Da: la
Contraddizione, 141,
Roma 2012 - gianfrancopala è un economista italiano. - https://rivistacontraddizione.wordpress.com/
limiti, risorse, sostenibilità ... felicemente “decrescendo”
Sono
molti, troppi, anni
che gli imbonitori vanno cianciando di limiti delle risorse, di
sostenibilità dello sviluppo, di altro-mondo-possibile (l’“altro
mondo” forse?), ...
“felicemente” affidandosi all’assenza di qualunque fondamento
nella realtà mondiale, magari alla ricerca della pietra filosofale
di una felicità
interna lorda [dicono un fil
che deve sostituire il pil, prodotto
interno lordo]. Ma guai a toccare il modo
di produrre, da cui dipende quel pil che teoreticamente deve misurare
solo la scambiabilità
della merce
prodotta come valore,
e non invece stimare l’auspicabile raggiungimento di una felicità
attraverso la ricchezza,
non solo quella materiale ma anche quella spirituale, prodotta e
utilizzabile in quanto tale dall’intera comunità. Già è stato
discusso, nelle linee generali, nel numero scorso il tema complesso
della “felicità dei cittadini”, come fine formale dello stato,
secondo Hegel. E prima ancora di lui, nel settecento, addirittura si
ponevano le basi di tale obiettivo nei principii dello stato, in
quanto all’epoca la felicità era intesa come “idea nuova”,
“mutata ai nostri giorni nell’idea di "benessere" cui
aggiungere, oltre al consumo di beni materiali, la conquista di "beni
relazionali"” [cfr. no.140]. Non si ripete perciò qui che
pure fin dalla remota antichità si è discusso di felicità entro le
forme della vita
associata e del
reciproco controllo dei poteri. Ma lo stato borghese, non assolutista
e tuttavia sempre più corrotto, dura soltanto dunque “finché le
circostanze particolari impongono ai cittadini di sopportarlo, alla
ricerca di risposte sociali alla "felicità" mancata”.
Codesto fondamento attiene alla non permanenza del modo di produzione
capitalistico, il cui rovesciamento
diviene pertanto esiziale.
Dunque
“la felicità è altra cosa; spesso è compagna della malinconia e
perfino della tristezza e del dolore per la perdita e lo scempio” –
ha scritto recentemente un compagno, Sergio Arioli – criticando
contingentemente il turismo in montagna; ma l’osservazione si può
riferire a tutta la natura
originaria, la terra in senso lato, il mare e le acque. In una
razionalità compiuta – secondo quello che Marx aveva chiamato
“ricambio organico”
con la natura, in cui
la portata del pianeta
si stabilisce in un rapporto dialettico con la crescita limitata
della popolazione,
di ogni popolazione, a finire quindi con quella umana che invece si è
sottratta alle leggi della natura – ciò vuol dire che ci devono
essere delle condizioni oggettive comuni,
in maniera che si possano condividere tutte
le situazioni non solo i momenti migliori ma anche le sofferenze. In
simili circostanze sociali, qualora si riesca a determinarle, è
altresì ovvio che miseria e dolori anche personali siano
ineliminabili; molto spesso la consapevolezza fa sì che si abbia
pure cognizione che “malinconia e tristezza, perdita e scempio”
sono ineliminabili per la forza e l’arroganza del nemico
– di classe.
Ma
è diverso il contesto
sociale quando anche
le disgrazie personali siano condivise dagli altri membri della
“comune”: è questo il significato straordinario di “felicità”
collettiva,
onnicomprensiva per una vita realmente sociale. Una condizione simile
si è potuta trovare, in particolare nel passato, in elementi di vita
primitiva, tribale, contadina, paesana e nelle forme di vita
associata strutturata in effettive “comunità”; in tali
situazioni si può osservare come facessero parte di tale felicità
vissuta in comunanza anche, a es., i riti funebri con la
partecipazione di apposite prèfiche, seguita da banchetti offerti
dai familiari a parenti e amici lì convenuti con oggetti e regali
(oggi, invece, va di moda “applaudire” il feretro, per
convenzione ipocrita, moralistica o pure spettacolare).
Viceversa allora esisteva
in quella maniera una vera “cultura
della morte” come
naturale e non ossimorico momento
della vita, un
necessario avvicendamento ciclico vitale che serviva a socializzare
il lutto senza – ovviamente di norma, a meno di tragedie –
drammatizzare l’evento.
