei loro squallidi lacchè della classe media, professionisti della disinformazione (economisti, sociologi, filosofi, storici e via surrettiziamente politicando). Quegli “economisti” – sensa aggiungervi, secondo Marx, qualsivoglia aggettivazione, da “borghesi”, dominanti, “illuminati”, mainstream, “progressisti-conservatóri” e via fingendo invece di essere ciò che non sono – e i sicofanti vari del potere politico, oggi dominante, indubitabilmente borghese, non criticano mai i rapporti di proprietà esistenti. Anche se costoro si atteggiano a critici-critici, magari nelle segrete del Vaticano o nelle sale nascoste delle istituzioni finanziarie, più o meno occulte, non vogliono capovolgere quei rapporti di proprietà, non vogliono che si instauri un modo di produzione progressivo, successivo a quello capitalistico, sotto il controllo diretto dei produttori che lavorano – controllo da conquistare e costruire pian piano con lunghe lotte. Per tutti quegli individui di ogni genere e sesso, razza e colore, religione e tradizione, ma in ogni caso asserviti al potere – economisti, politici, sociologi, preti, filosofi e chi abbia più retorica la metta pure – l’imperialismo del capitale mondiale va benissimo così, come sistema, solo che, semmai lo si voglia “migliorare”, basterebbero qua e là aggiustamenti dove ci fosse qualche ingiustizia [ci “fosse”?? come se l’ingiusti­zia fosse un’eccezione, sanabile entro di esso, e non la regola del sistema!].

La ragione propria della specie umana, evoluta per allargarsi in quella seconda natura attraverso un divenire dialettico, è però calpestata. Ma vedere la ricchezza del passato implicherebbe perciò un’incessante ricerca per integrarla nelle scoperte della novità del presente. La prima è però conservata realmente, non nostalgicamente nella memoria smarrita, solo se la seconda venga continuamente elevata, in una sorta di aufhebung hegeliano di quelle fasi temporalmente distinte ma contigue. E questa è l’unica maniera dialettica per risolvere la contraddizione reale onde evitare la distruzione “luddista” delle innovazioni via via scoperte. Invece la dissipazione, anche se inconsapevole per inerzia, rabbassa in maniera appiattita e unilaterale la finzione storica attraverso il rifugiarsi nell’illusione di ritrovare solo il mito del “buon selvaggio” qual era, così come pensavano gli illuministi di fine 1700 (per i limiti storici di allora), e con quel mito anche le connesse antiche “tradizioni”.

Codesto svuotamento della realtà contraddittoria è un risultato indesiderabile del cattivo “senso comune” – il quale, non potendo mai attingere al “buon senso”, come vuole Hegel, per definizione è cattivo – cosicché possa limitarsi ad affermare che il “denaro non fa la felicità”. Ma ciò è un’ovvia banalità e détta così è solo volgare moralismo religioso: i filo\teosofi dicono “essere e non avere”. Invece, vedendone l’unità contraddittoria e negandone la negazione è giusto ritenere che, in un mondo dominato dal denaro e dallo scambio su di esso basato – quindi anche molto precedente al sistema mercantile e a maggior ragione alla trasformazione del denaro in capitale che è merce nella sua forma più compiuta – il possesso del denaro è essenziale per avere lo stretto necessario alla sopravvivenza. Completando l’unità mancante nell’ovvietà moraleggiante del detto popolare – “a contrario” come in una variazione musicale – senza denaro sotto il dominio di una classe proprietaria non si può vivere, si è schiavi, servi, poveri, emarginati, proletari o pure integrati nelle spire del sistema “democratico”.

Ecco: la presunta democrazia, la quale non può concepirsi come “democrazia all’ateniese” – che è un ossimoro, prima sociale che linguistico – rappresentando questa il dominio di classe in forma elitaria, ristrettissima e violenta, rispetto alla massa di tutta la popolazione reale (il dèmos): perciò la loro democrazia è falsa, ma i moderni ne usano l’esempio con ipocrisia voluta, mentendo [per inciso: in un italiano che è deficitario poiché costoro lo attenuano e smussano da tutti i lati, essi aggiungono pleonasticamente un “mente sapendo di mentire”: mentre mentire, come vuole la lingua italiana corretta, ma anch’essa dimenticata, già implica il “dire consapevolmente il falso”]. Per questo si può se mai affermare “inconsapevolmente” il falso, solo se si è all’oscuro della verità, cosa che nel passato più o meno remoto è avvenuto, per ignoranza o superstizione, ma con l’avanzare delle conoscenze codesta ingenuità è sempre rimasta indietro (dalle tradizioni misteriche alle religioni tutte – “le religioni tengono conto del fatto che credere vuol dire non sapere niente” [Karl Kraus]).