Ora
è essenziale e vero che si intrufoli surrettiziamente
nell’arrendevole “senso comune” un rovesciamento
ideologico
nella rappresentazione di codeste comunità originarie. Nondimeno
tale “rovesciamento” è effettivo
e così esso si può afferrare compiutamente solo se è visto
dialetticamente,
non
unilateralmente;
sappiamo bene come esso sia funzionale a rappresentare la società
del capitale, con il suo presunto “benessere”, come la più
felice, “il migliore dei mondi possibili”. Epperò senza
considerare la contraddizione tra l’ideologia e la realtà si
affoga nella trascuranza il “carattere rivoluzionario” storico
del capitale, come sosteneva Marx; anche se però oggi esso stesso,
osservava Brecht, è “scivolato nell’incorporeo e nell’occulto”
e quindi nel carattere distruttivo
del cosiddetto progresso. È in tale unilateralità che si rischia
l’irrazionalità antiscientifica e l’esaltazione in sé del “mito
del buon selvaggio”, qualora ci si limiti a vedere senza
contraddizioni storiche l’altrimenti supposta confortevole vita di
tali comunità e la loro felicità. Infatti quei viventi
reali non solo
vengono “rappresentati”, ma “sono”
costretti realmente
in una costante lotta disperata e disperante contro le avverse forze
della natura: questo è l’aspetto contraddittorio
della faccenda, per risolvere il quale – in entrambe
le forme insieme (non
può esserci l’una senza l’altra) – occorre conservare
ed elevare la
vecchia nella nuova situazione (sempreché ci sia ancora tempo di
sopravvivenza). Se è vero, come è stato notato, che gli unici ad
afferrare immediatamente il falso
ideologico sono
proprio i residuali abitatori di residuali selve e deserti, ovunque
espropriati di tutto, felicità compresa, appunto a causa di tale
espropriazione per l’espansione della borghesia in “un’epoca
sanguinaria e oscura in cui governano delle classi criminali”, per
dirla ancora con le parole brechtiane, quei residuali abitatori –
relegati senza coscienza e organizzazione adeguata – non possono
fare
niente contro
i dominanti. Non può bastare, dunque, appagarsi con il dire che
“prima”
quegli abitatori
erano decisamente più felici di noi: il povero Gauguin è un buon
esempio di chi, avendo voce in arte e parte, poteva permettersi (non
come adesso un lavoratore Fiat o un precario, per non parlare di un
palestiense di oggi), “credeva” di rincorrere la “verginale”
felicità primitiva del buon selvaggio, se non sognare la mitologica
perdita del paradiso terrestre e dell’età dell’oro.
Sicché
oggi, nel presente dominato dalla merce e soprattutto dal mercato
nella sua forma capitalistica, e dal potere
del denaro, che entro
quel “modo” si sono vieppiù sviluppati, una vita comune reale
non si trova. Si possono, sì, individuare “surrogati”, ma solo
nella prefigurazione totale
del pensiero
o pure in maniera assai parziale
nella realtà pratica
di entità minime separate: ma codesti surrogati molto raramente sono
autentici. È qui infatti che fioriscono abbondantemente anche
falsità e menzogne – a cominciare da quelle propalate da
associazioni segrete, sètte, ecc. e tutto quanto si basa sulla
“fede”, anche laica, fino alle credenze “rivelate”
dogmaticamente dalle religioni – nella finzione della “ecclesia”
[dal greco, assemblea (del popolo)]. Ma ormai l’unica reale
“concezione” o pure “pratica minima” di comunità
– sotto il dominio mondiale del modo capitalistico della
produzione, da cui in una maniera o nell’altra tutti i rammentati
organismi menzogneri di “appartenenza” restano condizionati, in
nome del potere, del comando, del profitto e del denaro: ovverosia
della ricchezza sotto ogni aspetto – non può che essere la sola
che si schiera e agisce contro
il modo di produzione
presentemente dominante: ossia, con il comunismo
marxista, e non
attraverso le sue protesi residuali e che sono sopravissute usurpando
quel nome o nomi simili.
Si
dirà che nel mondo ci sono tante altre realtà moderne, differenti
dal comunismo marxista, che individuano la possibilità di una tale
solidarietà condivisa. Tuttavia, basta osservare come le condizioni
sociali, anche laddove c’è chi riteneva di essere pervenuto a una
alternativa (vedi ex Urss o ex Cina o pure Vaticano o martirio
islamico), vengano travolte e annullate dalla forma “sociale”
dominante – quella del mercato del capitale, del consumo indotto,
del denaro anelato per comprare (magari a debito), e per pagare
tasse, mutui, debiti, e via integrandosi nelle regole capitalistiche.
In questo quadro è opportuno riferirsi alla “comunicazione
persuasiva”, correntemente detta pubblicità,
e alle sue tecniche specifiche rivolte solo al tentativo
capitalistico di vendere le eccedenze di produzione, in una dura
lotta di concorrenza con gli altri capitali: tutti cercano, in tale
lotta dell’uno contro l’altro di accaparrarsi il plusvalore
residualmente esistente attraverso un consumo irrazionale, ma
“razionale” per il capitale. Tutto ciò colpisce inesorabilmente
chi si bea e si appaga dei falsi “surrogati” di cui sopra,
cercando di “scalare” il proprio status
sociale, sia esso popolare o sia in àmbito religioso o pseudo
comunista. Pertanto non può essere immediatamente una questione di
“identità”, come si è soliti dire, se non c’è già prima una
entità
oggettiva, conosciuta e che faccia paura – “un’entità è una
potenza impersonale che può fare spavento”, ha scritto Saul Bellow
– semmai anche come “spettro”, ai nemici di classe; giacché
quest’ultima spaventa pure gli pseudo “compagni” che si
schierano dalla parte dell’identità-comunista-per-appartenenza,
quando la realtà e la verità non è conosciuta neppure da essi.
E
per la specie umana –
anche quella che nel marxismo si suole chiamare “seconda natura”,
frutto della ragione sviluppata sulla base di quella prima
natura originaria
attraverso cultura, scienza, arte, insomma pensiero – ciò si
amplifica giacché a es. “i turisti che ora aggrediscono le
montagne non le vedono, non vedono le sue genti, i segni di secoli di
fatiche e passioni”, gli umani, dice Arioli, ormai “non
percepiscono la bellezza: vivono la "montagna" – come
il resto che resta –
solo come consumo, o, ancora peggio, come predazione”. Gli infelici
non vedono nulla di
bello, “il resto che
resta”, giacché ciò che rende “felici” è capire
le contraddizioni reali di tutta l’esistenza
applicando la propria intelligenza; intelligenza che è di molti.
Notava Brecht – in chiave marxista, applicandola allo
“straniamento” teatrale [cfr. Scritti
teatrali] – che per
essere in “molti”, anche nella realtà della lotta sociale,
occorre concepire un paio di cose. Ognuno per non rimanere
“all’oscuro circa la natura della società umana” e trovarsi
così “di fronte alla possibilità di una totale distruzione del
pianeta”, deve preliminarmente
cercare per se stesso
un “effetto di straniamento” che “lascia riconoscere l’oggetto,
ma al tempo stesso lo fa apparire estraneo”: se “ci si mette dal
punto di vista della palla, è evidente che le leggi del moto
diventano inconcepibili”. Ma poi – ed è molto più difficile da
capire – per arrivare a essere in molti, una massa
quale è richiesta da una società in “comune”, comunista,
bisogna concepire che “la
più piccola unità sociale non è l’uomo, ma due uomini”.
Questo perché “nella vita ci costruiamo a vicenda” e solo in
codesto modo al minimo in due può intervenire la discussione, la
dialettica, la contraddizione.
E
se pure oggi si è in una bruttissima situazione, i “tempi bui”
degli anni 1930 sono stati sicuramente per questo verso sociale e
politico (forse non economico in senso stretto se pensiamo al 1871)
peggiori degli attuali, ciò che dilegua è la conoscenza dettagliata
del funzionamento del rapporto di capitale, la coscienza
di classe: e sì
allora che di lavoro pratico da fare, a séguito di quello teorico
che come dice anche Lenin non può essere scisso da esso, ce n’è a
iosa, se si pensa al livello di abbandono del marxismo di lotta da
parte delle masse. Perché se è vero che la minima unità di cui
parlava Brecht non è un
individuo (come tale “indivisibile”) ma due
persone, per il comunismo ne occorrono molte di più di due, servono
le masse coscienti e il lavoro da fare è massacrante, senza inoltre
poterne vedere presto i risultati. Paul Klee concludeva una sua
poesia del 1928 (ossia l’anno prima della crisi del 1929!)
sull’arte moderna “ci manca ancora la forza fondamentale: le
masse non sono con noi. Ma noi cerchiamo le masse. Le mie parole non
si rivolgono a ciascuno in isolamento, ma si integrano e mettono a
fuoco le impressioni. Di più non possiamo fare”. Dunque tutto ciò
implica l’intelligenza degli eventi sociali, che in quanto tale è
a priori
indipendente dall’istruzione; tuttavia chi ha avuto la fortuna di
riceverla, sa che ogni tipo di acculturazione aiuta: Marx sosteneva
che chi ha quella fortuna ha il dovere
di “lavorare per il mondo!”. Nella misura in cui la specie umana
tende a sviluppare anche la ricchezza spirituale, la bellezza
costruita con cultura, scienza e arte, è qui che entra la lotta
per il comunismo e la
sua superiore “felicità”, ed è qui che c’entra comunque –
rispetto a una generica popolazione, non a un popolo
che a differenza da quella ha una struttura sociale e una storia ben
definita, la quale ha invece perduto o non ha mai avuto una coscienza
– al “gregge senza idee”, come chiamava Marx le masse prive di
coscienza, i “turisti della vita” si potrebbe dire per estensione
con le parole di cui sopra. Perciò anche se il comunismo
reale pratico –
quello che consiste intanto in ciò che, scrissero Engels e Marx
nell’Ideologia
tedesca (1845), è “il
movimento reale che abolisce lo stato di cose presente” – non
riuscissimo a raggiungerlo o a vederlo, è quella coscienza
di classe accompagnata a quella della comunità e della società che
ci eleva su tutti. Qualche comunista serio e conoscitore dell’analisi
marxiana è così convinto della giustezza di questa indicazione
capace di procurare una ricompensa immediata che può limitarsi a una
sua enunciazione apodittica.