Di fronte allo smascheramento degli imbrogli, cui alcuni ancora però “credono” come dogmi, quali la resurrezione e ascensione di Cristo quasi ignorata dagli evangelisti, la verginità della madonna “riscoperta” dopo cinque secoli, e la sua ascensione dichiarata dogma nientemeno che nel 1950 da Pio xii, come pure la favola del flogisto annullato dalla chimica o il geocentrismo cancellato da Copernico e Galileo, sulla cui teoria la chiesa ha però “mentito” ancora per secoli). Dunque chi mente è pienamente consapevole di ciò dice, senza ipocrite attenuanti: si pensi al papa moderno o a un qualunque potente, re o presidente della repubblica o del consiglio, non come barzellettiere ma in quanto gestore di appalti e di grane con la magistratura e se abbia senso che si possa ritenere che costoro siano all’“insaputa” di tutto quanto oggi avviene, o se sui rapporti tra mafia e stato si tratti soltanto di dimenticanze e fraintendimenti o di diffusione tendenziosa di falsi, e non invece di consapevoli menzogne.

Pertanto anche straparlare di “democrazia diretta” è un non senso. Una simile situazione si può presentare soltanto in aree limitate e ristrette capaci di sostenere tutta la popolazione residente, stanziale o di passaggio. Solo allora nessun umano potrebbe essere escluso, se non per delibera collettiva o arbitrariamente con la violenza, dalle decisioni che la comunità prendesse. Con la crescita media della popolazione (cosa che avviene con lo sviluppo), sempre in minor numero sono le aree – tribali e tanto meno statuali – che possono fruire di un tale privilegio decisionale, seppure vincolato da regole tradizionali, esoteriche o pure magiche, affidate alla saggezza dei “vecchi”, sciamani o santoni, senza che in esse si presentino problemi di sovrapopolazione [l’eccedenza di sovrapopolazione relativa alla capacità di sostentamento autosufficiente dell’area naturale occupata è peraltro un’invenzione del capitale, nei termini della sua dominanza storica]. Sì che ormai nel mondo intero si possono contare sulla punta delle dita comunità, soprattutto nomadi di gruppo, in simili condizioni.

Per queste ragioni tutte le forme di cosiddetta “democrazia diretta” sono pure chiacchiere, parole al vento; basti pensare a qualsiasi pur piccolissimo comune di una nazione moderna e alle inevitabili sue relazioni sociali e monetarie per toccarlo con mano. Ma al di là di ciò l’enorme dimensione dell’“universo mondo”, con i 7 miliardi e passa di persone che presto diventeranno 10 e oltre, mostra come nelle grandi aggregazioni sociali – anche laddove alcuni hanno provato a cianciare di democrazia diretta in nome di un “comunismo” soltanto immaginato, in paesi grandissimi come l’ex Urss o la Cina popolare che fu – l’unica esperienza che ha avuto senso tentare non è stata quella diretta ma quella della “democrazia rappresentativa”: certo, per una effettiva rappresentatività occorrono complicatissime e, alla prova dei fatti, inefficaci regole di controllo elettorale e post elettorale; sicché si è giunti al punto in cui la borghesia si è malamente appropriata del sistema elettivo come mero meccanismo e lo ha assunto, in varie forme, più o meno camuffate e truffaldine, a proprio dogma istituzionale.