Tutto
ciò non vuol dire affatto, pertanto, che la felicità
in senso totale,
e non circoscritta solo a eventi gioiosi e spensierati, possa essere
data da comportamenti insani come quelli di una beata demenza da
“lupetto-dei-boy-scout” o da chierichetto bischero, di un’utile
idiozia del tipo dei “fratelli ignorantelli”, di un continuo
atteggiamento ridanciano anche per assentire a comando di fronte a
barzellette da deficiente, fino a definire “felice” [ogni
riferimento alla cosiddetta decrescita-felice di Pallante\Latouche
non
è puramente casuale] un inviluppo che fa decrescere la produzione di
valori d’uso. A costoro non interessa affatto che ciò sia fatto
dall’imperialismo del capitale ai danni di tutta la società
mondiale di esclusi, emarginati, poveri, affamati e assetati ma a
privilegiato vantaggio di coloro che si possono permettere simile
lusso, i super ricchi, e dei loro squallidi lacchè della classe
media, professionisti della disinformazione (economisti, sociologi,
filosofi, storici e via surrettiziamente politicando). Quegli
“economisti” – sensa aggiungervi, secondo Marx, qualsivoglia
aggettivazione, da “borghesi”, dominanti, “illuminati”,
mainstream,
“progressisti-conservatóri” e via fingendo invece di essere ciò
che non sono – e i sicofanti vari del potere politico, oggi
dominante, indubitabilmente borghese, non criticano mai i rapporti di
proprietà esistenti. Anche se costoro si atteggiano a
critici-critici, magari nelle segrete del Vaticano o nelle sale
nascoste delle istituzioni finanziarie, più o meno occulte, non
vogliono capovolgere quei rapporti
di proprietà, non
vogliono che si instauri un modo di produzione progressivo,
successivo a quello capitalistico, sotto il controllo diretto dei
produttori che lavorano – controllo da conquistare e costruire pian
piano con lunghe lotte. Per tutti quegli individui di ogni genere e
sesso, razza e colore, religione e tradizione, ma in ogni caso
asserviti al potere – economisti, politici, sociologi, preti,
filosofi e chi abbia più retorica la metta pure – l’imperialismo
del capitale mondiale va benissimo così, come sistema, solo che,
semmai lo si voglia “migliorare”, basterebbero qua e là
aggiustamenti dove ci fosse qualche ingiustizia [ci “fosse”??
come se l’ingiustizia fosse un’eccezione, sanabile entro di
esso, e non la regola del sistema!].
La
ragione
propria della specie umana, evoluta per allargarsi in quella seconda
natura attraverso un
divenire dialettico, è però calpestata. Ma vedere la ricchezza
del passato
implicherebbe perciò un’incessante ricerca per integrarla nelle
scoperte della novità
del presente. La prima
è però conservata
realmente, non nostalgicamente nella memoria smarrita, solo se la
seconda venga continuamente elevata,
in una sorta di aufhebung
hegeliano di quelle fasi temporalmente distinte ma contigue. E questa
è l’unica maniera dialettica per risolvere la contraddizione
reale onde evitare la
distruzione “luddista” delle innovazioni via via scoperte. Invece
la dissipazione, anche se inconsapevole per inerzia, rabbassa in
maniera appiattita e unilaterale la finzione storica attraverso il
rifugiarsi nell’illusione di ritrovare solo il mito del “buon
selvaggio” qual era,
così come pensavano gli illuministi di fine 1700 (per i limiti
storici di allora), e con quel mito anche le connesse antiche
“tradizioni”.