Senonché, ciononostante, tutti gli imbonitori della fatta di cui sopra vorrebbero “migliorare-il-mondo” seguitando però a sostenere che il modo sociale esistente non va cambiato ma soltanto “migliorato”. Engels [cfr. Antidühring, sez.iii, §.4], era il 1878, dileggiava così quei signori “progressisti positivisti” dell’epoca, scrivendo che per costoro “il modo di produzione capitalistico va bene e può continuare a esistere, mentre il modo di distribuzione capitalistico è del maligno e deve sparire”. La “socialità” anche di quei moderni ciarlatani “non è altro che l'attuazione di questo principio nella fantasia” giacché non hanno “quasi assolutamente niente da eccepire contro il modo di produzione, come tale, della società capitalistica”, vogliono “conservare la vecchia divisione del lavoro in tutti i rapporti essenziali”. Perciò non hanno “da dire una sola parola anche riguardo alla produzione in seno alla sua comunità economica”.

Gli incantatori recenti, da piazzisti e delatori quali sono, hanno perciò rigiocato in varia maniera con lo stesso mazzo di carte truccate trovato sul tavolo del potere: con “modelli” matematici pseudolineari – come ha fatto il Mit con i Limiti dello sviluppo, attraverso Donella e Dennis Meadows basandosi sulla simulazione al computer, dietro commissione del cosiddetto Club di Roma nel 1972, sotto la guida di Aurelio Peccei e altri, sbagliando grossolanamente i tempi delle previsioni, che per altri versi potevano pur essere in parte giuste, ma errate proprio perché erano del tutto mancanti di concetto e analisi dello sviluppo storico sociale, delle sue contraddizioni e delle sua cause – dove pertanto la matematica è ridondante e pertanto inutile, e dannosa. O pure si è proseguito con appelli moralistici e fideistici di tipo religioso, dal cristianesimo cattolico con il papa di Roma del “crescete-e-moltiplicatevi” al monetizzato protestantesimo anglosassone e americano, metodista o mormone o altro, fino al “martirio” islamico e agli affari giudaici.

Non per nulla il genio di Einstein, nel 1954 poco tempo prima di morire, fu costretto a ripetere non solo che “la parola Dio per me non è più di un’espres­sione e un prodotto della debolezza umana” ma altresì che “la Bibbia è una collezione di onorevoli ma primitive leggende per lo più infantili. Nessuna interpretazione, di nessun genere, può cambiare questo per me”: frasi per noi ovvie scritte in una lettera, che tuttavia il “mercato” capitalistico oggi “valuta” a partire dai tre milioni di dollari! Tutte forme di credenze, codeste, alla base di religioni che sono; a parole soprattutto, monoteistiche; ma non è mai stato solo così, se si pensa alle immagini mondane di baruffe e liti familiari o di potere, tribale e via via statale e politico, trasferite dagli uomini nell’empireo celeste, quale che esso sia, dall’antichità olimpica greca e da quella gretta romana fino a oggi per “guadagnarsi” la promessa (da chi?) salvazione eterna: dio-è-con-noi (con chi?), gott-mit-uns, god-save-the-king [ovvero queen, country, ecc.], allah-akhbar e così via per esaltare i gonzi creduloni. O pure ancora con sistemi economici falsi e raffinati, ma incoerenti giacché è impossibile realizzarli se non abbattendo la proprietà privata esistente.

La storia ultradecennale che si diceva all’inizio ha però avuto una doppia accelerazione: dal lato oggettivo perché la situazione planetaria è peggiorata moltissimo nella portabilità del rapporto tra dissipazione della natura e tracimazione della sovrapopolazione, il rammentato marxiano “ricambio organico con la natura” [si ricordi quanto detto, cioè che addirittura da un secolo fa l’inquina­mento, i cambiamenti climatici, ecc. si sono moltiplicati in una maniera tale da non riuscire a commisurarli più, così come pure la popolazione]; dal lato soggettivo per l’interpretazione “catastrofista” che, leggendo unilateralmente la probabile catastrofe, è stata data come sola accezione possibile. I due lati sono ovviamente connessi ed entrambi in un certo senso “veri”, ma nella loro unilateralità e atemporalità seminano solo sconcerto e disinformazione.

La questione ha però un’origine precisa, relativa a una domanda a suo tempo posta diffusamente e che ancora oggi trova risposte inadeguate: ci si è domandati se la quantità della ricchezza (valori d’uso) oggi esistente al mondo sia o no sufficiente per sostenere il socialismo (e neppure si può pensare al “comunismo”. figuriamoci!) per tutti i miliardi di viventi (ancora in crescita numerica), o se potesse bastare la “riconversione” alla produzione cosiddetta “civile” delle attività connesse al “complesso industriale militare”, ecc. Ma occorrerebbero decine di anni anche per un’altrettanto profonda “riconversione” dello stile di vita della popolazione più o meno benestante, fino alla piccola borghesia e ai dirigenti dei paesi imperialisti. Secondo calcoli di fisica, puramente esemplificativi nel loro quantitativismo, non sospettabili di valutazioni avverse, per portare tutti i viventi ai livelli di Usa e Ue occorrerebbe moltiplicare per 80 volte il prodotto mondiale; e se si tiene presente anche che 2 miliardi di persone “sopravvivono” con poco più di 1 dollaro al giorno, ossia quanto detengono le prime cinquecento famiglie al mondo, l’espropriazione di queste ultime porterebbe tutto il pianeta a disporre di poco più di 2 dollari al giorno ... ma per un solo anno!

Detto questo occorre considerare un altro paio di cose:
a. le proteine così reperibili per tutti, niente affatto inutili e superflue, sarebbero comunque ben poca cosa (il marxismo ammonisce che con un solo uovo sodo per 10 persone non si “fa” il comunismo!) e certo non si potrebbe neppure assolutamente pensare, riflettere, “far filosofia a stomaco vuoto”, ecc. [e per colmo si pensi che tra le calorie necessarie le statistiche internazionali includono anche quelle apportate del consumo di alcoolici! con grande sollazzo di slavi o alcolizzati anglosassoni per la loro sazietà!];
b. a parte i paradossi statistici, si sa che i valori d’uso esistenti risiedono inevitabilmente nelle merci, prodotte attraverso il più mostruoso sfruttamento perpetrato con l’organizzazione del lavoro data dal modo di produzione capitalistico; dunque se pure nel presunto “socialismo” si volessero rispettare di più i lavoratori, la già misera ricchezza attuale complessivamente disponibile si dimezzerebbe.
In questo contesto si innestata la “follia” latouchiana della cosiddetta “decrescita” – da alcuni anche ritenuta “felice” – scritta e propalata da luoghi ameni, riservati alla media borghesia intellettuale. E non invece ai 7, prossimi 10, miliardi di umani, a un miliardo dei quali già adesso manca l’acqua potabile, e sono molti soprattutto bambini che soffrono la fame fino a morirne: si è detto prima che la “riconversione” dello stile di vita di tali persone è lunga e finanche impossibile, al contrario di quanto ipotizzano Latouche e i suoi adepti e diversi altri teorici tipo Rifkin fautori della cosiddetta “produzione sostenibile”.

Tutto quello che potrebbe a mala pena bastare sarebbe – forse – a mala pena sufficiente per una mera sopravvivenza biologica, alla quale però praticamente tutti dovrebbero adeguarsi per evitare un’estinzione di massa sul pianeta: ma il tempo che passa è più rapido a far collassare il pianeta che seguire i “folli” convinti di poter cambiare modo di vita. Appunto, Marx avendo in mente l’esigenza di un equilibrio armonico con la natura, lo definiva sinonimo di modo di produzione. Senonché a tutti-quanti-quei-signori obbedienti ai padroni non sfiora affatto la testa, neppure le orecchie (sarebbe troppo pensare a un ... cervello), che è pregiudiziale rovesciare il modo di produzione dominante, che è quello capitalistico. E si torna a quanto già detto e ripetuto fin dall’inizio. Praticamente tutte le posizioni impropriamente dette “ambientaliste” o “ecologiste” – che non considerano neppure il lato preliminarmente materiale del “ricambio organico con la natura” – non mettono mai seriamente in discussione il predominio del modo capitalistico di produzione; tutt’al più costoro auspicano un-mondo-migliore-e-più-giusto che però non osi aggredire gli attuali rapporti di proprietà privata (che sono espropriazione delle masse): tutto dovrebbe essere svolto entro il capitalismo stesso. quello presunto “buono” di contro a quello detto cattivo, accedendo a valutazioni moralistiche che sono fuori luogo.