Codesto
svuotamento della realtà contraddittoria è un risultato
indesiderabile del cattivo “senso comune” – il quale, non
potendo mai attingere al “buon senso”, come vuole Hegel, per
definizione è cattivo
– cosicché possa limitarsi ad affermare che il “denaro non fa la
felicità”. Ma ciò è un’ovvia banalità e détta così è solo
volgare moralismo religioso: i filo\teosofi dicono “essere e non
avere”. Invece, vedendone l’unità contraddittoria e negandone la
negazione è giusto ritenere che, in un mondo dominato dal denaro e
dallo scambio su di esso basato – quindi anche molto precedente al
sistema mercantile e a maggior ragione alla trasformazione
del denaro in capitale
che è merce nella sua forma più compiuta – il possesso del denaro
è essenziale per
avere lo stretto necessario alla sopravvivenza. Completando l’unità
mancante nell’ovvietà moraleggiante del detto popolare – “a
contrario” come in
una variazione musicale – senza
denaro sotto il
dominio di una classe proprietaria non
si può vivere, si è
schiavi, servi, poveri, emarginati, proletari o pure integrati nelle
spire del sistema “democratico”.
Ecco:
la presunta democrazia,
la quale non può concepirsi come “democrazia all’ateniese” –
che è un ossimoro, prima sociale che linguistico – rappresentando
questa il dominio di
classe in forma
elitaria, ristrettissima e violenta, rispetto alla massa di tutta la
popolazione reale (il dèmos):
perciò la loro democrazia è falsa, ma i moderni ne usano l’esempio
con ipocrisia voluta, mentendo
[per inciso: in un italiano che è deficitario poiché costoro lo
attenuano e smussano da tutti i lati, essi aggiungono
pleonasticamente un “mente sapendo di mentire”: mentre mentire,
come vuole la lingua italiana corretta, ma anch’essa dimenticata,
già implica il “dire consapevolmente il falso”]. Per questo si
può se mai affermare “inconsapevolmente” il falso, solo
se si è all’oscuro
della verità, cosa che nel passato più o meno remoto è avvenuto,
per ignoranza o superstizione, ma con l’avanzare delle conoscenze
codesta ingenuità è sempre rimasta indietro (dalle tradizioni
misteriche alle religioni tutte – “le religioni tengono conto del
fatto che credere vuol dire non sapere niente” [Karl Kraus]).
Di
fronte allo smascheramento degli imbrogli, cui alcuni ancora però
“credono” come dogmi, quali la resurrezione e ascensione di
Cristo quasi ignorata dagli evangelisti, la verginità della madonna
“riscoperta” dopo cinque secoli, e la sua ascensione dichiarata
dogma nientemeno che nel 1950 da Pio xii,
come pure la favola del flogisto annullato dalla chimica o il
geocentrismo cancellato da Copernico e Galileo, sulla cui teoria la
chiesa ha però “mentito” ancora per secoli). Dunque chi mente
è pienamente consapevole
di ciò dice, senza ipocrite attenuanti: si pensi al papa moderno o a
un qualunque potente, re o presidente della repubblica o del
consiglio, non come barzellettiere ma in quanto gestore di appalti e
di grane con la magistratura e se abbia senso che si possa ritenere
che costoro siano all’“insaputa” di tutto quanto oggi avviene,
o se sui rapporti tra mafia e stato si tratti soltanto di
dimenticanze e fraintendimenti o di diffusione tendenziosa di falsi,
e non invece di consapevoli menzogne.
Pertanto
anche straparlare di “democrazia diretta” è un non
senso. Una simile
situazione si può presentare soltanto in aree limitate e ristrette
capaci di sostenere tutta
la popolazione residente, stanziale o di passaggio. Solo allora
nessun umano potrebbe essere escluso, se non per delibera collettiva
o arbitrariamente con la violenza, dalle decisioni che la comunità
prendesse. Con la crescita media della popolazione (cosa che avviene
con lo sviluppo), sempre in minor numero sono le aree – tribali e
tanto meno statuali – che possono fruire di un tale privilegio
decisionale, seppure vincolato da regole tradizionali, esoteriche o
pure magiche, affidate alla saggezza dei “vecchi”, sciamani o
santoni, senza che in esse si presentino problemi di sovrapopolazione
[l’eccedenza di sovrapopolazione
relativa alla capacità
di sostentamento autosufficiente dell’area naturale occupata è
peraltro un’invenzione
del capitale, nei
termini della sua dominanza storica]. Sì che ormai nel mondo intero
si possono contare sulla punta delle dita comunità, soprattutto
nomadi di gruppo, in simili condizioni.
Per
queste ragioni tutte le forme di cosiddetta “democrazia diretta”
sono pure chiacchiere, parole al vento; basti pensare a qualsiasi pur
piccolissimo comune di una nazione moderna e alle inevitabili sue
relazioni sociali e monetarie per toccarlo con mano. Ma al di là di
ciò l’enorme dimensione dell’“universo mondo”, con i 7
miliardi e passa di persone che presto diventeranno 10 e oltre,
mostra come nelle grandi aggregazioni sociali – anche laddove
alcuni hanno provato a cianciare di democrazia diretta in nome di un
“comunismo” soltanto immaginato, in paesi grandissimi come l’ex
Urss o la Cina popolare che fu – l’unica esperienza che ha avuto
senso tentare non è stata quella diretta ma quella della “democrazia
rappresentativa”: certo, per una effettiva rappresentatività
occorrono complicatissime e, alla prova dei fatti, inefficaci regole
di controllo elettorale e post elettorale; sicché si è giunti al
punto in cui la borghesia si è malamente appropriata del sistema
elettivo come mero meccanismo
e lo ha assunto, in
varie forme, più o meno camuffate e truffaldine, a proprio dogma
istituzionale.
Senonché,
ciononostante, tutti gli imbonitori della fatta di cui sopra
vorrebbero “migliorare-il-mondo” seguitando però
a sostenere che il modo
sociale esistente non
va cambiato ma soltanto “migliorato”. Engels [cfr. Antidühring,
sez.iii,
§.4], era il 1878, dileggiava così quei signori “progressisti
positivisti” dell’epoca, scrivendo che per costoro “il modo di
produzione
capitalistico va bene e può continuare a esistere, mentre il modo di
distribuzione
capitalistico è del
maligno e deve sparire”. La “socialità” anche di quei moderni
ciarlatani “non è altro che l'attuazione di questo principio nella
fantasia” giacché non hanno “quasi assolutamente niente da
eccepire contro il modo di produzione, come tale, della società
capitalistica”, vogliono “conservare la vecchia divisione del
lavoro in tutti i rapporti essenziali”. Perciò non hanno “da
dire una sola parola anche riguardo alla produzione in seno alla sua
comunità economica”.
Gli
incantatori recenti,
da piazzisti e delatori quali sono, hanno perciò rigiocato in varia
maniera con lo stesso mazzo di carte truccate trovato sul tavolo del
potere: con “modelli” matematici pseudolineari – come ha fatto
il Mit con i Limiti
dello sviluppo,
attraverso Donella e Dennis Meadows basandosi sulla simulazione al
computer, dietro commissione del cosiddetto Club di Roma nel 1972,
sotto la guida di Aurelio Peccei e altri, sbagliando grossolanamente
i tempi delle
previsioni, che per
altri versi potevano pur essere in parte giuste, ma errate proprio
perché erano del tutto mancanti di concetto e analisi dello sviluppo
storico sociale, delle
sue contraddizioni e delle sua cause – dove pertanto la matematica
è ridondante e pertanto inutile, e dannosa. O pure si è proseguito
con appelli moralistici e fideistici di tipo religioso, dal
cristianesimo cattolico con il papa di Roma del
“crescete-e-moltiplicatevi” al monetizzato protestantesimo
anglosassone e americano, metodista o mormone o altro, fino al
“martirio” islamico e agli affari giudaici.
Non
per nulla il genio di Einstein,
nel 1954 poco tempo prima di morire, fu costretto a ripetere non solo
che “la parola Dio per me non è più di un’espressione e un
prodotto della debolezza umana” ma altresì che “la Bibbia è una
collezione di onorevoli ma primitive leggende per lo più infantili.
Nessuna interpretazione, di nessun genere, può cambiare questo per
me”: frasi per noi ovvie scritte in una lettera, che tuttavia il
“mercato” capitalistico oggi “valuta” a partire dai tre
milioni di dollari! Tutte forme di credenze, codeste, alla base di
religioni che sono; a parole soprattutto, monoteistiche; ma non è
mai stato solo così, se si pensa alle immagini mondane di baruffe e
liti familiari o di potere, tribale e via via statale e politico,
trasferite dagli uomini nell’empireo celeste, quale che esso sia,
dall’antichità olimpica greca e da quella gretta romana fino a
oggi per “guadagnarsi” la promessa
(da chi?) salvazione
eterna: dio-è-con-noi
(con chi?), gott-mit-uns, god-save-the-king [ovvero queen, country,
ecc.], allah-akhbar e così via per esaltare i gonzi creduloni. O
pure ancora con sistemi economici falsi e raffinati, ma incoerenti
giacché è impossibile realizzarli se
non abbattendo la
proprietà privata
esistente.
La
storia ultradecennale che si diceva all’inizio ha però avuto una
doppia accelerazione: dal lato oggettivo perché la situazione
planetaria è peggiorata moltissimo nella portabilità
del rapporto tra dissipazione della natura e tracimazione della
sovrapopolazione, il rammentato marxiano “ricambio organico con la
natura” [si ricordi quanto detto, cioè che addirittura da un
secolo fa l’inquinamento, i cambiamenti climatici, ecc. si
sono moltiplicati in una maniera tale da non riuscire a commisurarli
più, così come pure la popolazione]; dal lato soggettivo per
l’interpretazione “catastrofista” che, leggendo unilateralmente
la probabile catastrofe,
è stata data come sola accezione possibile. I due lati sono
ovviamente connessi ed entrambi in un certo senso “veri”, ma
nella loro unilateralità e atemporalità seminano solo sconcerto e
disinformazione.