In effetti le cose non vanno affatto bene se si considera, a es., il fabbisogno mondiale di alimenti (da non ridurre solo a calorie), acqua inclusa, non soltanto di quella potabile (e il cambiamento climatico peggiorerà le cose), o che la siccità desertifica i terreni e che l’acqua non nasce come valore ma è un valore d’uso non “trasportabile” (inutile predicarne il risparmio, a es. in Italia, quando si muore di sete nell’Africa subsahariana), o che c’è crisi di energia (che però sarebbe trasferibile e anche razionalizzabile e il cui consumo complessivamente riducibile: ma è l’enorme potere delle imprese transnazionali che specula indiscusso su quella crisi), o che grandissima parte della popolazione mondiale non ha i cosiddetti “farmaci essenziali”, e manca di scuole di ogni tipo, ecc. Insomma, anche se tutte le classi popolari che già ora stanno regredendo a livelli di vita ancestrali, ciò non basta ancora; ma la classe dominante sarebbe forse in grado di tornare nelle caverne? Cionondimeno pure se pane e acqua sporca potessero ... “soddisfare” la massa della popolazione mondiale, prescindendo dal necessario rovesciamento del modo di produzione – che in quanto tale comporta anche quello dei suoi rapporti sociali, per la portata del pianeta e per le forme della proprietà – il problema, dunque, non è meramente materiale o tecnologico, ma concettualmente storico ed essenzialmente sociale.

Né il comunismo, ma neppure il socialismo, sono puri processi quantitativi, i quali costituiscono bensì elementi oggettivi per le condizioni materiali indispensabili (basterebbe, a eliminare questa illusione, la storiella dell’“uovo sodo” per dieci persone): detto in termini marxiani occorre un adeguato sviluppo materiale delle “forze produttive” del lavoro sociale. Ma ciò esige un’enorme richiesta di formazione e costruzione della coscienza – o meglio della coscienza di classe; senonché, c’è pure qualche pseudo “comunista” che si esalta ritenendo possibile tale scelta sacrificale, non per se stesso il che è lecito, bensì per le grandi masse! ... ma la felicità è un’altra cosa. Di fatto oggi si è al punto che, col prevalere della cattivissima (dis)informazione ideologica ammannita da stampa e televisione, sarebbe lecito pensare di stare addirittura in una fase di pericolosa discesa, soprattutto tra i giovani, tranne rarissime eccezioni, deprivati anche di qualsiasi memoria storica.

Ecco, allora, che pur se per assurdo la mera quantità della ricchezza mondiale fosse sufficiente (ma si sa che ciò non è nemmeno pensabile), essa imporrebbe una più che improbabile presa di coscienza di massa per una “riconversione” forzata al cambiamento del modo di vita per milioni di persone dei paesi imperialistici. Un tale rivolgimento necessiterebbe di decenni, di rivoluzioni o di guerre e catastrofi. Chi, anche tra il popolo, tra i lavoratori, nelle città cosiddette “occidentali”, rinuncerebbe agli usi acquisiti sotto la spinta di un consumismo che non si possa neppure più sostenere, indebitandosi pur di andare avanti (mutui-casa, carte di credito, cambiali, protesti, ecc.)? Ma è necessario anche ritornare sulla considerazione di come sia prodotta la ricchezza oggi nell’attuale quantità; non si tratta di fare del “catastrofismo”, che come detto molti invece agitano, ma solo di capire la tragica tendenza catastrofica, questa sì, dei limiti della realtà attuale e della “lunga e tormentosa” – diceva Marx – strada che il comunismo deve ancora percorrere, attraversando periodi bui di retrocessione drammatica.

Se però si tiene conto dello sfruttamento, degli orari, dell’emarginazione, della precarietà e del massacro cui sono sottoposti i lavoratori (dai bambini indonesiani, agli operai cinesi e pure all’ordinaria follia del sistema di lavoro salariato con i tanti morti sul lavoro, ogni giorno in Italia e nel mondo), quella ricchezza è pagata con tanto sangue e fatica è da considerare comparativamente a una pur lontana possibilità per il comunismo! Allora, se le masse volessero lavorare in condizioni degne del nome di comunismo, quella quantità di ricchezza, già largamente insufficiente per la popolazione mondiale attuale, risulterebbe necessariamente più che dimezzata (lavorando di meno e più lentamente, e non come pretenderebbe Carlin Petrini per tutti in questo mondo), con la vera felicità, che appunto è collettiva, comune, contraddittoria: ma è ... un’altra cosa! 



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