La
questione ha però un’origine precisa, relativa a una domanda a suo
tempo posta diffusamente e che ancora oggi trova risposte inadeguate:
ci si è domandati se la quantità della ricchezza (valori d’uso)
oggi esistente al mondo sia o no sufficiente per sostenere il
socialismo (e neppure si può pensare al “comunismo”.
figuriamoci!) per tutti i miliardi di viventi (ancora in crescita
numerica), o se potesse bastare la “riconversione” alla
produzione cosiddetta “civile” delle attività connesse al
“complesso industriale militare”, ecc. Ma occorrerebbero decine
di anni anche per un’altrettanto profonda “riconversione” dello
stile di vita della
popolazione più o
meno benestante, fino alla piccola borghesia e ai dirigenti dei paesi
imperialisti. Secondo calcoli di fisica, puramente esemplificativi
nel loro quantitativismo, non sospettabili di valutazioni avverse,
per portare tutti i
viventi ai livelli di
Usa e Ue occorrerebbe moltiplicare per 80 volte il prodotto mondiale;
e se si tiene presente anche che 2 miliardi di persone “sopravvivono”
con poco più di 1 dollaro al giorno, ossia quanto detengono le prime
cinquecento famiglie al mondo, l’espropriazione di queste ultime
porterebbe tutto il pianeta a disporre di poco più di 2 dollari al
giorno ... ma per un solo anno!
Detto
questo occorre considerare un altro paio di cose:
a.
le proteine così reperibili per tutti, niente affatto inutili e
superflue, sarebbero comunque ben poca cosa (il marxismo ammonisce
che con un solo uovo sodo per 10 persone non si “fa” il
comunismo!) e certo non si potrebbe neppure assolutamente pensare,
riflettere, “far filosofia a stomaco vuoto”, ecc. [e per colmo si
pensi che tra le calorie necessarie le statistiche internazionali
includono anche quelle apportate del consumo di alcoolici! con grande
sollazzo di slavi o alcolizzati anglosassoni per la loro sazietà!];
b.
a parte i paradossi statistici, si sa che i valori
d’uso esistenti
risiedono inevitabilmente nelle merci,
prodotte attraverso il più mostruoso sfruttamento perpetrato con
l’organizzazione del lavoro data dal modo di produzione
capitalistico; dunque se pure nel presunto “socialismo” si
volessero rispettare di più i lavoratori, la già misera ricchezza
attuale complessivamente disponibile si dimezzerebbe.
In
questo contesto si innestata la “follia” latouchiana della
cosiddetta “decrescita”
– da alcuni anche ritenuta “felice” – scritta e propalata da
luoghi ameni, riservati alla media borghesia intellettuale. E non
invece ai 7, prossimi 10, miliardi di umani, a un miliardo dei quali
già adesso
manca l’acqua potabile, e sono molti soprattutto bambini che
soffrono la fame fino a morirne: si è detto prima che la
“riconversione” dello stile di vita di tali persone è lunga e
finanche impossibile, al contrario di quanto ipotizzano Latouche e i
suoi adepti e diversi altri teorici tipo Rifkin fautori della
cosiddetta “produzione sostenibile”.
Tutto
quello che potrebbe a
mala pena bastare sarebbe – forse
– a mala pena sufficiente per una mera
sopravvivenza biologica,
alla quale però praticamente tutti dovrebbero adeguarsi per evitare
un’estinzione di massa sul pianeta: ma il tempo che passa è più
rapido a far collassare il pianeta che seguire i “folli” convinti
di poter cambiare modo
di vita. Appunto, Marx
avendo in mente l’esigenza di un equilibrio armonico con la natura,
lo definiva sinonimo di modo
di produzione.
Senonché a tutti-quanti-quei-signori obbedienti ai padroni non
sfiora affatto la testa, neppure le orecchie (sarebbe troppo pensare
a un ... cervello), che è pregiudiziale rovesciare il modo
di produzione
dominante, che è quello capitalistico.
E si torna a quanto già detto e ripetuto fin dall’inizio.
Praticamente tutte le posizioni impropriamente dette “ambientaliste”
o “ecologiste” – che non considerano neppure
il lato preliminarmente
materiale del
“ricambio organico
con la natura” –
non mettono mai seriamente in discussione il predominio del modo
capitalistico di produzione;
tutt’al più costoro auspicano un-mondo-migliore-e-più-giusto che
però non osi aggredire gli attuali rapporti
di proprietà privata
(che sono espropriazione delle masse): tutto dovrebbe essere svolto
entro il capitalismo
stesso. quello presunto “buono” di contro a quello detto cattivo,
accedendo a valutazioni moralistiche che sono fuori luogo.
In
effetti le cose non vanno affatto bene se si considera, a es., il
fabbisogno mondiale di alimenti (da non ridurre solo a calorie),
acqua inclusa, non soltanto di quella potabile (e il cambiamento
climatico peggiorerà le cose), o che la siccità desertifica i
terreni e che l’acqua non nasce come valore ma è un valore d’uso
non “trasportabile” (inutile predicarne il risparmio, a es. in
Italia, quando si muore di sete nell’Africa subsahariana), o che
c’è crisi di energia (che però sarebbe trasferibile e anche
razionalizzabile e il cui consumo complessivamente riducibile: ma è
l’enorme potere delle imprese transnazionali che specula indiscusso
su quella crisi), o che grandissima parte della popolazione mondiale
non ha i cosiddetti “farmaci essenziali”, e manca di scuole di
ogni tipo, ecc. Insomma, anche se tutte le classi popolari che già
ora stanno regredendo a livelli di vita ancestrali, ciò non basta
ancora; ma la classe dominante sarebbe forse in grado di tornare
nelle caverne? Cionondimeno pure se pane e acqua sporca potessero ...
“soddisfare” la massa della popolazione mondiale, prescindendo
dal necessario rovesciamento del modo di produzione – che in quanto
tale comporta anche quello dei suoi rapporti
sociali, per la
portata del pianeta
e per le forme della
proprietà – il
problema, dunque, non è meramente materiale o tecnologico, ma
concettualmente storico
ed essenzialmente sociale.
Né
il comunismo, ma neppure il socialismo, sono puri processi
quantitativi, i quali costituiscono bensì elementi oggettivi per le
condizioni materiali
indispensabili
(basterebbe, a eliminare questa illusione, la storiella dell’“uovo
sodo” per dieci persone): detto in termini marxiani occorre un
adeguato sviluppo materiale delle “forze
produttive” del
lavoro sociale. Ma ciò esige un’enorme richiesta di formazione e
costruzione della coscienza
– o meglio della coscienza
di classe; senonché,
c’è pure qualche pseudo “comunista” che si esalta ritenendo
possibile tale scelta sacrificale, non per se stesso il che è
lecito, bensì per le grandi masse! ...
ma la felicità è un’altra cosa.
Di fatto oggi si è al punto che, col prevalere della cattivissima
(dis)informazione ideologica ammannita da stampa e televisione,
sarebbe lecito pensare di stare addirittura in una fase di pericolosa
discesa, soprattutto tra i giovani, tranne rarissime eccezioni,
deprivati anche di qualsiasi memoria storica.
Ecco,
allora, che pur se per
assurdo la mera
quantità della ricchezza mondiale fosse sufficiente (ma si sa che
ciò non è nemmeno pensabile), essa imporrebbe una più che
improbabile presa di coscienza di massa per una “riconversione”
forzata al cambiamento del modo
di vita per milioni di
persone dei paesi imperialistici. Un tale rivolgimento necessiterebbe
di decenni, di rivoluzioni o di guerre e catastrofi. Chi, anche tra
il popolo, tra i lavoratori, nelle città cosiddette “occidentali”,
rinuncerebbe agli usi acquisiti sotto la spinta di un consumismo che
non si possa neppure più sostenere, indebitandosi pur di andare
avanti (mutui-casa, carte di credito, cambiali, protesti, ecc.)? Ma è
necessario anche ritornare sulla considerazione di come
sia prodotta la ricchezza oggi nell’attuale quantità; non si
tratta di fare del “catastrofismo”, che come detto molti invece
agitano, ma solo di capire la tragica tendenza catastrofica, questa
sì, dei limiti della realtà attuale e della “lunga e tormentosa”
– diceva Marx – strada che il comunismo deve ancora percorrere,
attraversando periodi bui di retrocessione drammatica.
Se
però si tiene conto dello sfruttamento, degli orari,
dell’emarginazione, della precarietà e del massacro cui sono
sottoposti i lavoratori (dai bambini indonesiani, agli operai cinesi
e pure all’ordinaria
follia del sistema di
lavoro salariato con i tanti morti sul lavoro, ogni giorno in Italia
e nel mondo), quella ricchezza è pagata con tanto sangue e fatica è
da considerare
comparativamente a una
pur lontana possibilità per il comunismo! Allora, se le masse
volessero lavorare in condizioni degne del nome
di comunismo, quella
quantità di ricchezza, già largamente insufficiente per la
popolazione mondiale attuale, risulterebbe necessariamente più che
dimezzata (lavorando di meno e più
lentamente, e non come
pretenderebbe Carlin Petrini per tutti in questo
mondo), con la vera felicità,
che appunto è collettiva, comune, contraddittoria:
ma è ... un’altra cosa!
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